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mercoledì 24 luglio 2013

XVII Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro della Gènesi (Gen 18,20-32)

In quei giorni, disse il Signore: «Il grido di Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!». Quegli uomini partirono di là e andarono verso Sòdoma, mentre Abramo stava ancora alla presenza del Signore. Abramo gli si avvicinò e gli disse: «Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?». Rispose il Signore: «Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo». Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere: forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?». Rispose: «Non la distruggerò, se ve ne troverò quarantacinque». Abramo riprese ancora a parlargli e disse: «Forse là se ne troveranno quaranta». Rispose: «Non lo farò, per riguardo a quei quaranta». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta». Rispose: «Non lo farò, se ve ne troverò trenta». Riprese: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola: forse là se ne troveranno dieci». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei dieci».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossèsi (Col 2,12-14)

Fratelli, con Cristo sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti. Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 11,1-13)

Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”». Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”; e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».

 

Le letture che la Chiesa ci propone per questa Diciassettesima Domenica del Tempo Ordinario, hanno come evidente tematica centrale la preghiera. Innanzitutto il brano tratto dalla Genesi: esso contiene la famosa “contrattazione” tra Dio ed Abramo, riguardo alla sorte di Sodoma e Gomorra. Un dialogo che di primo acchito stride con il volto di Dio proposto da Gesù e tramandato nei Vangeli, perché il risultato finale è quello della distruzione delle due città. Ma tenendo conto del fatto che, nel leggere i testi biblici, non bisogna mai dimenticare che si tratta sempre della rilettura che gli uomini fanno della storia (della salvezza) e non di una “presa diretta” dei fatti così come si sono svolti (dunque che si tratta di un racconto a posteriori della distruzione di Sodoma e Gomorra – cioè di un racconto che a partire dal dato storico della fine di queste città, prova a rileggerlo teologicamente, con una teologia legata alla cultura e mentalità del tempo – che prevedeva un Dio retributivo!), ciò che di questo testo risulta fondamentale non è tanto l’episodio “storico” (anche perché poi – di fatto – quanto sia c’entrato Dio con Sodoma e Gomorra è davvero difficile dirlo), quanto piuttosto la convinzione ad esso soggiacente che con Dio si può parlare! «Il nostro Dio – infatti – non è il Fato, un destino irreversibile, già tutto predestinato, contro il quale ogni domanda o anelito o lacrima è senza senso. È questa la grande scoperta di Abramo, l’uomo collettivo che condensa la sofferenza di tutti i samaritani feriti dalla compassione per gli uomini! Ha scoperto che con Dio si può discutere» [Giuliano].

Un’evidenza (?!) forse, per i più, ma anche una grande chiave orientativa: perché per le nostre orecchie di uomini e donne postmoderni fa una certa differenza sentirsi dire “Con Dio si può parlare/discutere”, rispetto al più tradizionale “Si può pregare Dio”. Perché, pur essendo frasi che indicano la medesima possibilità di relazione, esse in realtà evocano istintivamente orizzonti diversi. Troppo spesso infatti oggi il “pregare Dio” rimanda al mero “dire preghiere” (che non sono certo da svilire, ma che a volte rimangono formulazioni vuote, quasi magiche, senza che riescano a coinvolgere la libertà personale dell’orante); mentre la notizia che a Dio si può parlare, riesce – oggi – forse a dire meglio la possibilità di coinvolgere realmente la vita con Lui, con Qualcuno dunque che, per definizione era separato, e invece – liberamente – ha deciso di rendersi accessibile, incontrabile, “im-mischiato” con noi: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4). Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé» (DV 2).

Si tratta dunque dell’inaudita e insperata possibilità di poter parlare a Dio, di avere una relazione con Lui, di pensarsi in relazione a Lui. Ecco perché i discepoli, che diverse volte avevano visto Gesù vivere (di) questa relazione, ad un certo punto gli fanno la domanda diretta: «Signore, insegnaci a pregare»: perché avevano intuito che il volto di Dio che Gesù – vivendo – mostrava non poteva non andare a con-vertire anche le strutture tradizionali del relazionarsi a Lui. Come scriveva H. Küng infatti «La preghiera è il test pratico della comprensione di Dio: come viene espresso Dio, così viene praticata la preghiera. E come si prega, così viene anche compreso Dio. [Ma anche] Da come uno prega si capisce che uomo egli è» [H. Küng, Preghiera e problema di Dio, in G. Moretto (ed.), Preghiera e filosofia, Morcelliana, Brescia 1991, 42]. E di fatti Gesù, nel “test pratico” della preghiera che dice in risposta alla domanda dei suoi («Quando pregate, dite: “Padre”»), conferma la comprensione di Dio che aveva già fatto emergere nella sua vita e cui manterrà fede fino alla fine («Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito», Lc 23,46) e anche che «uomo egli è».

A chi – dunque – scopre che a Dio si può parlare e chiede come a Lui ci si deve rivolgere, Gesù risponde: “A Dio si parla, chiamandolo Padre”! Dove – appunto – il “chiamarlo Padre” non è il suggerimento su quale titolo sia più appropriato usare, per evitare di toppare col galateo… ma è il dar credito alla possibilità reale di accedere ad una relazione filiale con Lui.

