Pagine

ATTENZIONE!


Ci è stato segnalato che alcuni link audio e/o video sono, come si dice in gergo, “morti”. Se insomma cliccate su un file e trovate che non sia più disponibile, vi preghiamo di segnalarcelo nei commenti al post interessato. Capite bene che ripassare tutto il blog per verificarlo, richiederebbe quel (troppo) tempo che non abbiamo… Se ci tenete quindi a riaverli: collaborate! Da parte nostra cercheremo di renderli di nuovo disponibili al più presto. Promesso! Grazie.

martedì 28 maggio 2013

Santissimo corpo e sangue di Gesù


Dal libro della Genesi (Gn 14,18-20)

In quei giorni Melchisedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole: «Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra, e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici». Abram gli diede la decima di tutto.

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 11,23-26)

Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

 

Dal vangelo secondo Luca (Lc 9,11-17)

In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta». Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a compare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

 

In questa seconda domenica dopo Pentecoste, la Chiesa ci invita a celebrare un’altra grande solennità: quella del santissimo corpo e sangue di Cristo. Viene così a completarsi una parabola intensissima e altrettanto impegnativa (Tempo di Pasqua – Ascensione – Pentecoste – Trinità – Corpus Domini), che in qualche modo ci fa tornare al momento del suo inizio (Giovedì santo), quando – durante la messa in Coena Domini – avevamo ascoltato proprio la medesima seconda lettura che la liturgia ci propone anche oggi (1Cor 11,23-26).

All’interno di questa parabola “tenuta su” da queste due colonne – da queste due 1Cor 11,23-26 – “c’è dentro tanto”, “c’è stato dentro tanto” (sia a livello liturgico, che dal punto di vista dei misteri celebrati, sia per quanto ha definitivamente toccato le nostre vite…), quasi che a riguardarla ora sembra tanto intensa, tanto decisiva, eppure tanto contratta… davvero, infatti, ancora molto di quella parabola resta e resterà da dire, da com-prendere, da assimilare… I misteri che in essa si sono dati ci superano davvero… e solo una vita di immersione in essi potrà, forse, farci arrivare alla fine un pochino più “cristianizzati”, “evangelizzati”, “umanizzati”…

Se però quest’anno C mette il testo di 1Cor 11,23-26 come punto di inizio e di fine di questo itinerario liturgico, allora forse val la pena già oggi spenderci qualche energia, qualche pensiero, qualche parola…

La prima lettera ai Corinzi è una lettera tanto bella quanto difficile: Paolo infatti la scrive ai suoi di Corinto più che altro per muovergli qualche rimprovero… In questo senso, forse, alcuni passaggi appaiono alla nostra sensibilità odierna un po’ strani… E però – allo stesso tempo – contiene in sé anche sprazzi stupendi, che sono diventati pilastri nella cultura biblica dei cristiani di sempre, anche di quelli meno avvezzi a maneggiare i testi…

È proprio la sorte del nostro capitolo 11, versetti 23-26, la cui collocazione liturgica nella messa in Coena Domini, ne ha fatto un “classicone”: la quarta versione dell’istituzione dell’eucaristia, dopo le tre sinottiche. Anch’esso però – a ben guardare – non ha una collocazione così luminosa, come la lettura dei soli versetti che la seconda lettura di questa domenica propone, sembra lasciar intendere. Anzi: se si fa la fatica di leggere tutto il brano (1Cor 11,17-34), ci si accorge subito come esso coincida esattamente con uno di quei “passaggi duri” della 1Cor di cui si diceva prima: «Mentre vi dò queste istruzioni, non posso lodarvi, perché vi riunite insieme non per il meglio, ma per il peggio» (v. 17)!

E il problema di cui Paolo si lamenta è quello che attraversa tutta la lettera: «Vi sono tra voi divisioni», «Quando vi radunate insieme il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti quando siete a tavola, comincia a prendere il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco».

A questo punto allora Paolo fa memoria di quello che invece è (stata) – e dunque dovrebbe essere – la cena del Signore (vv. 23-26): «Il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”. Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga»; dove gli elementi centrali sono sostanzialmente tre:

-       L’identificazione del corpo e sangue di Gesù col pane e col vino;

-       La memoria di lui;

-       La vita consegnata.

