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venerdì 31 gennaio 2014

Presentazione del Signore


Dal libro del profeta Malachìa (Ml 3,1-4)

Così dice il Signore Dio: «Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire, dice il Signore degli eserciti. Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai. Siederà per fondere e purificare l’argento; purificherà i figli di Levi, li affinerà come oro e argento, perché possano offrire al Signore un’offerta secondo giustizia. Allora l’offerta di Giuda e di Gerusalemme sarà gradita al Signore come nei giorni antichi, come negli anni lontani».

 

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 2,14-18)

Poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per timore della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita. Egli infatti non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 2,22-40)

Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.

Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore.

Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele».

Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».

C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.

Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.

 

In questa Domenica di Presentazione del Signore vorrei soffermarmi sul Cantico di Simeone, noto anche come Nunc dimittis, dalle parole con cui questa preghiera inizia nella sua versione latina.

Prima di inoltrarci nella riflessione sul testo in sé, vorrei, però, inquadrare questa preghiera nel suo contesto evangelico.

Nei versetti 21-24 del capitolo 2 di Luca troviamo l’adempimento da parte di Maria e Giuseppe, di tre prescrizioni ebraiche legate alla nascita di un primogenito (maschio):

1- La circoncisione;     2- La purificazione della madre;     3- Il riscatto del fanciullo.

L’evangelista Luca, raccontando dell’osservanza di queste prescrizioni, vuole mostrare come Gesù «nato da donna, nato sotto la legge» (Gal 4,4), fin da subito sia inserito nella vita dell’ebreo osservante (per 4 volte nel testo viene ribadita l’osservanza della legge: vv. 22.23.24.27).

Inoltre la famiglia di Gesù – per l’assolvimento di tutte queste prescrizioni – paga la tassa dei poveri «una coppia di tortore o due giovani colombi», non quella dei benestanti (un agnello).

Gesù dunque nasce povero e sotto la legge.

Nei versetti 25-28 viene invece presentato colui al quale Luca metterà in bocca il Nunc Dimittis: Simeone.

Di lui si dice che era un uomo giusto, pio, aspettante la consolazione (= paràklesis, da cui la parola paraclito) di Israele.

“Aspettante” è un participio. Con questa forma verbale l’evangelista vuole dirci che l’atteggiamento dell’attesa per Simeone era una situazione costante, non momentanea.

Forse proprio questo verbo lo caratterizza più di tutti: Simeone potrebbe essere chiamato l’“aspettante”, colui che aspetta.

L’aspettante… Che cosa? La consolazione di Israele. Che è qualcosa che egli ha già come iscritto nell’identità: Simeone infatti è un nome che deriva dal verbo ebraico “ascoltare” (uno dei verbi più importanti per un Israelita – cfr. lo Shemà Israèl, Dt 6,4), cosicché il suo nome significa “Dio ha ascoltato”.

Infine di Simeone ci viene detto che «lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore».

Anche qui sarebbe interessante capire cosa la nostra mentalità ci dice su questo annuncio dello Spirito santo… quanto di magico e poco cristiano c’è nel nostro immaginario? Come lo Spirito santo può parlare ad un uomo?

Sono domande che lascio alla vostra riflessione, per stimolarvi a non accontentarvi di quanto l’immaginario, costruito quando avevamo 7 anni e andavamo a catechismo, ci suggerisce in prima battuta.

Anche perché – per esempio – il versetto successivo torna a parlare di questo Spirito santo dicendo: «Mosso dallo Spirito, [Simeone] si recò al tempio»… Peccato che quel “mosso” nel greco non c’è. Il testo originario suona così: «E [Simeone] venne nello Spirito al tempio».

Potremmo dunque dire che Simeone – l’aspettante – in questo suo aspettare è nello Spirito di Dio. È in sintonia con lui.

E infatti la sua attesa trova un compimento (proprio come il suo nome faceva presagire: Dio ha ascoltato): al tempio incontra Gesù (che ha 40 giorni) e i suoi genitori.

Cosa avrà visto in questo scricciolo di pelle umana lo sa solo lui… fatto sta che lo accolse fra le braccia e benedisse Dio:

«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele».

Il testo, nella nuova versione CEI del 2008, è un po’ diverso da come lo avevamo imparato a memoria, ma è più aderente al testo greco originario.

Solo qualche annotazione esegetica, prima di farne un discorso di senso:

-       Le parole di Simeone sono tratte dal libro di Isaia, che:

o   al cap. 52,10 diceva: «Il Signore ha snudato il suo santo braccio / davanti a tutte le nazioni; / tutti i confini della terra vedrannola salvezza del nostro Dio»;

o   al cap. 46,13: «Faccio avvicinare la mia giustizia: non è lontana; / la mia salvezza non tarderà. / Io porrò in Sion la salvezza, / a Israele darò la mia gloria»;

o   al cap. 49,6: «Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra».