Ma già di fronte a questa prima parola della preghiera che Gesù ci insegna (l’unica che Gesù ci insegna, quella dunque che dovrebbe mettere d’accordo tutti – cattolici, ortodossi, protestanti –, quella di fronte alla quale e nella quale ogni cristiano si dovrebbe riconoscere) sorgono i problemi (che proseguiranno in tutto il testo…).

Perché: che cosa vuol dire “padre” e dunque cosa vuol dire “essere figlio”?

Al di là dell’abusata retorica per cui chi ha avuto un’esperienza familiare drammatica (la mancanza di un padre in famiglia, la presenza di un padre violento o violentatore, ecc…) farebbe fatica a identificare Dio con la figura del “padre”, il problema resta per tutti, anche per quelli che un padre ce l’hanno avuto e ce l’hanno avuto bravo. Si tratta infatti del problema del senso che si dà alle parole… a partire dalla propria esperienza personale, ma anche dal proprio contesto sociale, culturale…

Lo si vede bene su un’altra espressione (a me tanto cara) di questa preghiera: “Venga il tuo Regno”. Anche qui: cosa si intende per “Regno” e soprattutto per “Regno di Dio”? Se ognuno di noi dovesse pensare a quale circostanza esistenziale vissuta assomigli di più al realizzarsi del regno, credo che emergerebbero tante immagini quanti uomini ci sono sulla faccia della terra… Ma più radicalmente ancora: non tutte queste immagini – seppure singolari – farebbero riferimento al medesimo sostrato evangelico… Qualcuno – tra i cattolici (riconosciuti tali) – pensano che il Regno di Dio coincida con la divisione del mondo tra santi in paradiso e dannati all’inferno!

Il problema è – più in generale – quello (ormai improrogabilmente da mettere all’ordine del giorno) del fatto che – non solo tra cristiani ma anche – tra cattolici si legge il vangelo in maniera diversa… Non nel senso bello e un po’ poetico per cui ciascuno dà sfumature personali alla medesima attestazione scritta della rivelazione, ma in quello drammatico e inconciliabile per cui dai medesimi testi emergono idee di Gesù e dunque di Dio e dunque di tutto il resto (uomo, mondo, relazioni, morale, ecc…) non solo diverse ma cozzanti in maniera talvolta brutale.

Qualcuno cerca di smorzare la questione dicendo che il bello della Chiesa è quello di avere in se stessa spazio per san Francesco e il Grande Inquisitore…

Qualcuno, al contrario, parla già di scisma sotterraneo in atto, rispetto al quale il Magistero farebbe “orecchie da mercante”, perché qualora si pronunciasse perderebbe una grossa fetta dei suoi fedeli…

Qualcuno – da una parte e dall’altra – si avventura in crociate che tentino di convertire alla propria visione “gli altri”.

La cosa è ancora più drammatica (in occidente) se – analizzando con occhi smagati la situazione – ci si accorge che i sedicenti cattolici sono poi rimasti in pochi nella società e dunque la loro divisione risulta ancora più agghiacciante: ennesimo sintomo forse del decadimento della comunità ecclesiale.

A me pare che non si possa far finta che il problema non esista: non si può andare in un confessionale e trovare accoglienza affettuosa e col medesimo peccato essere scacciati malamente da un altro; non si può sentire una predica che annuncia la misericordia incondizionata di Dio e – sul medesimo brano evangelico – sentirne un’altra che minaccia le pene dell’inferno…

Di fronte dunque all’emergere del problema in tutta la sua evidenza io credo che l’unica pista vera da battere – sia come singoli che come comunità – sia quella di ritornare al vangelo. Non in senso spiritualistico (perché il problema si riproporrebbe: il problema infatti è che leggiamo le stesse parole, ma vangeli diversi; crediamo tutti a Gesù, ma sono Gesù diversi; crediamo tutti a Dio, ma sono dei diversi e del “dio degli altri” noi siamo atei!)… dunque non in senso spiritualistico, ma con la passione della ricerca, dello studio, dell’andare a capire cosa vogliono dire le cose… (per stare solo agli esempi di oggi: cosa vuol dire “padre” per Gesù? Da tutto il vangelo e non solo da questa riga, cosa emerge del suo rapporto con l’“Abbà suo”? E Regno? Come lo descrive, come lo racconta? Provate a leggervi Mt 11,2ss).