Egli infatti – pare dire Paolo ai suoi – in quella sua ultima cena non ha fatto altro che prendere del pane, del vino, identificarli col suo corpo e col suo sangue e dire che se avessero voluto fare memoria di lui, avrebbero dovuto farla così (fate questo / fate così in memoria di me): con un pane spezzato, segno del suo corpo donato e con del vino versato, segno del suo sangue sparso. Segni cioè della sua consegna, per amore, alla morte; della sua consegna, per fede, al rischio del non senso; della sua consegna per la Vita, disposto a perderla… per ritrovarla. Che è quanto Paolo riassume nel suo potentissimo commento al cosiddetto racconto dell’istituzione dell’eucaristia: «Ogni volta che mangiate si questo pane e bevete al calice voi annunciate la mortedel Signore (finché egli venga)». La morte del Signore…

Questa è la solennità del Corpus Domini: non l’idolatrizzazione di un pezzo di pane, ma la memoria che il Signore è Dio così; è colui che vive di una consegna per la vita dell’altro; e di tutto quello che ha detto e fatto, e patito e pregato, ha voluto esplicitamente che questo fosse il gesto sintetico di ciò che lui è (stato): pane / corpo spezzato; vino / sangue versato per

In questo senso anche le parole di Paolo che seguono (e che sono spesso state storpiate e travisate lungo i secoli), trovano la giusta collocazione. Dice infatti l’apostolo: «Perciò chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore»; dove ciò che appare con radicalità è l’identificazione forte tra pane / corpo e vino / sangue, tanto che – davvero – chi mangia in modo indegno pane e vino, è colpevole verso il corpo e il sangue del Signore… Ma dove (anche) ciò che va ri-significato è quell’“indegno” che ha davvero martoriato “troppa tanta gente” (che non si dice, ma rende l’idea…).

Perché se è vero quanto detto in precedenza, il problema della degnità / indegnità, non è problema moralistico, ma capacità di accoglienza del mistero della donazione del Signore: cioè accettazione pacificata che il nostro Dio è Colui che si consegna alla morte per amore e che – dunque – se siamo suoi discepoli, quella è la via per cui ci instrada…

Ma questo – proprio perché contempla in sé un’inevitabile storicità (è infatti solo l’interazione tra “vita” e “pensare la vita” che permette tale com-prensione, affidamento, instradamento…) – non ha niente a che vedere con un’estrinseca analisi di sé per vedere se si può essere ammessi “a far la comunione” senza incappare in qualche condanna o nel far adirare un dio di cui feriremmo la dignità col nostro peccato (puntuale o duraturo). Questo dio – va continuamente ripetuto al nostro “io vecchio” – NON è il Dio di Gesù! E la conferma viene dallo stesso Paolo che parla sì di analizzare se stessi («Ciascuno dunque esamini se stesso e poi mangi del pane e beva del calice»), ma non alla ricerca di indegnità morali (peccati), ma alla ricerca dell’unico peccato a cui il Nuovo Testamento dà realmente un peso, che è il non ritenere degno di credito un Dio che ama i suoi figli fino a morirne: «perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore (che cioè del Signore si fa memoria vera quando lo si ricorda come colui che si consegna), mangia e beve la propria condanna».

Abbastanza inutile ripeterlo, ma forse ancora un po’ necessario nella Chiesa del terzo millennio: non si dice questo per sostituire semplicemente l’oggetto dell’analisi puntigliosa e angosciosa della propria vita… prima si andava alla ricerca dei peccati, oggi di quanto veramente sono consapevole / sto credendo che “lì dentro c’è Gesù”… Lo “scaravoltamento” è ad un altro livello! Perché l’analisi puntigliosa e angosciosa è ancora figlia di un altro dio, non di quello di Gesù, qualsiasi sia il suo oggetto… Piuttosto io credo che si possa proprio fare la comunione in pace con il corpo di quel Signore che è Colui che si consegna: nel momento cioè in cui – anche in maniera proprio iniziale, immatura, ingenua, non troppo consapevole, fragile, trepidante, e chi più ne ha più ne metta… – si dà un piccolo credito così al fatto che la vita è Vita quando si consegna per il bene dell’altro, si può star tranquilli che si sta facendo davvero e bene la memoria del Signore, che ha glorificato Dio nel suo corpo, come Paolo invita ciascuno di noi a fare: «Glorificate Dio nel vostro corpo!» (1Cor 6,20). Perché se qualcuno avesse ancora dubbi: «Il Signore è per il corpo» (1Cor 6,13)!

giovedì 23 maggio 2013

Trinità 2013


Dal libro dei Proverbi (Pr 8,22-31)

Così parla la Sapienza di Dio: «Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, quando ancora non aveva fatto la terra e i campi né le prime zolle del mondo. Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 5,1-5)

Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 16,12-15)

In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

 

