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lunedì 29 giugno 2015

XIV Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Ezechièle (Ez 2,2-5)

In quei giorni, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava. Mi disse: «Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri si sono sollevati contro di me fino ad oggi. Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio”. Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro».

 

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (2Cor 12,7-10)

Fratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 6,1-6)

In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

 

Il vangelo di questa 14° domenica del tempo ordinario ci narra l’episodio di Gesù nella sua patria: un momento “normale” dopo la “extra-ordinarietà” dei primi passi del suo ministero pubblico. Secondo Marco, infatti, quando Gesù torna a casa sua, ha già ricevuto il battesimo da Giovanni, vinto le tentazioni, chiamato i discepoli, iniziato la sua predicazione, compiuto diversi miracoli… guadagnato una certa popolarità…

Questo ritorno – che anche letterariamente sembra una cesura, una parentesi – segna dunque come una pausa nel cammino in Galilea di Gesù, che peraltro riprende immediatamente già nell’ultimo versetto del nostro brano: «Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando». Eppure questa “pausa” non pare avere i contorni della riuscita… L’esito è deludente; nel parallelo brano di Luca addirittura tragico (cfr Lc 4,16-30).

Il brano non dice il perché di questa decisione di Gesù di tornare in patria, non emerge nessuna urgenza che possa aver determinato un impellente rientro, per cui pare proprio che Gesù ci tornasse come un fatto normale.

Tant’è che si rimette a fare le cose “abituali”: di sabato va alla sinagoga – commenta Luca «secondo il suo solito». Eppure proprio lì «dove era cresciuto» qualcosa è cambiato. Il modo di porsi, meglio, il modo di essere di Gesù esce dai canoni consueti con cui fino alla sua partenza era stato guardato, non rientra più nell’ordine di misura (normale) con cui era da sempre stato valutato: non combacia più con l’etichetta con cui l’avevano sempre pensato: «il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone». E questo scarto tra idea di lui e lui suscita stupore («rimanevano stupiti») e addirittura scandalo («era per loro motivo di scandalo»).

E Gesù soffre di questo mancato riconoscimento, di questa mancata accoglienza di lui in nome di un’idea diversa di lui.

Fin qui l’episodio… onestamente abbastanza comune: a tutti è capitato di fare esperienza di essere letti a partire da una pre-comprensione piuttosto che dalla realtà di ciò che si è.

Eppure, tutta questa sensazione di ordinarietà, di esperienza comune ai più, lascia aperta una domanda più radicale: Se si tratta di un’esperienza tanto normale, che si rifà in qualche modo a esperienze comuni a tutti, perché i primi cristiani hanno sentito il bisogno di narrarci questo fatto? Perché ha una valenza così significativa il fatto che Gesù venga rifiutato in patria? Verrà rifiutato anche dopo e in modo più radicale, dagli amici, dal suo popolo… Perché dunque non limitarsi a quei tradimenti, di portata di certo più consistente, e sottolineare anche questo che in prima battuta a noi sembra un episodietto, se non insignificante, almeno di una rilevanza piuttosto bassa?

La risposta può venire, provando a guardare questo episodio dal punto di vista dei compaesani di Gesù invece che dal suo: così facendo, non è che si possa poi tanto contestare la loro reazione… è normale che generi stupore il fatto che il ragazzino che avevano sempre visto e considerato in un certo modo, misurandolo con gli stessi canoni con cui misuravano gli altri ragazzini (di chi è figlio, che mestiere fa, se i suoi fratelli son venuti su bene…), con cui si misuravano tra loro proprio senza battere ciglio, tornasse al paese dopo qualche tempo e si rivelasse, pur nel tentativo di presentarsi normalmente, in una modalità nuova … Tra l’altro la sua è una novità di una portata esorbitante… insegna, compie prodigi… pian piano sviluppa la pretesa di essere il Cristo… Questo hanno di fronte i suoi paesani… ed è quello che abbiamo di fronte anche noi…

Ecco perché questo brano è stato sottolineato nonostante la sua apparente normalità: perché è scritto per chi già crede, per chi in un certo senso è dalla parte di questi compaesani, di chi pensa di conoscere (almeno un po’) Gesù. Perché quello scandalo lì è ancora il nostro: il Signore è il figlio del falegname.

E questo ci costringe ancora una volta a riconsiderare la nostra idea di Dio, per vedere, se in fin dei conti, non siamo anche noi come quei nazaretani che un Dio così, preferiscono rifiutarlo.

Infatti:

«C’è una reazione invincibile di fronte all’incarnazione: un processo storico partito dai suoi compaesani, e poi confluita in ogni chiesa, mai interrotto, di “normalizzazione sacra” – di ri/divinizzazione dell’incarnazione (è il processo inverso, di rimando al mittente del mistero – sostanzialmente perché è troppo di disturbo della quiete storico religiosa).

