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martedì 24 giugno 2014

Santi Pietro e Paolo


Dagli Atti degli Apostoli (At 12,1-11)

In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa. Fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni. Vedendo che ciò era gradito ai Giudei, fece arrestare anche Pietro. Erano quelli i giorni degli Àzzimi. Lo fece catturare e lo gettò in carcere, consegnandolo in custodia a quattro picchetti di quattro soldati ciascuno, col proposito di farlo comparire davanti al popolo dopo la Pasqua.

Mentre Pietro dunque era tenuto in carcere, dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per lui. In quella notte, quando Erode stava per farlo comparire davanti al popolo, Pietro, piantonato da due soldati e legato con due catene, stava dormendo, mentre davanti alle porte le sentinelle custodivano il carcere.

Ed ecco, gli si presentò un angelo del Signore e una luce sfolgorò nella cella. Egli toccò il fianco di Pietro, lo destò e disse: «Àlzati, in fretta!». E le catene gli caddero dalle mani. L’angelo gli disse: «Mettiti la cintura e légati i sandali». E così fece. L’angelo disse: «Metti il mantello e seguimi!». Pietro uscì e prese a seguirlo, ma non si rendeva conto che era realtà ciò che stava succedendo per opera dell’angelo: credeva invece di avere una visione.

Essi oltrepassarono il primo posto di guardia e il secondo e arrivarono alla porta di ferro che conduce in città; la porta si aprì da sé davanti a loro. Uscirono, percorsero una strada e a un tratto l’angelo si allontanò da lui.

Pietro allora, rientrato in sé, disse: «Ora so veramente che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutto ciò che il popolo dei Giudei si attendeva».

 

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo (2Tm 4,6-8.17-18)

Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede.

Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione.

Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone.

Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.

 

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 16,13-19)

In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti».

Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».

E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».

 

In questa Domenica si celebra la Solennità dei Santi Pietro e Paolo.

È una festa che solitamente si celebra nel giorno della settimana in cui cade – facendone memoria la domenica solo nelle Parrocchie che hanno uno di questi santi (o entrambi) come patroni.

È l’occasione per me per andare con la memoria alla mia parrocchia di provenienza, quella della zona nord di Treviglio, dedicata a S. Pietro ap., che mi ha formato come donna e come cristiana.

È soprattutto per questo che nella mia riflessione vorrei concentrarmi su Pietro, uomo semplice (pescatore di Galilea, che – pare – non sapesse né leggere né scrivere) e contemporaneamente contorto (guida di tutti gli altri e rinnegatore di Gesù)… come forse un po’ tutti noi.

Ricordo che diversi anni fa, qualcuno mi disse: a me piace la gente dalla fede intonsa, non come quella di Tommaso o Pietro che hanno dubitato e rinnegato… perché se uno ci crede… ci crede…

Mi avevano stupito quelle parole – allora – e mi si erano incastonate – come a volte accade – in quegli spazietti della nostra testa che fanno un po’ da sala d’aspetto del dentista… in fila, in attesa del loro turno, ma pervicaci nel non andarsene fino a che non siano state esaminate.

Ed ecco che giorno per giorno tornavano a darmi da pensare…

La sensazione immediata era di nervosismo verso una persona che mi smontava un mito: san Pietro, il patrono della mia chiesa… come potevano dirmi che non aveva una fede intonsa?

Ma poi – scemata la reazione istintiva – tante domande: ma cosa avrà inteso con “fede intonsa”? Esiste una “fede intonsa”?

E pian piano si è fatta strada questa riflessione: ogni fede “intonsa” è falsa…

… perché salta la storia, cioè la temporalità e la carnalità, che sono i due ingredienti imprescindibili della nostra vita.

Così imprescindibili che Dio – quando ha voluto farsi conoscere definitivamente da noi – li ha assunti: si è fatto come noi, temporale e carnale.

La “temporalità” non vuol dire solo che il tempo passa, che si cresce, si matura, si invecchia e poi si muore… certo, anche questo: ma soprattutto vuol dire che per capire, per imparare, per abituarsi, per decidere, per valutare, l’uomo ha bisogno di tempo: un tempo in cui le sensazioni, le emozioni, i valori, le priorità, gli egoismi, gli slanci di gratuità sono tutti mischiati insieme come in un flusso – lento nell’insieme – ma con le varie correnti interne che vanno a velocità diverse – alcune velocissime, alcune al rallentatore.

Ecco perché – se non fosse troppo abusata – sarebbe proprio giusto ricordare la pertinenza della frase “ci vuole una vita…”…

… per imparare ad amare, ad esempio…

Cioè a far emergere da quel flusso una direzione che coincida con quella indicata da Gesù: dare la vita per…

Così come “carnalità” non vuol solo dire che siamo tentati da passioni erotiche o egoistiche… ma vuol dire che la nostra vita è un impasto di libertà (un amico diceva il 2%) e biologia, chimica, fisica…

Un impasto! Cioè non si può pensare che la nostra libertà sia separata dal restate 98%, ma che è la capacità – che solo l’uomo su questa terra ha – di indirizzare quel 98% verso qualcosa di diverso… che scegliamo noi!

