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mercoledì 24 febbraio 2016

III Domenica di Quaresima


 

Dal libro dell’Èsodo (Es 3,1-8.13-15)

In quei giorni, mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio. Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele». Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io Sono mi ha mandato a voi”». Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 10,1-6.10-12)

Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto. Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono. Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 13,1-9)

In quel tempo si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».

 

Il vangelo che la Chiesa ci propone per questa III domenica di Quaresima è una parabola tratta dal vangelo di Luca. È la prima parabola che la liturgia domenicale ci fa incontrare in questo anno liturgico.

Ad una prima lettura nascono alcune domande:

I-  Perché il vignaiolo non gli ha zappato intorno e non gli ha messo il concime prima? Cioè perché non ha fatto subito, alle prime avvisaglie di infecondità, ciò che poteva aiutare il fico a dare frutti?

II-    Dov’è che abbiamo già sentito parlare di alberi che non danno frutto e di come ci si comporta in questi casi?

Riguardo alla prima questione non dobbiamo stupirci troppo. Le parabole sono storie inventate, che vogliono condurci verso un momento di svolta. E per costruire letterariamente questo percorso sono necessari degli escamotage: il fatto che da 3 anni il fico sia sterile serve al narratore per sottolineare quanto fosse sensata la richiesta di tagliarlo.

È proprio questa costruzione narrativa infatti che ci conduce al vertice della parabola, che consiste nel fatto che – contro ogni buon senso o senso comune – il fico alla fine non venga tagliato.

La seconda questione è invece più interessante, perché se andiamo a rileggerci Lc 3,9, troviamo quanto diceva Giovanni Battista durante la sua predicazione nel deserto: «Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco».

Fatte queste considerazioni preliminari dobbiamo stare attenti ancora ad un aspetto. Con troppa facilità infatti noi quando leggiamo le parabole, usciamo dal racconto e identifichiamo i personaggi della storia con persone reali. Istintivamente in questo caso ci verrebbe da dire che Dio è il padrone dell’albero e Gesù il vignaiolo.

In realtà io non credo che questa identificazione sia legittima. Piuttosto mi pare sensato identificare il proprietario con la logica umana (ben esemplificata da Giovanni Battista) e il vignaiolo con il volto di Dio che Gesù vuole far conoscere.

 

Fatte tutte queste premesse, e provando a ripercorrere il testo, possiamo chiederci cosa esso ci dice:

 

 
DI DIO
 
DELLA STORIA
 
Non è cieco sulla sterilità della storia
 
lascialo ancora quest’anno
 
È sterile
Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò
 
 
La sua logica è che ciò che è sterile ha bisogno di cure
 
finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime
 
La sua logica è che ciò che è sterile vada tagliato
Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque
 
Ciò che è sterile può tornare a dare frutto
Vedremo se porterà frutti per l’avvenire
 
Ciò che è sterile va tagliato perché non solo non dà frutto, ma sfrutta / rende inutilizzabile altro
Perché deve sfruttare il terreno?
 

 

Lo sguardo che Gesù ha sulla storia, dunque lo sguardo che Egli ci dice che Dio ha sulla storia, non coincide con quello di Giovanni Battista.

Dio non sta con la scure alla radice degli alberi, pronto a tagliare chi non porta frutto, quasi con una foga vendicativa e un compiacimento, tipico di chi pensa di liberare il mondo dal male estirpando i malvagi o i non particolarmente fervorosi per la causa…

Il volto vero di Dio, secondo Gesù, è un altro: è un volto che guarda alla storia diversamente, con un’incrollabile fiducia, che se amati, curati, aiutati, tutti possono dare frutto.

In questo percorso che la quaresima ci sta facendo fare della riscoperta del volto di Dio, credo che questo testo, forse meno noto di altri, sia un passo importante, anche perché si tratta di una narrazione semplice, lineare, chiara.

A partire da essa potremmo tornare a chiederci, nella nostra situazione o nelle tante altre situazioni umane che ci troviamo ad incontrare, qual è lo sguardo che Dio pone su di esse… e provare ad essere figli di un Dio che ha questo volto e non quello scuro di chi ha in mano la scure…

martedì 16 febbraio 2016

II Domenica di Quaresima


Dal libro della Genesi (Gn 15,5-12.17-18)
In quei giorni, Dio condusse fuori Abram e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle»; e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia. E gli disse: «Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra». Rispose: «Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?». Gli disse: «Prendimi una giovenca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre anni, una tortora e un colombo». Andò a prendere tutti questi animali, li divise in due e collocò ogni metà di fronte all’altra; non divise però gli uccelli. Gli uccelli rapaci calarono su quei cadaveri, ma Abram li scacciò. Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono. Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi. In quel giorno il Signore concluse quest’alleanza con Abram: «Alla tua discendenza io dò questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate».
 