[…] E’ difficile per i compaesani di Gesù (come per noi) accettare la salvezza non da Dio direttamente, ma da uno di noi. Eppure è questo lo scandalo dell'incarnazione: Dio agisce attraverso l'uomo, nella debolezza e opacità della carne e nell’ambiguità delle vicende storiche; Dio non si serve di gente fuori dal comune (divinizzata o sacralizzata), ma di persone comuni» [p. Giuliano Bettati, ocd].

Il punto allora – ancora una volta – è: chi è il Dio in cui diciamo di credere? È quello del vangelo? O è un’immagine che si è formata nella nostra interiorità attraverso gli insegnamenti, le tradizioni, la “normalizzazione sacra”? E – ancora – che implicazioni ha la fede nel Dio del vangelo? La fede in Gesù, uomo, falegname, figlio di…, fratello di…? Per esempio, come è giusto pregarlo? Io ho provato così:

Gesù, figlio di Dio e figlio dell’uomo,

carpentiere di Galilea,

fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone,

la mia relazione con te,

le mie aspettative su di te,

non possono non tener conto di chi sei stato,

di chi hai scelto di essere.

Non ti posso perciò chiedere di essere potente,

tanto meno di essere onnipotente,

semplicemente vorrei intrecciare la mia vita con la tua,

il tuo Spirito col mio,

per scrivere una storia che umanizzi chi mi incontra,

per quanto sarò capace.

Tanto lo so, che alla fine di questa storia,

incontrerò uno che sa che l’uomo

fa solo quello che riesce a fare

e mi accoglierà non per i miei meriti

ma perché da sempre mi ha guardata

con occhi incarnati

e scioglierà la complessità di ciò che sono

in una continuità di benevolenza.

martedì 23 giugno 2015

XIII Domenica del Tempo ordinario


Dal libro della Sapienza (Sap 1,13-15; 2,23-24)

Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte, né il regno dei morti è sulla terra. La giustizia infatti è immortale. Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura. Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono.

 

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (2Cor 8,7.9.13-15)

Fratelli, come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa. Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà. Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: «Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno».

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 5,21-43)

In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male. E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male». Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.

 

Questa XIII domenica del tempo ordinario, ci presenta una triade di letture davvero straordinaria. Perciò, contrariamente a quanto faccio di solito (cioè concentrarmi solo sul vangelo), vorrei quest’oggi dire una parola su tutte e tre le letture.

mercoledì 17 giugno 2015

XII Domenica del tempo ordinario


Dal libro di Giobbe (Gb 38,1.8-11)

Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all’uragano: «Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite, gli ho messo chiavistello e due porte dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”?».

 

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (2Cor 5,14-17)

Fratelli, l’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro. Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così. Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 4,35-41)

In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

 

Questo brano di vangelo, difficile da spiegare nel suo senso letterale, spesso è stato interpretato metaforicamente: per cui la barca sarebbe la Chiesa, scossa dal vento e dal mare in tempesta (un mare che rappresenta il male) e che si spaventa. Il Signore – fortunatamente –, seppur inizialmente dorma e alla fine concluda con una sgridata, esaudisce il desiderio dei discepoli di “tirarli fuori dai pasticci”, misericordioso nei confronti della loro debolezza.

A partire da questa lettura poi spesso si evincono tutta una serie di considerazioni sulla Chiesa (che poverina – in questi tempi – pare proprio scossa dal vento e dal mare tempestoso), sul Signore (che pare dormire, ma c’è e quando la situazione si fa grama – tac – arriva infallibilmente), sulla fede (dato che crediamo in un Dio apparentemente dormiente, ma in realtà infallibile, non bisogna temere, ma avere fede).

Io credo che questa lettura non riesca più a parlare al nostro cuore.

Anche perché l’intento dell’evangelista Marco non mi pare sia tanto il destino della Chiesa e tutte le considerazioni dei parroci in merito, quanto piuttosto il tratteggiare una situazione esistenziale che è propria di ciascun uomo e che è ben riassunta nelle due domandine messe in bocca a Gesù alla fine dell’episodio: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».

Che la vita sia una tempesta e che il Signore dorma (cioè appaia lontano, assente, ecc…) è un dato di fatto: questa è la base di partenza di chiunque si ponga a guardare alla storia (umana, ecclesiale, personale) senza troppi ghirigori.

Ma il problema del brano non è questo: questa è la condizione di partenza. È una situazione data.

Il centro del brano, e quindi dell’interesse dell’evangelista, è piuttosto quanto segue: cioè il fatto che in questa situazione data, in questa condizione che è la vita (non una fase brutta della vita, o un periodaccio, ma tutta la vita), l’uomo – anzi il discepolo! – si ponga come colui che dice: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».

