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venerdì 30 agosto 2013

XXII Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del Siràcide (Sir 3,19-21.30-31)

Figlio, compi le tue opere con mitezza, e sarai amato più di un uomo generoso. Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore. Molti sono gli uomini orgogliosi e superbi, ma ai miti Dio rivela i suoi segreti. Perché grande è la potenza del Signore, e dagli umili egli è glorificato. Per la misera condizione del superbo non c’è rimedio, perché in lui è radicata la pianta del male. Il cuore sapiente medita le parabole, un orecchio attento è quanto desidera il saggio.

 

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 12,18-19.22-24)

Fratelli, non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola. Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 14,1.7-14)

Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato». Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

 

Il vangelo che in questa Ventiduesima Domenica del Tempo Ordinario ci viene offerto dalla Liturgia, mi pare ruoti intorno a due grandi fuochi, forse i due veramente centrali dell’esperienza di Gesù: l’umiltà e la gratuità…

E allora, facendomi aiutare da qualcuno che su queste cose c’ha giocato la vita, provo a dire due parole…

Innanzitutto l’umiltà: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».

Sarebbe però davvero banale e banalizzante leggere o – peggio – pensare di “attuare” queste parole mettendosi all’ultimo posto col desiderio di cercare il primo… Il punto di vista di Gesù non è infatti quello di tracciare una via per arrivare al primo posto – dando come suggerimento quello di mettersi all’ultimo (il cristianesimo invece è fin troppo inficiato da questo finto perbenismo, da questa maschera petulante di costruita remissività che in realtà punta solo, in maniera cinicamente metodica, al primo posto per sé o al massimo per i propri cari – nell’aldiqua e nell’aldilà) – ma, come sempre, è quello di tentare di ribaltare una logica mondana!

Scriveva Giuliano: «L’umiltà non è una virtù! … difficile definirla come tale, perché uno non può proporsela come obiettivo cui mirare, altrimenti vuole essere qualcosa di grande, vuole raggiungere qualcosa di gratificante: l’uomo non deve tendere a niente per se stesso, nel senso che non ha in mano il disegno su di sé ! Se no sta ricercando in qualche modo un primo posto. Se vuole crescere, deve piuttosto cercare dentro di sé il posto dell’amore, il posto di Dio. E scopre presto che, di sicuro, il posto dove mettersi non è quello che ha pensato e progettato. È piuttosto l’ultimo, al servizio di tutti, come il figlio dell’uomo che è venuto non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita... Perché, amare è dire all’altro: stai prima di me! Chi “vuole” essere umile, si attorciglia attorno a sé. Non si può essere umili, se non per un’altra passione che nasce “dentro”, più grande che l’amore di sé: è il volto dell’altro, preferito al proprio, perché più valido a nutrire la tua gioia e compiutezza, capace di liberarti dalla paralisi del tuo narcisismo infantile, ridicolmente indaffarato tutta la vita a far girare il mondo attorno a te … Ti deve per forza capitare la grazia di rompere lo specchio della tua immagine, incessantemente rielaborata dentro di te, cioè innamorarti… e così ritrovarti all’ultimo posto (o in qualsiasi altro) con dentro nel cuore il tuo proprio “vero volto” ridisegnato da altri, da chi ami – da chi ti ama [non a caso per la Santa Madre Teresa di Gesù, l’umiltà è “conoscere e camminare nella propria verità”]! E trovi la tua gioia nel servire la crescita di bene dell’altro… Allora tutte le vicende mortificanti della tua storia, non fanno male più di tanto, nessun’altra arsura ti può distogliere da questa pur minuscola sorgente di senso, che sei riuscito a disseppellire sotto le macerie del cuore : chi beve dell'acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l'acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna (Gv 4,14)».

Ecco perché – nel vangelo – le parole sull’umiltà sono immediatamente seguite da quelle sulla gratuità («Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti»), perché in gioco non vi è l’ideale virtuoso dello stoico mortificarsi per apparire grandi (primi!) davanti a Dio e agli altri, ma il tentativo (sempre da riprendere) di decentrarsi da sé per far spazio agli altri!

In questo senso i poveri sono indicati come i migliori invitati: non perché vi è in causa un’analisi sull’ingiustizia dell’emarginazione e sulla giusta (da primi della classe!) elemosina che noi possiamo fare, ma perché sono quelli che non ti possono dare il contraccambio! Ecco il punto: finché si sta nella logica della ricompensa non si ha ancora avuto accesso alla prospettiva che Gesù qui tratteggia: non si tratta di essere umili (ultimi) per avere in contraccambio il primo posto; non si tratta di essere buoni con gli altri per guadagnarne in contraccambio stima, rispetto, considerazione, “punti paradiso”… Ma di ribaltare la prospettiva.