Come dire: scegliamo chi essere, scegliamo che carne essere, cosa farne della nostra carne – che è la cosa più bella che abbiamo, perché senza di lei semplicemente non ci siamo, non esistiamo (tant’è che la fede cristiana proclama di credere nella risurrezione della carne e non dalla carne, come qualcuno – sbagliando – recita a messa e vive nella vita).

Ed è così che Pietro, che nella lettura di oggi dice una cosa strepitosa («Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»), tanto che Gesù lo loda e lo istituisce guida della Chiesa («Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli»), è poi anche quello che lo rinnega e poi anche quello che prende per mano davvero la prima Chiesa e poi anche quello che non capisce l’apertura di Paolo verso i non ebrei, ma poi però – dopo una gran discussione (raccontata in At 15) – gli dà retta e poi va a finire sulla croce…

Davvero Pietro è da prendere da esempio nella sua fede non intonsa, non falsa, ma tanto storica e perciò vera.

Che vuol dire smetterla…

… di credere di essere cattivi credenti perché non abbiamo fedi indefettibili, pure e sempre sorridenti…

O … di far la fine di chi smette di credere perché pensa di non essere all’altezza…

Ma finalmente convincersi che essere veri cristiani significa essere veri umani…

… ricordando che se ci vien facile dire che chi ammazza, violenta, percuote è disumano…

… forse lo è molto di più convincersi che chi ammazza, violenta, percuote non è uomo.

mercoledì 18 giugno 2014

Corpus Domini


Dal libro del Deuteronòmio (Dt 8,2-3.14-16)

Mosè parlò al popolo dicendo: «Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Non dimenticare il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri».

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 10,16-17)

Fratelli, il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 6,51-58)

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

 

«Nell’atto di dare vita risplende sempre immediatamente il fondamento: nel generare e nel nutrire, nel far vedere cose belle e nel far ascoltare notizie buone, nella cura e nella guarigione, nella risurrezione e nel perdono. […] Questa è la differenza: il fondamento come dominio, il fondamento come dedizione» (Sequeri).

Quella proposta dal teologo, è la medesima evidenza che i testi offerti dalla Chiesa per questa festa del Corpus Domini ribadiscono: il volto del Dio cristiano è, inequivocabilmente, dedizione!

Le letture infatti ci accompagnano in un percorso che da Mosè a Gesù, dal popolo ebraico alla Chiesa, dall’uomo di ieri all’uomo di oggi, ci mostra l’apparire di questa evidenza e la faticosa e magmatica storia con cui gli uomini l’hanno dipanata, riconosciuta come persuasiva, scelta come affidabile.

Infatti il capitolo 8 del libro del Deuteronomio, che andrebbe letto per intero, si colloca all’interno del discorso che Mosè, prima di morire, fa al popolo, che ormai sta per entrare nella Terra Promessa. Tutti i capitoli precedenti sono una sorta di riepilogo del cammino percorso fino a quel momento nel deserto; cammino da ricordare («Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto»), proprio perché luogo dell’apparire della dedizione di Dio, come suo univoco volto: «ti ha nutrito di manna. […] Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant'anni».

Eppure, per arrivare a questa evidenza, serve che si proceda con qualche passo intermedio, perché l’impalcatura del brano, con la sua sinuosa articolazione, ci chiede di evitare facili liofilizzazioni del suo messaggio e quindi, al contrario, di fare la fatica di percorrerlo. Infatti è solo “dal di dentro” della narrazione che, ciò che viene interpellata, è la nostra libertà (e non solo il nostro intelletto o il nostro “buon costume”); è solo da lì che il testo biblico (la parola di Dio!) chiama in causa il nostro deciderci-per! Qualsiasi altro approccio infatti, che non contempli il coinvolgersi vitale nella vicenda narrata, ha sempre in sé il rischio di ridurre la Sacra Scrittura a “manuale dei buoni consigli”.

E di fatti immediatamente ci accorgiamo che insieme alle parole inequivoche della cura, ce ne sono altre («Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant'anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che l'uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant'anni. Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te») di cui bisogna rendere ragione; di cui bisogna rendere ragione, tra l’altro, evitando di rimettere in discussione il fondamento come univocamente buono: dopo Gesù infatti non si possono più sfruttare argomentazioni del tipo «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?» (Gb 2,10), perché da Dio non viene il male, neanche per educarci! E quindi non si può più, dopo Gesù, leggere le frasi apparentemente problematiche della prima lettura («per umiliarti e metterti alla prova»; «ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame»; «come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te») come se Dio infliggesse “a freddo” umiliazioni, prove, stenti per un bene più grande! Ancora Sequeri, afferma: «Si tratta di togliere ogni ombra di dominio e di assoggettamento alla relazione che caratterizza Dio: neppure a fin di bene Dio esercita la propria potenza». E se invece, leggendo le espressioni che paiono rimandare a un infliggere il male all’uomo da parte di Dio, a noi viene il dubbio su Dio, sull’ambiguità del suo volto, dobbiamo ricordarci che quello lì, che ci viene in mente, non è dio! Forse ce lo hanno anche messo in testa così… ma non è Lui!

Come rendere allora ragione di queste frasi che paiono suonare male?