Dobbiamo riprenderla in mano questa parola, riappassionarci, non pensare che sia roba per intellettuali… e se proprio abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti andiamo da quei padri e quelle madri nella fede che incarnano questa parola… andiamo da quelli che assomigliano a questo maestro della Galilea… li troveremo immersi nella polvere, circondati da diseredati, stanchi morti per la troppa dedizione, ma con gli occhi puliti dal troppo amore ricevuto e contagiato. Degli altri meglio diffidare… anche se hanno le “mostrine”. Perché anche con “parole religiose” si può predicare l’antivangelo.

giovedì 18 luglio 2013

XVI Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro della Gènesi (Gn 18,1-10)

In quei giorni, il Signore apparve ad Abramo alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Fa’ pure come hai detto». Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: «Presto, tre sea di fior di farina, impastala e fanne focacce». All’armento corse lui stesso, Abramo; prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. Prese panna e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse loro. Così, mentre egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli mangiarono. Poi gli dissero: «Dov’è Sara, tua moglie?». Rispose: «È là nella tenda». Riprese: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossèsi (Col 1,24-28)

Fratelli, sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio verso di voi di portare a compimento la parola di Dio, il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi. A loro Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo alle genti: Cristo in voi, speranza della gloria. È lui infatti che noi annunciamo, ammonendo ogni uomo e istruendo ciascuno con ogni sapienza, per rendere ogni uomo perfetto in Cristo.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 10,38-42)

In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».

 

In questa Sedicesima Domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa ci propone (nuovamente!) l’immagine di una donna «seduta ai piedi di Gesù». E già questo merita un’annotazione: perché se la chiesa – storicamente così legata ad una tradizione maschile (-ista) (come si evince bene da alcune simpatiche espressioni di Teresa di Gesù, che scriveva «Voi siete giudice giusto, e non come i giudici della terra, i quali, figli di Adamo come sono e in definitiva tutti maschi, non vi è virtù di donna che non tengano in sospetto. Sì, ci deve essere un giorno, o mio Re, in cui tutti appaiano quali sono; Non parlo per me, ché già conosce il mondo la mia miseria, e ho piacere che sia palese, ma perché vedo tempi siffatti che non è ragionevole rigettare animi virtuosi e forti, quantunque siano di donne») – se questa chiesa, dunque, si ritrova a “dover” ripresentare (nuovamente!) quest’immagine così “eterogenea” rispetto ad un certo impianto religioso (l’aveva fatto solo qualche domenica fa con il brano di Lc 7,36 ss), è indubbiamente perché questa ricorrenza c’è nel vangelo stesso… e non si può tacerla…

Si può sfumarla, smaterializzarla, renderla evanescente (come ha fatto… leggendo per esempio questi testi sempre e solo in chiave simbolica – che è un procedimento che avrà anche una sua verità, ma che nel momento stesso in cui si stacca dalla realtà della narrazione – dal genere letterario vangelo – perde di consistenza…), ma non può censurarla… soprattutto perché è proprio rispetto ad uno di questi testi che Gesù stesso – come riporta Matteo 26,13 – ha detto: «dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che ella ha fatto». Come per l’eucaristia!

Dunque, una donna «seduta ai piedi di Gesù»… un’altra donna «seduta ai piedi di Gesù»… Quasi che vien da dirGli davvero – sempre con la Santa Madre Teresa – che «Quando eravate su questa terra, lungi d'aver le donne in dispregio, avete anzi cercato di favorirle con grande benevolenza. Avete trovato in esse tanto amore e fede più grande che negli uomini» (CV 3,7)… Come a dire – con un linguaggio un po’ più vicino al nostro di cinquecento anni dopo – che a Gesù piaceva proprio stare in compagnia delle donne, le guardava con simpatia e le incontrava con tenerezza e libertà, in maniera sempre pulita, senza temerle, né farsi da loro temere…

E chissà dove e quando, noi abbiamo disimparato (o non siamo stati capaci di imparare… o non abbiamo voluto imparare…) questa sua libertà di starci accanto – fratelli e sorelle che vivono insieme e pensano insieme e insieme crescono e costruiscono e si donano reciprocamente la vita…

Certo… tanti motivi storici, culturali, tradizionali… Eppure anche questo era un cordone essenziale dell’esperienza storica di Gesù… che doveva con-vertire (come è successo per tanti altri versanti) la storia, la cultura, la tradizione…

Senza contare che in più – in questo caso – lo stare di Maria «seduta ai piedi del Signore» mentre «ascoltava la sua parola» aveva anche un’ulteriore “eterogenea” valenza per quei (?!) tempi. Come annota infatti don Bruno Maggioni nel suo il racconto di Luca «Marta assume nei confronti dell’ospite un ruolo tipicamente femminile: tutta affaccendata prepara la tavola. Maria, al contrario, si intrattiene con l’ospite, assumendo un ruolo che la mentalità del tempo riservava agli uomini: un fatto insolito che neppure Marta condivide, prigioniera come tutte della mentalità corrente. Maria che si “siede ai piedi del Maestro” e ascolta la Parola è la tipica figura del discepolo. E questa è una novità. I rabbini infatti non usavano accettare le donne al proprio seguito, e divenire discepolo era riservato agli uomini. Per Gesù non è così». E per la chiesa? Chissà…

Su questo forse gli uomini (di chiesa) dovrebbero un po’ mettersi a pensare… (ma certo anche le donne)…

Eppure, il testo odierno non è solo questo… perché accanto all’immagine di Maria «seduta ai piedi di Gesù» – anzi forse proprio (dal punto di vista narrativo, ma non solo) per portare tale immagine in primo piano – c’è anche l’indaffararsi di Marta (i suoi «molti servizi»), la distrazione che questo le provoca («Marta era distolta»), la sua recriminazione («Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti»)… con in gioco – forse – un versante che dovrebbe “dar da pensare” più alle donne e alle loro dinamiche… (ma certo anche agli uomini).

