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martedì 26 novembre 2013

I Domenica di Avvento


Dal libro del profeta Isaìa (Is 2,1-5)

Messaggio che Isaìa, figlio di Amoz, ricevette in visione su Giuda e su Gerusalemme. Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: «Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri». Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra. Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore.

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 13,11-14a)

Fratelli, questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo.

 

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 24,37-44)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

 

Domenica inizia un nuovo anno liturgico, l’anno A, al seguito del vangelo di Matteo. Con esso – si apre ovviamente anche un nuovo Avvento, una nuova attesa… l’attesa della celebrazione del Natale del Signore, certo, ma – in essa – anche l’attesa, sempre presente nella vita del credente, della venuta (quotidiana) del Figlio dell’uomo.

La sua attesa escatologica, infatti, e tutti gli “avventi” liturgici che la Chiesa inserisce nel suo calendario, non devono offuscare, ma anzi servono per tenere viva, l’attenzione al quotidiano essere presente del Signore nella nostra vita.

Ricordavamo infatti già qualche settimana fa, quando la Liturgia ci presentava un testo di Luca, simile a quello proposto per questa Prima Domenica di Avvento, come questi brani – cosiddetti “escatologici” – che paiono parlare del “futuro” (e che a noi a volte risultano enigmatici, per non dire spaventevoli per il linguaggio tipico con cui sono costruiti – che però, appunto, è solo un linguaggio…), in realtà abbiano di mira la rifocalizzazione dell’attenzione degli ascoltatori non sul futuro, bensì sul presente.

Scriveva p. Giuliano Bettati: «L'evangelista che tramanda le sue parole vuol rinsaldare lo spirito della comunità smarrita dalla necessità di gestire il quotidiano, con tutte le sue sollecitudini e dispersioni, infiacchita dalla delusione per la mancata realizzazione delle promesse… Se guardiamo all'orizzonte complessivo della storia e della vita della Chiesa, o allo spazio più ristretto della nostra vita personale, comunitaria, famigliare e personale, la parola di Gesù rompe i nostri schemi limitati, ci invita a guardare ad un futuro che trasforma in attenzione vigile ed affettuosa il presente: "così sarà la venuta del Figlio dell'uomo". Nella semplicità talora monotona o banale della nostra quotidianità, sta in realtà irrompendo il ladro, nell’ora e nei modi che non pensiamo».

La questione centrale – allora – delle letture odierne (le quali – ciascuno a suo modo – si concentrano sulla venuta del Signore), è proprio quella della decisività dell’oggi…

Il poema di Isaia, per esempio, non è una banale previsione del futuro, bensì una lettura teologica della storia (possibile oggi!): quest’ultima ha il suo senso, il suo polo attrattivo nella parola del Signore (intesa in senso forte, non come un insieme di precetti, ma come la volontà del Signore, il suo sguardo benevolo sull’umanità) che attira tutti a sé («Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore»). Una Parola – e dunque una storia – che ha come fulcro la nobilitazione dell’uomo, la sua piena umanizzazione (nell’aldiqua!). Isaia infatti parla di uno scenario di pace, cioè della fattiva trasformazione di ciò che insegna la logica umana (la guerra, la morte) in Vita («Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra. Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore»). Che è la medesima dinamica messa in campo da Paolo, che, parlando ai Romani, dice: «Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce»!

Una dinamica che – con l’avvento di Cristo – non può che ritradurre la profezia di Isaia in termini cristici: per cui, per Paolo, la scoperta che il senso della storia è la vita e non la morte (anzi la trasformazione della morte in vita), coincide con il fatto che il senso della storia è Gesù. È lui la Vita annunciata dai profeti. È quella vita lì che ha vissuto lui, quel suo modo di stare nel mondo, di passare per le strade, di fermarsi di fronte alle facce degli uomini e delle donne, di amare teneramente e tenacemente, di morire affidando e affidandosi, di offrire il suo corpo e il suo sangue… è quel suo modo lì di essere uomo e di essere Dio, la Vita per l’umanità tutta e in essa per ciascun uomo!

Ecco perché Paolo non può che dire: «Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo»! “Rivestirsi”, “con-morire”, “conformarsi”, “partecipare”… sono tutte categorie che l’Apostolo mette in campo per portare avanti quella che secondo lui è la verità della storia: è nell’intrecciare la propria libertà (il nostro esser-ci) con quella di Gesù, che il nostro esistere diventa Vivere e le nostre morti, Vita!

In questo senso – come accennavamo – va letto anche il vangelo, dove al centro sta la sottolineatura dell’urgenza e della radicalità del porsi nella Vita (o meglio nel lasciarsi porre in essa).

Non è una questione morale, non si tratta di un’etica da rispettare, di un codice deontologico da seguire: in gioco c’è tutto quello che siamo, l’opzione fondamentale della nostra vita, l’orizzonte di senso che ci orienta… è una scelta di campo: o la vita, l’amore, la donazione, la tenerezza… o la morte, l’odio, la sopraffazione, la violenza… una scelta di campo che ogni istante della vita ci si pone davanti… il solo già esser-ci, esistere, implica inevitabilmente e continuamente un decidere chi essere (oggi, ora, adesso…)! La questione è dunque chi sono io, chi voglio essere… Chi sono / chi voglio essere alla luce del fatto che tutta la storia della salvezza, attraverso le sue Scritture, riecheggia la testimonianza che c’è la possibilità della Vita, di una vita buona, bella, piena (perché donata)…? Chi sono io di fronte al fatto che questa è la buona notizia della storia? (nella consapevolezza che ciò che sono, ciò che scelgo di essere lo costruisco in tutta una vita… vivendola, giocandomi nella praxis, non nei buoni propositi)… Chi decido di essere oggi, considerando che ciò su cui, alla fine, misureremo la consistenza della nostra vita, sarà l’amore?

Questo è il centro delle letture odierne, questo il punto focale che la Chiesa decide di mettere all’inizio dell’anno liturgico… La custodia del fatto che per la Vita (che è l’equivalente che dire “per Gesù”) ci si decide oggi… Non è questione di ritagli di tempo, di atti religiosi, di celebrazioni liturgiche… siamo proprio su un altro piano… è la determinazione più profonda del proprio essere… per il vangelo (per la consegna di sé per amore di tutti)… o per qualcos’altro… che – proprio perché determinazione profonda di sé, cioè costituzione del nostro io più vero e intimo e denudato – non può che darsi/farsi/mostrarsi ad ogni istante, ad ogni respiro… come se – tendenzialmente – il nostro vivere e il nostro vivere di Cristo, si sovrapponessero… «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»… un Cristo che – non a caso – non ha vissuto atti sporadici di consegna… ma ha incarnato (ogni attimo) la logica della consegna, che – proprio perché ne era impregnato – gli ha poi permesso di vivere anche momenti puntuali di consegna… fin sulla croce, come abbiamo visto settimana scorsa.

Ecco questo è il punto di non ritorno che la liturgia pone lì subito in partenza d’anno… Perché non si travisi di che cosa si tratta!

 

 

 

Il mio Canto per Oggi

        1  La mia vita è un sol attimo, un'ora di passaggio.

La mia vita è solo un giorno che svanisce e fugge.

O mio Dio, tu sai che per amarti sulla terra

non ho che l'oggi!

        2  Oh, t'amo, Gesù! L'anima mia a te anela.

Resta per un sol giorno il dolce mio sostegno.

Vieni a regnare nel mio cuore, dammi il tuo sorriso,

        3  Che m'importa, Signore, se oscuro è l'avvenire?

Io pregarti per il domani, oh, no, non posso!

