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lunedì 27 aprile 2015

V Domenica di Pasqua


Dagli Atti degli Apostoli (At 9,26-31)
In quei giorni, Saulo, venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo. Allora Bàrnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Così egli poté stare con loro e andava e veniva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome del Signore. Parlava e discuteva con quelli di lingua greca; ma questi tentavano di ucciderlo. Quando vennero a saperlo, i fratelli lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso. La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa: si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero.
 
Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo (1Gv 3,18-24)
Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità. In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito. Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.
 
Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 15,1-8)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
 
Il vangelo di questa V domenica di Pasqua è un vangelo assai noto. L’immagine della vite e dei tralci ci è infatti stata insegnata fin da bambini e diventa difficile commentarla: sia perché, appunto, è arciconosciuta, sia anche perché nella sua immediatezza è già chiara da sé.
Eppure… mi pare di intravvedere un rischio, che è quello di risultare più attenti alle sorti del tralcio che non porta frutto e viene tagliato e bruciato. Io non so perché ci capita (se è questione psicologica, se è perché nella nostra formazione hanno sottolineato la paura dell’inferno, o la minaccia come modalità per “farci fare il bene”, o altro), fatto sta che non appena leggiamo «Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano» immediatamente un brivido di paura ci corre per la colonna vertebrale. Sarà la paura dell’inferno che ci hanno istillato secoli di certa predicazione? Forse… ma io credo che più radicalmente ci sia la paura (sottostante a quella dell’inferno) che il volto di Dio sia questo: buono con chi porta frutto, duro e punitivo con chi non lo porta. In discussione, dietro alle nostre paure, come mi capita di ripetere spesso, c’è il vero volto di Dio. È lui che ci fa paura, non l’inferno o cose simili. È lui che ci fa paura. E di cosa si ha paura? Di chi non si conosce o di chi ci può fare del male (tenendo conto che i mali più grossi non sono quelli di chi ci odia, ma di chi ci ama e ci tradisce o ci abbandona o ci ferisce).
Il punto è dunque questo: la nostra paura – che fra tutti i versetti del vangelo ci fa concentrare su quello del tralcio che si dissecca – viene dalla nostra poca conoscenza di Dio (e dunque dalla diffidenza nei suoi confronti) e dal timore che ci possa tradire, abbandonare, ferire (non amare più).
I due ordini di paura (poca conoscenza / effimero amore) sono correlati: conoscere la rivelazione di Dio, Gesù, vuol dire infatti incontrare il Dio affidabile nell’amore; ma noi ci spacchiamo sempre troppo poco la testa e il cuore sul suo vangelo e lo conosciamo sempre solo un po’ per sentito dire. È lì che si apre lo spazio per la diffidenza sulla sua affidabilità.
In realtà, se guardiamo anche al testo di oggi, il tralcio che non porta frutto non è il centro del discorso. Esso è segnalato solo per far emergere, per contrapposizione (come settimana scorsa il mercenario in confronto al pastore), la bellezza del rimanere in Gesù (termine che tornerà anche settimana prossima: «rimanete nel mio amore»).
Con questa immagine della vite e dei tralci Gesù vuole convincerci della bellezza del rimanere nel suo amore, della vitalità, dell’esplosione di colori che essa produce, come la nostra primavera ci sta mostrando.
Tutta la sua vita è stata spesa per questo convincimento, per renderci persuasi che solo l’amore ci fa fiorire, mentre la paura, la diffidenza, la chiusura disseccano la nostra vitalità.
Noi invece abbiamo costruito una religiosità in cui l’appartenenza è figlia della paura dell’eventuale ritorsione altrui. E così abbiamo costruito anche le nostre relazioni tra di noi. Per questo ci dissecchiamo.
La fede invece è proprio questo sbilanciamento dalla paura al credere, dalla diffidenza alla fiducia, dalla chiusura all’apertura, dal seccare al fiorire.
Certo, resta da chiedersi concretamente in cosa consista questo “rimanere”. Ma nel provare a tradurre in vita quotidiana questo stare attaccati alla vite non possiamo abbandonare questa prima conquista: che rimanere in lui sia per la vita. Altrimenti reintrodurremmo concretezze mortifere (sacrifici, rinunce, mortificazioni, ecc…). Ripensare la nostra vita di tralci con categorie figlie della paura vorrebbe dire ritornare all’errore originario.
Bisogna allora che inventiamo linguaggi nuovi, forme inedite, gesti inusuali per dire la vitalità di una vita che ha per linfa l’amore di Dio e degli uomini, senza farci immediatamente bloccare da certe impalcature morali che – nate per essere segni di vita e di amore – rischiano, se fatte girare a vuoto e omologate a qualsiasi situazione, di ottenere l’effetto opposto, cioè di essere tombe dell’amore e della vita.
È il percorso di una vita, ma va affrontato senza paura.

lunedì 20 aprile 2015

IV Domenica di Pasqua


Dagli Atti degli Apostoli (At 4,8-12)

In quei giorni Pietro, colmato di Spirito Santo, disse: «Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo, e cioè per mezzo di chi egli sia stato salvato, sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato. Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo. In  nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati».