-       A differenza di Isaia però i verbi del Nunc Dimittisnon sono più al futuro, ma al passato: si tratta cioè di un fatto compiuto: Simeone se ne può andare (da questa vita) in pace perché ha visto la salvezza del Signore;

-       Una salvezza che è luce non per illuminare le genti, ma per la rivelazione alle genti: cioè il senso di quel bambino è quello di una rivelazione, anzi della rivelazione: la rivelazione del volto di Dio. Gesù è venuto a farci vedere in faccia, la faccia di Dio (cfr. la traduzione letterale: «i miei occhi hanno visto la tua salvezza che hai preparato di fronte alla faccia di tutti i popoli»). Lo sottolineo perché la teologia preconciliare aveva la tendenza a presentare la venuta di Gesù con un carattere amartio-centrico (cioè con al centro il peccato): perché Gesù è venuto? Per salvare l’uomo, che aveva peccato. Si faceva cioè in qualche modo dipendere la venuta di Cristo dal peccato dell’uomo, che dunque risultava centrale (tant’è che poi i teologi erano in imbarazzo a rispondere alla domanda: “Ma se l’uomo non avesse peccato, allora Gesù non sarebbe venuto?”). Invece il Concilio Vaticano II raccogliendo tutti quegli studi sotterranei e spesso combattuti dalla gerarchia ecclesiastica che si erano svolti nella prima parte del Novecento, ribalta la prospettiva: la storia della salvezza non è amartio-centrica, ma cristo-centrica, perché – certo, Gesù è venuto a salvare il mondo – ma esattamente rivelando il vero volto del Padre. Ecco perché grande peso – fra tutti i documenti conciliari – ha proprio la Dei Verbum, dove con una sinteticità strepitosa si riesce a dire tutto questo ribaltamento teologico: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4). Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto. La profonda verità, poi, che questa Rivelazione manifesta su Dio e sulla salvezza degli uomini, risplende per noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione» [DV 2].

-       Una rivelazione che è per tutti i popoli: è cioè universale, non particolare. Ecco il vero senso di chiamare la Chiesa cattolica.

 

Tornando al Nunc Dimittis: tradizionalmente Simeone è stato pensato come un uomo anziano, che dopo aver aspettato per tutta la vita il compimento delle promesse di Israele con in cuore la rivelazione che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore, ora, finalmente se ne può andare in pace.

In realtà nel testo non è detto che Simeone era anziano (verrà detto di Anna, qualche versetto dopo, Lc 2,36), ma effettivamente il tenore delle sue parole e il riferimento alla morte, lasciano pensare che sia così.

Ad ogni modo è indubbio che il Nunc Dimittispossa essere definito come “La preghiera per la fine della vita”, dove l’orante, che proclamerà di aver incontrato nella sua vita la salvezza, chiede/afferma di essere lasciato andare, di poter andare in pace.
Sarebbe bello, per tutti, arrivare al momento della morte, e poter dire queste parole: non recitarle a vanvera, sperando che ci aprano il paradiso, ma – magari anche senza dirle né a parole né nella mente – farle trasudare dal nostro essere; arrivare cioè alla fine così, capaci di andarcene, perché in vita abbiamo riconosciuto una salvezza, un incontro, un po’ di bene, un po’ di pelle mischiata con qualcun altro, una lacrima asciugata, un po’ di passione, un po’ di calore…

mercoledì 22 gennaio 2014

III Domenica del Tempo Ordinario (A)


Dal libro del profeta Isaìa (Is 8,23b-9,3)

In passato il Signore umiliò la terra di Zàbulon e la terra di Nèftali, ma in futuro renderà gloriosa la via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti. Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete e come si esulta quando si divide la preda. Perché tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva, la sbarra sulle sue spalle, e il bastone del suo aguzzino, come nel giorno di Mádian.

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (1Cor 1,10-13.17)

Vi esorto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire. Infatti a vostro riguardo, fratelli, mi è stato segnalato dai familiari di Cloe che tra voi vi sono discordie. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: «Io sono di Paolo», «Io invece sono di Apollo», «Io invece di Cefa», «E io di Cristo». È forse diviso il Cristo? Paolo è stato forse crocifisso per voi? O siete stati battezzati nel nome di Paolo? Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo, non con sapienza di parola, perché non venga resa vana la croce di Cristo.

 

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 4,12-23)

Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaìa: «Terra di Zàbulon e terra di Nèftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta». Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino». Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono. Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo.