Non va dimenticato, infatti, come sia Marta ad accogliere in casa Gesù («In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò»). È dunque lei che attua la fede migliore: «La nostra fede migliore [infatti] è accogliere in casa Gesù! Consegnare la propria vita ad un ideale di dedizione, di servizio, di gestione della propria vita … “per” qualcuno. Ma finiamo poi [come Marta – appunto] per volere gestire in proprio la nostra fede (la vita!)… Inevitabilmente il rapporto diventa contrattuale, moralistico, intento a soppesare la propria generosità e dedizione, con conseguente giudizio e ritorsione su chi non ci ascolta o si comporta diversamente… Allora si fa di tutto, a livello affettivo, politico, economico, teologico (perfino liturgico!) perché le proprie posizioni siano riconosciute e approvate… Finché emergono invidia, amarezza, ritorsioni, delusioni… il peccato dell’io moralista, che cova sempre dentro di noi. E si disistima “l’operaio dell’ultima ora”, “il fratello minore” ritornato dopo la fuga dissipatrice, ... i peccatori e pubblicani amati dal Signore… il profeta ambiguo che si lascia “toccare” dalle donne. Il rapporto di Marta con Gesù diventa disagevole, scontento, si consuma non in dolcezza compiacente, ma nell’insofferenza gelosa, e nella pretesa che tutti facciano come lei. Un rapporto infelice, che invece di unificarla armonicamente la lascia “distratta”, nel giro del molteplice servizio!”…

Maria invece “ascoltava la sua parola”. Ecco invece il rapporto che si nutre di se stesso, non si misura, dà gioia e pacificazione… E perfino… pazienza comprensiva dell’insofferenza altrui (tace, non reagisce: sapendo che la spiegazione non serve e sarebbe comprensibile solo a chi ha provato!). Nasce una dinamica interiore che è possibile solo se sostenuta dall’esperienza già percepita (almeno qualche barlume, chi non l’ha avuto?!) che l’ascolto della Parola di Dio è l’opportunità più immediata (alla portata di tutti) non di … smettere di parlare per essere ascoltati. Ma invece di imparare ad ascoltare… Dio, nel suo modo di manifestarsi e agire nella nostra storia! Scoprire che Dio ha cercato infinite volte, in tanti modi, nei millenni, attraverso santi grandi e piccoli, attraverso profeti, mistici, poeti, i disperati dell’umanità… di farsi ascoltare… E ultimamente attraverso il figlio, mandato nel mondo, uomo con gli uomini, a fare amicizia, a nome del Padre (Gv 15,15)!

Questa donna segna nel vangelo l’esperienza più viva del nuovo ascolto “diretto” della Parola, in persona! viva e presente in Gesù, amico affettuoso, che non solo parla, ma trasforma e colma il cuore… Certo che tutto diventa secondario, per lei, in questo momento! E non si ricorda neanche della cena e dei preparativi necessari… Non toglie lo sguardo da questo ospite che la coinvolge come nessun altro! Gesù ne è coinvolto, fino a definire questo atteggiamento della sua amica “la parte buona, che non le sarà tolta”, perché è incancellabile. Infatti le ha segnato il cuore, per sempre!» [Giuliano].
Il problema allora non è tanto quello dello stabilire cosa sia più importante tra il servizio e l’ascolto – o tra vita attiva e vita contemplativa – come spesso invece si tende a fare in riferimento a questo brano (anche perché non va dimenticato che esso è messo in stretta relazione – viene subito dopo – alla parabola del buon samaritano, che – su questo piano – dice il “contrario”, perché i due “contemplativi” – sacerdote e levita – passano oltre, mentre il samaritano si ferma a servire il moribondo… e lui, non gli altri, là, era in primo piano!)… il punto è (nuovamente!) la centralità del volto dell’A/altro a fronte delle molte cose che distraggono! Dice infatti ancora Maggioni: «Persino il troppo “dare”, anche per amore, rischia di togliere spazio alle relazioni», che invece sono le uniche “cose” che contano per il Signore e – dunque – le uniche che dovrebbero abitare il centro del cuore del discepolo, che dovrebbero essere il suo tesoro («Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore», Lc 12,24)… diventando in qualche modo lucidi e benevoli verso le proprie e altrui dinamiche (maschili e femminili), ma per evangelizzarle, perché esse – seguendo le logiche della carne, dunque della competizione – dis-traggono (cioè “traggono fuori”) dalla «parte migliore»… che invece è proprio quella che rende abitabile questa vita, rendendola – nella relazione cristica con l’A/altro – Vita… che non sarà tolta!

venerdì 12 luglio 2013

XV Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del Deuteronòmio (Dt 30,10-14)

Mosè parlò al popolo dicendo: «Obbedirai alla voce del Signore, tuo Dio, osservando i suoi comandi e i suoi decreti, scritti in questo libro della legge, e ti convertirai al Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima. Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: “Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Non è di là dal mare, perché tu dica: “Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossèsi (Col 1,15-20)

Cristo Gesù è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potenze. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono. Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose. È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 10,25-37)

In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».