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi (Fil 3,17-4,1)
Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi. Perché molti – ve l’ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto – si comportano da nemici della croce di Cristo. La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra. La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose. Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi!
 
Dal vangelo secondo Luca (Lc 9,28-36)
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli non sapeva quello che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!». Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.
 
In questa Seconda Domenica di Quaresima, la Chiesa – come di consueto – ci invita a riflettere sul brano della Trasfigurazione.
È un evento della vita di Gesù particolarmente ostico per noi lettori, o almeno per me. È difficile, dietro al linguaggio degli evangelisti, ricomprendere cosa sia accaduto e quale sia il senso di questa esperienza che Gesù, per primo, e poi i suoi tre discepoli, vivono.
Anche perché le espressioni “il suo volto cambiò d’aspetto”, “la sua veste divenne candida e sfolgorante” possono essere interpretate sia con un senso letterale, sia con un senso figurato.
Nel primo caso la nostra mente si immagina uno (spaventevole) cambiamento dei tratti del volto di Gesù (spaventevole, non perché assuma tratti mostruosi, ma perché il solo fatto di assistere alla modificazione dei connotati del volto è un po’ spaventoso); nel secondo, ci vengono forse più in mente alcune esperienze che anche noi abbiamo fatto di incontrare persone raggianti, per qualsiasi motivo. Davvero, anche in questo caso si potrebbe dire “il suo volto cambiò d’aspetto”.
Io credo che il rischio di interpretare la trasfigurazione nel primo senso (quasi catalogandola insieme all’immaginario di tutti quei cartoni animati o film in cui ci sono questi effetti speciali di trasformazione dei volti) sia forte e apportatore di molti fraintendimenti: ci viene infatti un misto di reazioni disgustate, timorose, sarcastiche.
Lo stesso si può dire dell’incontro con Mosè ed Elia: come va interpretato quell’“apparsi nella gloria”?
Come sempre il problema è il background culturale a cui il linguaggio e le immagini attingono. Bisognerebbe chiedersi se coloro che hanno scritto hanno i nostri medesimi riferimenti, per esempio quando parlano di “gloria”.
Quello che voglio suggerire è che un’interpretazione troppo legata alla lettera, alla plasticità della scena descritta, rischia di farci perdere il senso di questo evento.
L’arte, da questo punto di vista, non ci ha aiutato nel corso dei secoli, sottolineando eccessivamente la extra-ordinarietà dell’episodio.
Forse dovremmo riuscire a non fermarci alla coreografia scenica, per andare al messaggio della rappresentazione che gli evangelisti tratteggiano.

martedì 9 febbraio 2016

I Domenica di Quaresima: Le tentazioni secondo Luca


Dal libro del Deuteronòmio (Dt 26,4-10)
Mosè parlò al popolo e disse: «Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio, e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore, tuo Dio: “Mio padre era un Aramèo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi. Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele. Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato”. Le deporrai davanti al Signore, tuo Dio, e ti prostrerai davanti al Signore, tuo Dio».
 
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 10,8-13)
Fratelli, che cosa dice [Mosè]? «Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore», cioè la parola della fede che noi predichiamo. Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza. Dice infatti la Scrittura: «Chiunque crede in lui non sarà deluso». Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato».
 
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 4,1-13)
In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”». Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la dò a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”». Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”; e anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”». Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.
 