 

In questa Terza Domenica del Tempo Ordinario, il brano di vangelo che la Chiesa ci propone, tratto dal testo di Matteo, è quello dell’inizio concreto del ministero pubblico di Gesù. Dopo il vangelo dell’infanzia (Mt 1-2) e dopo il cosiddetto trittico sinottico (e cioè quei tre episodi che inaugurano la vita da adulto di Gesù in tutti i vangeli sinottici: predicazione di Giovanni Battista, Battesimo di Gesù, tentazioni nel deserto – Mt 3,1-4,11), eccoci infatti ai primi atti, alle prime parole e ai primi spostamenti di Gesù tra la gente.

È un’attività che viene collocata in un momento preciso, «Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato»; un momento che in qualche modo muove la coscienza di Gesù a prendere il posto che gli compete sulla scena (aveva detto infatti Giovanni: «Lui deve crescere; io, invece, diminuire», Gv 3,30), ad assumersi la responsabilità pubblica della sua identità e della sua missione.

Ecco quindi i primi movimenti («lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao») le prime parole dell’annuncio («Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino»), le prime chiamate (Pietro e Andrea; Giacomo e Giovanni), i primi gesti di liberazione dal male («Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo»)… quasi un concentrato sintetico di tutta la sua attività in Galilea: come un condensato che poi le pagine successive del vangelo srotoleranno, narrandoci gli episodi, gli incontri, i gesti, le parole… ma che già qui si propone nel suo sguardo d’insieme.

Ciò su cui però vorrei innanzitutto focalizzare la nostra attenzione, è la luce sotto cui l’evangelista pone la sintesi di tutta questa attività gesuana. All’inizio infatti Matteo – citando il profeta Isaia (precisamente il passo che la liturgia pone questa domenica come prima lettura) – mette come una chiave di lettura a tutto quanto sta per dire: «Terra di Zàbulon e terra di Nèftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta».

L’evangelista cioè, appena prima di iniziare a raccontare le vicende della vita di Gesù, ci dice già come guardare a quell’uomo di cui sta per raccontare la storia: è lui la luce (grande) che arriva per il popolo che abita nelle tenebre; è lui la luce per quelli che abitano in regione e ombra di morte!

E per comprendere bene questa “anticipazione del senso” che Matteo ci fornisce all’inizio, dobbiamo far riferimento soprattutto a due elementi: il primo è la questione del “genere letterario vangelo”; il secondo è il significato che quelle parole, messe come incipit, hanno per il lettore di oggi (e di sempre).

Innanzitutto la questione del genere letterario: mentre leggiamo il vangelo, non dobbiamo mai dimenticare che non siamo di fronte ad una biografia di Gesù. Cioè non siamo davanti alla cronaca della sua vita, al racconto “minuto per minuto” di tutto ciò che Gesù ha fatto e ha detto. Non siamo nemmeno di fronte ad una “presa diretta”. Non è che Matteo (o chi per lui) era lì col taccuino degli appunti a prendere nota (“in diretta” appunto) i vari atti di Gesù… appunti che poi risistemati avrebbero costituito il vangelo!

Siamo piuttosto di fronte alla ricostruzione teologica della vicenda di Gesù, quand’essa aveva già esaurito la sua parabola storica. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che chi scrive lo fa quando Gesù ha già vissuto tutta la sua vita, è già morto ed è già risorto; dunque a partire da un punto di vista che tiene in mano la totalità dell’esperienza storica di Gesù (e non mentre questa esperienza è ancora in divenire). In più dal punto di vista di chi, a partire dallo svolgersi completo di questa vicenda, ha già deciso di sbilanciarsi verso una fede/fiducia in essa: chi scrive, lo fa a partire dal riconoscimento che quella vicenda storica è la vicenda del Figlio di Dio, del Salvatore del mondo. E – proprio per questo – lo scopo di chi scrive è quello di portare altri al medesimo sbilanciamento.

Dentro questo quadro allora, forse, è più facile capire perché Matteo senta la necessità di porre già subito – in apertura del suo vangelo – un’indicazione riguardo allo sguardo da usare per leggere ciò che seguirà: perché la sua intenzione è quella di far sapere e convincere che la luce del mondo attesa dalle genti, loro l’hanno trovata, è quel Gesù di cui sta per raccontare la storia!

Il “come” Gesù sia questa luce grande lo si scoprirà strada facendo, leggendo tutto il prosieguo del vangelo, ma già adesso – ed è il secondo elemento che citavamo – è necessario dirne una parola…

Il problema è cioè chiarire fin da subito quali aspettative, quale senso, Matteo metta in campo di fronte al suo lettore: Cosa vuol dire quando esordisce dicendo «Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta» riferendo tutto ciò a Gesù?