Il problema cioè è l’immediata associazione tra “vita” (sempre tempestosa) e “disinteresse di Gesù”: la questione cioè è esattamente la stessa descritta in Gen 3 nel racconto del peccato originale. Anzi, in questo brano è rinarrato il peccato originale (qui non dell’uomo in generale, ma del discepolo): la messa in discussione del volto benevolo di Dio a partire dalla tempestosità della vita. Tant’è che, come dicevamo, il brano si conclude con le domande: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».

Le due domande non sono casuali, ma – ovviamente – la seconda implica la risposta alla prima: avete paura perché non vi fidate di me! Ecco la messa in discussione del suo volto buono. Non ci si fida di chi non si conosce o di chi si teme abbia una doppia faccia.

Il problema infatti è proprio questo: il discepolo dovrebbe essere colui che alla luce della sua relazione di fiducia con Dio (fede), con il Dio di Gesù, che conosce e del cui volto buono, proprio perché lo conosce, non può dubitare, non ha più paura.

Sarebbe interessante ripercorrere le nostre paure, analizzarle, cercarne la fonte e provare a capire in che senso la fiducia – fondata sulla conoscenza – nel volto solo buono di Dio possa spegnerle.

Perché ovviamente non tutti i sensi in cui sciogliamo le nostre paure con la fede sono corrette (cioè evangelicamente corrette: per esempio se ho paura di essere aggredita, non è che la fede mi fa passare la paura di andarmene in qualche postaccio a provocare dei tipacci… perché tanto poi ci pensa il mio dio supereroe).

È per questo che bisogna stare attenti col vangelo: perché si rischia di usare le sue stesse parole per fargli dire qualcosa di diverso da quello che era sua intenzione (non a caso il Concilio Vaticano II ci ha ricordato che Parola di Dio non è quello che capisco io, o chi per me, ma l’intenzione dell’autore).

E allora io credo che – indubbiamente – un altro punto di partenza per la tavola rotonda che già invocavo (parlando della messa) che ci permetterebbe pian piano di andare a sondare i contenuti della nostra fede cristiana, potrebbero proprio essere queste due domande:
«Perché avete paura? Non avete ancora fede?».

lunedì 8 giugno 2015

XI Domenica del Tempo ordinario


Dal libro del profeta Ezechièle (Ez 17,22-24)

Così dice il Signore Dio: «Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro, dalle punte dei suoi rami lo coglierò e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; lo pianterò sul monte alto d’Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà. Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso, faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco. Io, il Signore, ho parlato e lo farò».

 

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (2Cor 5,6-10)

Fratelli, sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo – camminiamo infatti nella fede e non nella visione –, siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore. Perciò, sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere a lui graditi. Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male.

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 4,26-34)

In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura». Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra». Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

 

Questa Domenica ricomincia (finalmente!) il Tempo Ordinario e la Chiesa ci propone due delle tre parabole del seme raccolte nel quarto capitolo di Marco. Lascio parlare in proposito due esegeti che alimentano da tempo le mie riflessioni, perché mi paiono capaci di rendere davvero bene l’idea di ciò che vi è in gioco, più di quello che forse sarei in grado di fare io.

martedì 2 giugno 2015

Corpus Domini


Dal libro dell’Èsodo (Es 24,3-8)

In quei giorni, Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!». Mosè scrisse tutte le parole del Signore. Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore. Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto». Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!».

 

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 9,11-15)

Fratelli, Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione. Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna. Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente? Per questo egli è mediatore di un’alleanza nuova, perché, essendo intervenuta la sua morte in riscatto delle trasgressioni commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che era stata promessa.

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 14,12-16.22-26)

Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua. Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio». Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

 

Il tempo ordinario è ricominciato da due domeniche, ma – come settimana scorsa ci siamo trovati di fronte alla solennità della Trinità – anche questa domenica la liturgia ci propone di nuovo una solennità extra-ordinaria: la festa del Corpus Domini.

Sono feste che lasciano un po’ perplessi, in quanto forse – a ben guardare – ogni domenica è la festa della Trinità e ogni domenica è la festa del Corpus Domini… E, se pure si capisce l’intento pastorale di voler focalizzare l’attenzione della comunità credente su questi aspetti della fede cristiana, il rischio è, solennizzando, quello di fare della Trinità e del corpo e sangue di Gesù non delle realtà quotidiane da vivere e con cui interagire, ma dei “misteri” arcani percepiti come distanti.

Per questo la mia riflessione di questa settimana vorrebbe essere più che altro un invito a cogliere l’occasione di queste ricorrenze per riportare nel nostro vissuto la relazione con Dio Padre, Figlio e Spirito santo, passando per i gesti che Gesù ci ha lasciato: il dono del pane e del vino, segni del dono del suo corpo e del suo sangue.