In questa Prima Domenica di Quaresima, la Chiesa ci propone il brano delle tentazioni secondo l’evangelista Luca.
È un testo con cui abbiamo già avuto a che fare molte volte e sul quale già è stato detto molto. Quest’anno vorrei concentrarmi su uno dei tanti punti di vista da cui questo testo può essere guardato, ed in particolare provare a guardare alle tentazioni di Gesù come al messia che avrebbe potuto essere e che, invece, ha scelto di non essere.
Dietro a questo approccio restano sullo sfondo due questioni fondamentali per tutto il Vangelo: chi è Dio e che dio ha deciso di non essere; che uomo decido io di essere e dunque che tipo di uomo decido di non essere.
Ma torniamo al testo.
La prima tentazione secondo Luca è «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane».
Gesù cioè avrebbe potuto essere il messia che fa le magie, quello che affronta e risolve i problemi della vita (la fame è quello primario per ciascun uomo) attraverso prodigi.
Come ha ben messo in luce Dostoevskij nel Grande inquisitore (capitolo insuperabile de I fratelli Karamazov), in questo modo, Gesù avrebbe incontrato un grande – forse un indiscusso – consenso.
Eppure… avrebbe rinunciato a instaurare con l’uomo una relazione libera. L’uomo l’avrebbe sì seguito, gli avrebbe dato ascolto, avrebbe fatto tutto quello che Egli voleva. Ma non per amore, bensì per il pane, per vedere soddisfatti i propri bisogni.
E Gesù ha deciso di non essere questo tipo di messia.
Dovremmo farci interpellare molto da questa sua scelta: troppo spesso noi abbiamo instaurato e continuiamo a instaurare con lui una relazione che ha queste caratteristiche: gli chiediamo di intervenire nella storia per risolverci i problemi (dai più sciocchi “Fammi andar bene l’interrogazione” ai più seri “Fammi guarire dal tumore”) e siamo disposti a fare di tutto in cambio dei suoi prodigi (quanti voti, quante preghiere, quante rinunce…). Ma, ponendoci in questo atteggiamento, ci stiamo rivolgendo alla persona sbagliata: Gesù ha deciso di non essere questo tipo di messia. Il Dio che ci ha fatto conoscere non è un dio così e non vuole uomini così.
La seconda tentazione, secondo l’evangelista Luca, suona in questi termini: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la dò a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo».
Gesù cioè avrebbe potuto essere il messia che domina, con potere e gloria, il mondo, rinunciando ad essere figlio del Padre e adoratore del divisore (diavolo vuol proprio dire “colui che divide”). In gioco non ci sono le accuse medievali di adorazione del demonio; qui il diavolo è una figura letteraria che serve per esplicitare le tentazioni e che non a caso Luca chiama “diavolo” (divisore) e a cui non a caso fa dire «se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo»: infatti ciò che “sarà suo” è il potere e la gloria, cioè ciò che di più divisorio esiste al mondo, come mirabilmente ha colto anche De Andrè: «Non ci sono poteri buoni». Il potere infatti divide sempre il mondo tra chi non ce l’ha e chi ce l’ha. Non può esserci il “potere di tutti”, altrimenti non è più potere.
Gesù ha perciò rifiutato di essere il potente che decide per gli altri, che fa andare bene le cose con l’imposizione, l’autorità, con la sua scelta. Fosse pur stata una scelta buona, una decisione giusta, il solo fatto che venisse imposta la rendeva coercitiva. Ma come dirà altrove, Egli non voleva servi, ma amici e gli amici si conquistano nella storia delle libertà, non con la forza.
Anche questa tentazione dovrebbe interpellare da vicino la nostra relazione con Lui: quante volte ci siamo riempiti la bocca di “fare la sua volontà”, interpretando la parola “volontà” assimilandola a quella di un imperscrutabile sovrano, che non comprendiamo, ma che sicuramente – se ci obbliga – ci obbliga per il nostro bene? Ci siamo costretti e abbiamo costretto altri dentro a dinamiche di potere, di coercizione, di soffocamento, di mortificazione, di sudditanza attribuendo questo atteggiamento alla volontà di Dio, mentre suo figlio, quel modo di essere “Signore” lo aveva rifiutato in nome di una relazione diversa con gli uomini.
La terza e ultima tentazione è infine: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”; e anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». È la più subdola e la più pericolosa: se la prima riguarda l’economia (il pane) e la seconda la politica (il potere), la terza riguarda la religione (il volto di Dio). La figura letteraria del diavolo si fa infatti più raffinata e cita per ben due volte la Scrittura (cita la Bibbia, non qualche giornaletto porno!); e la cita per dire una cosa verissima e bellissima del Dio che il popolo di Israele aveva conosciuto: Dio è un custode.
Come se il diavolo dicesse: “non vuoi essere il messia delle magie, che cerca il consenso dell’uomo intervenendo nella storia risolvendogli i problemi; non vuoi essere il messia potente, che governando la storia col suo dominio può farla andare per il verso giusto; vorrai almeno essere il figlio di un Dio che custodisce?”. Il gioco del diavolo è quello di andare ad attirare Gesù dentro al suo territorio, di dargli ragione, di parlargli di un volto di Dio consonante a quello che Lui ha in testa: un Dio che non cerca consenso con le magie, un Dio che non vuole dominare la storia con la coercizione, un Dio custodente. Ma ecco il colpo dello scorpione: se è un Dio che custodisce, perché non ti butti giù e lo dimostri a tutti e prima di tutto a te stesso (che Dio è davvero così)?
Ma Gesù non si butta (così come non scenderà dalla croce), non accetta cioè di essere quel messia che dimostra come è fatto Dio, che ne dà una prova. Perché la dimostrazione, la prova, così come il pane e il potere impediscono di intessere una relazione personale, da cuore a cuore, da storia a storia, da libertà a libertà.
Anche questa tentazione, anzi, forse soprattutto questa, dovrebbe farci riflettere sulla nostra relazione col Signore: quante volte riduciamo la sua personalità ad uno schemino in cui tutto torna, quante volte citiamo la Bibbia solo in funzione di questo schemino e quanto poco lo lasciamo essere ciò che ha deciso di essere.