Innanzitutto vediamo che senso avevano in origine quelle parole. Abbiamo già detto che sono una citazione del profeta Isaia. Il professor Patrizio Rota Scalabrini, la commenta così: «La struttura di questi versetti è abbastanza semplice: si presentano i giorni oscuri che si abbatteranno sulle tribù del Nord (Zabulon, Neftali, Galilea), che verosimilmente possono alludere alla seconda discesa di Tiglatpileser, che occupa i territori delle tribù del Nord. Successivamente si annuncia la salvezza che sarà basata sulla nascita (o intronizzazione?) di un Re liberatore, discendente della casa di Davide. In ogni caso ciò che è descritto è un momento in cui non c’è più speranza alcuna, né nella terra, né nell'autorità, né nella fede; ma ecco che la situazione si modifica radicalmente, proprio col tono esultante dei vv. 9,1-6 («Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce…»). Il brano esprime quindi la speranza di un superamento radicale di una tragica situazione, caratterizzata da guerra, oppressione e fame. Questa speranza è riposta in un personaggio storico e concreto, non in una figura mitica o escatologica. Si tratta, probabilmente di un erede al trono. Il contenuto di questa speranza è in parte politico, ma la contrapposizione di termini come “oscurità” e “luce-pace”, fa pensare a una modificazione più sostanziale della vita del popolo. Il mutamento riguarda innanzitutto chi è maggiormente nel buio e nella confusione: così i primi destinatari sono Zabulon e Neftali, le due tribù più settentrionali, più distanti dal centro, Gerusalemme, che è solitamente la beneficiaria delle promesse. In questo territorio passa la famosa “via maris”, la strada che in quei tempi collegava le due regioni più importanti della mezzaluna fertile: l’Egitto con la Mesopotamia e la Persia. Proprio per la presenza di questa strada le regioni del Nord ed in particolare la Galileaerano spesso oggetto di passaggio di eserciti, che vi compivano scorribande e saccheggi frequenti (come solitamente succedeva al passaggio di un esercito, anche non nemico). Era questo un distretto di periferia, nel quale vivevano numerosi gruppi di popolazioni non ebree; gli Ebrei stessi la chiamavano la “regione delle Genti”. Questa terra viveva pertanto nella confusione sociale, politica, militare e anche religiosa. La condizione difficile di tale regione è paragonata dal profeta ad una zona avvolta da tenebre perenni, e sottoposta a continua umiliazione. Ma l’arrivo del Signore, il compimento delle sue promesse attraverso la nascita (o intronizzazione) di quel misterioso personaggio regale, strapperà tale regione dalla tenebra, simbolo di caos e immagine di morte. L’intervento divino, reso manifesto dalla nascita del bambino regale, sarà come luce repentina, come l’inizio di una nuova creazione, come qualcosa di non spiegabile e di miracoloso. All’umiliazione subentrerà la gloria, alla tristezza una gioia piena e una letizia immensa. Tale gioia è espressa dal profeta attraverso l’immagine di un esercito vittorioso che si spartisce il bottino. Per una terra, oggetto di scorrerie e di prevaricazioni, l’annuncio di una vittoria con bottino costituisce la promessa di un radicale cambiamento. La terra del nord, terra di guerre e di sangue, diventerà terra di pace e di libertà. Nella “notte” di queste regioni lontane e apparentemente maledette, Dio interverrà, sconfiggendo il nemico: la sua vittoria non sarà su un popolo, contro un gruppo di uomini, ma su una condizione umana, contro una mancanza di senso e di gioia, nel superamento di un’umiliazione che rende buie tutte le giornate».

Dopo queste note esplicative, forse, è più chiaro anche il senso che Matteo vuole dare alla sua citazione: ai suoi lettori, di ieri e di oggi, infatti l’evangelista sta dicendo: “Guardate che è arrivato quello che ci può tirar fuori dalle tenebre e dall’ombra della morte. Se anche voi, se anche tu, ti senti come la terra di Zabulon e di Neftali (e chi non si sente come la terra di Zabulon e di Neftali? Chi non si sente campo di battaglia? ‘Botte vuota in cui si sciacqua la storia del mondo’ [Etty Hillesum]? Chi di fronte a un mondo che pare andare a rotoli (quello grande, di tutti; ma anche quello piccolo, nostro) – a volte – non pensa che non ci sia più speranza alcuna? Chi non si sente nel buio e nella confusione? Lontano dai beneficiari della promessa, che son sempre gli altri? Chi non si sente in tenebre perenni, sottoposto a continua umiliazione – foss’anche solo per il fatto che prima o poi lui e i suoi cari dovranno morire?)… bene, se anche tu ti senti come la terra di Zabulon e di Neftali guarda che – sembra dire Matteo – io ho trovato uno che illumina tutto! Io ho trovato uno che fa nuove tutte le cose, che ri-crea l’uomo («Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo»), che riempie il cuore di gioia e di letizia immensa, che trasforma terra di guerre e sangue (come è la nostra interiorità) in terra di pace e di libertà! Vuoi andargli dietro?”.