Anzitutto, mai de-contestualizzarle, sia culturalmente (sono espressioni linguistiche di un tempo storico ben determinato, così come di un luogo geografico e di società specifici), sia letterariamente (sono contenute nello svolgersi di un discorso, che ha le sue finalità, le sue ragioni, le sue regole stilistiche…). Questo, certo, non esaurisce la loro carica problematica, ma se non altro la colloca.

Serve comunque qualcosa di più per renderne ragione. E ciò che manca è infatti l’intelligenza del brano: ossia, cosa significano, nel loro contesto, l’umiliare, il mettere alla prova, il far provare la fame, il correggere?

Una chiave di lettura la si può trovare in tre punti particolari del testo, che ne segnano anche i passaggi fondamentali: «per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi»; «per farti capire che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che l'uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore»; e una volta entrato nella Terra Promessa, «guardati bene dal dimenticare il Signore tuo Dio così da non osservare i suoi comandi, le sue norme e le sue leggi che oggi ti do; […] il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da […] pensare: “La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze”».

L’intelligenza del racconto è cioè quella per cui il deserto, non tanto come luogo geografico, ma come luogo esistenziale dell’umiliazione, della prova, della fame, della necessità di revisione, ecc, è lo spazio dove l’uomo si ritrova messo in discussione. Questo deserto, che tutti nella vita sperimentiamo (ognuno il suo, personalissimo) è fenomenologicamente presente nell’esistenza umana, c’è, ce lo ritroviamo dentro; e il nostro testo non dà ragione del perché; parte anzi dal dato di fatto di trovarcisi in mezzo! La sua preoccupazione infatti è un’altra: quella di mostrare come questo ritrovarsi messi in discussione (dal dolore, dalla morte, dalla malattia, dalla sofferenza, dalla noia…) non debba diventare il luogo della messa in discussione di Dio. Il male che ci circonda, cioè, non deve arrivare a inficiare nel nostro cuore la relazione con quel Dio dal volto univocamente caratterizzato dalla tenerezza per l’uomo, dalla passione, dalla dedizione. Questo volto, che solo ci con-vince in un deciderci per Lui, non deve essere guardato con sospetto di fronte al male che sperimentiamo (“Se mi succede questa cosa, allora vuol dire che dio ce l’ha con me”; “Cosa ho fatto perché dio mi mandasse questa pena”…)!

Anzi, la prova è proprio il luogo del ri-professarlo affidabile, dalla nostra parte, solidale con noi nel dolore, nella fatica, nella morte del cuore. In questo senso il deserto mostra «quello che avevi nel cuore»: mostra infatti che faccia di Dio avevi conosciuto, se quella “doppia”, a cui attribuire il bene e il male dell’uomo, o quella univoca, del bene per l’uomo, che resta indiscussa anche di fronte alla realtà del male, perché essa non viene da Lui, ma è vivibile con Lui: «l'uomo non vive soltanto di pane, ma di quanto esce dalla bocca del Signore»! Il deserto perciò non solo non dev’essere il luogo della messa in discussione di Dio, ma anzi deve diventare lo spazio per riconoscerlo l’unico fondamento stabile, l’unico in cui l’uomo può trovare un accudimento convincente per la vita, nei suoi momenti oscuri e nei suoi momenti luminosi.

E di fatti il testo mostra anche il rovescio della medaglia: il tempo della prosperità! Anch’esso rivela che Dio hai in testa (in cuore): se quello che è comunque dalla parte dell’uomo, o se quello da ingraziarsi nel male e da dimenticare nel bene! Perché come scriveva santa Chiara a Ermentrude: «sopporta volentieri i mali avversi e i beni prosperi non ti esaltino: questi, infatti, richiedono la fede, e quelli la esigono».

In questo senso è interessante anche il fatto che nemmeno un certo pensare religioso è esente da questo meccanismo teologico perverso. Lo fa all’incontrario, ma ha lo stesso errore alla radice: quello di chi pare dire “Quando c’è qualcosa che non va nella mia vita è colpa mia, quando c’è qualcosa che va bene è merito di dio…”.

È la medesima prospettiva, anche se rovesciata, della problematica che mette in luce il nostro brano. Ma proprio perché ne è la visione reciproca ne importa anche il difetto: la doppiezza di dio, la sua ambiguità, il suo alternativamente far paura e ricompensare, infliggere e insegnare, mettere alla prova e premiare…

La prospettiva del Dio cristiano invece è radicalmente un'altra, nel senso che cambia fin nella radice questa impostazione, che Gesù stesso definitivamente taccia come improponibile!

Con Lui infatti l’evidenza dell’univocità della dedizione di Dio per l’uomo (da Dio ci viene solo il bene!) si fa definitiva: non solo Dio ci dà da mangiare, ma “ci si dà da mangiare”: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Questo capitolo 6 del Vangelo di Giovanni ha, a detta degli studiosi, il valore che nei sinottici hanno i racconti dell’Ultima cena, della quale infatti Giovanni non racconta l’istituzione dell’eucaristia, bensì la lavanda dei piedi. Siamo dunque in presenza di un testo eucaristico!

