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mercoledì 25 maggio 2016

Corpus Domini 2016


Dal libro della Genesi (Gn 14,18-20)

In quei giorni Melchisedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole: «Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra, e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici». Abram gli diede la decima di tutto.

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 11,23-26)

Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

 

Dal vangelo secondo Luca (Lc 9,11-17)

In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta». Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a compare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

 

Dopo Pentecoste è ricominciato il tempo ordinario. Nella liturgia domenicale però è ancora difficile accorgersene, perché settimana scorsa abbiamo celebrato la festa della Trinità e questa settimana siamo alle prese con il Corpus Domini. È come se il ritorno al tempo ordinario vero e proprio fosse introdotto da queste solennità che vogliono riportare al centro della riflessione dei cristiani i punti centrali della fede: il Dio trino ed unico, la persona di Gesù.

In entrambi i casi, e come sempre quando si ha a che fare con la rivelazione cristiana, in gioco c’è il volto di Dio: Chi è il Dio in cui crediamo?

Questa settimana, in particolare, l’accento è posto sul fatto che il Dio che Gesù ci ha mostrato è un Dio che si dà da mangiare.

Spesso agli dei e ai potenti, il popolo chiede il pane. Ma il rapporto che si crea in questo modo è problematico: il pane è dato in cambio di una sudditanza, come premio o come prezzo per l’obbedienza e la sottomissione.

Anche Gesù ha corso questo rischio: quando ha dato il pane, c’era chi voleva farlo re. È lì che ha capito che non poteva essere quella la via per condurre gli uomini al Padre. Sarebbe stato un rapporto inficiato in partenza. E i sinottici l’hanno ben chiarito raccontando l’episodio delle tentazioni nel deserto: Gesù viene tentato sul modo di essere Dio e una di queste tentazioni è quella di conquistare le folle col pane: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane» (Lc 4,3). Ma Gesù sapeva che così avrebbe conquistato solo servi, non amici. Gli rispose infatti: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo».

Non di solo pane… c’è dell’altro nella relazione che Gesù vuole proporre agli uomini.

Non solo soddisfazione di bisogni… ma sbilanciamento reciproco, fiducia, compromissione…

E come fare a dire tutto ciò? Come far capire agli uomini che Dio non è un erogatore di servizi, ma un interlocutore relazionale?

Riprendendo l’immagine del pane e trasformandola: il pane entra nella nostra pancia, viene assimilato e così ci nutre.

Dio vuole una relazione così con gli uomini, intima fino a quel livello: non è estrinseco rispetto a noi, lontano, chiuso nel suo cielo, ma è nelle nostre viscere. È nelle profondità del nostro io che interagisce con noi ed è da lì che ci dà energia e vita.

E così Gesù smise di dare il pane, per farsi pane.

Non ha più distribuito panini, ma ha identificato il suo corpo e il suo sangue col pane e col vino, perché ogni volta che ne avessimo mangiato nel suo nome, facessimo memoria della nostra relazione intima con Dio.

mercoledì 18 maggio 2016

Festa della Trinità


 

Dal libro dei Proverbi (Pr 8,22-31)

Così parla la Sapienza di Dio: «Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, quando ancora non aveva fatto la terra e i campi né le prime zolle del mondo. Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 5,1-5)

Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 16,12-15)

In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

 

La prossima domenica la Chiesa celebra la festa della Trinità.

Il termine non è biblico, ma entra nella dottrina della comunità credente nei primi secoli di vita cristiana, volendo indicare la realtà del Dio rivelato da Gesù: un unico Dio in tre persone.

La parola “trinità” suona sempre un po’ astratta, un po’ lontana dalla nostra sensibilità. Ha forse delle eco anche un po’ spaventose, come tutto ciò che ci rimanda a qualcosa di difficilmente comprensibile e misterioso.

Questo è forse dovuto all’uso che se ne è fatto, a come ci è stata presentata nei vari percorsi di formazione cristiana, quando si educava al rispetto con la paura e si sostituiva la conoscenza della narrazione evangelica con la memorizzazione dei dogmi o delle definizioni del catechismo.