È la domanda che Matteo – tranchant – mette lì all’inizio. È la domanda che la Chiesa – all’inizio di un nuovo anno liturgico – ripropone a tutti i discepoli del Signore… è la domanda a cui noi – terre di Zabulon e Neftali – siamo chiamati a rispondere, sapendo che «ogni suo seguace diventa discepolo quando sperimenta di essere a sua volta pescatore dei suoi fratelli: testimone della gioia dello spirito quando qualche piccolo, malato, ferito, soggiogato dalla paura, è preservato dal male, davanti ai nostri occhi, perché questa è la forza propulsiva, umile ma incoercibile, del minuscolo seme di amore che il Padre in Gesù ha seminato nel mondo…» [Giuliano]. Questa è la luce che Lui ha fatto sorgere.

mercoledì 15 gennaio 2014

II Domenica del Tempo Ordinario (A)


Dal libro del profeta Isaìa (Is 49,3.5-6)

Il Signore mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria». Ora ha parlato il Signore, che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele – poiché ero stato onorato dal Signore e Dio era stato la mia forza – e ha detto: «È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra».

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (1Cor 1,1-3)

Paolo, chiamato a essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Sòstene, alla Chiesa di Dio che è a Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata, insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro: grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 1,29-34)

In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele». Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».

 

Dopo i tempi forti dell’Avvento e del Natale, che hanno inaugurato questo nuovo anno liturgico all’insegna della lettura e dell’approfondimento del vangelo di Matteo, domenica incomincia il Tempo Ordinario… Così – dopo aver pensato e celebrato il mistero dell’avvento dell’incarnazione e i momenti iniziali della drammatica storica del Figlio di Dio, nonché Figlio dell’Uomo – oggi iniziamo ad inoltrarci nel racconto della cosiddetta “vita pubblica” di Gesù, dunque nel mistero della sua identità.

Già domenica scorsa con la festa del Battesimo del Signore, il nostro sguardo si era staccato da Gesù fanciullo, per concentrarsi su Gesù trentenne, precisamente nel momento inaugurale del suo ministero pubblico, cioè l’incontro al Giordano con Giovanni Battista. Oggi – nuovamente – ci è riproposta la stessa scena, stavolta però secondo il racconto dell’evangelista Giovanni; una scena che dunque mostra tutta la sua rilevanza e che, proprio per la sua funzione logica di “gancio” tra i primi trent’anni della vita di Gesù (quelli da “sconosciuto” a Nazareth) e gli anni della manifestazione pubblica della sua identità/missione, chiude il Tempo di Natale e apre quello Ordinario, invitandoci ad una raddoppiata riflessione.

Fortunatamente l’evangelista Matteo e l’evangelista Giovanni – pur facendo riferimento al medesimo episodio della vita di Gesù – ne parlano a partire da punti di vista teologico-narrativi diversi, permettendo così anche a noi – cambiando punto di osservazione – di intercettare una nuova luce che illumina quel volto che entrambi vogliono tratteggiare.

Innanzitutto, va detto che l’evangelista Giovanni – a differenza di Matteo e Luca – non ha i vangeli dell’infanzia, per cui questo nostro brano, ha sì qualcosa che lo precede (il prologo poetico: «In principio era il Verbo…»; e l’episodio in cui il Battista è interrogato dai sacerdoti e dai leviti riguardo alla sua identità: «Io non sono il Cristo», «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaia»), ma mai, prima d’ora, in questo Quarto Vangelo, Gesù era entrato sulla scena: è infatti precisamente nel nostro brano che egli fa la sua comparsa: «Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse…».

È come se – scenograficamente – l’occhio di bue per la prima volta si posasse su di lui… Eppure – nuovamente – senza che egli dica niente. Qualcun altro parla di lui: il Battista, appunto… Questo è il modo in cui l’evangelista Giovanni sceglie di presentare il suo protagonista: è Lui, è illuminato, ma – per ora – non si presenta da sé… altri dicono di lui… e sarà solo alla fine di tutta la narrazione evangelica, che il lettore/spettatore potrà dire chi è colui che viene introdotto in questo modo…

«Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele», «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».

… Una presentazione densissima… di questo personaggio/protagonista di cui Giovanni (evangelista) ci vuol raccontare la storia e che ha fatto entrare – illuminandolo – sulla scena…

Infatti di lui, la prima volta che i lettori/spettatori lo vedono viene detto che è l’agnello/servo di Dio, che toglie il peccato del mondo, che “era prima di me”, che lo Spirito è sceso e rimasto su di lui, che battezza/immerge nello Spirito Santo e che è Figlio di Dio!