«Ecco questa è la differenza: il fondamento come dominio, il fondamento come dedizione. La differenza è affidata alla libertà. […] Dio è in attesa della decisione dell’uomo: quella cioè di assumersi la responsabilità della parte potenzialmente prevaricatrice che esiste in ogni atto di generazione, in ogni impresa della conoscenza, in ogni esercizio del desiderio, in ogni iniziativa della relazione che mira a stabilire un legame d’amore» (Sequeri). Questa è la vita eucaristica, evangelica, cristica: quella della «disponibilità all’esercizio della libertà a imitazione e somiglianza di Dio: che decide di sottrarre l’energia vitale dell’essere alla sua deriva verso il principio del dominio per convertirla all’indirizzo della dedizione».

martedì 10 giugno 2014

La Trinità


Dal libro dell’Èsodo (Es 34,4-6.8-9)
In quei giorni, Mosè si alzò di buon mattino e salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano. Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Signore passò davanti a lui, proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà». Mosè si curvò in fretta fino a terra e si prostrò. Disse: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervìce, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità».

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (2Cor 13,11-13)
Fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi. Salutatevi a vicenda con il bacio santo. Tutti i santi vi salutano. La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi.

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 3,16-18)
In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».
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 Per introdurci nel nucleo di senso della festa che la Chiesa celebra in questa domenica, quella della Santissima Trinità, è fondamentale collocare nel suo contesto la prima lettura che la liturgia ci propone: i versetti che la compongono infatti (Es 34,4-6.8-9) sono l’ultima parte di una sezione ben più ampia (Es 32,1-34,35) che inizia con la fabbricazione del vitello d’oro.

Già questa annotazione fa intuire come il senso della collocazione di questo brano nella liturgia della parola della festa della Santissima Trinità, abbia il senso di spingere la riflessione sulla questione dell’identità di Dio: chi è il Dio vero? Chi è Dio? E di fatti dire di Dio che è Trinità per i cristiani è dirne l’identità vera…

Ma procediamo con calma… soprattutto per evitare che gli echi estrinsecistici del parlare di Dio del catechismo ci fuorviino. La risposta corretta infatti è certamente che l’identità vera di Dio sia il suo essere uno e trino, ma al di là della formulazione dottrinale, il problema sta nel tentare di indagare cosa questo voglia dire.

L’incipit del brano di Esodo (32,1) mostra immediatamente il problema: «Il popolo, vedendo che Mosè tardava a scendere dalla montagna, si affollò intorno ad Aronne e gli disse: “Facci un dio che cammini alla nostra testa, perché a quel Mosè, l'uomo che ci ha fatti uscire dal paese d'Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto”».

Il monte su cui Mosè, a detta del popolo, si sta attardando è chiaramente il Sinai. Qui egli sta stringendo con Dio per il suo popolo l’alleanza, suggellata dal dono delle tavole della legge; infatti il versetto che immediatamente precede quello appena citato è il seguente: «Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio» (Es 31,18).

Dato il contesto, ciò che è desolatamente disarmante è questa assoluta nonchalance con la quale il popolo chiede esplicitamente ad Aronne di fargli un dio: fatti da mano d’uomo infatti sono solo gli idoli, i falsi dei, quelli che secondo il profeta Baruc 6,50 «sono una menzogna; […] non sono dèi, ma lavoro delle mani d'uomo, privi di ogni qualità divina» e che proprio per questo a detta del Salmo 114,5-7 «Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Hanno mani e non palpano, hanno piedi e non camminano; dalla gola non emettono suoni».

La situazione appare dunque paradossale: mentre Dio sta stringendo col suo popolo per mezzo di Mosè sul Sinai la loro alleanza, lo stesso popolo chiede di farsi un altro dio, un dio finto; il tutto, tra l’altro, non in una situazione di totale inesperienza di Dio, bensì a liberazione avvenuta, a mirabilia Dei già mostrati: ci ha fatti uscire dal paese d'Egitto!

Com’è possibile che il popolo sia arrivato a questo punto? Com’è possibile da un lato mettere in discussione Dio, il Dio conosciuto, il Dio con cui si ha già un rapporto, una storia, fatta di parole e segni, cura e protezione…? E com’è possibile dall’altro che su tutto questo prevalga la necessità di farsi un dio, un dio a misura di uomo, un dio che si può toccare, vedere, sul quale si possono cioè mettere le mani, sul quale si possono mettere gli occhi?

Stando alla Bibbia… dovremmo, dal nostro punto di vista, però, fare un po’ meno gli scandalizzati…

Già nelle sue prime pagine infatti essa ci rivela come questo sguardo ambiguo su Dio, questo metterlo in discussione, e insieme questa necessità di renderlo toccabile, visibile, contenibile, abbiano accompagnato l’uomo da sempre… anzi caratterizzano l’uomo di sempre… e dunque anche noi.

Gn 3 manifesta infatti che – come mostra in modo eccellente P.A.Sequeri ne Il timore di Dio, 53 - «il rapporto religioso con Dio si è inquinato, senza ragione e sin dall’inizio, tramite il credito che l’uomo ha concesso alla fantasia del serpente. E da allora ogni religione ne rimane inesorabilmente segnata, perché l’uomo viene alla luce in un mondo che ogni volta gli ripropone il sospetto al quale è sin troppo disposto a cedere: il sospetto cioè che il comandamento, invece che il simbolo della solidarietà di Dio, sia il segno di un’oscura prevaricazione».