«Schematicamente si possono distinguere due atteggiamenti religiosi qualitativamente diversi, che si possono contraddistinguere con le categorie di “contraccambio” e di “gratuito” – anche se poi nella storia della salvezza, come nella vita di ognuno, si mescolano. E così riusciamo a consegnare la nostra povera fede al Padre solo come risultato di una lunga e mai terminata purificazione della fame di gratificazione, di riposta immediata, di contraccambio della nostra ambigua dedizione a Dio e al prossimo.

… nella religione del “contraccambio”, infatti, predomina la ricerca del proprio bene, perché si è nel bisogno, nella debolezza e nel peccato, perché il mondo è pieno di male, mentre anche noi siamo incapaci di bene libero, fatto perché è bello farlo… Ma lo si fa piuttosto perché è dovere, e, in fondo a tutto, perché si deve morire! Si passa magari tutta una vita a cercare di essere bravi… e poi ce n’è sempre uno più bravo e più “ragguardevole” di te (lo guardano di più!), che ci passa avanti e ci lascia l’amaro nel cuore o ci avvelena la vita. [...]

… la religione del gratuito (una voglia di amore e amicizia!) … sarebbe, invece, andare furtivamente dallo sposo, invece di amareggiarci per competizioni e precedenze, per dirgli : stai bene? hai bisogno che faccia qualcosa per aiutarti, per il pranzo? Perché, nella religione della benevolenza ricevuta e donata, si fanno tutte le cose che si devono fare, con tanta passione e senza competizione…Ma si anela, si cerca, si crede in una misteriosa presenza nella nostra vita quotidiana e nel mondo – una “presenza (vera! anche se sempre troppo assente!) di amore, di tenerezza, di solidarietà sofferente, una presenza che Gesù chiama “Padre”! […]

Questo è il discorso difficile della fede, cioè di chi è invitato alle nozze del figlio di Dio, che nelle varie vicende della sua storia, ci insegna a prender atto della nostra umanità, sempre troppo intrisa di egocentrismo, per diventare veri discepoli di Gesù e capire come camminare nel viaggio della vita, che qualità di relazione con lui ci è proposta, quale scarnificazione ci toccherà subire per vincere l’istinto che ci spinge incessantemente a occupare sempre una poltrona più avanti e a guardare in cagnesco chi ce l’ha sottratta…» [Giuliano].
Ma a noi questa scarnificazione fa paura e spesso preferiamo tornare a consolarci all’interno della logica del contraccambio, compiacendoci di quanto siamo buoni (perché anche l’io – se serve – sa essere buono!)… O forse – più semplicemente – abbiamo perso il coraggio di innamorarci.

sabato 24 agosto 2013

XXI Domenica del tempo Ordinario (C)


Le letture che la Chiesa ci propone per questa ventunesima domenica del Tempo Ordinario, potrebbero indurre chi le ascolta – soprattutto chi le ascolta oggi, in una cultura cattolica che ha una scarsa frequentazione del testo biblico, ma che ha già assimilato nel DNA le spiegazioni che la cristianità ha trasmesso – due immediate e rapide interpretazioni, che – bisogna riconoscerlo – sono quasi istintive nella lettura dei testi, del vangelo soprattutto.

Innanzitutto l’interpretazione più “classica”, quella per cui qui si starebbe dicendo che a salvarsi sono proprio pochi! È un’interpretazione che segue più o meno questo ragionamento: se un tale chiede a Gesù «Signore, sono pochi quelli che si salvano?» e lui risponde «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno» (con tutta la parabola al seguito), vuol dire che il Signore sta dicendo che in paradiso vanno in pochi, quelli che – con grandi sforzi – sono riusciti a entrare nella porta stretta. E solitamente gli sforzi sono istintivamente identificati con digiuni, sacrifici, preghiere, mortificazioni, ecc…, cioè con ciò che tradizionalmente ha rappresentato l’itinerario per la via di perfezione.

Vi è poi una seconda immediata interpretazione, più “moderna”, ma ormai altrettanto automatica: quella che fa riferimento agli ultimi versetti contenuti nel vangelo («Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi») in associazione con la prima lettura («Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue…»). Si tratta cioè dell’interpretazione per cui qui si sta parlando della salvezza puntando soprattutto sul fatto che essa non dipenda automaticamente dall’appartenenza (formale o di sangue) ad un popolo eletto (Israele o la Chiesa), ma che appunto – per salvarsi – sia necessario uno sforzo personale, una vita esemplare… per questo possibile a tutti (ai membri di tutti i popoli) e non dato per “nascita”.