Tante cose sono state dette sulla scelta del pane e del vino, sulla “spiegazione in anticipo” che Gesù nell’ultima cena fa della sua consegna sulla croce… ancora di più ne sono state dette sull’importanza della messa, dell’assolvimento del precetto domenicale, della comunione…

Ma la realtà è che il rito, un po’ sclerotizzato dall’abitudine e dalla concentrazione della predicazione sulla “obbligatorietà” di parteciparvi, non riesce più a farci prendere coscienza si cosa sia in realtà ciò che celebriamo.

E nemmeno il tentativo del Concilio Vaticano II di rendere la messa non più qualcosa a cui si assisteva, ma – con l’introduzione della lingua parlata dalla gente in sostituzione del latino e con altri accorgimenti liturgici – qualcosa a cui si partecipava, sembra aver davvero segnato una svolta.

Forse davvero bisognerebbe che ogni comunità credente che si ritrova intorno al suo fondamento (la Parola di Dio, la mensa eucaristica, la fraternità tra cristiani) provasse a mettersi intorno ad un tavolo per dirsi il senso di quel ritrovarsi, il senso di quel fondamento e magari a riscrivere una liturgia che riesca davvero a dire – in quel contesto, per quella gente – questo senso.

È evidente che questo lavoro chiama in causa tutta una serie di altri aspetti (per esempio il senso di essere una comunità, una comunità radunata intorno alla fede nel vangelo di Gesù, una comunità di fratelli e sorelle, una comunità di fratelli e sorelle radunata intorno alla fede nel vangelo di Gesù che vive immersa in un mondo di altri fratelli e sorelle umani, ma non cristiani, ecc…), ma se non si parte da qualche parte (che sia la messa, il senso della comunità, il fondamento che la costituisce, o qualsiasi altro aspetto del nostro essere cristiani), continueremo a vivere ogni atto della vita in maniera slegata da un sistema di pensiero, da un orizzonte di senso, da una logica pervasiva che tenga insieme tutto ciò che siamo e che renda ragione della nostra identità.

Provo a spiegarmi con un esempio: è come una coppia di persone che si amano che fanno abitualmente l’amore, ma hanno smarrito le ragioni della loro relazione: che non sanno più pensarsi come coppia, che non sanno più dirsi come fondati sull’identità che quell’amore e quella relazione gli ha dato.

Fare l’amore va bene, ma scollegato da un orizzonte di senso che riesce a dire chi sono io, rischia di diventare un gesto svuotato come l’involucro di una relazione che non c’è più.

Io credo sia così per la messa dei cristiani: è rimasto l’involucro, ma si è perso il senso della relazione che lì vi è in gioco. E hanno un bel parlare i preti sulla necessità di andarci, sul sacramento eucaristico come fonte e culmine della fede… hanno ragione, ma anche le loro parole sono vuote: dicono l’importanza di una cosa che però non esiste, se non nominalmente.

Eppure… se Gesù ha detto «fate questo in memoria di me», vuol dire che lì dentro c’è qualcosa che non si può perdere per strada. Ma tenerlo, così come lo si tiene oggi, vuol proprio dire perderlo per strada o far finta di non averlo già perso per strada.

Ecco perché la necessità di mettersi intorno ad un tavolo e chiedersi: ma perché, tra tutte le cose che Gesù ha detto e fatto, proprio di questa ha detto “fatela in memoria di me”?

Avrei la tentazione di dire immediatamente la mia, di riempire il vuoto che si crea accettando di ripensarci (perché ogni volta che si accetta di ripensare a qualcosa, al senso di qualcosa, si crea un vuoto che spaventa), ma il farsi prendere dalla fretta (dall’ansia) di riempire subito questo vuoto credo corrisponderebbe ancora una volta col mettere un rattoppo posticcio.

Forse, farebbe tanto più bene alla comunità credente e a ciascun cristiano, stare un po’ a mollo nel vuoto di senso delle nostre liturgie, perché questo sbaraglierebbe il campo dal facile rifugiarsi in formule o frasi fatte, in considerazioni chissà quante volte già sentite, e aprirebbe la strada a un vero ri-pensamento, che – come dicevamo prima – parta da un qualsiasi punto, ma arrivi a riscrivere l’insieme della vita della Chiesa.

Forse, come diceva p. Mario nell’ultima lectio qui nella Fraternità di Lessolo, davvero bisognerebbe immergersi in un sano ateismo che ci facesse abbattere un bel po’ di idoli (di cui i più perniciosi sono quelli smaltati di cristianesimo) per ritornare a farsi insegnare la vita cristiana dal vangelo di Gesù.
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