Puro conserva il cuor mio, con la tua ombra coprimi, Sal 118,80

solo per oggi. Sal 90,4

        4  Se penso a domani, io la mia incostanza temo,

e in cuore tristezza e affanno nascere mi sento.

Ma la prova e la sofferenza voglio, Dio mio,

solo per oggi.

        5  Io presto devo vederti sulla riva eterna,

o Pilota Divino che mi porgi la mano.

Sui flutti in tempesta guida la mia nave in pace,

solo per oggi.

        6  Lascia che nel tuo Volto, Signor, io mi nasconda. Sal 30,21

Là non udrò più del mondo ogni rumore.

Dammi il tuo Amore, la tua grazia serbami,

solo per oggi.

        7  Io tutto dimentico presso il tuo Divin Cuore,

e le paure della notte non temo affatto. Sal 90,5

Ah, Gesù, un posto nel tuo Cuore a me concedi,

solo per oggi.

        8  Pane vivo, pane del Ciel, divina Eucarestia, Gv 6,33.48.59

o Sacro Mistero che l'Amore ci ha donato!

Vieni, Gesù, Ostia Bianca, ad abitarmi il cuore,

solo per oggi.

        9  Degnati, Vite Santa e Sacra, che a te m'unisca Gv 15,5

ed il mio fragile tralcio ti darà il suo frutto:

un grappolo dorato potrò, Signore, offrirti

già da quest'oggi.

      10  Ho solo questo giorno fugace per formarti

il grappolo d'amore dove ogni chicco è un'anima.

Dammi, Gesù, il fuoco d'un Apostolo,

solo per oggi.

      11  O Immacolata Vergine, sei la Dolce Stella

che mi dona Gesù e a Lui mi unisce sempre.

Che io riposi sotto il velo tuo, o Madre cara,

solo per oggi.

      12  Sant'Angelo Custode, tu con l'ala coprimi;

con la tua luce il cammino che seguo illumina.

Vieni a guidarmi e i passi aiutami, ti prego,

solo per oggi.

      13  Senza veli o nubi vederti voglio, Signore,

ma ancora esule languisco da te lontana.

Non mi sia nascosto il tuo viso amabile, Is 53,3

solo per oggi.

       14  A dire le tue lodi volerò io presto.

Quando il giorno senza fine per me scenderà,

allor sulla lira degli Angeli io canterò

l'Oggi Eterno!

[Teresa di Gesù bambino]

martedì 19 novembre 2013

Nostro Signore Gesù Cristo re dell'universo


Dal secondo libro di Samuèle (2Sam 5,1-3)

In quei giorni, vennero tutte le tribù d’Israele da Davide a Ebron, e gli dissero: «Ecco noi siamo tue ossa e tua carne. Già prima, quando regnava Saul su di noi, tu conducevi e riconducevi Israele. Il Signore ti ha detto: “Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo d’Israele”». Vennero dunque tutti gli anziani d’Israele dal re a Ebron, il re Davide concluse con loro un’alleanza a Ebron davanti al Signore ed essi unsero Davide re d’Israele.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossési (Col 1,12-20)

Fratelli, ringraziate con gioia il Padre che vi ha resi capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore, per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati. Egli è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potenze. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono. Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose. È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli.

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 23,35-43)

In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei». Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».

Siamo giunti alla fine di un altro anno liturgico… Domenica, Trentaquattresima del Tempo Ordinario (C), si celebra infatti, la festa di Cristo Re dell’universo, che chiude “in gloria” il percorso fatto quest’anno attraverso la lettura del vangelo di Luca… Metto “in gloria” tra virgolette, perché – come mostra il vangelo scelto dal liturgista (Lc 23,35-43) – non si tratta di «una verità da sbandierare contro i miscredenti, come forse si tentava un tempo con la proclamazione di questa festa di Gesù Re dell’universo! È piuttosto da custodire in cuore e confidare come un segreto “arcano” (esplosivo e tossico!) perché ogni approccio culturale, religioso, amicale con qualunque compagno di strada sarebbe incrinato, se cominciassimo buttandogli in faccia… che questo crocifisso, appeso 2000 anni fa tra due ladroni, con unica distinzione un cartello ambiguo, con scritto su “re dei giudei” – proprio questo, è “il vangelo”: cioè la bella notizia essenziale della nostra fede, su cui noi fondiamo non solo la vita, ma la speranza di salvezza del mondo. Perché dopo tre giorni è risorto.

Se ormai l’usura della consuetudine non avesse svuotato le parole, ci risponderebbero come a Paolo: Su questo ti ascolteremo un’altra volta! E invece, questa è la sintesi di tutto il ciclo liturgico, perché il resto di cui possiamo agevolmente parlare con tutti, è contorno, tutto il resto è mediazione culturale su cui ricercare continuamente ulteriori approfondimenti e ogni possibile convergenza, se non mette in discussione o cerca di censurare questo dato fondante, che il nostro Dio è passato attraverso questo annichilimento» [Giuliano].

Dunque, certo, finiamo “in gloria” con una festa piuttosto altisonante (almeno nel titolo), eppure radicalmente impastata col mistero della croce… Ancora una volta infatti, parlando di Gesù e della sua esperienza umana, non si può sfuggire il dato che, in Lui, coppie di termini contrastanti (gloria / umiltà; grandezza / piccolezza; regalità / croce; divinità / umanità; cielo / terra…), diventano coppie di termini indisgiungibili e che solo in una continua circolarità dei significati, riescono a far intravvedere il mistero di Gesù: perché è vero che è un Dio di gloria, ma non della gloria che è tale perché supera o annulla la piccolezza… ma glorioso proprio perché capace di riempire, valorizzare, rinfrancare le cose piccole… Grande, certo, ma nell’amore, che è la forma più radicale di piccolezza; re, indubbiamente, ma di un regno le cui schiere sono formate da tutti gli incompiuti della storia (ciechi, storpi, prostitute, peccatori…)… Non so come dire, ma… bisogna davvero fare la fatica di uscire da un certo immaginario comune e ricostruire i riferimenti / significati delle parole che ascoltiamo, a partire dal senso di cui la storia di Gesù li ha riempiti… Per esempio… parlare di “gloria” non può ancora oggi farci venire in mente gli angeli, o l’incedere di Gesù trionfante, o la sua ascesa al cielo con schiere di cori angelici che lo accolgono… Questo è un immaginario, non più capace di rendere la realtà del dato evangelico… La “gloria” di Gesù credo sia colta meglio, nella sua sostanza più vera, per esempio da sant’Ireneo, quando dice “La gloria di Dio è l’uomo che vive”, o da san Francesco, che chiama perfetta letizia, la capacità di custodire il cuore dolce pur nelle avversità immeritate… Questa è la gloria di Gesù Cristo: che è passato attraverso questa storia senza mai permettere al male di inquinargli il desiderio di amare gli altri, chiunque altro… e di attuarlo per davvero… La sua gloria è la consegna di sé sulla croce per tutti gli altri… Ecco perché Matteo può dire che il Regno di Dio sono gambe storte che si raddrizzano, occhi ciechi che ci vedono, cuori tristi che si ridestano («Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo», Mt 11,4-5), perché questa è la regalità di Gesù… che nessuno dei suoi (cioè ogni uomo) vada perso… Non a caso reinventa anche il modo per dire “divinità”, che da Lui in avanti infatti si chiama (solo!) “paternità”…