Forse non subito cogliamo il senso di cosa vogliano dire questi titoli con cui viene indicato, forse non capiamo nemmeno fino in fondo il significato delle espressioni che si usano per indicare la sua identità/missione (e ci vorrà la lettura di tutto il vangelo per riempire queste parole del significato giusto – evangelico – che hanno e soprattutto per disinquinarle dai significati che abbiamo in testa noi… e poi tutta una vita per masticare, digerire e assimilare – almeno un po’ – l’identità/missione di questo agnello di Dio), ma, certo, già in prima battuta – anche senza capire tutto – di fronte ad una presentazione così c’è da rimanere spiazzati… Giovanni ottiene il suo scopo, affascinare e conquistare il lettore/spettatore… instillargli un’aspettativa promettente, che lo faccia decidere a mettersi in cammino dietro a quell’agnello di Dio, proprio come avverrà il giorno dopo per i discepoli di Giovanni (Battista): «Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: “Ecco l’agnello di Dio!”. E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù».

Così «il Vangelo ci aiuta a leggere in filigrana, sul percorso del Battista, le tappe di conversione di chiunque voglia accettare le sue indicazioni profetiche, per diventare o ridiventare discepolo di Gesù.

 

Ä  colui che viene dopo di te è più importante di te, anzi è l’unica cosa importante. Dunque colui che Giovanni (noi) andavamo cercando da una vita, non è “il mio compimento”. Noi, piuttosto, siamo il “suo” compimento! Perché era prima di noi e ci è passato avanti, perché viene dall’eternità del Padre… Se non s’illumina questo barlume, se non ti accorgi di questa stella nelle tenebre; se non ti morde dentro questo presagio che la tua ricerca e i tuoi affanni, la tua missione e le tue presunzioni, il compito o il senso su cui hai puntato la vita sono labili e transitori, e proprio perché impastati del tuo io, ti si sfaldano tra le mani, non si fa spazio dentro di te, per cercare davvero… E comunque non si può censurare troppo a lungo il senso di incompiutezza che ci cova dentro, per il troppo poco che siamo. Non si può far tacere la chiamata interiore ad una dislocazione da fare, che se non altro, diventa umiltà e implorazione. Perché è a questo livello che riconosciamo cosa voglia dire davvero il primo avviso pregiudiziale di Gesù : chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso…Giovanni l’ha fatto fino a scoprirvi il senso definitivo e compiuto della sua missione…

 

Ä  Egli deve crescere ed io diminuire” (3,30). Anche per noi… i passi fatti, le fatiche del cammino, le persone che ci accompagnano, le ideologie con cui abbiamo interpretato e razionalizzato il suo vangelo e le nostre scelte (e che comunque dovevamo fare: sono il nostro battesimo penitente!), indicano con la loro fragilità e ambiguità dov’è il futuro, a cosa ci preparavano, verso dove ci spingevano. E ormai hanno realizzato il loro compito, devono ritrarsi per lasciare posto all’incontro, diversissimo per ognuno dei discepoli, ma passaggio assolutamente necessario per uscire dall’adolescenza … vocazionale cristiana, e diventare umilmente “responsabili” della propria fede. Per incontrare così la domanda nuda che Gesù ci rivolge, quando siamo fermi su questa soglia, incerti sul passo decisivo per la nostra vita: Chi cercate? (38)

 

Ä  L'uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è lui che battezza in Spirito Santo. Questa era la promessa e garanzia che l’aveva sostenuto e aveva dato il respiro all’impegno di tutta la sua vita, la forza alla sua voce inascoltata nel deserto, il coraggio della verità pagata di persona, il senso al suo battesimo di penitenza… Colui che sembrava uno dei tanti devoti nella fila dei suoi battezzandi… era il vero Battezzatore e salvatore dell’umanità, smarrita e ferita come pecore senza pastore… Al principio ognuno, man mano che si immerge nelle funzioni, nelle scelte, negli impegni della sua vita cristiana e si spende nella faticosa ricerca di fedeltà e dedizione, crede di conoscere bene Colui per il quale ha dato la vita… Quanto più è grande la (piccola) dedizione di cui siamo capaci, e passano i giorni e gli anni, tanto più è la distanza che scopriamo da lui. Per questo l’insistenza accorata del Battista, diventa propria di chiunque ha provato a seguire Gesù, ed ha imparato a proprie spese a sottoscrivere, presto o tardi la sua dichiarazione perentoria: io non lo conoscevo!…

 

            Ecco l’agnello di Dio!