Ecco l’arcaico sospetto su Dio che ci portiamo dentro, che ci “trasmettono” quando nasciamo e che in qualche modo rilanciamo quando moriamo: che il suo volto sia ambiguo, che da lui – come ogni religione ha sempre pensato del suo/suoi dio/dei – ci possa venire tanto il bene, quanto il male. E a partire da questa atavica paura ecco tutti i tentativi di ingraziarsi dio/gli dei: prima in modi decisamente più triviali (i sacrifici, anche umani), poi in modi sempre più raffinati, ma non certo meno depravati (le preghiere, i fioretti…). Ma non solo… oltre ai tentativi di propiziarsi il divino, il sospetto che da esso potesse venirci tanto il bene quanto il male, ha determinato un’altra rovinosa conseguenza: il fatto che il pensiero si scatenasse in elaboratissime teorie per salvaguardare comunque il rispetto della divinità: e così sono nate le dottrine per cui se da dio ti viene il male, lo fa per motivi pedagogici, per darti cioè un insegnamento morale, un’edificazione spirituale; oppure le dottrine per cui dio infligge il male, ma per un bene maggiore… e via discorrendo su questo canovaccio…

Che non sono altro che i tentativi a posteriori di difendere dio nelle sue implicazioni col male: dando però come presupposto appunto che col male egli sia immischiato… che è l’anti-Vangelo.

Il punto infatti è che come scrive ancora Sequeri «nella concretezza del rapporto instaurato con Dio non v’è alcuno spazio per l’ipotesi formulata dal serpente». È quello che dicevamo anche per il popolo: nella concretezza il rapporto che avevano instaurato con Dio aveva parlato solo di liberazione, protezione, cura… «Lo spazio dell’incredulità, sin dall’inizio, si apre nell’immaginazione: non nell’esperienza».

Eppure: «Una volta che è stato portato alla luce, questo sospetto non ci abbandona più. Ogni uomo, almeno una volta, sperimenta il sentimento della possibile ambiguità di Dio».

Questa incredulità “cronica” è una dinamica antropologica che stupisce perfino Gesù: «E si meravigliava della loro incredulità» (Mc 6,13). Anch’egli infatti sperimenta la crescente resistenza di fronte al suo annuncio, tant’è che diventa pretestuosa ogni cosa «persino la guarigione di un paralitico nel giorno sacro, o la restituzione di un amico morto all’affetto dei suoi cari».

«Ma la coscienza di Gesù appare folgorata dall’intenzione di attestare la verità di Dio sul principio di un’evidenza ‘entusiasmante’: prima di tutto e nonostante tutto, l’essenza della volontà di Dio è la cura per l’essere umano». Ecco la buona notizia di Gesù: che da Dio viene solo il bene per l’uomo! Che nessun uomo sulla faccia della terra deve inerpicarsi nell’avventura impossibile di salvarsi la vita («Chi di voi, per quanto si affanni, può aggiungere un'ora sola alla sua vita?», Lc 12,25), ma che essa è già amata, ben-voluta, salvata!

Non a caso infatti il Vangelo che la liturgia ci offre in questa festa, in cui siamo invitati in qualche modo a “sbirciare” nell’identità di Dio, proclama: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».

Ecco il nocciolo radicale dove dobbiamo porre la nostra conversione!

 Per farlo però bisogna ancora rendere ragione di due questioni:

1-      Se da Dio ci viene solo il bene, come va inteso il “castigo” raccontato in Gn 3, che è uno dei testi che abbiamo preso come riferimento?

2-      Perché è così importante non sbagliare l’identità di Dio? Addirittura porre qui la nostra conversione (piuttosto che sul sesso, sulla politica, sui soldi)?

1- è ancora Sequeri a venirci in soccorso: «Da molti indizi comprendiamo quale attaccamento alla propria creatura percorra come un filo incandescente e luminoso la reazione di Dio: […] l’uomo e la donna non muoiono. […] La maledizione invece è per il serpente: […] una clamorosa e appassionata riconferma della superiore dignità della donna e della stirpe di lei (Gn 3,15). [Infatti] Dopo aver sperimentato la differenza della verità di Dio e dell’immagine del serpente, l’uomo si sente vergognosamente solidale col serpente. Dio ristabilisce la differenza, ponendo inimicizia fra il serpente e la donna. E l’ultima parola rimane all’uomo: e alla vittoria della sua specie su quella del maligno. Così d’un sol tratto, Dio ripristina la differenza di sé e della sua immagine creata: rispetto alla fantasia del serpente a riguardo di entrambi. L’immagine di Dio rimane quella della dedizione. La natura dell’uomo quella della comunione. […] L’uomo può confondere Dio con il serpente, e cedere alla suggestione che lo inclina ad apprezzare l’invito all’incredulità come un atto di amicizia. Ma, anche quando ciò accade, Dio non confonde il serpente con l’uomo». Ecco il senso dei gesti di Dio riportati sul finale di Gn 3: l’inimicizia tra il serpente e la donna (la non confusione da parte di Dio del serpente con l’uomo), la fabbricazione delle tuniche di pelli per l’uomo e la donna (la dedizione di Dio per l’uomo), l’allontanamento dal giardino (la distanza tra Dio e l’immagine di lui che ne ha dato il serpente). Quanto ai dolori del parto, la fatica nel lavoro, ecc… sono «la percezione della incolmabile distanza che esiste fra la condizione limitata dell’uomo e la promessa iscritta nella creazione». L’uomo non è Dio! E tuttavia questo riconoscimento non è mortificante, ma vitale. L’uomo non è Dio, ma è uomo. E questa è la sua dignità. La sua personalissima destinazione!