Ancora una volta allora, alla fine di un anno liturgico in cui forse ci sentiamo ormai esperti, il problema è rimettersi !con giù il crapone” a spaccarsi la testa sull’identità del Dio in cui crediamo, e sulla quale non finiremo mai di convertirci… Dunque in qualche modo… ripartire da capo… anche se ogni ripartenza non è mai dal punto zero, perché contiene in sé ciò che nella storia si è sedimentato (ecco perché con domenica prossima ricomincia un altro avvento, un’altra attesa!)…

Ritorniamo dunque a spaccarci la testa sul vangelo… che questa domenica ci mostra una scena di Gesù in croce… scelta – dicevamo – proprio per il giorno in cui si celebra la regalità di Cristo sull’universo…

È una scelta curiosa… che forse noi non avremmo fatto… e che – proprio per questo – deve interrogarci… Cosa vorrà dire questa cosa? Non è che – forse – ci poniamo questa domanda (e non intuiamo in maniera istintiva la risposta) perché ancora una volta siamo caduti nell’errore di pensare al Signore non a partire dalla sua croce (che di fatti pensiamo sempre come un’appendice della sua vita… perché tanto poi è risorto), ma a partire dall’idea di gloria, regalità e potenza che abbiamo in testa noi? Quelle che continuamente ci vengono riproposte dalla logica mondana in cui siamo immersi?

Ma la croce molto più che un episodio della vita di Gesù, è stato piuttosto l’orizzonte di senso della sua vita, il punto prospettico da cui lui si è sempre guardato… Non a caso Gesù non incorre nella croce incidentalmente o per sfortuna… ma perché si consegna… E precisamente questa logica (la consegna come forma mentis) è ciò che lo identifica nella maniera più peculiare: Gesù è (sempre – in ogni atto del suo esistere) colui che si dona per amore… Tutto quello che fa, lo fa così… a partire da quella logica lì…

Ecco perché diventa ancora più pressante – alla fine del percorso liturgico e celebrando la regalità del Signore sull’universo – chiedersi se davvero in questo anno ci siamo convertiti al Dio di Gesù o se siamo ancora inchiodati all’immagine di Lui che abbiamo in testa noi… la cui regalità sull’universo – forse – fa bene a essere temuta da chi ha smesso di credere…

A proposito, scrive Raniero La Valle nel suo libro Prima che l’amore finisca. Testimoni per un’altra Storia possibile, parlando di Carlo Carretto: «A mio parere egli ha posto con radicalità, nel cuore della società contemporanea e secolare, la questione di Dio, e più precisamente la questione: quale Dio. […] È su questo problema che si è costituita storicamente la società moderna, laica e secolare. La laicità non si è costituita sulla tesi Non est deus, Dio non c’è, ma sull’ipotesi Etsi Deus non daretur, anche se Dio non ci fosse. […] E se la società moderna ha deciso di costruirsi come se Dio non ci fosse, l’ha fatto perché quello che le veniva offerto all’atto del suo sorgere era un Dio che non poteva più servire a fondare la sua unità e ad accogliere e accompagnare la sua crescita umana, la scoperta della sua ragione e le attuazioni della sua intraprendenza, ma anzi le era di ostacolo e di divisione. […] Un Dio – e da lui una Chiesa – non più capace di universalità, non capace di aprirsi all’accoglienza magnanima del nuovo che germinava nella storia». Ma chi era questo Dio espulso? Prosegue La Valle: «Era il Dio della guerra, il Dio che rendeva l’uno all’altro nemico, il Dio che veniva dall’alto, il Dio della trascendenza del potere, il Dio che fonda il trono dei potenti e sequestra i tesori dei deboli; era il Dio di cui la cultura moderna dirà che è la proiezione dei sogni di onnipotenza dell’uomo, e della cui trascendenza non un ateo, ma Dietrich Bonhoeffer dirà che non è vera, autentica esperienza di Dio, ma un “pezzo di mondo prolungato”».

È questo il Dio che arriva anche a Carlo Carretto e a tutti i cristiani prima del Concilio Vaticano II: «è ancora il Dio della guerra, il Dio delle leggi assolute, il Dio che allarga le braccia ma non fino ad abbracciare il nemico, non fino ad essere annunziato e riconosciuto come il Dio della misericordia e del perdono. Un Dio nel quale non c’è speranza. E qual era quel Dio, tale era la Chiesa». In proposito in una sua lettera a Wojtyla, Carretto scriverà, ricordando il preconcilio: «Io 40 anni fa, figlio del mio tempo e degli errori del preconcilio, mi sentivo nella Chiesa come arroccato in una fortezza da difendere contro i nemici che mi circondavano da ogni parte; io vedevo la Chiesa come separata dal mondo, come un esercito perennemente lanciato in crociate, come un partito che doveva diventare più forte e schiacciare il nemico. Nemici, nemici, sempre nemici. Ecco il mio apostolato di quel tempo».

Ma allora, com’è possibile rintracciare il vero volto di Dio? «Carretto, attraverso la sua esperienza, arriva a porre la stessa domanda. Chiedersi “quale Dio” non significa cadere nel soggettivismo, negare l’oggettività di Dio. Dio non si esaurisce in una sola immagine, egli non è dato, totalmente dato, deve essere cercato. La stessa Bibbia è percorsa da diverse percezioni di Dio, e non tutte valgono allo stesso modo; ma l’una va presa e l’altra lasciata, man mano che Dio si fa più manifesto e man mano che cresce l’esperienza spirituale dei credenti. È per questo del resto che si parla di un “Dio di Gesù Cristo”».

Ecco perché – forse – alla fine dell’anno liturgico, la Chiesa ci propone proprio il vangelo di Luca che parla di Gesù in croce… Perché lì, in maniera inequivocabile, è posta l’icona più chiara di chi sia il Dio di Gesù e in che senso Egli sia il re dell’universo… Ma è un Dio che ci lascia in silenzio, che non ci abilita a facili proclami, che neanche ci entusiasma più di tanto… perché è il Dio che ci invita a fare della sua logica di consegna, il nostro modo di stare al mondo… che – lo sappiamo fin troppo bene, per questo lo rifuggiamo – è un modo che proprio perché si consegna, è per definizione perdente, è di sua natura votato alla morte (o meglio: a dare la vita per…).

In questo senso è illuminante il ruolo dei due ladroni. Infatti «di fronte alla croce si aprono per tutti le due strade, le due alternative che ci sono dentro ogni uomo. I due delinquenti ci raffigurano tutti, e ci fanno rivivere il dilemma della fede che tutta la vita ci tormenta, di fronte a Gesù. Una voce dentro di noi, che grida nella disperazione (quante volte!) «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!» [logica della pretesa]. Mentre l’agonia profetica dell’altro delinquente, stranamente trasformato dalla dignità sovrumana di Gesù e fiducioso di poter essere accolto da lui, geme pure dentro di noi: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» [logica della consegna].

Non esiste un potere che non versi il sangue dei suoi soggetti, per mantenersi, perché sarebbe subito perdente! Il potere (allora dicevano ‘la regalità’!) è omicida per costituzione intrinseca. L’unica regalità che quando si afferma fa vincere il vinto è l’amore, ma deve essere appunto “più forte della morte”. Questo ha visto il ladrone in Gesù morente: questa testimonianza inerme l’ha vinto, lui che aveva fatto della violenza l’unica risorsa della vita» [Giuliano].
A ciascuno, come singolo, e a tutti, come Chiesa, alla fine dell’anno liturgico allora è come posta la domanda “Vuoi andare dietro ad un Dio così?”… Una domanda esistenziale, non intellettuale, perché l’arte della consegna la si impara vivendo una quotidianità di consegna, un continuo – momento dopo momento, scelta dopo scelta – rinnegare se stessi per fare un po’ di spazio a chiunque ne abbia bisogno…

lunedì 18 novembre 2013

Giù la maschera!