In realtà, la Chiesa parla di “trinità” perché deve tener conto di un dato evangelico inequivocabile: Gesù ha parlato del Padre e dello Spirito santo. Ecco perché “trinità” e non semplice “monoteismo” in senso stretto.

mercoledì 11 maggio 2016

Pentecoste


Dagli Atti degli Apostoli (At 2,1-11)

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proséliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 8,8-17)

Fratelli, quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio. Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 14,15-16.23-26)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre. Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».

 

Domenica si celebra la festa di Pentecoste: si fa cioè memoria della discesa dello Spirito Santo.

Il rischio è di capire poco… Di pensare che – come per altre feste della Chiesa – si ricordi un fatto avvenuto una volta, ma che è stato così importante da richiedere che se ne faccia memoria ogni anno, come per il Natale: Gesù solo una volta è nato eppure della sua nascita si fa memoria ancora, ogni anno, ogni 25 dicembre.

Ma la Pentecoste è una festa un po’ diversa: non si ricorda un avvenimento – per quanto importante – avvenuto una sola volta nella storia. Piuttosto si fa festa per ricordare la presenza “sempre presente” dello Spirito.

Esso non è sceso quel giorno sulle teste degli apostoli, dandogli la forza e il coraggio per la missione di annunciare la storia di Gesù, e poi basta… Il racconto della discesa dello Spirito è la narrazione del nuovo modo di Dio di essere presente, sempre, nella storia degli uomini.

Da quel momento in avanti, cioè, Dio è incontrabile in Spirito.

Lo Spirito non è un’altra cosa rispetto a Dio Padre o a Gesù Cristo (il dogma ce lo ricorda con chiarezza: “Un solo Dio in tre persone”) e di fatti spesso è chiamato anche “Spirito di Dio” o “Spirito di Cristo”.

Lo Spirito è Dio: è il modo in cui Dio è presente nella storia. Non più nella pelle di Gesù, ma – appunto – in Spirito.

Ecco perché i cristiani non possono sentirsi orfani, dopo l’Ascensione. Ecco perché non possono sentirsi figli di un Dio che sta nell’alto dei cieli e pare essere assente dalla storia. Perché Egli è presente, in Spirito.

Certo, è una modalità di presenza che può apparire difficile (Dio non è visibile, non è toccabile, non lo si può ascoltare come un interlocutore umano…), ma che – se ci pensiamo – è l’unica che permette una vera relazione di libertà (non possiamo farne un idolo, perché è incontenibile in qualsiasi confine) e di intimità (può arrivare al centro della nostra persona, là dove anche noi siamo spirito).

Perciò, buona festa di Pentecoste a tutti: che sia l’occasione per recupera la nostra relazione da Spirito a spirito con Dio.

mercoledì 4 maggio 2016

Ascensione


Dagli Atti degli Apostoli (At 1,1-11)

Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra». Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».

 

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 9,24-28;10,19-23)

Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte. Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza. Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 24,46-53)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto». Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

 

Negli anni del ciclo liturgico C, come questo in corso, la Chiesa ci fa leggere le due versioni del racconto di ascensione narrate da Luca: una negli Atti degli apostoli e l’altra nel vangelo.

Il III evangelista è l’unico che traccia la scansione temporale dei 40 giorni dopo Pasqua per descrivere l’ascensione; scansione che è entrata poi anche nella liturgia: Pasqua – 40 giorni – Ascensione – 10 giorni – Pentecoste.

Nelle altre testimonianze neotestamentarie il ritorno di Gesù presso Dio e il dono dello Spirito santo sono invece piuttosto ravvicinati e quasi iscritti dentro alla Risurrezione.

Possiamo concludere che il dato della scansione temporale sia stato introdotto da Luca per motivi liturgico-pedagogici e che non rispecchi la cronologia degli eventi in senso stretto.

Resta però da chiarire quale sia il motivo che ha originato questi testi.

Il problema di fondo – che gli altri evangelisti lasciano aperto e che invece Luca vuole approfondire – potrebbe essere espresso in questo modo: perché, se Gesù è risorto, non lo si può incontrare come prima?

Luca cioè si preoccupa di dare una risposta ai cristiani delle generazioni successive a quella apostolica, che domandavano come fosse per loro possibile credere a Gesù, senza averlo mai visto, né vivo né risorto. È la stessa problematica che traspare anche nella prima finale di Giovanni, quando al cap. 20 v. 29 diceva: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».