 

Il brano di vangelo che la Chiesa ci propone per questa Quindicesima Domenica del Tempo Ordinario, è il famosissimo dialogo tra Gesù e un dottore della Legge, nel quale è inclusa la parabola – cosiddetta – del buon samaritano.

Data la notorietà del testo, il rischio da cui immediatamente guardarsi è quello di darne per scontato il contenuto, riducendone magari il senso ad una bonaria esortazione ad essere un po’ più buoni – che purtroppo è ciò che spesso si pensa della proposta evangelica…

In realtà – a ben guardare – già l’incipit di questo dialogo, colloca tutta la questione in un contesto ben preciso e per niente banale: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». In gioco c’è, quindi, non tanto o non semplicemente la richiesta di un buon consiglio per il quieto vivere, ma la domanda delle domande: “Cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”, che – detto in termini a noi un po’ più familiari – sarebbe come chiedere: “Maestro, qual è il senso della vita?”, “Cos’è che le restituisce una compiutezza?”, “Come si fa ad arrivare sul letto di morte, guardarsi indietro, ed essere contenti della vita che si è condotta?”… Quello che i nostri ragazzi, un po’ brutalmente sintetizzano nel “Come si fa ad essere felici? E ad esserlo per sempre?”…

Il problema in gioco, dunque, non è una mera questione teorica fra teologi (Gesù e il dottore della Legge), ma è il problema dei problemi, quello contro cui ogni uomo (e donna) che nasce su questa terra inevitabilmente si imbatte, senza scrollarselo mai di dosso per tutta la vita (anche quando cerca di far finta di niente… o di scordarselo): “Come si fa ad avere la vita oltre la morte?”. «Una domanda curiosa, perché sembra sottintendere un certo diritto acquisito ad averla (è naturale, mi spetta, come a un figlio l’eredità!) ‑ ma anche una trepidazione misteriosa (quali condizioni per poterla ricevere e usufruirne?). Ci sembra così difficile, arduo, lontano… imprendibile, il senso della vita» [Giuliano].

Eppure… per la risposta (apparentemente) così difficile alla questione delle questioni, Gesù non fa altro che rimandare a ciò che “da sempre” si sapeva, perché già contenuto nella Legge: «“Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?” […]: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. […] “Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai”» (in eterno, ovviamente, dato che proprio questo chiedeva la domanda iniziale…).

Ma il dottore delle Legge sa che – nonostante questa risposta non sia per niente inedita, anzi sia molto vicina («è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica», «non è nel cielo, perché tu dica: “Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Non è di là dal mare, perché tu dica: “Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”») – essa appare muta.

«L’uomo sa, dunque, come si dovrebbe amare, ma non ne è capace, come la sua storia infinita dimostra! L’umanità nel suo interminabile cammino verso la pienezza di sé – si è persa, mezza morta nella fatica, nella schiavitù, negli ospedali, nelle guerre, lungo la strada … non riesce più a camminare» [Giuliano].

Ecco il perché della nuova domanda del dottore della Legge… che cerca in questo modo di far tornare a parlare quell’antica legge (che diceva che il senso della vita era l’amore), ma che giaceva dimenticata dai cuori degli uomini: «E chi è mio prossimo?».

Ancora una volta Gesù non risponde direttamente, ma racconta una parabola: la storia di un uomo che «scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto». «Per caso, un sacerdote [un prete – per fare il parallelo coi giorni nostri] scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta [un seminarista], giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano [un rumeno – per intenderci – sempre col nostro linguaggio di oggi…], che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo [letteralmente “nel tutto accogli”] e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore [al tutti accogli], dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno».

Le tematiche sfiorate (come attraverso rapide pennellate) da Gesù in questa storia sono molte e – come aiuta a vedere il parallelismo col nostro mondo odierno messo tra parentesi quadra – anche molto provocatorie: c’è infatti la forte critica ad una religiosità che antepone le regole al volto dell’altro (il sacerdote / il levita); c’è la curiosa audacia per cui si prende a modello un eterodosso malvisto dalla sensibilità culturale del tempo (sacerdote – levita / samaritano); c’è la possibile identificazione di Gesù col malcapitato aggredito dai briganti (quasi che qui Gesù raccontasse la sua autobiografia) o – quella più evidente – col samaritano stesso… ma al di là di tutti questi possibili sviluppi del discorso (fondamentali, ma non qui percorribili, se non perché poi tutti ri-com-presi dal nucleo del discorso, perché tutti lì convergono…), il centro rimane la domanda finale di Gesù, col suo ribaltamento della problematica iniziale del dottore della Legge: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?».