Disegno di San Giovanni della Croce
 
Le letture di oggi non sono di immediata comprensione perché presuppongono da parte nostra la conoscenza del contesto culturale giudaico che va dal II sec. a.C. alla prima metà del I sec. d.C. È in questo periodo che vive Gesù!
In che cosa consiste questo movimento culturale? Prendo un esempio dalla nostra vita. Ci sarà capitato di vivere e quindi sperimentare concretamente un fatto importante nella nostra vita… la morte di… la nascita di… un’esperienza bella di amicizia… una scelta di vita che ha cambiato il nostro modo di vivere e quindi di essere, grazie all’incontro con una persona! Ebbene il nostro giudizio sulla vita, sulla storia, sul mondo non può non essere influenzato da questa esperienza storica. Cioè questa esperienza diventa il punto da cui noi partiamo per guardare, giudicare, vivere la vita! Il punto in cui virtualmente mi situo per guardare, è il punto di prospettiva da cui parto per descrivere quel che accade nella mia vita e non solo nella mia! Tutto è sottoposto al giudizio dell’esperienza vissuta! E questo non può non influenzare persino il linguaggio con cui lo descrivo.
Ecco allora che l’esperienza di chi ha incontrato Gesù, la sua vita, la sua passione morte e resurrezione diventa il punto prospettico da cui giudicare la propria vita, il mondo, le relazioni umane, la politica, l’economia, la religione, la famiglia, la sessualità! Così gli apostoli e i discepoli. E così si spiegano il fatto che esistano i vangeli: sono la lettura del reale a partire da questo punto di vista particolare che è l’incontro con la persona di Gesù! Gesù stesso parla a partire dalla sua prospettiva di relazione col Padre! E il Padre? Dalla prospettiva della Croce del Figlio! Cfr l’immagine sopra, disegnata da san Giovanni della Croce – ripresa da Salvador Dalì - che mostra la visione della Croce dal punto prospettico del Padre: il Padre guarda il mondo a partire dal sacrificio innocente del figlio. Per questo il Padre “non può non perdonare”!

Tornando ai nostri brani, Israele è stato fortemente segnato dall’esperienza di liberazione di Yhwh! Un’esperienza di liberazione che implicava una promessa di liberazione totale e definitiva (non avrebbe senso una liberazione… part-time: sarebbe una beffa!). E questa promessa è stata tenuta viva nella vita culturale del popolo attraverso la preghiera (salmi), l’azione dei profeti (profezia), il ricordo dell’azione di Dio nel passato (libri storici) all’inizio oralmente poi anche per iscritto. La bibbia è il libro che codifica questa promessa e tiene viva la speranza di una liberazione già presente ma che attende di essere finalmente compiuta (nel futuro).

Ma in un’epoca dove tutto è già stato raccontato, tutto è stato profetizzato, tutto è stato pregato… come faccio a tenere viva la speranza nel compimento? La speranza che non si tornerà in Egitto? Semplice: mostrandolo! Mostrando il compimento! E siccome non ci sono ancora nel futuro, che linguaggio uso, come ne parlo? Semplice: creo un linguaggio che attinge alle immagini del passato, degli avvenimenti passati in cui Dio ha mostrato la sua potenza di liberazione: Tutte le manifestazioni di Dio nella Scrittura sono accompagnate da segni cosmici (fuoco, vento, turbine, nubi), il Signore della Storia, incide realmente nella storia e in ciò che l’accoglie, il cosmo, il creato. Abbiamo così immagini di guerra (Mosè con le braccia alzate, Davide che stermina i nemici…), immagini di fuoco (Gomorra e Sodoma), immagini delle piaghe d’Egitto e dall’esperienza del Sinai (cavallette, acqua in sangue, cataclismi),… e nella Pentecoste (Atti). Immagini che ritroviamo alla morte di Gesù… Insomma la lotta contro i Faraoni della storia continua e questa lotta non potrà essere poi meno cruenta di quella fatta da Mosè con le 10 piaghe e di Gesù sulla Croce…

Questa prospettiva che si pone alla fine della storia per coglierne il compimento e il fine che si realizza nel presente è detto “escatologico” (fine) e il linguaggio che usa è detto “apocalittico”: perché ci svela il senso della lotta di oggi a partire dal suo fine: la liberazione/salvezza compiuta! Letteralmente ci “toglie il velo” che ci impedisce di vederlo.

Guai allora a prendere alla lettera il linguaggio della Bibbia e soprattutto delle letture di oggi! Esse non annunciano una cattiva notizia (per i Faraoni forse) ma semmai una bella notizia: la liberazione è vicina, le ferite personali e della storia che avvengono nella lotta della sua realizzazione non sono il senso della vita. Il senso della vita non sono né le ferite, né le piaghe… e nemmeno la camminata nel deserto… il senso della storia è la Terra Promessa (simbolo della liberazione compiuta) a cui siamo destinati e che proprio queste ferite, queste piaghe, questa arsura patita nel deserto stanno a significare! E paradossalmente anticipano, mostrano all’orizzonte! In sintesi il “no” testardo del Faraone e della storia, non può che scatenare il “sì”, molto più testardo, di Dio!

La difficoltà nostra a far calare tutto questo nella nostra vita concreta nasce anche dal fatto che noi poniamo una distanza tra gli avvenimenti biblici e la nostra storia, come se i fatti descritti dell’Esodo riguardassero gli ebrei, il passato, e non noi e il nostro presente, se non marginalmente! Infatti ci limitiamo a una lettura che resta chiusa in una visione che potremmo definire morale. Infatti leggiamo la storia biblica per cercare le figure negative e non fare come loro, e cercando i personaggi positivi e per fare come loro!

Ecco il primo insegnamento delle letture di oggi: passato, presente e futuro biblico riguardano la tua vita, il tuo passato, presente e futuro! Tu non sei estraneo al racconto, tu non sei fuori dal testo, ma sei colui che fa parte di quella storia sacra lì e la stai vivendo ora! Non a caso già nell’AT si parla di memoriale e noi cristiani l’abbiamo applicato alla nostra liturgia: passato presente e futuro nell’azione liturgica si fondono nell’adesso di cui tu fai parte!

Infatti mai un ebreo si sognerebbe di leggere quegli avvenimenti come se fossero passato, ma li legge come suo presente! E infatti a ben vedere quando noi diciamo che nella nostra storia continuiamo la storia sacra di Dio descritta nella bibbia, dovremmo riflettere che se aggiungiamo un pezzo a “quella” storia sacra è perché stiamo vivendola! Il “quella” diventa “questa” e viceversa.

Ci resta ora poco tempo per comprendere le letture, ma se imparassimo a leggere la bibbia così (e vediamo che non possiamo saltare l’AT per arrivare al vangelo: ci farebbe più male che bene, perché necessariamente lo traviseremmo!) sarebbe già un gran progresso che ci aprirebbe la strada a letture finalmente feconde nell’oggi della nostra vita!