A livello di reazioni emotive immediate, non si può nascondere che mentre la prima interpretazione disturba, la seconda non basta. Si tratta di sensazioni di “pancia”, certo, quindi anche facilmente “smontabili” (basterebbe per esempio dire che la prima interpretazione ci disturba perché propone un itinerario troppo difficile, che non vogliamo seguire), eppure a me hanno insegnato un immenso rispetto per le viscere di carne, perché non sono mai solo carne. E allora, se di fronte a qualcosa, reagiamo col “mal di pancia”, vuol dire che abbiamo intercettato qualcosa che la nostra testa ancora non ha visto e razionalizzato, ma che merita la nostra attenzione. Il processo di portare a ragione (e a linguaggio) quanto la pancia “dice” è delicatissimo – troppo facilmente connotiamo le nostre sensazioni con le interpretazioni che ci fanno più comodo – ma un sano allenamento in proposito, aiuta davvero a smascherarsi, disingannarsi, mostrarsi – almeno di fronte a se stessi – in trasparenza.

Ebbene, io credo che le nostre viscere di carne reagiscano a queste interpretazioni così istintive non perché esse siano sbagliate – anzi sicuramente per la cultura, il linguaggio e le situazioni in cui sono sorte sono state adeguate e davvero capaci di trasmettere il messaggio cristiano – ma perché – per la cultura, il linguaggio e le situazioni odierne – esse risultano sfuocate, come poste a partire da un punto prospettico non ideale. Entrambe le interpretazioni infatti danno per scontato che la domanda posta da quel tale che Gesù incontra sul suo cammino verso Gerusalemme («Signore, sono pochi quelli che si salvano?»), sia corretta, dimenticando invece che Gesù – come in tante altre occasioni – elude la richiesta specifica della domanda postagli e – nella risposta – cambia il livello del discorso e dimenticando soprattutto che – se avesse dovuto rispondere direttamente alla domanda in questione – avrebbe probabilmente usato le espressioni che in un passo parallelo, l’evangelista Matteo gli mette in bocca: «Gesù allora disse ai suoi discepoli: “In verità io vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”. A queste parole i discepoli rimasero molto stupiti e dicevano: “Allora, chi può essere salvato?”. Gesù li guardò e disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”» (Mt 19,23-26).

Le nostre interpretazioni immediate vanno in cortocircuito proprio a questo riguardo, cioè nel presupposto per cui all’uomo (A pochi? Solo agli ebrei? Solo ai cristiani? Solo a chi ha un comportamento moralmente adeguato?) sia possibile salvarsi e dunque sia giusto mettere in atto tutto ciò che serve per “pagare a Dio il proprio prezzo” (cfr. Sal 49,7-10), facendo assumere alla domanda «Signore, sono pochi quelli che si salvano?» non tanto la connotazione di un interesse (per quanto ansioso) per la salvezza di tutti, quanto piuttosto l’intonazione di una rivendicazione per sé: se infatti in qualche modo “c’è da salvarsi” e per farlo è necessario intraprendere un duro percorso (una porta stretta), allora tutti quelli che “non ce la fanno” o “non ce la vogliono fare” (come spesso con arroganza noi presupponiamo) devono essere esclusi… è questione di giustizia (!)… umana.

Se così fosse, il Grande Inquisitore di Dostoevskij avrebbe tutte le ragioni per rivolgersi a Gesù dicendogli: «Il Tuo grande profeta dice nella sua visione e nella sua parabola di aver visto tutti i partecipi della prima resurrezione e che ce n’erano dodicimila per ciascuna tribú. Ma se erano tanti, vuol dire che quelli erano piú dèi che uomini. Essi sopportarono la Tua croce, essi sopportarono diecine d’anni di vita famelica nel nudo deserto, cibandosi di cavallette e di radici; e certo Tu puoi appellarti con orgoglio a questi eroi della libertà, dell’amore libero, del libero e magnifico sacrificio da essi compiuto in nome Tuo. Ma ricordati che erano in tutto appena alcune migliaia, ed erano per giunta degli dèi, ma i rimanenti? E che colpa hanno gli altri, gli uomini deboli, di non aver potuto sopportare ciò che i forti poterono? Che colpa ha l’anima debole, se non ha la forza di accogliere così terribili doni? Possibile che Tu sia venuto davvero solo agli eletti e per gli eletti?».