Ecco la chiave di lettura della realtà propria di Gesù: non tanto “Chi è mio prossimo?”, quanto “il farsi prossimo degli altri”, la “prossimità” come colonna vertebrale dell’esistenza. Questa è la sua risposta!

Ecco infatti (ripresa – la tematica del) l’autobiografia di Gesù: «All’umanità ferita, mezzomorta, lungo il suo millenario cammino tante volte interrotto, ormai senza meta… Dio è venuto a “farsi prossimo”, in Gesù. Una prossimità nata dalle viscere di misericordia del nostro Dio… La prossimità non è uno stato misurabile in maggiore o minore distanza ideologica affettiva razziale religiosa politica… Prossimità è aver compassione – smuoversi nelle viscere ‑ “farsi vicino” a chi è lontano, per l’urgenza del cuore. È questa la storia “cristiana” della salvezza: Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna (Gv 3,16). Dunque, c’è davvero un’eredità di “vita eterna” da accogliere, nel viaggio di avvicinamento o “approssimazione” di Gesù a noi, lungo le nostre strade, per vedere come lui agisce e imparare da lui come ci si comporta! E allora si capisce bene “chi è il mio prossimo!” ‑ e qual è la vera soluzione per avere in eredità la vita eterna! È scritto in questa parabola: è la sua vita! Perché il prossimo è Gesù – ed esser suo discepolo vuol dire farsi prossimo come lui, ad ogni uomo, in sua memoria e con la forza del suo Spirito, che ci ha infuso nel cuore – come un gemito di invocazione di soccorso» [Giuliano].

Ecco il nuovo nome della Chiesa (e di ciascun cristiano): il “tutti accoglie”!

Con l’inevitabile presa di coscienza dello scarto tra una realtà spesso divisoria (le norme di purità dividono puri e impuri, peccatori e giusti; gli stati di vita dividono tra con-sacrati e non, abilitati a Dio o no… ecc… ecc... ecc… tutte cose necessarie, deve accadere così, ma qualcuno ci deve piangere), cioè inevitabilmente discriminante – che è una parola terribile, perché ha una radice semantica che suggerisce che di là ci sono i criminali (!)… lo scarto con la prossimità, l’onniaccoglienza, l’amore, che invece quelle divisioni, le supera… Ecco la critica – non poi così velata – che Gesù nella parabola porta al formalismo, legalismo, moralismo religioso – germe che purtroppo non infettava solo Israele, ma si è diffuso anche nel “tutti accoglie”, che doveva essere la Chiesa… o che è la Chiesa… perché se il protagonista è un samaritano, vuol dire proprio che, anche là dove non te lo aspetti (più), invece il germoglio evangelico può spuntare… e nella Chiesa – seppur spesso così ancorata a fare il “tutti divide” (credenti/atei; cristiani/non cristiani; cattolici/ non cattolici; chierici/laici; santi/peccatori; sposati/separati; etero/omosessuali; maschi/femmine…) – ci sono davvero persone e luoghi che “tutti accolgono”!

E infine, viene in mente la domanda che i servi di Namaan gli posero dopo che Eliseo gli aveva suggerito cosa fare per guarire dalla lebbra e lui se ne era andato sdegnato per la banalità del gesto da compiere (2Re 5,1ss): «Padre mio, se il profeta ti avesse ordinato una gran cosa, non l’avresti forse eseguita?»…

Ecco mi pare la domanda giusta da porsi alla fine di questo testo… Se per “conquistare” la vita eterna ci avessero messo in mano spade e corazze, saremmo (siamo) stati capaci di partire per grandi imprese, grandi avventure, grandi spargimenti di sangue… Siccome invece la “ricetta” è un’altra, spesso ce ne andiamo sdegnati… perché a noi il dio della guerra, del più forte, del più sanguinolento (dove a morire son sempre gli altri, cattivi, ovviamente) “ci” piace di più… Quello invece che “tutti accoglie” e ci chiede di “tutti accogliere”, dà un po’ troppo poco risalto al nostro io – sempre in cerca di affermazione (per illudersi di esserci – di non morire appunto, quindi di avere la vita – eterna) – perché, appunto, al centro mette l’altro… l’inevitabile necessità di “uscire da sé” per farsi prossimo…

Eppure – se vogliamo dare credito a Gesù – e nella vita diverse volte l’abbiamo potuto sperimentare… – la strada per la Vita, il suo senso, la sua pienezza, la sua eternizzazione… è “sprecarla” per gli altri, mettergli l’olio sulle ferite, accudirlo, coccolarlo, consolarlo, farlo crescere… includerlo nel circolo dell’amore che «riconcilia tutte le cose».

giovedì 4 luglio 2013

XIV Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 66,10-14)

Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate. Sfavillate con essa di gioia tutti voi che per essa eravate in lutto. Così sarete allattati e vi sazierete al seno delle sue consolazioni; succhierete e vi delizierete al petto della sua gloria. Perché così dice il Signore: «Ecco, io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la pace; come un torrente in piena, la gloria delle genti. Voi sarete allattati e portati in braccio, e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati. Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore, le vostre ossa saranno rigogliose come l’erba. La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati (Gal 6,14-18)

Fratelli, quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo. Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura. E su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia, come su tutto l’Israele di Dio. D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo. La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con il vostro spirito, fratelli. Amen.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 10,1-12.17-20)

In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”. Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città». I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».