Uno dei problemi delle prime comunità cristiane è stato perciò quello di rendere ragione dell’assenza di Gesù, o meglio dell’impossibilità di un incontro con lui nelle modalità precedenti (non è più incontrabile in carne ed ossa perché è morto; ma non è più incontrabile nemmeno da risorto, nelle apparizioni, come era invece stato possibile per i discepoli).

Ecco perciò che si introduce – come risposta a questa realtà – l’ascensione: Gesù non è più incontrabile nella modalità precedente, perché è asceso al cielo, cioè è tornato presso Dio.

Il racconto non è da prendere alla lettera: come dico ai miei bimbi a scuola, non è che Gesù è partito come un missile per raggiungere lo spazio. È un testo che va interpretato.

Per chiarirci le idee, vi racconto la lezione sull’ascensione che tengo in II elementare. Innanzitutto chiedo: “Che parola vi fa venire in mente ‘ascensione’?”. E loro rispondono: “Ascensore!”.

“Bene. E a cosa serve l’ascensore?”. “A salire”.

“Eh già… Infatti ‘ascendere’ è il contrario di ‘scendere’. È uguale a ‘scendere’, ma con la ‘a’ davanti, che serve per dire il contrario della parola che viene dopo. Quindi ‘ascendere’ = il contrario di ‘scendere’ = salire”.

“Ma dove è salito Gesù?”; “In cielo”.

“Sì, ma attenti, non è partito come un missile per andare su marte! Il cielo era un modo per dire ‘Dio’. E siccome si è sempre pensato che Dio fosse in cielo, per dire che Gesù era tornato da Dio, hanno scritto che è salito in cielo!”.

Ecco spiegata l’ascensione… ai bambini… ed ecco spiegato il problema che ha originato i testi di Luca… per i grandi… L’evangelista aveva bisogno di spiegare alle nuove generazioni cristiane perché esse non potessero incontrare Gesù nella modalità delle apparizioni del risorto, perciò gli ha narrato l’ascensione. La risposta è che dopo la morte e la risurrezione Gesù non è più presente nella storia nella modalità precedente: Egli è presso Dio.

È da qui che nascerà il passo successivo. Perché la domanda veniva da sé: ma allora Dio, ora, è assente dalla storia? No, risponderà Luca, è presente in Spirito… ecco il racconto di Pentecoste (che lasciamo a domenica prossima).

Non prendere alla lettera tutto ciò che è scritto nella Bibbia non ci deve spaventare: anzi, è il prendere tutto alla lettera che è sbagliato. La Chiesa da sempre ha ritenuto che i testi biblici fossero da interpretare, perché – come dice la Dei Verbum, un documento che il Concilio Vaticano II ha scritto proprio riguardo alla Parola di Dio – la fede si fonda su ciò che l’autore biblico aveva inteso comunicarci, la sua intenzione profonda, non su quello che capisco io o su quello che una prima lettura fa saltare all’occhio. Ecco perché nella Chiesa si sono sviluppati tutta una serie di studi letterari e linguistici per andare a capire cosa volevano dire gli autori, quando scrivevano i loro testi. Nella Chiesa c’è anche chi fa questo si mestiere: gli esegeti, che attraverso lo studio dei generi letterari, dell’epoca storica, del significato delle parole, ecc… ci presentano l’interpretazione dei testi.

Anche per l’ascensione è così: una lettura letterale ci porta ad un Gesù-missile…

Una lettura ragionata, ci inserisce invece in uno dei problemi con cui la Chiesa di sempre si deve confrontare: Gesù non è più incontrabile come prima. Come si può, dunque, credergli?

«Perché è degno di fede colui che ha promesso», risponde la lettera agli Ebrei.

E come faccio a sapere che è degno di fede uno che non posso incontrare in carne ed ossa e nemmeno da risorto, in un’apparizione? Lo posso sapere leggendo la sua storia e valutando chi ha deciso di essere… ecco la centralità dei vangeli e della loro conoscenza per poter accedere, oggi, ad una relazione con Gesù.

E leggendo i vangeli, non si può non concludere che chi si consegna alla morte (perdonando i suoi carnefici) per non smentire l’annuncio d’amore che traspare da ogni gesto che ha compiuto e da ogni parola che ha pronunciato sia davvero degno di fede.
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