Eppure il Gesù che pronuncia le parole odierne («Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno») è lo stesso che racconta la parabola di Mt 20,1-16 (che curiosamente si conclude con la stessa espressione del nostro testo: «gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi»), nella quale il padrone della vigna paga allo stesso modo tutti gli operai (sia quelli che hanno lavorato per un’intera giornata, che quelli che hanno lavorato un’ora sola… per questione di giustizia (!)… divina).

Ma se tutto questo è vero, se cioè si può ben dire che non è l’uomo che si salva («Essi confidano nella loro forza, si vantano della loro grande ricchezza. Certo, l’uomo non può riscattare se stesso né pagare a Dio il proprio prezzo. Troppo caro sarebbe il riscatto di una vita: non sarà mai sufficiente per vivere senza fine e non vedere la fossa», Sal 49,7-10), che anzi «questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”» (Mt 19,23-26); che Dio non segue i nostri stretti criteri contabili e non ha il desiderio di fare una selezione eroica che – dopo uno stillicidio di pusillanimi – tenga solo “chi se lo è meritato davvero”, ma – come dice Paolo a Timoteo – «vuole che tutti gli uomini siano salvati» (1 Tim 2,4), in che senso vanno interpretate le parole che pronuncia nel vangelo di Luca che la liturgia ci propone questa domenica («Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi»)?

In che cosa bisogna sforzarsi, se il Regno è un dono e non una conquista? Perché si parla di porta stretta, se anche gli operai dell’ultima ora ricevono la stessa paga di chi ha lavorato tutto il giorno? E in cosa consiste l’ingiustizia di cui sono colpevoli coloro che non vengono riconosciuti e allontanati? E perché questo tono minaccioso da parte di Gesù, così diverso da come siamo abituati a percepirlo (nel vangelo, non nel nostro cuore, dove il germe infetto del dio giudice implacabile si è incistato irrimediabilmente - ? - )?

Forse il modo migliore per approcciare queste domande è quello di guardarle non a partire dalle nostre paure (di un Dio che ci castigherà, ci manderà all’inferno, ci farà finire nel niente, ecc, ecc, ecc…), ma a partire dalla sua identità, cioè dalla sua storia. A partire dalla sua predicazione (dal suo vangelo) non c’è dubbio che il Regno sia un dono e non una conquista. Eppure bisogna, sì, sforzarsi… Sforzarsi in cosa? E per che cosa? Per chi? Non sforzarsi ad una conquista che è impossibile (un’impossibilità a salvarci da soli con la quale davvero – prima o poi – drasticamente ci dobbiamo scontrare, per arrivare a dire con Elia «Non sono migliore dei miei padri» e fare un sano bagno nell’umiltà – quella vera di quando ti torvi col sedere per terra e non quella finta che compiacente ti “autoprovochi” – fonte zampillante e rigenerante della misericordia – per sé e per gli altri – e per questo tanto cara ai suoi cantori), bensì – dentro ad un regalo – sforzarsi (ora sì! Perché non è più nostro, ma Suo il regalo!) per farsi carico della responsabilità in gioco: se infatti il regalo è la salvezza, cioè non tanto e non solo un mero perdurare in vita dopo la morte, ma un’inondazione di amore e tenerezza che scardina le durezze interiori e ci fa essere veramente noi stessi (perché solo dentro all’alveo dell’accoglienza benevola e innamorata si percorrono le strade interiori della trasparenza) in eterno, lo “sforzarsi” prende i connotati del far circolare il regalo (che se no ti marcisce in mano, proprio per la natura intrinseca dell’amore, che se non è dato, muore), dedicando una vita ad alzare il tasso di amore nel mondo! Sapendo che non siamo capaci, ma ricominciando sempre ad allargare il cuore. Ecco la porta stretta: chi ha provato a vivere così è infatti morto in croce, o perseguitato, o esiliato… Ed ecco l’inusuale tono minaccioso… ma è proprio come quello di chi ci vuole bene e le prova tutte a convincerci di qualcosa di cui è convinto che sia il nostro Bene, la nostra salvezza… quasi minacciando di sculacciarci se non lo facciamo, ma non perché vuole sculacciarci (se non lo facciamo mica ci sculaccia davvero), ma per provarle proprio tutte… a farci accettare il suo regalo ed entrare nel circuito dell’amore che per contagio si diffonde.