            Il giorno dopo, l’anno dopo, o il decennio dopo… arriva il momento che ti trovi seduto per terra come Pietro o Paolo, o smarrito nel viaggio come i due di Emmaus, in forme tanto diverse quanto le storie personali di ognuno. E allora scopri che la fede, così com’era, non ti serve più. Ma non per questo perdi lui: anzi rimane solo lui – e gli sparuti fratelli o sorelle che ti legano a lui! Rimangono questi segni o presagi profetici che Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli… che li ha spinti ad iniziare l’avventura con Gesù, andando a conoscerlo “a casa sua”. Dunque, a non sfuggire, a non cercare capri espiatori, ma ad assumere la propria vita, e a prendere atto di dover iniziare di nuovo…. A livello liturgico e teologico la consapevolezza di questa destinazione cristiana è collaudata nella chiesa. Ad ogni Eucaristia si rinnova sacramentalmente agli invitati alla cena pasquale l’indicazione del Battista "Ecco l'Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo". Gesù infatti non ha voluto salvarci con la parola, con i miracoli, con le grandi conversioni di popoli, ma con la sua fine innocente e mite sul Calvario, all’ora dell’immolazione degli agnelli pasquali… Dopo aver condiviso con i discepoli l’ultima cena e dopo aver “spiegato” tutto il suo amore ai loro cuori induriti, allora come oggi: li amò sino alla fine!» [Giuliano].

mercoledì 8 gennaio 2014

Battesimo del Signore


Dal libro del profeta Isaìa (Is 42,1-4.6-7)

Così dice il Signore: «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni. Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta; proclamerà il diritto con verità. Non verrà meno e non si abbatterà, finché non avrà stabilito il diritto sulla terra, e le isole attendono il suo insegnamento. Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e ti ho stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre».

 

Dagli Atti degli Apostoli (At 10,34-38)

In quei giorni, Pietro prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga. Questa è la Parola che egli ha inviato ai figli d’Israele, annunciando la pace per mezzo di Gesù Cristo: questi è il Signore di tutti. Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui».

 

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 3,13-17)

In quel tempo, Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui. Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?». Ma Gesù gli rispose: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia». Allora egli lo lasciò fare. Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dal cielo che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento».

 

Domenica – a conclusione del Tempo di Natale e come inaugurazione del Tempo Ordinario, nel quale saremo invitati a riflettere sulla vita pubblica di Gesù – la Chiesa celebra la festa del Battesimo del Signore.

Ritroviamo così Gesù, ormai trentenne, che come primo atto – dopo gli anni della sua infanzia e giovinezza (di cui sappiamo pochissimo) – va a farsi battezzare da Giovanni, il Precursore: figura sulla quale la liturgia ci ha già fatto riflettere durante l’Avvento, raccontandoci chi è quest’uomo («In quei giorni venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!”. […] Portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico »), quale ruolo ha nell’economia della salvezza («Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!») e qual è la sua teologia, cioè la sua visione su Dio, sull’uomo, sulla vita («Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione…»).

Da Giovanni, da questoGiovanni, dicevamo, Gesù va a farsi battezzare e dato che il vangelo è il racconto scritto della fede dei discepoli in Lui, e dato che siamo all’inizio del suo ministero pubblico, questo brano del battesimo rappresenta come la presentazione della sua storia… della storia di questo uomo, riconosciuto come il Messia, il Figlio di Dio.

Certo ci sono già stati due capitoli (il cosiddetto “vangelo dell’infanzia”) che hanno in qualche modo voluto fungere da prologo al racconto della vita di quest’uomo, ma qui siamo al racconto inaugurale degli anni decisivi della sua vita – quelli, appunto, che l’hanno svelato nella sua identità/missione.

E la prima cosa che emerge, all’interno di questo momento inaugurale, è la sua stranezza… Da un lato infatti abbiamo un momento epifanico molto significativo (i cieli che per Gesù si aprono, permettendogli di vedere lo Spirito Santo discendere su di lui, e dai quali gli giunge una voce che lo dichiara l’eletto) e, dall’altro, il fatto che tutto ciò avviene in una situazione davvero inusuale per un personaggio importante di cui si sta per raccontare la vita: è in fila coi peccatori, per ricevere un battesimo di conversione.

Una strana presentazione per colui del quale – scrivendo – si vuole testimoniare la messianicità… Ma come insegna la critica storico-letteraria, se un fatto così disomogeneo rispetto alla finalità dello scrivere (che è: convincere della propria fede), è comunque riportato, ciò vuol dire che era inevitabile farlo… come a dire… nessuno si sarebbe inventato questo episodio della vita di Gesù se non fosse realmente accaduto, perché a nessuno – nel momento in cui veniva tracciato l’itinerario per la fede in Lui – sarebbe venuto in mente di scrivere qualcosa che potesse metterne in discussione la messianicità (Come fa a essere il Messia se si mette in fila coi peccatori? Come può pretendere di essere colui che rimette i peccati del mondo, se lui per primo si fa battezzare per la conversione?).