Domenica scorsa, con la celebrazione della solennità di Pentecoste, si è chiuso anche per quest’anno il Tempo di Pasqua. Lunedì è infatti ripreso il cosiddetto Tempo Ordinario. Eppure, in questa prima domenica dopo Pentecoste, ci ritroviamo subito a festeggiare un’altra solennità: quella della Santissima Trinità. Non è facile “star dietro” a tutte queste feste (ascensione, pentecoste, trinità…), una dietro l’altra, perché i misteri che vogliono celebrare sono davvero grandi… e soprattutto sono impastati di così tante precomprensioni culturali, che – a volte – già solo nominarle, fa scappar via la gente…

Per esempio… parlare di Trinità non è così immediatamente agevole… si rifugge all’idea di provare a spiegare o spiegarsi cosa stia realmente dietro a questa parola, che non è nemmeno biblica… istintivamente vengono in mente piroette filosofico-teologiche che tutti sentiamo come assolutamente estranee, estrinseche, lontane, incomprensibili… con nessuna incidenza o significatività per la concretezza e quotidianità della nostra vita…

E allora m’è perfin venuto da chiedermi: “Ma perché la Chiesa celebra questa festa”, “Perché mi costringe a riflettere su ‘questa cosa’ così complicata?”… E la risposta che mi son data, mi ha fatto quasi sorridere nella sua semplicità ed evidenza così spesso dimenticate o offuscate da tante impalcature intellettualistiche che i secoli passati ci hanno montato nella testa: “La Chiesa celebra questa festa e parla di Trinità, semplicemente perché è ciò che emerge dal vangelo. La Chiesa parla di Trinità perché Gesù, oltre che di sé, ha parlato del Padre e ha parlato dello Spirito”.

E non lo ha fatto occasionalmente, o per inciso… Ma tutta la sua vita è come sostenuta da una passione “urgente” di rivelare il Padre, di farlo conoscerlo, di farlo vedere («La parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato», Gv 14,24); e da una “fissazione quasi ossessiva” per l’annuncio del dono dello Spirito («Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me», Gv 15,26).

È per questo che parliamo di Trinità! Perché Gesù non ha semplicemente parlato di sé come del Messia o del Dio fattosi uomo, ma ha contemporaneamente parlato (con le parole e con la vita) di un Padre e di uno Spirito…

Un annuncio che poi la Chiesa ha condensato nel dogma niceno del Dio uno (nella sostanza) e trino (nelle persone). Ma – appunto – diversamente da quanto noi spesso facciamo (e in parte nei secoli passati anche la chiesa ha fatto) è il vangelo a dare la misura e il senso al dogma, non il contrario: per cui di fronte alla solennità della Trinità il nostro pensiero non deve immediatamente andare a chissà quale congegno intellettualistico partorito dall’uomo per tentare di spiegare (inventarsi?) dio; quanto piuttosto alle parole di Gesù, che indubitabilmente fanno con costanza riferimento al Padre ed allo Spirito. È lui – che noi crediamo l’insuperabile rivelazione di Dio – che ci ha parlato dell’intimità di Dio in quei termini. Tra l’altro all’interno di un contesto in cui non era facile elaborare una “teoria” del genere: siamo infatti nella culla dell’ebraismo, religione che tutti ricordano e riconoscono come il primo grande e ferreo monoteismo della storia. Una religiosità che non a caso ha nel primo dei suoi dieci comandamenti, precisamente la “blindatura” della sua rigorosità in materia: «Non avrai altro Dio»!

Ma… se tutto questo è vero… la domanda diventa: “Cosa ha dunque detto Gesù del Padre e dello Spirito?”.

Evidentemente non possiamo qui ora richiamare alla memoria tutti i passi (espliciti o meno) in cui Gesù – vivendo – fa tralucere questa sua relazione intimissima col Padre («Chi ha visto me, ha visto il Padre», Gv 14,9; «io sono nel Padre e il Padre è in me», Gv 14,11; bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, «e come il Padre mi ha comandato, così io agisco», Gv 14,31), che è lo Spirito… Ma possiamo certamente annotare come “premura incalzante” di Gesù sia quella di annunciare agli uomini la loro non - orfanità: «Non vi lascerò orfani» (Gv 14,18).