Il vangelo di Lc usa meno il linguaggio apocalittico degli altri, perché non era compreso dalla cultura greca e ora capiamo anche il perché: Le immagini sono comprensibili dal mondo ebraico, perché attingono alla sua storia, sono incomprensibili per chi questa storia non l’ha conosciuta! Per questo Lc si limita a sottolineare lo scontro tra i popoli e la persecuzione dei discepoli, che diventa così una solenne testimonianza perché fondata sull’azione di Dio nella storia (“suggerirà le parole necessarie a tempo debito” (cf Lc 12,11-12). Così sottolinea maggiormente le false escatologie che seminano terrore (che abbiamo visto estraneo al dato biblico) annunciando una fine che non è per adesso. Il “terrore” infatti è lo strumento del potere che ha bisogno di diffondere il panico per poter meglio soggiogare le persone. Per questo il terrore è inconcepibile all’amore: i casi son due o ha ragione Giovanni quando dice che “Dio è amore” o hanno ragione i predicatori del “Dio sterminatore” perché le due cose non possono coesistere!

Prima del racconto della passione Lc si preoccupa di farci capire che la storia non termina con Gesù ma essa semmai è l’inizio del compimento della liberazione definitiva che si realizzerà con la seconda venuta di Cristo, quando costituirà il Regno definitivo di Dio.

Ciò che viene chiesto è la perseveranza, cioè la fedeltà disarmata (Agnello di Dio in mezzo ai lupi) e dinamica (fate come me) che alla fine supererà ogni difficoltà presente. La persecuzione diventa così la chiave di comprensione del mondo futuro perché vi sono uomini e donne che rischiano la vita per realizzare la giustizia di Dio, che non è altro che il suo lasciarsi trucidare nelle infinite croci che l’uomo gli inchioda addosso nei suoi figli! Perché alche il “malvagio” si converta all’amore!

In questo modo Luca ci invita a stabilire un rapporto tra la vita di Gesù e la nostra, tra resurrezione ed fine della storia perché la fine del mondo non è altro che la risurrezione di Gesù estesa all’universo intero (Teilhard de Chardin).

Di fronte alla magnificenza del tempio “splendente nel suo splendore di luce dorata” (c’era così tanto oro che quando viene distrutto il prezzo dell’oro nella regione crollò!); vera meraviglia del mondo (nella ricostruzione archeologica l’immensità della sua spianata poteva agevolmente ospitare le tre più grandi piramidi egizie!); capostipite estremo dei simboli del potere politico-religioso di sempre (pensate alla basilica di san Pietro), allo scopo di celebrare un potere provocando la sottomessa venerazione dei sudditi; Gesù dice: non fermatevi al significato immediato e più evidente. Ogni apparenza è un camuffamento della realtà. Lasciarsi ingannare dalla maestosità del tempio, vuol dire non saper cogliere la Presenza di Colui che abita «nel» tempio. Così lasciarsi ingannare dalla spettacolarità degli avvenimenti della storia (impressionante come spesso tutto si riduca a un “wow!”) impedisce di cogliere Chi della Storia è Signore!

Dio è presente e attivo nella storia non siamo abbandonati, semmai siamo noi che abbandoniamo lui (seconda lettura), aspettando che lui faccia il nostro lavoro! Per occuparci e preoccuparci di apparire, cioè occupati e preoccupati del niente! Mentre egli ci ha dato lo Spirito che ci mostra i segni del suo cammino con noi nei volti che ce ne hanno mostrato l’immagine come anteprima/caparra del Volto che contempleremo senza fine!

Guardiamo la Storia, viviamola con tutto l’impegno e l’interesse che merita, senza preoccuparci di cosa accadrà o non accadrà perché poi in fondo noi già lo sappiamo: ciò che accadrà, Gesù ce lo dice spesso, è inscritto nel nostro vivere quotidiano, basta saperlo leggere! E non fermarsi alla superficie.

martedì 12 novembre 2013

XXXIII Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Malachìa (Ml 3,19-20)

Ecco: sta per venire il giorno rovente come un forno. Allora tutti i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia; quel giorno, venendo, li brucerà – dice il Signore degli eserciti – fino a non lasciar loro né radice né germoglio. Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia.

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési (2Ts 3,7-12)

Fratelli, sapete in che modo dovete prenderci a modello: noi infatti non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darci a voi come modello da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità.

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 21,5-19)

In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine». Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».

Le letture che la Chiesa ci propone per questa Trentatreesima Domenica del Tempo Ordinario, hanno tutte come punto di riferimento il “giorno del Signore”, con la sua valenza escatologica come (la/il) fine della storia: il libro del profeta Malachia ci parla del «giorno rovente come un forno» che sta per venire; Paolo ai Tessalonicesi se la prende con coloro che a causa di questo giorno, in cui è atteso il ritorno del Signore, «vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione»; e Gesù stesso nel Vangelo di Luca riferisce di una «fine».

Essa, immediatamente, in noi fa risuonare note arcaiche, di paura e grandiosità, di terrore e fragore, di curiosità e trepidazione... Ma se, per un momento, proviamo a lasciare il rimando emotivo immediato, sedimentato in noi dalla storia religioso-affettiva da cui proveniamo, e proviamo a guardare da vicino i testi, scopriamo che l’accento è posto su tutt’altri toni.

Malachia infatti, tentando una descrizione di «quel giorno», sottolinea come esso svelerà la realtà di ciascuno:

-          da un lato l’inconsistenza di «tutti i superbi e [di] tutti coloro che commettono ingiustizia», raffigurata dall’immagine della paglia incendiata;

-          dall’altro il rilucere della consistenza di chi ha costruito la vita come «cultore» del nome del Signore (come diceva la vecchia traduzione Cei); di chi, in altre parole, l’ha riconosciuto Signore della sua vita.

La prospettiva, dunque, non è quella (in noi automatica, ma anche tanto riduttiva) del giudizio universale inteso come una divisione tra buoni e cattivi, giusti e ingiusti, dabbene e malvagi (chi non è sempre e contemporaneamente entrambi?). Qui – a partire dalla fine – si punta piuttosto l’attenzione sull’oggi… si parla infatti della consistenza della vita, del fondamento su cui la si è posta, della realizzazione di quello che dovevamo essere (figli)... in gioco non ci sono aspetti secondari, sovrastrutture della nostra vita, ma la Vita stessa, accolta («Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia») o rifiutata per vivere di se stessi («superbi») sopraffacendo gli altri («coloro che commettono ingiustizia»).

È dunque sull’orizzonte di senso della nostra vita (di qua) che la liturgia di oggi richiama l’attenzione. E anche le parole di Gesù secondo Luca vanno in questa direzione: non si sta facendo una previsione sulla distruzione del tempio di Gerusalemme, sul ritorno di Cristo risorto, sulla fine del mondo. Il punto prospettico lo si trova alla fine, quando si dice: «con la vostra perseveranza salverete le vostre ψυχας (psycas)».

La Cei – prima della recente nuova traduzione – rendeva quest’ultima parola col termine anime, così che la traduzione suonava più o meno in questo modo: «con la vostra perseveranza salverete le vostre anime»; ora traduce con vita («con la vostra perseveranza salverete la vostra vita»).