Perché – alla fine – se uno scopre che questo gli era chiesto e non l’ha fatto… un po’ è vero che gli viene da mangiarsi le mani (o come dice il testo da lasciarci qualche lacrima e stringere un po’ i denti)… Non tanto se non ha vissuto così perché non è stato capace («è impossibile agli uomini»)… Ma se non l’ha fatto perché aveva frainteso ciò che il cuore del Signore sognava per gli uomini…

Come ci resta uno che ha digiunato e si è incartapecorito corpo e anima pensando così di far contento Dio – lui unico (o uno fra i pochi) in un mondo di nemici suoi (e dunque dl Signore) – e scopre che Dio aveva sognato per i suoi figli che mangiassero contenti insieme ad amici e nemici?

Come ci resta uno che non si è mai fermato ad accarezzare un viso di donna perché Dio chiede di non toccare, non toccarsi e non farsi toccare, e poi insterilito nella carne e nello spirito scopre che Dio aveva sognato per i suoi figli una corporeità capace di coccole per passare di carezza in carezza il suo amore?

Qualche lacrimuccia dobbiamo concedergli che gli scappi… e anche qualche stretta ai denti, psicosomatismo della stretta allo stomaco… Anzi… dobbiamo concedercela, perché siamo noi questi di cui parla il Signore: sempre a metà strada tra il Dio di Gesù, Padre suo e Padre nostro che ci ha mostrato nel suo Figlio il sogno che aveva su noi uomini e il dio, grande inquisitore del nostro animo… che siamo poi noi… travestiti da dio.

venerdì 9 agosto 2013

XIX Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro della Sapienza (Sap 18,6-9)

La notte [della liberazione] fu preannunciata ai nostri padri, perché avessero coraggio, sapendo bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà. Il tuo popolo infatti era in attesa della salvezza dei giusti, della rovina dei nemici. Difatti come punisti gli avversari, così glorificasti noi, chiamandoci a te. I figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto e si imposero, concordi, questa legge divina: di condividere allo stesso modo successi e pericoli, intonando subito le sacre lodi dei padri.

 

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 11,1-2.8-19)

Fratelli, la fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede. Per questa fede i nostri antenati sono stati approvati da Dio. Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso. Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso. Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare. Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra. Chi parla così, mostra di essere alla ricerca di una patria. Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto la possibilità di ritornarvi; ora invece essi aspirano a una patria migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio. Ha preparato infatti per loro una città. Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: «Mediante Isacco avrai una tua discendenza». Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 12,32-48)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno. Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore. Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro! Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo». Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?». Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi. Ma se quel servo dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire”, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli. Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più».

 

I testi che la Chiesa ci propone per questa Diciannovesima Domenica del Tempo Ordinario, sono assai densi, ed anche meno immediati di altri… è come richiesta una certa fatica “nell’entrarci”…

Mi pare però che un’illuminante chiave di lettura possa essere quella proposta da don Bruno Maggioni, quando scrive: «Dopo le direttive sull’uso dei beni, le parole che Luca ha qui raccolte entrano più direttamente nel tema della vigilanza, che non è anzitutto un elenco di cose da fare, ma una tensione dello spirito, un orientamento di fondo nei confronti delle situazioni di vita. Ma prima di precisare i contorni della vigilanza (un atteggiamento complesso, dalle molte sfaccettature), occorre una parola sui destinatari, che Luca designa con un’espressione insolita: “piccolo gregge”. Chi sono? L’espressione è una variante di un’altra più frequente coniata dai profeti dell’Antico Testamento: “il resto di Israele”. Si tratta di quella “minoranza” di autentici fedeli che nell’abbandono generale delle leggi del Signore rimangono ostinatamente attaccati alla loro fede. La loro prima caratteristica è dunque la minoranza, cosa che può far sorgere in alcuni il dubbio e la frustrazione. Ma a torto: la storia di Israele, di Gesù e della chiesa dimostra al contrario che la forza di Dio passa proprio attraverso minoranze. La seconda caratteristica è la fedeltà ostinata: in un mondo dove i più – o per comodità o per paura – si accodano agli ideali del momento, il piccolo gregge mantiene vive le promesse del Signore. E la terza caratteristica è il servizio: il piccolo gregge mantiene in vita valori che poi torneranno a vantaggio di molti, e in nessun modo si isola dal mondo, ma rimane giù nella piazza, dove gli uomini si incontrano e si scontrano. […] Si tratta di un gregge che è “piccolo” e tuttavia è da intendere bene. Minoranze sì, ma che si incontrano dovunque: nella chiesa, nelle altre religioni, in tutte le razze, in ogni popolo. Sono la forza di Dio: non confidano nell’odio o nella violenza o nella potenza. Confidano in Dio, nel rispetto di ogni uomo, nella libertà, nell’amore. Desiderano servire e hanno fame e sete di un mondo più giusto. E per costruirlo sono pronti a rimetterci. È a costoro che il discorso sulla vigilanza è particolarmente rivolto» [il racconto di Luca, 244].