 

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo (1Gv 3,1-2)

Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente. Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.

 

Dal vangelo secondo Giovanni (Gv 10,11-18)

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e dò la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo giudicare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io dò la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la dò da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

 

In questa quarta domenica di Pasqua, la Chiesa continua ad invitarci a riflettere sul mistero della Risurrezione. A differenza delle domeniche precedenti però, la liturgia non presenta racconti di apparizioni del risorto, ma preferisce intercettare la stessa questione partendo da altri punti di vista. In particolare essi potrebbero essere riassunti in questi termini: innanzitutto – facendo riferimento alla prima e alla seconda lettura – Qual è il rapporto dei discepoli (e dunque anche nostro) con questo Cristo ormai risorto («nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato»)? Come cioè egli agisce ancora nella storia? In che senso il suo nome è l’unico, sotto il cielo, in cui è stabilito che siamo salvati? E cosa significa sul fronte umano questo essere salvati? Questo già essere figli di Dio? Questo essere associati alla sua risurrezione? In poche parole: Che ne sarà di noi? Cosa saremo? La risurrezione è qualcosa che riguarda solo lui o in qualche modo – e se sì in quale modo – coinvolge anche noi?

Sull’altro fronte invece, quello del vangelo, la questione suona piuttosto in questi termini: Qual è la vera identità di Gesù Cristo, il crocifisso risorto? Quali sono i termini corretti per comprendere la sua morte e risurrezione? E retrospettivamente la sua storia? Dunque per dire chi egli sia?

Evidentemente il perno delle questioni poste dalle letture nel loro insieme sta in questo secondo ordine di domande: la risposta ad esse infatti apre alla corretta lettura anche delle prime, dona loro la giusta prospettiva, le inserisce in un orizzonte univoco.

Come infatti Gesù risorto sia legato efficacemente alla storia che prosegue e a noi e cosa – in Lui – noi saremo, non sono domande disgiungibile da chi egli sia stato e dunque da quale sia la sua identità: il crocifisso infatti è il risorto; l’identità storica di Gesù coincide con la sua libertà di Figlio di Dio.

È come, cioè, se la Chiesa ci invitasse a lasciar trapelare dal cuore quelle domande che l’evento di risurrezione pian piano fa emergere, le stesse in qualche modo che hanno interrogato anche i discepoli della prima ora (Adesso che è risorto Gesù sarà ancora con noi? O la grazia della risurrezione lo allontanerà per sempre dalla nostra esperienza? Ora che ha vinto la morte si dimenticherà di noi – suoi discepoli che lo abbiamo tradito? Se ne andrà abbandonandoci al non senso della storia?), e a rintracciarne il corretto orizzonte di senso nella storia di Gesù.

E – come già accennato nella disamina dei testi – il problema vero diventa: Chi è veramente Gesù? È uno di cui ci si può fidare? O è uno che – vinta la morte – ci mollerà qui? È uno che “apposto lui apposto tutti” o uno che ha a cuore il destino degli uomini? Dei suoi? Anche se traditori?

mercoledì 15 aprile 2015

III Domenica di Pasqua


Dagli Atti degli Apostoli (At 3,13-15.17-19)

In quei giorni, Pietro disse al popolo: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino. Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio l’ha risuscitato dai morti: noi ne siamo testimoni. Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi. Ma Dio ha così compiuto ciò che aveva preannunciato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo doveva soffrire. Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati».

 

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo (1Gv 2,1-5)

Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo. Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e in lui non c’è la verità. Chi invece osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 24,35-48)

In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane. Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».

 

Ancora un testo che ci parla di un’apparizione del risorto.

Tornano i temi classici legati a questi discorsi: il saluto di Gesù «Pace a voi!»; la reazione di paura, stupore e non riconoscimento da parte dei suoi (che “serve” agli evangelisti per farci sapere che Gesù risorto non era semplicemente tornato in vita come Lazzaro, ma era entrato in una condizione nuova, che lo rendeva quasi irriconoscibile); il farsi riconoscere di Gesù attraverso i segni della passione e attraverso parole e gesti in continuità con quelli che aveva usato da vivo (continuità che gli evangelisti mostrano per farci capire che colui che i discepoli incontrano, seppur in una condizione nuova, è sempre lo stesso Gesù).

Proprio su questa continuità si concentra in particolare questo racconto di apparizione. Infatti l’evangelista Luca fa dire a Gesù: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi».

È Gesù stesso, dunque, in questo brano a porre quasi un ponte tra ciò che diceva da vivo e ciò che gli è poi effettivamente capitato e che lo fa essere ora lì presente, risorto, davanti a loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».

È su questa frase conclusiva che vorrei oggi soffermarmi un po’. Perché, mentre il v. 46 («Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno») non aggiunge nulla di nuovo al mistero della Pasqua, i versetti seguenti, se letti con attenzione, nascondono qualche sorpresa.