 

In questa Quattordicesima Domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa ci invita a riflettere sul brano del vangelo di Luca (Lc 10,1-12.17-20) che segue immediatamente quello della settimana scorsa (Lc 9,51-62), seppur con una piccola cesura nel mezzo (Lc 10,13-16).

Dopo la prima parte (conclusasi in Lc 9,50), siamo dunque collocati in quella seconda parte del vangelo che era iniziata con la decisione di Gesù di dirigersi a Gerusalemme – «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme» (Lc 9,51) – e che si concluderà proprio a Gerusalemme con la passione, morte e risurrezione di Gesù: una seconda parte orchestrata seguendo il filo conduttore del viaggio verso Gerusalemme.

Mentre quindi il brano di settimana scorsa era l’episodio inaugurale di questo “secondo tempo” del vangelo di Luca, il brano di questa domenica tratteggia quello immediatamente successivo… il quale però si riferisce subito a quanto lo aveva appena preceduto: «Dopo questi fatti…», dopo cioè il rifiuto dei samaritani ad accogliere Gesù, la reazione dei discepoli (con annessa sgridata!) e le istruzioni di Gesù a chi vuole seguirlo.

È a questo punto che l’evangelista inserisce un episodio che gli è proprio, cioè che solo lui – fra tutti – racconta: è il cosiddetto “invio dei settantadue”. «L’intenzione, probabilmente, è di mostrare come la missione non è unicamente affidata allo stretto gruppo degli apostoli, ma anche alla cerchia più vasta dei discepoli. Il compito di annunciare Cristo rientra nella vocazione cristiana semplicemente. E deve estendersi a tutta la terra: il numero settantadue richiama infatti la tradizione giudaica che riteneva che le nazioni della terra fossero, appunto, settantadue» [B. Maggioni, il racconto di Luca, 206].

Il problema però è quello di intendersi… Troppo spesso infatti la sottolineatura per cui la “missione” è prerogativa di tutti i cristiani, è stata usata da qualcuno per autoproclamarsi dispensatore di verità, o – peggio – per reclutare improvvidamente (per loro e per gli altri) turbe di persone (che in maniera efficace e geniale come sempre, Sequeri chiama “i pretoriani del vangelo”) a convertire chissà chi… un esempio su tutti: quando preti e catechisti invitano i ragazzini a essere “testimoni” presso i loro coetanei – che in sé sarà anche una cosa bella, ma non quando vuol dire mandarli a combattere (totalmente sprovveduti) “battaglie” da cui escono solo più bastonati, più frustrati e più soli … o peggio ancora, ritenendosi gli unici “santi” in un mondo di peccatori… che è l’anti-vangelo (ma loro non lo sanno… ancora). Anche perché aveva detto «vi mando come agnelli in mezzo ai lupi»… dunque i cuccioli è meglio lasciarli a casa…

Il punto è dunque intendersi… su cosa sia “missione”, “testimonianza”, “annuncio”… e in proposito qualcuna Gesù ne dice…

Innanzitutto: «li inviò a due a due»… forse perché – e mi pare già una bella delimitazione di campo per inserirsi in una prospettiva corretta – la missione non è questione di insegnare intellettualmente delle verità, o moralmente dei precetti, o spiritualisticamente dellepreghiere, ecc… ma di mostrare la verità che è Gesù, che si traduce in una “morale” (cioè in una storia... fatta di gesti, parole, carezze, silenzi, vicinanza, accudimento… comportamento, plasmazione di sé…), nutrita dentro allapreghiera (la relazione intima col Padre…). E allora, quale il modo migliore di mostrare questa verità (Gesù e il suo vangelo), questa morale (la vita evangelizzata in tutti i suoi interstizi), questa preghiera (il farsi dire la propria identità di figli da uno che ci è Padre) – tutte cose che noi per primi abbiamo ricevuto in regalo (non sono nostre… conquiste!) – che quello di “farla vedere” a due a due – appunto: cioè in un “cantiere antropologico”, dove vivendo così, amando così, gli altri possano prima vedere e poi essere come tirati dentro ad una dinamica, ad una relazione… Non a caso Gesù pone come segno di riconoscimento dei suoi, proprio il bene che si vogliono (tra loro!), cioè la qualità (evangelica) della relazione che vivono: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35)!

Segue poi una constatazione… «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai»… «per chiarire subito l’impresa e gli attori : e prendere atto che c’è una sproporzione strutturale congenita tra le messi sterminate da mietere e i pochi contadini addetti! Bisogna assolutamente entrare in questo atteggiamento di piccolezza e insufficienza sproporzionata, a scanso di equivoci dolorosi, perché l’opera a cui siamo mandati ‑ il Regno – non è nostra… organizzata da noi: è sua! Siamo solo lavoratori nei suoi campi – e la tentazione subdola sarà [invece sempre quella] di inventarci mezzi nostri, illudendoci di riempire lo scarto incolmabile»! [Giuliano].