Dire che Dio è Abbà e dire che il ritorno di Gesù a lui non è abbandono, ma assenza colmata («io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre», Gv 14,16) è il vangelo di Gesù, la sua buona notizia. Dire “trinità” è dire non-solitudine: questo è Dio per Gesù, una non-solitudine che vuole coinvolgere l’uomo, perché non sia e non si senta mai (mai più) solo, nemmeno di fronte alla morte, che è così paurosa perché – per quel che vediamo noi – è solitudine estrema, eterizzata, abbandonata…

La non-solitudine che invece è il Dio che ci ha raccontato Gesù è relazione da sempre e per sempre. Questo è Dio: relazione da sempre e per sempre. E non una “relazione qualsiasi”…

Per specificarla dovremmo forse dire “una relazione d’amore”, ma quest’ultima espressione risulta così abusata da non essere più in grado di dire e significare niente… o tutto e il contrario di tutto, che è poi lo stesso…

Diciamo allora che è “relazione decentrante” – che è lo stesso che dire “amore” ma con un termine un po’ meno noto e dunque, forse, meno scontato –, relazione cioè in cui si vive della custodia dell’altro (degli altri) e per la custodia dell’altro (degli altri); dove quindi non sono io a dovermi pre-occupare di me, perché è il bene degli altri che mi “tiene”, ma devo piuttosto pre-occuparmi degli altri, perché siano “tenuti” da me… Dio è questa “cosa” qui; tra l’altro circolare (ha tre persone coinvolte) e non solamente reciproca (relazione a due): perché è come se il bene che i due (Padre e Figlio) si vogliono, straripasse al di là dei confini del loro rapporto e diventasse a sua volta terzo elemento del rapporto (Spirito) “sovrabbondante”, che ingenera una specie di reazione a catena coinvolgendo sempre qualcun altro… Come quelle particelle che si liberano nelle reazioni chimiche e vanno ad innescare altre reazioni, che a loro volta liberano un sovrappiù di “particelle” che andranno ad innescare nuove reazioni… e così via… a catena…

E questa storia – che è la stessa del dogma niceno, solo raccontata con parole più laiche e più riconoscibili dalle orecchie dei giorni nostri – non è quella che a me è piaciuto inventare o che a qualche padre conciliare è piaciuto ipotizzare 1700 anni fa (il Concilio di Nicea è del 325): è la storia che è piaciuto narrare (vivendola) a Gesù di Nazareth, che noi crediamo essere il Figlio di Dio e la sua piena rivelazione… Dio è la non-solitudine, è l’esserci per l’altro…

Ma se questo è vero – e lo è radicalmente – allora bisogna essere coraggiosi fino in fondo: «A ben vedere, [infatti] ogni tentazione cristiana (e, a livello inconsapevole, ogni tentazione umana) è una tentazione antitrinitaria. Ogni totalitarismo, che censura le differenze per esaltare un solo valore; ogni spiritualismo che deprezza la carne e la debolezza ad essa legata, esaltando superuomini; ogni materialismo che seppellisce il seme dello Spirito e il suo gemito nascosto nel cuore dell’umanità; ogni lucignolo di verità spento in nome delle verità più grandi; ogni uomo isolato o perseguitato per le sue idee o la sua diversità; ogni debole oppresso dalla prepotenza di altri uomini; ogni bimbo che non può crescere e gioire a causa del nostro egoismo… è una bestemmia contro la Trinità. Noi cristiani, cui questo mistero è affidato, ne abbiamo fatte e dette tante di queste eresie storiche - e Giovanni Paolo II ne ha chiesto perdono a tutti più di cento volte… Ma è pure vero che un’innumerevole folla di martiri ha testimoniato il rifiuto della prepotenza politica o ideologica di capi, re e imperatori. Generazioni di credenti, laici e consacrati, famiglie e chiese, hanno sfidato la logica del potere e del danaro…e hanno seminato nel mondo il fermento del primato della persona, e quindi l’accudimento del malato e del debole, l’assistenza e l’istruzione del meno fortunato, l’ascolto e il rispetto di tutti i pareri diversi…» [Giuliano].

È ben vero allora che l’idea di Dio che abbiamo in testa non è ininfluente sulla vita che costruiamo (foss’anche l’idea che Dio non c’è – perché anche questa è un’idea di Dio…), ma anzi: dall’idea di Dio che uno ha in testa, si capisce anche che uomo egli è; e viceversa, ovviamente: da che vita uno conduce, si può capire in che “idea” di Dio crede… se in un dio monadico, totalitario, autoritario, autosufficiente, autoriferito, ecc… o in un Dio di relazione, di pluralità, di custodia, di solidarietà, di collaborazione…
Un “dio per sé” ha infatti seguaci che vivono per se stessi; un “Dio per gli altri” ha seguaci che vivono per gli altri…

martedì 14 maggio 2013

Pentecoste 2013


Dagli Atti degli Apostoli (At 2,1-11)

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proséliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 8,8-17)

Fratelli, quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio. Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 14,15-16.23-26)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre. Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».

 

La domenica di Pentecoste – come tutti sanno – si celebra il memoriale del dono dello Spirito Santo da parte del Padre, attraverso Gesù risorto, ai discepoli.