Innanzitutto il v. 47: «e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme». La sorpresa riguarda proprio il fatto che, mentre noi siamo abituati a dire che la vita di Gesù si conclude con la sua passione-morte-risurrezione, qui c’è qualcosa di più. Cioè fa parte dell’evento di rivelazione di Dio, in Gesù, non solo la parabola storica della vita di Gesù, ma anche l’annuncio che di essa viene fatto dai suoi.

Non a caso il v. 48 dice: «Di questo voi siete testimoni». Voi siete testimoni non solo del fatto che Gesù ha patito ed è risorto il terzo giorno, ma che nel suo nome ciò che va predicato a tutti i popoli è la conversione e il perdono dei peccati.

Gli apostoli sono “apostoli” (= inviati) per questo: sono “mandati” ad annunciare a tutto il mondo la vita, la morte, la risurrezione di Gesù e la conversione e il perdono dei peccati.

Attenzione: non ad annunciare la vita-morte-risurrezione di Gesù, poi a minacciare per la conversione, e infine – per i convertiti – tornare ad annunciare il perdono dei peccati.

Ma ad annunciare la vita-morte-risurrezione di Gesù, la conversione e il perdono dei peccati.

martedì 7 aprile 2015

II Domenica di Pasqua


Dagli Atti degli Apostoli (At 4,32-35)

La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune. Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno.

 

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo (1Gv 5,1-6)

Carissimi, chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato. In questo conosciamo di amare i figli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti. In questo infatti consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi. Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l’acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che dà testimonianza, perché lo Spirito è la verità.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 20,19-31)

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

 

Ci hanno insegnato a stigmatizzare Tommaso. Eppure è lui che nel vangelo di Giovanni ci rappresenta più di tutti: perché noi – come lui – non c’eravamo a vedere il risorto. Ma soprattutto perché – noi come lui – vorremmo poter vedere e toccare… per poi credere.

Non ci convince nemmeno l’espressione di Gesù «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto», tant’è che – a distanza di 2000 anni – riesce ancora a darci da pensare… e anche a darci un po’ fastidio. Perché in fondo, non siamo, a torto o a ragione, non siamo d’accordo con lui: qualcosa in noi si ribella.

La verità è che è difficile credere davvero (non solo a parole o attraverso slogan) nella risurrezione. Io credo che – se la Chiesa in questi 2000 anni ci avesse creduto un po’ di più – avrebbe costruito un mondo diverso. In realtà le nostre vite continuano a essere costruite in base al principio che poi si muore… e quindi… con tutto quello che viene di conseguenza.

Non abbiamo costruito un mondo in cui “poi si risorge, e quindi…”.

Non credo nemmeno che questa sia solo la situazione di noi poveri post-contemporanei, immersi in un mondo in cui la maggioranza delle persone è atea o agnostica. Credo che – anche nei secoli più “cattolici” della storia dell’umanità – sia sempre stata la certezza della morte e non la fede nella risurrezione a guidare le scelte della vita (personale e sociale).

Ha ragione p. Mario, quando in predica dice che abbiamo relegato Dio (Padre e Figlio) nell’aldilà, come si fa coi morti (non con i risorti, che sono dei viventi, stando al vangelo). Io penso che l’abbiamo fatto per comodità (perché il Dio di Gesù è un Dio scomodo, con il suo continuo invito all’amore disarmato) e anche perché siamo dei sani materialisti: abbiamo cioè fatto sostanzialmente questa equiparazione: Dio ha scelto di non agire nella storia (di consegnarla all’uomo) dunque Dio non c’è o è nell’aldilà, lontano: praticamente morto.

E così siamo rimasti con la storia tra le mani, un Dio considerato praticamente morto e di fronte solo la certezza della nostra fine (con una vaga e arcaica speranza – un po’ sciamanica – che quanto abbiamo sentito fin da piccoli sull’aldilà sia poi magari pure vero, chissà). Per questo abbiamo costruito una storia di morte.

Che la storia sia nelle nostre mani e che Dio non vi agisca in senso materiale è un dato inequivocabile; che di fronte a noi ci sia l’incontro con la morte è altrettanto ineluttabile. Nessuna di queste due cose è messa in dubbio dalla rivelazione del volto di Dio che Gesù ha attuato con la sua vita.

Ma di certo il terzo elemento (che Dio sia nell’aldilà, dunque praticamente morto) è esattamente quanto il lieto annuncio di Gesù smentisce: la sua risurrezione – culmine della parabola storica della sua esistenza – ci annuncia invece che Dio è presente e vivo e con noi fino alla fine del mondo, con la sua promessa che la morte non ha l’ultima parola neanche nelle nostre esistenze.

Provare a credere nella risurrezione vuol allora forse dire provare a credere nel Dio dei viventi, nel pensare a noi stessi come a “viventi” e non come a (prima o poi) “morenti”. Che tra l’altro è quello che facciamo – senza accorgercene – molto più spesso di quanto crediamo: ogni volta infatti che – anche senza consapevolezza – acconsentiamo alla vita (respirando, mangiando, ridendo, annusando, guardando, ecc…), di fatto facciamo un atto di fede in lei, nella vita e nel Dio della vita.
Raro caso in cui la carne è pronta, ma lo spirito è debole.
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