La citazione è un po’ lunga, ma mi pare aiuti a collocare bene questo testo evangelico che – purtroppo – istintivamente ci rimanda a interpretazioni che (chissà come sono quasi innate in noi?) fanno presagire un automatismo meccanico tra venuta del Signore e condanna: “Se la fine della storia venisse di notte, si salverebbe solo l’altro emisfero dove la maggior parte delle persone non sarebbero a letto a dormire?”. È un esempio sciocco, ma noi ci ritroviamo a pensare anche questo…

Ma che volto stiamo dando al Signore quando pensiamo di Lui così? Quando lo associamo alla condanna, tradiamo il suo vangelo (dove mai si trova gesto o parola maledicente di Gesù verso chicchessia e le parole di “condanna” appartengono sempre al genere letterario dell’ammonimento, come quando una mamma dice: “Se me ne combini un’altra, ti spolpo!”)… quando lo associamo alla condanna automatica poi… dimentichi che seppur collocati sempre in un “attimo fuggente” noi non coincidiamo con quell’attimo, ma siamo una storia – abitata indubbiamente anche da tanti pasticci… ma anche da tanti spiraglietti di luce – eterni.

La lunga citazione allora mi pare possa servire a capire davvero il senso di quanto Gesù dice… perché il testo non è un ammonimento generico e astorico, del tipo: quando Dio arriva, si salvi chi può! Ma parla ad un destinatario preciso… parla della vigilanza del “piccolo gregge”, non della gente in generale, dunque, che a noi fa così comodo nei nostri ragionamenti catalogare come le masse che si perderanno perché peccatrici (e quante la Chiesa ne ha trattate in questo modo di masse…), ma alla minoranza di quelli che «conoscono la volontà del padrone».

Di quella “minoranza” spesso ci sentiamo parte anche noi (magari incapaci di restare fedeli al suo lato ruvido – a quell’“essere pronti a rimetterci” – o al suo lato inclusivo – a volte infatti il nostro sentirci “minoranza” è chiuso e aggressivo verso gli altri – ma questo non toglie la realtà del nostro appartenervi). E mi pare molto interessante il fatto che Gesù scelga di destinare questo tipo di parole a chi si sente (o è) solo (i più fortunati sono in – troppo – pochi) a portare avanti una logica disomogenea di benevolenza, fraternità, tenerezza, rispetto alle classiche dinamiche umane che ripropongono invece continuamente competizione e sopraffazione (fuori e dentro la chiesa / fuori e dentro noi stessi).

Ecco, dentro a questa solitudine o esiguità numerica (a volte irrisoria ed irrisa) si annida il pericolo che Gesù denuncia e – con la sua parola («Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno») – vuole disinnescare: il “prendere paura” di una solitudine che a differenza dei padri (che come dice il libro della Sapienza «sapevano bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà») non riesce più a riconoscere «degno di fede colui che gli aveva promesso» che “c’abbiamo ragione noi!” (come diceva don Primo Mazzolari, davanti allo specchio con un bicchiere di vino in mano!)… perché questa disomogeneità frustrante, che scava dentro un vuoto angoscioso, troppo spesso dimentica che non si tratta di un’assenza muta, ma di un’attesa amante («Siate pronti…», «siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze…», «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli…», «E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!», «Anche voi tenetevi pronti…», «Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così…»)… proprio come quella disposizione interiore che abbiamo quando aspettiamo il ritorno di qualcuno che amiamo davvero (un figlio, il nostro amato, qualcuno che abbiamo proprio piacere di avere tra noi…), trepidando, sognando, sorridendo…

In questo «Una processione di padri e di madri ci fanno da testimoni [cfr. la lettere agli Ebrei, cap. 11]… Talora si vedono, talora si intravedono soltanto. Ci vogliono tante parole ed esempi, a noi piccoli, per cercare di dirsi, raccontarsi … la fede. Ma ognuno ha dentro di sé (ma che fatica accoglierli!) i minuscoli indizi persuasivi di un volto “velato” che chiama, che spinge, che provoca… ad imbarcarsi, nonostante la paura, nel viaggio, a tentoni, nell’attesa / scoperta di cose e situazioni e vicende impreviste, che il Signore ha preparato, chiamandoci a reinventare con noi, adesso… un modo nuovo di stare, nella vita e nella morte. Nella fede morirono tutti costoro, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati di lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra. Noi, piccoli discepoli di Gesù, viviamo simultaneamente nell’antica e nella nuova situazione del credente, privilegiati di aver toccato in Cristo l’adempimento della promessa del regno “vicino, in mezzo a noi”, ammaliati dalla certezza che stiamo camminando verso una città diversa, il cui architetto è Dio – ma anche lacerati (delusi!?) dalla conclamata irreperibilità di questa città, ‑ feriti dall’innegabile distanza della salvezza, nostra e di troppi disperati abbandonati» [Giuliano].