Noi, pur prediligendo di gran lunga la scelta della nuova traduzione, preferiamo lasciare comunque il termine originario greco che è meno compromesso. Esso infatti compare circa 800 volte nella Bibbia e spesso è tradotto con persona. È dunque inteso come ciò che indica la sede delle passioni, dei sentimenti, delle emozioni: ψυχη (psyke), ha quindi uno spettro semantico molto più ampio di quello che la parola anima (“salvarsi l’anima”) ha ormai assunto nel gergo comune, ed indica la personalità di ognuno. Rende anche meglio rispetto alla traduzione «con la vostra perseveranza salverete la vostra vita», perché quest’ultima mantiene un’intonazione un po’ troppo biologica/fisiologica nell’intendere la vita da salvare… Mentre appunto ψυχη, non è la vita biologica, ma la Vita umana in quanto umana, dunque sensata, riempita, realizzata, umanizzata…

Tenendo presenti queste considerazioni, risulta evidente come la prospettiva di Gesù nel pronunciare quella frase si riferisca al problema della sensatezza della vita, della sua consistenza, dunque della salvezza della singolarità di ciascuno, quella che Etty Hillesum descriverebbe così: «voglio solo cercare di essere quella che in me chiede di svilupparsi pienamente».

Ecco perché quando «la Chiesa rilegge le profezie tragiche del Signore sulla distruzione del tempio, con tutte le sue decorazioni e rifiniture, … e sulla sofferenza e lo stermino di tanta gente del popolo, con carestie, malattie, torture … e nasce nei discepoli sbigottiti l’eterna domanda dell’uomo nella sventura: “Ma allora quando il Regno?”, Gesù non risponde, e attira invece la loro attenzione sul “prima” della fine, perché è questo il momento della nostra responsabilità: il tempo in cui siamo visitati- e anche noi, come Gerusalemme e i suoi abitanti, rischiamo di non accorgerci del passaggio del Signore. Marco, prima che le cose avvengano, dice ai cristiani della prima generazione come attenderlo, in quei frangenti tragici. Luca, dopo che quelle cose sono già avvenute, dice alla seconda generazione e a tutti noi … come attenderlo sempre, in ogni tornante della storia, finché il Signore arriva» [Giuliano].

Innanzitutto nel vangelo di Luca si dice che, per salvare le nostre ψυχας (per cercare – cioè – di essere quello che in noi chiede di svilupparsi pienamente), è necessario seguire la via dell’“impastarsi” nella storia, nella drammatica della storia (non quella della fuga mundi!): «di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta», «sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni», «si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno, e vi saranno di luogo in luogo terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandi dal cielo». È una drammatica che appunto non resta – e non deve restare – tangente rispetto al discepolo, ma lo incrocia e tocca nell’intimo: «metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e a governatori», «sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e metteranno a morte alcuni di voi; sarete odiati da tutti per causa del mio nome».

E nella tragicità di questa storia – unico luogo per la salvezza delle nostre anime, per la costruzione della consistenza delle nostre ψυχας – pochi ma sostanziali punti di riferimento:

1. «Guardate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno sotto il mio nome dicendo: “Sono io” e: “Il tempo è prossimo”; non seguiteli», cioè non c’è un’altra via di salvezza che non sia quella cristica, la sua! La durezza della storia, la sua difficile intelligibilità, il frastornamento che ci provoca, il non senso che spesso ci rimanda, non devono arrivare a inquinare il cuore del nostro dar credito al Dio di Gesù. Ogni altra strada è inevitabilmente illusoria perché parte dall’uomo, anzi, peggio, dalla sua paura di morire!

E infatti, non a caso, la seconda parola che Gesù pone sulla drammatica della storia è:

2. «non vi terrorizzate», non lasciate cioè che a determinare la vostra vita, le vostre scelte, il vostro impegnarvi o meno, il vostro amare o meno, le vostre ψυχας, sia il terrore. Esso è solo mortifero: blocca gli zampilli di vita, chiude gli spiragli di luce, immobilizza il desiderio di appassionarsi, indurisce il cuore, spegne il sorriso…

Sulla base di che cosa, allora, possiamo Vivere e non “morire nel terrore”? Sulla certezza che:

3. «nemmeno un capello del vostro capo perirà». Sulla certezza, cioè, che ciò che fonda la possibilità della Vita è l’assicurazione di una cura, di una presenza, di una vicinanza, di un intreccio possibile con la libertà di Dio!

È quanto anche Paolo ribadisce nella sua esortazione finale: «a questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace», come a dire che nella fede/fiducia nel Signore Gesù Cristo, è possibile vivere nella pace del cuore, costruendo dentro a questa storia (drammatica) – e solo dentro a questa storia drammatica – la nostra evangelica singolarità!

«Mio Dio, prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto e nel modo migliore. Ma concedimi di tanto in tanto un breve momento di pace. Non penserò più, nella mia ingenuità, che un simile momento debba durare in eterno, saprò anche accettare l’irrequietezza e la lotta. Il calore e la sicurezza mi piacciono, ma non mi ribellerò se mi toccherà stare un po’ al freddo, purché tu mi tenga per mano. Andrò dappertutto allora, e cercherò di non aver paura. E dovunque mi troverò, io cercherò d’irraggiare un po’ di quell’amore, di quel vero amore per gli uomini che mi porto dentro. Ma non devo neppure vantarmi di questo “amore”. Non so se lo possiedo. Non voglio essere niente di così speciale, voglio solo cercare di essere quella che in me chiede di svilupparsi pienamente. A volte credo di desiderare l’isolamento di un chiostro. Ma dovrò realizzarmi tra gli uomini, e in questo mondo. E lo farò, malgrado la stanchezza e il senso di ribellione che ogni tanto mi prendono. Prometto di vivere questa vita sino in fondo».
Dal Diario di Etty Hillesum

martedì 5 novembre 2013

XXXII Domenica del Tempo Ordinario


Dal secondo libro dei Maccabei (2Mac 7,1-14)

In quei giorni, ci fu il caso di sette fratelli che, presi insieme alla loro madre, furono costretti dal re a forza di flagelli e nerbate a cibarsi di carni suine proibite. Uno di loro, facendosi interprete di tutti, disse: «Che cosa cerchi o vuoi sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le leggi dei padri». Allora il re irritato comandò di mettere al fuoco teglie e caldaie. Appena queste divennero roventi, il re comandò di tagliare la lingua a quello che si era fatto loro portavoce, di scorticarlo e tagliargli le estremità, sotto gli occhi degli altri fratelli e della madre. Dopo averlo mutilato di tutte le membra, comandò di accostarlo al fuoco e di arrostirlo quando ancora respirava. Mentre il fumo si spandeva largamente tutto intorno alla teglia, gli altri si esortavano a vicenda con la loro madre a morire da forti, dicendo: «Il Signore Dio ci vede dall’alto e certamente avrà pietà di noi, come dichiarò Mosè nel canto che protesta apertamente: “E dei suoi servi avrà compassione”». Venuto meno il primo, allo stesso modo esponevano allo scherno il secondo e, strappatagli la pelle del capo con i capelli, gli domandavano: «Sei disposto a mangiare, prima che il tuo corpo venga straziato in ogni suo membro?». Egli, rispondendo nella lingua dei padri, protestava: «No». Perciò anch’egli subì gli stessi tormenti del primo. Giunto all’ultimo respiro, disse: «Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna». Dopo costui fu torturato il terzo, che alla loro richiesta mise fuori prontamente la lingua e stese con coraggio le mani, dicendo dignitosamente: «Dal Cielo ho queste membra e, per le sue leggi, le disprezzo, perché da lui spero di riaverle di nuovo». Lo stesso re e i suoi dignitari rimasero colpiti dalla fierezza di questo giovane, che non teneva in nessun conto le torture. Fatto morire anche questo, si misero a straziare il quarto con gli stessi tormenti. Ridotto in fin di vita, egli diceva: «E` preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te non ci sarà davvero risurrezione per la vita”.