2- Destinazione che può cogliere nella sua verità e trasparenza solo se colloca bene Dio: «è da ciò che l’uomo crede di Dio che dipendono il senso della vita e della morte sulla terra». Infatti l’uomo che dà credito all’ipotesi formulata dal serpente «impara la paura e coltiva l’istinto di proteggersi da Dio. […] La cosa non gli rende la vita più facile. Ma ogni volta gli offre anche pretesti per la propria voglia di prevaricazione». E non esiste peccato peggiore, dirà Gesù, chiamandolo il peccato contro lo Spirito santo; il peccato contro colui che conosce i segreti di Dio («Chi conosce i segreti dell'uomo se non lo spirito dell'uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio», 1Cor 2,11): infatti «chiunque insegna ai bambini a scandalizzarsi di Dio, farebbe meglio a legarsi una macina da mulino al collo e gettarsi in acqua. Il peccato contro lo Spirito, che impugna l’attendibilità del sentimento di Dio come padre, chiude ogni varco per la relazione che tiene in vita la speranza dell’uomo».

Ed ecco ritrovata la nostra Trinità, la verità dell’uno e trino Signore: la sua affidabilità, che sola abilita la nostra fraternità, perché solo una vita che non ha bisogno di salvarsi la pelle, può guardare all’altro non come ad un rivale, ma come ad un fratello!

lunedì 9 giugno 2014

Il respiro di Dio


“Mostrò loro le mani e il fianco... A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” (Gv 20,20.23). Sempre in Gesù il perdono è legato alle sue mani e al suo costato trafitto. Perché non c’è perdono senza croce. Non che la croce, il dolore, l’umiliazione, siano in sé qualcosa che possa cambiare la storia... o creare il perdono, la salvezza... anzi, semmai ispirano vendetta.

Gesù non ci salva perché è andato in croce, ma perché per la prima volta nella storia, un uomo che poteva sottrarsi alla morte, che poteva “vincere”, ha preferito perdere... ha rinunciato alla propria forza. Perché per farlo avrebbe dovuto usare i poteri che lo avevano crocifisso. L’agnello insomma avrebbe dovuto trasformarsi in lupo! Proprio quei poteri che noi stessi vorremmo avere, per far strage intorno a noi di ogni ingiustizia.
Invece Gesù ha rinunciato al proprio potere... ha dato spazio all’uomo anche se malvagio... pur di non sopprimerlo. Perché è meglio l’ingiustizia umana a una giustizia (foss’anche “divina”) che fa stragi intorno a sé!


È una verità per noi scomoda, ma se questo è il vangelo, e questo è il vangelo (un Dio che rinuncia ad agire “da dio”, ma vuole sempre tenere il legame che lo fa nostro fratello, amico, sposo, padre, madre...), ecco allora è necessario che questo modo di Dio di esser Dio, che non corrisponde alla nostra idea di Dio, diventi il nostro modo nuovo di essere uomini e donne... Uomini e donne nuovi, perché nuovo è il Dio che noi riconosciamo tale... E non abbiamo altro da testimoniare, se non questa impotenza dell’amore che si chiama perdono (e che non ha bisogno di convertire nessuno per manifestarsi tale)...

Ecco allora che non abbiamo altro da testimoniare se non la stessa testimonianza che ha dato Gesù Cristo. Per questo non si può dare questa testimonianza imitando come pappagalli Gesù. Gesù non si può imitare... a meno che Gesù stesso viva in noi e noi in lui... Ma allora non è più imitazione è comunione di vita...
Infatti, solo Gesù ha testimoniato e testimonia il Padre e solo Gesù può testimoniare lo Spirito d’amore che lo unisce al Padre. Per questo solo Gesù può testimoniare Gesù, ciò che Egli ha vissuto, vive... Nessun uomo può essere testimone di Gesù se lui stesso non ne dà testimonianza. Ecco la necessità che Gesù stesso dia testimonianza in noi del suo “amare ed essere amato”. Il dono dello Spirito è dono di questo Gesù. È il dono di ciò di cui Gesù vive!
Solo quest’Amore e nient’altro è in grado di testimoniare oggi ciò che lega il Padre e suo Figlio e i suoi figli.

Che altro c’è da testimoniare infatti se non quest’amore? Questo amore qui, che solo Gesù ha testimoniato: capace di lasciarsi trafiggere mani e costato, pur di rinunciare alla logica del potere che avrebbe potuto liberarlo. Non la croce quindi (anche se noi diciamo così per semplificare), ma il suo non scendere dalla croce, cambia le dinamiche violente della storia (“ci salva” noi diciamo sempre con troppa semplificazione).