Tutto questo per dire che ciò che è problematico non è il fatto, ritenuto autentico da tutta la critica storico-letteraria, ma la sua interpretazione: cioè il problema diventa il rendere ragione di questa stranezza… Mitigata, certo, dallo Spirito Santo e dalla voce dal cielo… Ma… a ben guardare, fino a un certo punto, perché questa specie di “investitura dall’alto” poteva avvenire anche in un contesto diverso… Dopo un miracolo inaugurale, o dopo un discorso particolarmente significativo… Invece la teofania sta a commento del paradossale essersi messo in fila coi peccatori da parte del Messia…

Un problema che non va troppo in fretta superato con presupposti piani divini a noi sconosciuti (come pare fare in parte lo stesso Matteo quando – a differenza degli altri evangelisti – fa dire a Gesù «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia»; segno questo che anche per i primi cristiani il problema c’era ed era vissuto con una certa perplessità e fatica), ma che va “preso di petto”: Perché mai Gesù, come primo atto della sua vita da adulto va a mettersi in fila coi peccatori? E perché proprio in questo atto il cielo lo riconosce l’amato in cui ha posto il suo compiacimento? Al di là, infatti, di ogni nostro tentativo di girare e rigirare le cose, è proprio questo che il testo evangelico ci consegna…

Forse per provare a rispondere a queste domande, senza appiccicarci addosso risposte estemporanee, può essere utile chiederci perché tutto questo ci faccia così problema… o perché lo faceva ai primi cristiani… Dove sta l’anomalia che ci fa storcere il naso?

Beh… qualcosa l’abbiamo già accennato… Colui che si arrogherà il potere di perdonare i peccati (Mt 9,6) può lui stesso essere in fila coi peccatori? Colui che verrà creduto il Figlio di Dio, può essere lì, solo per farsi aiutare da Giovanni a capire la sua identità/missione? In altre parole: il Figlio di Dio, colui che pretende di salvarci perché anch’egli Dio, può essere veramente un uomo? Non deve avere qualche scarto incommensurabile, qualche cosa che lo preserva dal male, qualche prescienza che lo rende qualitativamente diverso da noi? Se è uno di noi può davvero salvarci?

Ecco il punto… Quello che precisamente pungeva la carne dei primi cristiani: intorno a loro tutti dicevano: era solo un uomo e dunque uno che non può salvare! Ecco il problema: se è Dio, ci salva; se è un uomo, no. Ma quello che noi abbiamo visto era solo un uomo…

Il problema radicale allora è quello – ancora una volta – dell’incarnazione, del modo di essere Dio di Gesù (e del modo di essere Dio del Padre), perché noi, non siamo mai persuasi fino in fondo che egli fosse pienamente uomo… Non ci va bene un Dio così, non ci convince… saremmo un po’ più tranquilli di un Dio che – dall’alto dei suoi cieli, dall’alto della sua separatezza, dall’alto della sua alterità – intervenisse (dal di fuori, appunto) con una sorta di “bacchetta magica” più o meno coreografica (a seconda dei gusti) per toglierci dai guai (terreni ed ultraterreni): il male subito, il male fatto, la morte, l’inferno…

Sarebbe anche tutto più facile da capire (e purtroppo tante volte la chiesa ha ceduto a questo desiderio di semplificare le cose per renderle comprensibili, perdendo però l’esplosività di ciò che annunciava: la sua disomogeneità, appunto; la sua impossibilità ad essere immediatamente compreso…)… Ma forse sarebbe più facile da capire, proprio perché “a misura di uomo”, perché riclassificabile all’interno delle nostre categorie di pensiero, perché più rassomigliante alle nostre aspettative… un Dio che in fin dei conti è un uomo plenipotenziario, un “Uomone”…

Invece, le disomogeneità di Gesù ci costringono a sbattere il muso contro le nostre ovvietà… e ancora una volta a dire: l’immagine di Dio che avevo in testa, non era Lui… ero io…

In questo senso, davvero Dio è totalmente altro dall’uomo, i suoi pensieri non sono i nostri pensieri…

Ma non perché è grandissimo, infinito, eterno, lontanissimo… e può fare tutto… soprattutto quello che noi non possiamo fare… sarebbe un “Uomone”… Ma perché nell’alterità del suo essere, si fa più intimo all’uomo dell’uomo stesso… che – a pensarci bene – è l’unica salvezza credibile!
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