Dentro qui credo che siano due i modi evangelici per vegliare: innanzitutto una sorta di alleanza con chi ci è fratello nell’attesa: «I figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto e si imposero, concordi, questa legge divina: di condividere allo stesso modo successi e pericoli»… un po’ come Gesù, che nell’agonia cercava la “compagnia dei fratelli”: «Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate”» [Mc 14,33-34].

Con la consapevolezza sorda però – ed è quella che apre al secondo modo di vegliare – che «li trovò addormentati»… cioè che c’è una soglia oltre la quale si è da soli davvero, nella propria nudità radicale, a decidersi per il restare svegli nella propria disomogeneità. «La vocazione cristiana trova qui la sua appassionante e difficile dimensione quotidiana ‑ compresi i ritmi del dinamismo psicobiologico, i momenti di stanchezza e di angoscia, di speranza e di confidenza, di intontimento e di sonno, con relative pulsioni e ritorsioni su chi ci sta attorno. Ma la fede matura così, umilmente, nei passi della vita: strana misteriosa miscela, tra una ferita “dentro” e una “vocazione” ad uscire fuori, cioè una “debolezza” chiamata a compimento. Attratti e accompagnati da un’inafferrabile colonna di fuoco e di nebbia, in una luce chiaroscura, che vuole uno sbilanciamento verso di “lui” ‑ che, se un poco soltanto ti inoltri, già rimani comunque senza vedere né sapere cos’avverrà nel cammino – e dove si va… Però, vale la pena comunque di andarci!» [Giuliano].

giovedì 1 agosto 2013

XVIII Domenica del tempo ordinario (C)


Dal libro del Qoèlet (Qo 1,2;2,21-23)

Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità. Chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un grande male. Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità!

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossèsi (Col 3,1-5.9-11)

Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria. Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria. Non dite menzogne gli uni agli altri: vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato. Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 12,13-21)

In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».

 

Le letture che la Chiesa ci propone per questa Diciottesima Domenica del Tempo Ordinario mostrano con evidenza quella che è una prerogativa di tutto il vangelo, e cioè la sua perenne attualità, la sua capacità di interpellare ogni generazione, di parlare all’uomo di ogni tempo, anche al nostro. Anzi, in questi testi, sembra addirittura intercettata laproblematica vera dell’uomo del nostro tempo (ma forse solo perché – anche se in contenitori culturali diversi – è la problematica dell’uomo di tutti i tempi): e cioè il senso della vita, a fronte della morte… il “cosa siamo qui a fare?”, se poi dobbiamo morire… il “come dunque spendere questo breve tempo che ci è dato?”, “come impegnarlo?”, “in cosa impegnarci?”, “a cosa attaccare il cuore, dare le nostre energie, affidare il nostro tempo?”, “quale senso sposare, per cosa vivere, a cosa credere?”, “a chi dar retta, da chi imparare, chi seguire per non buttar via questa vita e noi stessi con essa?”…

Con il ritornante e sempre mai sopito ritornello amaro del libro del Qoelet: «tutto è vanità. […] Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità!». Cioè, con la tentazione/consapevolezza (paura) agnostico atea, per cui, quelle, rimarranno domande senza risposta; tanto che non val neanche la pena affannarsi per pensarci… ma piuttosto smagarsi dall’illusorio incontro/ricerca di una sensatezza, per vivere da uomini/donne maturi, che sanno fronteggiare l’abissalità della morte, che ci riserva il niente («Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”»).

Solo che poi la morte sopraggiunge davvero – e non solo nel nostro immaginario, più o meno esorcizzato con ironia, sarcasmo, acidità o presunta maturità e superiorità quasi indifferente – e ci porta via chi amavamo di più, chi non era giusto che morisse (perché troppo giovane, troppo bello o troppo importante), chi non ha fatto in tempo nemmeno ad affacciarsi in questo nostro tempo (perché troppo fragile, troppo scomodo, troppo piccolo), chi non aveva ancora trovato il “lieto fine” delle sue vicende (perché troppo solo, o troppo ingarbugliato, o troppo poco amato)… chi – semplicemente – avremmo voluto fosse stato ancora un po’ a farci compagnia… e allora si fa esperienza di come tutte le risposte (o rispostine) che ci siamo dati con la testa, che abbiamo messo lì per placare/sfidare l’angoscia, non tengono, non sos-tengono la realtà di una vita inconsistente, in cui «Tutto ciò che esiste, ma, ancor peggio, tutto ciò che è umano e ci è caro, è destinato a morire. Non ha in sé capacità di tenere insieme i pezzi fisici o vitali di cui è composto. Questo vuol dire in/consistenza!»… e allora davvero «Non possiamo reprimere quella parte di noi che si commuove e si ribella. Le bestemmie di Giobbe, come gli incubi dei santi e dei dannati sono sacre, sono quelle di ogni uomo pensoso, per l’ingiustizia del dono di una vita “da morire”»! [Giuliano]