Ecco allora che è strutturale al Vangelo il dono di questo Spirito d’amore che ci lega a Dio e che lega Dio a noi. Anche se malvagi. Ecco perché Gesù “sta soffiando” su di noi... Cioè ci immerge nel suo alito di vita.

Nel momento in cui Dio ha deciso di essere un Dio inaspettatamente umano, nella storia è entrato lo Spirito di Dio che questo processo ha voluto, guidato, realizzato.
E questo processo – presente fin dalla creazione (lo spirito che aleggia sulle acque) e manifestato negli ultimi giorni nell’annunciazione a una ragazzina laica mentre compie i suoi lavori domestici – non si interrompe con la morte di Gesù e col suo stare “alla destra del Padre” – questo ci dice la festa di Pentecoste – questo Spirito, come l’acqua impregna la spugna, permea la storia e il cuore di ogni uomo che si vuole assetato.

Il dono dello Spirito ci è dato, ci è consegnato, è l’aria in cui respiriamo e nessuno oramai può cacciarlo dalla storia, tocca a noi farci padroni del nostro destino lasciandoci immergere nella novità che solo la parola di Gesù, custodita attraverso gli apostoli, ci consegna. Ce la consegna, senza ritrarla mai più...
Non c’è nessun coraggio da avere qui, c’è da accettare la realtà che la novità di Gesù ha introdotto nella storia... c’è solo da dispiegare le ali e cominciare a volare o inevitabilmente precipitiamo.
Se quanto scritto vi convince, non possiamo non convenire sul fatto che una chiesa che pone dei limiti al proprio perdonare è una chiesa che ha deciso di scendere dalla croce di Cristo e di rifiutare lo Spirito, unico capace di testimoniare il Vangelo. Ed è ovvio che ciò che vale per la chiesa nel suo insieme, vale per ciascuno di noi!

martedì 3 giugno 2014

Pentecoste 2014

Dagli Atti degli Apostoli (At 2,1-11)
Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotàmia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».

 Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 12,3b-7.12-13)
Fratelli, nessuno può dire: «Gesù è Signore!», se non sotto l’azione dello Spirito Santo. Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune. Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito.

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 20,19-23)
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

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In questa domenica di Pentecoste (cinquantesimo giorno) i testi che la Chiesa ci propone nella liturgia fanno riferimento all’evento celebrato in questa festa: il dono dello Spirito santo.

Questi testi non vanno pensati come scritti “in presa diretta”, come se fossero un diario di bordo in cui gli apostoli riportavano i fatti contemporaneamente al loro accadere. Essi sono piuttosto il frutto di anni di riflessione che le prime comunità cristiane hanno messo in atto riguardo al “problema” della nuova situazione, creatasi dopo l’Ascensione di Gesù.

La questione era tenere insieme i dati complessi della realtà: da un lato il fatto che Gesù non fosse più presente in carne ed ossa e nemmeno nel modo post-pasquale delle apparizioni («egli fu assunto in cielo», At 1,2); dall’altro, il fatto che avesse promesso un secondo Consolatore («Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre», Gv 14,16) e che quindi non ci sarebbe stata una situazione di orfanità per l’uomo («Non vi lascerò orfani», Gv 14,18).

Ma come pensare questa nuova vicinanza segnata dai tratti della mancanza? Questa presenza immersa nell’assenza?

La svolta, narrata poi nei termini che conosciamo di «un vento che si abbatte impetuoso» e di «lingue come di fuoco» o nella forma giovannea di Gesù che «soffiò», è stata la graduale presa di coscienza della concretizzazione delle parole promettenti di Gesù: «Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire» (At 2,33).

È stata cioè la constatazione nella vita, nell’esperienza impastata di sangue e fango, di un’energia effettiva, da «vedere e udire»; è stato il ritrovarsi addosso questo Spirito e la sua potenza: «essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere d'esprimersi» (At 2,4), «Pietro, pieno di Spirito Santo, disse…» (At 4,8), «tutti furono pieni di Spirito Santo e annunziavano la parola di Dio con franchezza» (At 4,31), «Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà» (At 20,22); è stato lo scoprire che esso entrava in relazione potentemente col il loro nucleo più intimo, la sede delle loro decisioni: «Lo Spirito mi disse di andare con loro senza esitare» (At 11,12), «Essi dunque, inviati dallo Spirito Santo…» (At 13,4), «Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi…» (At 15,28), «avendo lo Spirito Santo vietato loro di predicare la parola nella provincia di Asia» (At 16,6); è stato infine, il percepire che questa era una forza dinamica, non statica, che circolava e si diffondeva: «non appena Paolo ebbe imposto loro le mani, scese su di loro lo Spirito Santo e parlavano in lingue e profetavano» (At 19,6).

È questa constatazione della presenza reale dello Spirito che abilita la riflessione dei primi cristiani e permette un suo disvelamento, una sua graduale conoscenza, una sua intelligenza e in questo modo anche un potersi rapportare ad esso.