«Pregate dunque il signore della messe»… «la preghiera,[infatti] è l’unica preparazione proporzionata: proprio perché il Regno è del Padre, occorre entrare nelle sue intenzioni, nel suo animo, nella sua volontà…» [Giuliano]. E «non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada», «per togliere ogni occasione di conflitto, ogni apparenza di interesse, ogni materia di rivalità, nell’incontro tra discepolo di Gesù e gli uomini» [Giuliano].

Fino a qui le premesse… per arrivare al dunque… le istruzioni cioè per favorire quello che è il centro dell’annuncio, il senso della missione, l’oggetto della testimonianza: e cioè una buona notizia! E non le cattive notizie di cui invece spesso – più o meno inconsciamente – noi cristiani ci facciamo messaggeri (“Se fai così vai all’inferno!”, “Guarda che questo è peccato”, “Non si può fare questo, non si può fare quello”, ecc… ecc… ecc…). Che magari possono anche essere inevitabili, e giuste, e necessarie (pedagogicamente parlando)…

Ma prima… di tutto… dite: “Pace”: «In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”».

E che questo sia l’essenziale lo ribadisce il fatto che – nonostante Gesù stesso ponga la distinzione tra le “città che vi accoglieranno” e quelle che “non vi accoglieranno” – comunque “a tutti annunciate il Regno”: «Quando entrerete in una città e vi accoglieranno […] dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio” / Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno […] dite: “[…] sappiate però che il regno di Dio è vicino».

E il Regno – nel vangelo – è sempre e solo una buona notizia! Questo è, senza ombra di dubbio, l’inequivocabile del vangelo (eu = buon; anghello = annuncio): «i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo» (Mt 11,5). Proprio come aveva profetizzato Isaia: «Ecco, io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la pace; come un torrente in piena, la gloria delle genti. Voi sarete allattati e portati in braccio, e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati. Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore, le vostre ossa saranno rigogliose come l’erba. La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi»… come mano/sguardo di Padre e non di Giudice! Una mano/sguardo che sola può fare dell’uomo la “creatura nuova” di cui parla Paolo, per la quale davvero poi «la circoncisione non conta, né la non circoncisione»; né i voti, né i non voti; né l’essere Giudei o Greci; maschi o femmine, schiavi o padroni… perché – appunto – ormai si è nuovi, come ritessuti di una stoffa i cui fili si chiamano fiducia, consegna, dedizione, cura: «Il frutto dello Spirito infatti è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è Legge» (Gal 5,22-23).

E allora sì che “satana cade”… cioè: la storia si sdemonizza, le persone sono liberate e gioiose, la pace è accolta in comunione e tenerezza…

Ma c’era uno “scuotere la polvere”, che forse fa contraddizione (?!)… perché «“scuotersi la polvere dai piedi contro qualcuno…” è comunque sempre un fatto doloroso» [Giuliano]… Ma anche qui… bisogna intendersi… “scuotere la polvere” per quanto sia un riconoscimento del rifiuto della pace – e dunque un prendere le distanze dalla logica mondana che l’ha provocato – non è però certo un maledire quella casa, per la quale l’annuncio di pace si è rivelato precoce… basta ricordare la reazione aggressiva rimproverata da Gesù ai due fratelli, di domenica scorsa: Lc 9,54… si tratta allora piuttosto del rifiuto (visibilizzato in un gesto) del lasciarsi contaminare dalla stessa logica della contrapposizione competitiva… dunque – appunto – rilanciare ancora una volta la logica evangelica!

E a conferma le parole di Paolo Curtaz, tratte da una sua omelia: «Gesù ci indica con precisione lo stile e la modalità della missione. I discepoli vengono mandati a due a due, precedendo il Signore. Non dobbiamo convertire nessuno: è Dio che converte, è lui che abita i cuori. A noi, solo, di preparargli la strada. Non dobbiamo salvare il mondo: il mondo è già salvo, è che non sa di esserlo. In coppia veniamo mandati: l’annuncio non è l’atteggiamento carismatico di qualche guru, ma dimensione di comunità che si costruisce, di fatica dello stare insieme. Il Signore ci chiede di andare senza troppi mezzi, usando gli strumenti sempre e solo come strumenti, andando all’essenziale. Il Signore ci chiede di portare la pace, di essere persone tolleranti, pacificate. Nessuno può portare Dio con la supponenza e la forza, l’arroganza dell’annuncio ci taglia da Dio in maniera definitiva. Infine il Signore ci chiede di restare, di dimorare, di condividere con autenticità. Noi non siamo diversi, non siamo a parte: la fatica, l’ansia, i dubbi, le gioie e le speranze dei nostri fratelli uomini sono proprio le nostre, esattamente le nostre. Condividiamo la ricerca, portando nel cuore il Vangelo, senza facili verità da sbattere in faccia agli altri, ma nella serena certezza che il Signore ci conduce per mano».
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