 

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi (2Ts 2,16-3,5)

Fratelli, lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene. Per il resto, fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore corra e sia glorificata come lo è anche tra voi e veniamo liberati dagli uomini corrotti e malvagi. La fede infatti non è di tutti. Ma il Signore è fedele; egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno. Riguardo a voi, abbiamo questa fiducia nel Signore: che quanto noi vi ordiniamo già lo facciate e continuerete a farlo. Il Signore guidi i vostri cuori all’amore di Dio e alla pazienza di Cristo.

 

Da vangelo secondo Luca (Lc 20,27-38)

In quel tempo, gli si avvicinarono alcuni sadducei – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

 

I testi che la liturgia di questa Trentaduesima Domenica del Tempo Ordinario ci propone, hanno come tematica centrale quella della risurrezione dei morti, pilastro della fede cristiana, ma anche questione tra le più assenti dalla sensibilità quotidiana del nostro vivere.

In parte forse per una motivazione che potremmo chiamare sociologica, per la quale l’uomo moderno e postmoderno si ritrova disilluso di fronte alla speranza di una vita che continua dopo la morte fisica (siamo tutti figli del razionalismo – che crede solo in ciò che è dimostrabile, misurabile, verificabile – della filosofia del sospetto – che lucidamente ha messo in discussione la religiosità illusoria della cristianità – delle grandi tragedie del Novecento – che hanno proposto con forza la domanda “Dov’è finito Dio?”…), in parte forse per una motivazione personale, nata ai piedi delle bare delle persone più care che lungo gli anni perdiamo per strada, senza che tornino, che si facciano sentire presenti, come se davvero fossero finite nel nulla…

Fatto sta che di fronte al dramma della morte, spesso la reazione più intima è proprio quella dell’incredulità nella risurrezione… Ci facciamo tanti discorsi, proviamo a convincerci – ciascuno nel dialogo profondo tra sé e sé –, ma in ultima analisi ci risulta in-credibile che la morte non sia la fine di tutto, ci risulta una pia illusione la speranza nella risurrezione della carne o perlomeno nell’immortalità dell’anima e ci ritroviamo a ripetere con santa Teresa di Gesù Bambino che sembra che «le tenebre assumendo la voce dei peccatori dicano, facendosi beffe di noi: “Tu sogni la luce... credi di uscire un giorno dalle brume che ti circondano. Vai avanti! Vai avanti! Rallegrati della morte, che ti darà non già ciò che tu speri, ma una notte più profonda, la notte del niente”» (C 278)…

Questa situazione – che i più piccoli tra noi ormai leggono come un’evidenza – non è scevra di conseguenze sul piano della vita nell’aldiqua. Sempre più infatti avvertiamo intorno a noi il bisogno di allungare la vita il più possibile, col grande sviluppo – che è sotto gli occhi di tutti – di una cultura “salutista”, “igienista”, “paurosa” verso tutto ciò che può arrecare danno alla salute, divenuto il primo dei beni da salvaguardare in vita… Un bisogno che vede nella malattia non più un normale aspetto della vita umana, ma ciò che radicalmente la dis-umanizza e dunque va aborrito, evitato, eliminato… Non a caso mentre per i nostri vecchi “ci si ammalava per morire”, oggi “si muore perché ci si ammala”… che non è un gioco di parole, ma quasi la traduzione del fatto che, essendo la malattia o l’invecchiamento (è la stessa cosa) la causa prima di morte, si vive pensando che eliminando o ritardando il più possibile (tendenzialmente all’infinito) questi aspetti della vita, appunto, si possa non morire…

Finendo così per elaborare una cultura che, illudendo le persone su una speranza di vita sempre più lunga, sostanzialmente censura la morte dagli argomenti di discussione quotidiani: ne sono esempio il fatto che sempre più nascondiamo ai bambini questa realtà (non gli facciamo vedere i morti), trovandoci – quando più bambini non siamo e di fronte alla morte inevitabilmente ci ritroviamo – assolutamente spiazzati, inebetiti, inconsolabili… Che è la medesima logica che sottosta agli strumenti mediatici (come i TG o i film), che – certo – propongono continuamente davanti ai nostri occhi scene di morte, ma così rapide e istantanee, che impediscono una vera riflessione in proposito, soprattutto l’acquisizione heideggeriana per cui il problema vero della vita non è che “si deve morire”, ma che “io devo morire”…

Con questi pochi accenni, anche se un po’ velocemente, la situazione odierna pare però ben tratteggiata nelle sue linee fondamentali: la caduta dell’“illusione” della vita dopo la morte; la concentrazione conseguente sulla vita nell’aldiqua, che – dunque – deve essere il più lunga possibile; la censura della questione del morire…

È su questo tessuto sociologico-personale che irrompe il messaggio evangelico («I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui») e il racconto – un po’ leggendario, ma di certo emblematico – dei sette fratelli Maccabei («E` preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati»). Annuncio, anch’esso non scevro di conseguenze per la vita (dell’aldiqua)… basti pensare all’esperienza stessa di Gesù e alla sua consegna alla vita e (poi) alla morte… possibile solo perché alimentata dalla fede che quella consegna – in ultima analisi – era la consegna al Padre, che tutto tiene e custodisce, e dalle cui mani nulla va perso per sempre…

Come sempre, allora, di fronte a questo tipo di problematiche per l’uomo si pone la questione “da che parte stare”, “per quale posizione decidere”, “a cosa credere”… sapendo che la scelta di astenersi – percorsa oggi da troppe persone perché la Chiesa non si faccia carico del problema – è già una scelta…

La cosa interessante è che – a differenza di quel che si pensa di solito, e cioè che da una parte stanno quelli dis-illusi (nel senso di realistici, legati alla mentalità razionalistica, quantificabile, dimostrabile), mentre dall’altra gli illusi (i creduloni, i bigotti) – né l’uno né l’altro versante ha in mano la dimostrazione per la sua posizione: non si può dimostrare che Dio esista e che ci aprirà la vita eterna, certo; ma non si può dimostrare nemmeno il contrario… Per entrambe le posizioni si tratta di “credere in” qualcosa, cioè – ultimamente – di una fede…

La fede dei Sadducei (di ieri e di oggi) ha come base l’osservazione (smagata, dicono loro) della realtà, per cui tutta una serie di elementi testimoniano che la vita finisce nella tomba.

La fede dei cristiani invece si fonda sulla Parola di Dio – anche se è interessante che, soprattutto sul versante cattolico, ancora oggi siamo di fronte ad un’ignoranza abissale da questo punto di vista (sarà anche per questo che non sappiamo più rendere ragione della nostra fede? Tanto che i nostri ragazzi – pur battezzati e cresimati e tutto il resto – accettano senza sobbalzare che “tanto dopo la morte non c’è niente”, come dicono di solito?).

La fede dei cristiani si fonda sulla Parola di Dio, che come ha insegnato il Concilio Vaticano II e in particolare la Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione (Dei Verbum), è, sì, materialmente contenuta nel testo biblico, ma è eminentemente rintracciabile nella vita di Gesù, cioè nel modo in cui lui – vivendo – ha impegnato la sua libertà, ha deciso di sé, ha deciso chi essere…

Ecco perché la credibilità dell’annuncio della risurrezione della carne è da “misurare” sulla credibilità della persona di Gesù… come a dire che è sulla base di quanto riteniamo affidabile (degno di fede) Gesù, che dobbiamo dar credito al suo vangelo, cioè alla buona notizia che non solo Dio c’è, ma è un Padre che vuole la salvezza (cioè la Vita piena) per ciascun uomo… una Vita piena che non ha fine.