È dentro qui – dentro a questa condizione in-consistente dell’uomo (addirittura “da dentro” questa condizione) – che si innesta la vicenda storica di Gesù e in particolare questo brano del vangelo di Luca che la liturgia oggi ci propone. E che parla di vita e di morte, appunto…

Innanzitutto l’incipit – sempre sorprendente: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?»… Come “Chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?”? Non era mica Dio, il Figlio di Dio, il Figlio dell’uomo?! Insomma il Messia? Dunque il giudice e mediatore sopra di noi? No! No, almeno nel senso che quest’uomo intendeva/pretendeva, che noi uomini intendiamo/pretendiamo… quando «vorremmo trascinare il vangelo nelle nostre questioni e non ci accorgiamo che esso invece va alla radice e le sconvolge tutte» [Maggioni, il racconto di Luca]: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede»!

Ecco la “radice” della questione: non chi ha ragione o torto, quanto spetta a questo e quanto a quello… ma “da cosa dipende la vita?”, il suo senso?… Che – come dicevamo – è il problema dell’uomo.

Gesù, all’uomo disperso nelle ragioni per aver ragione, nella misurazione di sé e degli altri per aver un po’ di più (di eredità, di soldi, di amore, di lucidità, di cultura, di simpatia, di attenzioni, ecc…) degli altri e “sentirsi sicuro” (e a ben guardare tutta la nostra vita la misuriamo così!), dice: la vita non dipende da ciò che si possiede… c’è da cambiare sguardo, pena il rimanere «consumati nel farsi dar retta» [De Andrè, Verranno a chiederti del nostro amore], cioè nel «primo più ingenuo tentativo di sfuggire alla morte, come privazione di ogni bene, che è la bramosia di accantonare più beni possibile… come sicurezza per sé!» [Giuliano]. C’è da fare un passo indietro – come guardare dal di fuori – tutte queste dialettiche sulle cose, che ci rendono più simili a un pollaio che ad una famiglia… e intravvedere in esse – e nella passione che ci mettiamo (per aver ragione appunto – dunque per sentirci giustificati, sicuri, “apposto”) – quanto siano intrise della logica dell’affermazione di sé, per niente libere – come credevamo e pretendevamo di imporre – ma sempre inserite nel meccanismo: paura della morte – bisogno di affermazione di sé (a scapito degli altri)… come a dire… in un regime di “si salvi chi può”… mors tua, vita mea

A guardarle così… le nostre “ragioni” (religiose, politiche, economiche, affettive, relazionali, ecc…) si sgonfiano proprio, perché ci appaiono non così nobili come volevamo farle apparire, ma meschine tanto quanto quelle degli altri… perché votate non a rispondere al problema del senso, ma a fintarne uno di cui convincersi e convincere, con lo scopo non di Vivere, ma di sopravvivere (più degli altri)…

È da qui che Gesù si tira fuori e vuole tirarci fuori, per fissare lo sguardo altrove: «“Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio». Dove il nodo centrale è quel “per sé” – così evidente anche dal monologo che il ricco della parabola si fa tra sé e sé («Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!») – contrapposto al “per chi?” di Gesù («Quello che hai preparato, di chi sarà?”») e al suo “presso Dio” («Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio»).

Un po’ scostati allora (è la preghiera!) dal pollaio delle pretese di possedere le giuste ragioni, orientati dallo sguardo stesso con cui Gesù – anch’egli scostato («stava in preghiera») – ha guardato la nostra storia, si può intravvedere che forse c’è differenza tra morire – perché non si è vinta l’ennesima battaglia della lotta per la sopravvivenza e si è stati sopraffatti da qualcuno/qualcosa più forte di noi – e morire – perché ci si è consegnati alla Vita, che è poi l’A/altro… già durante la vita!

Per arrivare – in pace – alla consegna finale…

Come Gesù… e tanti dietro a Lui…
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