Nel Nuovo Testamento sono tanti i modi in cui si parla dello Spirito, in cui si tenta di dirlo, o attraverso immagini, o proponendo i suoi effetti (per stare alla lettura di questa domenica: «Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue»), ma il modo che a me pare più chiaro è quello contenuto sempre nella 1 Lettera ai Corinzi, ma qualche capitolo prima, rispetto a quello della lettura proposta dal liturgista. In 1Cor 2,11 infatti Paolo dice: «Chi conosce i segreti dell'uomo se non lo spirito dell'uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio».

Mi pare una delle formulazioni più chiare perché accostando una realtà umana, una dinamica antropologica, a Dio, rende tutto immediatamente più comprensibile: come lo spirito dell’uomo (cioè il suo nucleo vitale, il suo essere di fronte a se stesso, la sua autocoscienza…) è l’unico a conoscerne l’intimità verace, l’interiorità autentica, così è lo Spirito di Dio per Dio; è l’intimo di Dio, la “pancia” di Dio… tant’è che per la teologia cattolica esso è identificato con l’amore che il Padre e il Figlio si scambiano e che in qualche modo trabocca e si dona all’uomo: «noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio» (At 2,12).

Ed esso è proprio quella realtà che i primi cristiani riscontravano presente!
Ecco dunque, man mano, come si è evoluta la riflessione sulla nuova situazione data dalla presenza di Dio nell’assenza di Gesù: il cielo squarciato non si è richiuso, l’uomo non è rimasto solo, il cuore di Dio non ha nuovamente nascosto i suoi segreti! Ma anzi nell’incontro tra Spirito di Dio e spirito dell’uomo è possibile proprio l’incontro tra l’intimità dell’uno e quella dell’altro, tra la loro verità, tra le loro libertà!

 Ma come sta insieme questa immersione (battesimo) del mondo nello spirito di Dio con quanto andavamo dicendo settimana scorsa sull’Ascensione: e cioè sul ritrarsi di Dio per far spazio alla creduta (da Dio) adultità della sua creatura?

Ebbene, io credo che quanto dicevamo settimana scorsa sia traducibile – in termini antico-filosofici – con le parole di san Tommaso: “Dio non agisce nelle cause seconde”. Quello è il regno dell’agire dell’uomo. Esiste davvero questo lasciar spazio, questo ritrarsi, questo non intervenire nella storia!

E contemporaneamente però Dio è accanto alla sua creatura, si confronta con lei, decide insieme a lei, collabora alla costruzione della sua identità – se la creatura può/vuole –, ma lo fa da Spirito a spirito: entrando a porte chiuse, nelle porte del cuore, ma non abbassando nessuna maniglia concreta che la sua creatura non decida di abbassare.

Questo è ciò che si intende per spiritualità del rapporto con Dio: niente di esoterico o “fantasmico”, quanto piuttosto questa fragilità della sua presenza, questa potenziale insignificanza del suo esserci, questa possibile trascurabilità del suo esistere.

Eppure, per chi decide di rivolgere il proprio spirito allo spirito di Dio, questa presenza/esserci/esistere diventano di un’incandescenza e di una vigorosità inaspettate, come quando entriamo in intimità con qualcuno che fa risuonare le corde più vere della nostra identità.

 E come si fa per “rivolgere il proprio spirito allo Spirito di Dio”?

Sentiamo di prassi di vario tipo: da rituali stanchi e ripetitivi che invocano la sua presenza (nella preghiera eucaristica avviene ben 2 volte, senza che noi ci prestiamo troppa attenzione) a rituali fantasmagorici e piuttosto pittoreschi…

La mia esperienza mi suggerisce invece che la spiritualità/fragilità della presenza di Dio nella storia, laicizzi molto le modalità di incontro con questo spirito di Dio, che passa dentro alle chiacchierate con un amico, alle lacrime di una sera in cui sei irrequieto, alla testa fra le mani chi ogni tanto ci ritroviamo, e chissà dentro a quanti altri interstizi della storia… segnata dalla sua presenza riconosciuta sempre dopo…

Tenendo ben presente quanto anticipato prima: che lo Spirito di Dio è l’amore del Padre per il Figlio e del Figlio per il Padre che trabocca e si riversa su ciascuno di noi: questo amore è ciò che fa da interlocutore al nostro spirito, questa permanente memoria che la nostra unica identità di fronte a Dio è quella di figli amati.

Per questo per chi può/vuole/riesce ad accoglierlo, lo spirito diventa incandescente e vigoroso.

Per questo per chi può/vuole/riesce ad accoglierlo, lo spirito diventa interlocutore con cui confrontare la vita, con cui decidersi, con cui costruire la nostra identità.

Per capire bene cosa questa modalità di incontro con lo spirito di Dio (fragile) e il contenuto della sua essenza (l’amore traboccante di Dio) vogliano dire nel nostro costruirci come uomini, pensate – all’inverso – a cosa vuol dire invece quando il confrontare la vita, il deciderci, il costruire la nostra identità, lo facciamo non con lui, ma con quegli altri “spiriti” che ci suggeriscono che presso Dio siamo inadeguati, peccatori, castigati… o elitariamente prediletti, migliori, separati rispetto al resto dell’umanità…
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