Il problema è quindi a questo livello… Quanto valgono, di fronte alle ragioni che porta il sadduceo che c’è in me (o la sua versione post-moderna) e che mi suscita così tanta angoscia, le ragioni di credibilità di Gesù di Nazareth, della sua vita, del suo vangelo?

E se ritengo Gesù credibile, come la fiducia in una vita che non finisce nella tomba riscrive la mia vita nell’aldiqua?

Per tanti secoli, una certa predicazione ha portato avanti l’idea che se esiste la vita eterna, allora tutto l’aldiqua si gioca nel “guadagnarsi” il paradiso, accumulando meriti presso Dio…

Ma – tornando nuovamente all’annuncio di Gesù – la prospettiva evangelica sembra essere altra: Gesù non insiste mai sulla necessità dell’uomo di meritarsi qualcosa da Dio. Piuttosto la sua insistenza è perché l’uomo accolga il messaggio di un Dio-Padre che porta la salvezza, non che chiede di guadagnarsela.

E non chiede che l’uomo l’accolga, per dire che – conseguentemente – chi non la accoglie non si merita il paradiso, ma perché chi la accoglie ha già la possibilità nell’aldiqua di vivere una vita da salvato: una vita cioè che l’uomo non ha bisogno di redimere, ma che ha solo la preoccupazione di vivere; senza quella competizione con l’altro che ogni meta (foss’anche quella della salvezza eterna) ingenera tra fratelli/concorrenti, ma quella di chi – proprio perché la sua vita è già salvata da un Altro – può dedicarsi alla costruzione del mondo come Dio lo vuole, un mondo in cui ciascuno trovi la sua pienezza umana. Solo per questo motivo il cristiano è disposto a privarsene personalmente (addirittura a perdere la sua vita), come Gesù: che proprio per testimoniare l’amore di Dio per tutti, ha accettato di morire. Nient’altro può giustificare una morti-ficazione della propria vita o l’insegnamento della morti-ficazione della vita altrui.

sabato 2 novembre 2013

Per una giustizia vera


Il dibattito sulla telefonata della ministra Cancellieri a favore della sola Giulia Ligresti – e non degli altri componenti della famiglia arrestati! – in carcere preventivo e a rischio di vita, la dice lunga sulla vera natura dell’essere o non essere cristiano autentico. O se volete è illuminante su che cosa consista concretamente per il cristiano “avere fede”. Qui naturalmente mi riferisco al “dibattito in sé” e non mi riferisco ai fatti concreti di come si siano svolte le cose. Che riguardano la magistratura e/o la correttezza della sua azione dal punto di vista istituzionale.

All’interno del dibattito emerge preponderante ciò che ciascuno intende per “giustizia”! Cosa è giusto? Salvare una vita anche a costo di violare le norme non scritte di una morale politica o per non rischiare una possibile interpretazione ambigua mettere a rischio la vita delle persone?
È più giusto il “tutti o nessuno” o “almeno qualcuno”? E tra questi “qualcuno”, vanno esclusi sempre e comunque gli “amici”? Soprattutto se “ricchi e potenti”? Soprattutto e comunque sia, se amici di un politico?
Qual è la differenza tra la telefonata di Berlusconi e quella di Cancellieri?
L’accettare l’una (Cancellieri) costringe ad accettare l’altra (Berlusconi)? (così Pdl e alleati). Il condannare l’una (Berlusconi) costringe a condannare l’altra (Cancellieri)? (così parte del PD, M5S, Sel). Ma non è compito della ragione umana (e si spera anche politica) saper distinguere i piani e i fatti?

A mio avviso appare evidente il diverso concetto di “giustizia” che emerge dal Vangelo e mi porta a non condividere minimamente entrambe le posizioni sopra esposte. Sia quelle del Pdl sia quelle della “sinistra”. E semmai a condividere, al di là delle sue vere intenzioni, l’azione “umanitaria” di Cancellieri. Non l’unica peraltro stando a quanto da lei dichiarato.

Perché? Perché il mio concetto di giustizia è altro rispetto al loro. Provo a spiegarmi.

Normalmente dividiamo il mondo tra credenti e non credenti, o anche tra cristiani e “laici” (nel senso laicista di “non credente”). In realtà nel Vangelo la vera discriminante non si pone mai a questo livello. La parabola del fariseo e del pubblicano, mostra con tutta evidenza che la differenza non si trova né al livello della religiosità, né a livello – udite, udite – del concreto comportamento etico della persona! Il pubblicano (esattore) è agli antipodi etici, morali, religiosi, politici, esistenziali non solo del fariseo, ma di ogni nostro riferimento di “giustizia”! Eppure è lui il salvato! Il finale della parabola ci dice qualcosa che sconvolge tutto il nostro concetto di “giusto” e di giustizia e quindi di giustificazione! Ma allora o Dio è ingiusto o è ingiusta la nostra giustizia!

Dove sta il problema? Il problema si capisce meglio forse con la figura di Barabba.
Mentre il “laico” vorrebbe la liberazione del giusto Gesù e la condanna del brigante Barabba (così il politico Pilato!), il cristiano pur non gioendo, anzi esecrando la detenzione e esecuzione di Gesù (voluta dai religiosi), non può non compiacersi e gioire della liberazione del brigante Barabba!

Qui sta la vera discriminante tra uomo e uomo. Si può discutere quanto si vuole con un credente o con un “laico” ma prima o poi bisogna vedere se abbiamo lo stesso concetto di giustizia! Il cristiano fa sua quella del Padre, che pur di vedere tutti i suoi figli liberi (anche se ricco, esattore, potente, brigante…) è disposto a subire e patire sulla sua carne la morte dell’innocente. Perché l’innocente è già un uomo libero e niente e nessuno potrà imprigionarlo, neanche la morte!

Cristiano non è colui che crede che Gesù è Figlio di Dio, non basta e in ogni caso non lo qualifica ancora come cristiano (anche i demoni lo sanno). Né può bastare la sua irreprensibilità etica (ammesso che esista un uomo del genere) o dogmatico-dottrinale. Il cristiano diventa tale se crede, vive e accoglie quella giustizia lì! Scandalosa per un pio ebreo, follia per un razionale greco farà capire san Paolo.
Ciò che ci divide non è che io sono credente e tu ateo, io cristiano e tu musulmano, io cattolico e tu protestante, io moralmente irreprensibile e tu no… o viceversa! Ciò che ci divide o ci unisce è il concetto di giustizia che abbiamo e che cerchiamo di attuare nel mondo!

Tornando alla telefonata di Cancellieri, tutto il problema verte sul quei “criminali” della famiglia Ligresti, per di più ricchi, potenti, corrotti, e chi più ne ha più ne aggiunga… che proprio per questo secondo il comune senso di giustizia, non avevano diritto ad essere aiutati, nonostante tutti riconoscano i limiti dell’ordinamento giudiziario e carcerario italiano. Poco importa se la vita di qualcuno che non fosse povero, indifeso, impotente e forse innocente, fosse in pericolo! Prima non viene colui che mi capita di poter soccorrere, prima viene l’idea astratta di soccorrere tutti o nessuno!

Di questo egalitarismo, in fondo elitario anche se pauperistico, ne stiamo raccogliendo i frutti avvelenati in una giustizia giustizialista che non sa farsi carico dei propri limiti anche quando questi, piacciano o non piacciano, riguardano coloro che riteniamo nostri aguzzini! Ma così facendo non siamo diversi dai Ligresti che condanniamo.
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