martedì 2 febbraio 2016

V Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 6,1-2.3-8)

Nell’anno in cui morì il re Ozìa, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali. Proclamavano l’uno all’altro, dicendo: «Santo, santo, santo il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria». Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo. E dissi: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti». Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse: «Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato». Poi io udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?». E io risposi: «Eccomi, manda me!».

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 15,1-11)

Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano! A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. Dunque, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 5,1-11)

In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca. Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.

 

Continuiamo con la lettura del vangelo di Luca, l’evangelista di quest’anno.

Domenica la liturgia ci propone il brano di vangelo che narra l’incontro di Gesù con i suoi primi discepoli, in occasione di quella che diverrà nota come “la pesca miracolosa”.

Ciò che ha attirato la mia attenzione questa settimana sono alcune espressioni usate dai protagonisti in questa vicenda.

Innanzitutto la constatazione di Pietro, quando Gesù gli suggerisce di prendere il largo e gettare le reti: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla».

Quando Gesù si imbatte nelle persone, la sua proposta è sempre una proposta vitale, che suscita energie positive, che muove a rientusiasmarsi per l’esistenza: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca».

La risposta di Pietro, come credo potrebbero essere le nostre, rimanda invece ad una disillusione: tutta la notte (cioè tutta la vita) abbiamo faticato invano… Ci abbiamo provato davvero, e non per modo di dire, a vivere intensamente e con speranza la vita, ma il risultato è stato deludente… che fatica…

Pietro però aggiunge qualcosa: «ma sulla tua parola getterò le reti». Pietro cioè fa la scelta di ri-fidarsi della vita, nonostante la disillusione, la stanchezza, la mortificazione delle speranze… Torna a fidarsi della vita, che gli si presenta nelle vesti di Gesù, quel rabbi in cui ha intravisto qualcosa di promettente. Si fida della sua parola. E il risultato è sorprendente: un pieno di vitalità che contrasta fortemente con la desolazione precedente.

L’evangelista Luca pare suggerirci allora – attraverso questo episodio – cosa accade quando ci si imbatte in Gesù di Nazareth: ci raggiunge nelle nostre vite affaticate e deluse, ci fa una proposta che promette un’iniezione di vitalità e mantiene le sue promesse: «presero una quantità enorme di pesci».

Ma non si tratta di una magia estemporanea, un’euforia passeggera che a breve ci rigetterà nella mediocrità delle nostre sterili fatiche: è un’iniezione di vitalità che apre possibilità nuove, che abilita a fare passi inaspettati, ad instradarci in percorsi insospettati: «d’ora in poi sarai pescatore di uomini».

Chi si lascia fare da Gesù (cioè chi si fida della sua Parola) la puntura di vitalità che propone (l’iniezione del suo spirito nelle nostre vene) diventa capace di trasformarsi da pescatore di pesci a pescatore di uomini, cioè diventa uno che può tirar fuori dal mare (cioè dal male) gli altri uomini. La sua iniezione di vita diventa contagiosa.


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