Ma di cosa si tratta davvero? Al di là delle formulazioni, al di là delle frasi fatte che conosciamo da sempre, al di là delle spiegazioni nominalistiche di questo “mistero” (vere, ma del tutto insignificanti – non significative per noi, per me), di cosa si tratta quando si parla del dono dello Spirito santo?

Io credo si tratti – andando contro il sentire comune per cui questa è una festa (solo) gioiosa – in realtà, di uno dei momenti più drammatici della vita della Chiesa (di allora) e dell’esperienza dei singoli cristiani (di sempre). Credo infatti si abbia a che vedere con la “cosa” più difficile da credere di tutto il fatto cristiano. E provo a spiegarmi…

Qui si tratta di credere:

1)      Che la storia va avanti anche senza Gesù: cioè – allora come oggi – che il “non averlo più tra noi” non chiude la storia, non solo o non tanto quella umana, di cui chi ha perso chi dava senso alla sua vita non è poi molto preoccupato, ma quella personale; il dramma infatti per i suoi è: “Come mai io sono vivo se lui è morto?”, “Che senso ha che io sia in vita, se nella vita lui non c’è?”… Precisamente questo infatti è in gioco con l’elaborazione dei testi neotestamentari che parlano del dono dello Spirito. In prima battuta infatti il fatto che ci sia lo Spirito, vuol dire che non c’è più Gesù. O appunto: che c’è in Spirito… Ma su questa drammatica non si può soprassedere o passar via troppo in scioltezza… Perché che Gesù “non ci sia più” non è affatto una cosa banale. E non lo è stato allora…

2)      Ma non solo questo… Qui si tratta di credere, non solo che la storia vada avanti anche senza Gesù, ma che essa quasi “debba” andare avanti; e non solo per inerzia, perché finché il corpo non muore si resta in “vita” (come cantava De Gregori: «Cosa sarà che fa morire a 20 anni, anche se vivi fino a 100?»); e nemmeno perché Gesù abbia fallito e quindi la vita debba andare avanti alla ricerca di altro, che dia senso, che sia la vera via, verità e vita…; no: credere nel dono dello Spirito santo vuol dire credere che – nonostante Gesù non ci sia più come prima – sia sensato andare avanti, portare avanti quella sua medesima storia, quella sua via, verità e vita che – pure – l’ha portato a non esserci più…

La Pentecoste è dunque la scelta radicale tra il credere alla vita o alla morte, all’affidamento o alla paura, all’aprirsi o al chiudersi, all’amare o all’odiare… Pentecoste è scegliere se la storia continua o se la storia finisce… Questa infatti è la posta in gioco: vivere da figli o vivere da orfani?

I testi neotestamentari – anche quelli delle letture di questo anno C – sono nati precisamente con l’intenzione di raccontare (attraverso l’elaborazione “a posteriori” di questa scelta) come la Chiesa delle origini, quegli uomini e quelle donne, si siano determinati. Quale sia stata la loro risposta. E ogni generazione cristiana, ogni singolo uomo su questa terra, a partire da quella loro esperienza fondante, è chiamato a rispondere per sé a questo interrogativo…

Ciò che a noi può sembrare strano è la puntualità con cui – per esempio il testo della prima lettura di questa domenica – racconta la scelta, come se tutto si fosse concentrato in un episodio, in un momento, in un attimo che ha determinato tutto il resto della vita di questi uomini. In realtà – come si evince dalla faticosa vicenda degli Atti – anche per loro non è bastato decidersi una volta per tutte… e l’elaborazione “a posteriori” che noi oggi ci ritroviamo tra le mai nei testi neotestamentari è – appunto – una ricostruzione “a posteriori”, un tentativo cioè di condensare in un breve racconto cosa abbia voluto dire credere alla vita che continuava, alla sensatezza della vita che continuava… al fatto che si trattasse di una continuazione “abitata” e non orfana…

Come dire… Lo Spirito donato ha avuto anch’esso bisogno del credito di chi lo ha ricevuto, ha avuto bisogno del riconoscimento del fatto che si trattava di una nuova modalità di presenza di Gesù e del Padre suo tra i suoi.

Questo perché non si ha a che fare con un’idea, con un dogma, con una proposizione da imparare a memoria e ripetere a comando, ma piuttosto con il credito che si è disposti a dare alla parola / vita (promettente) di Gesù... che aveva promesso di non lasciarli/ci soli («Non vi lascerò orfani», Gv 14,18), di restare sempre con loro / con noi sulle vie di questo mondo («ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo», Mt 28,20) e di costruire insieme a loro / a noi la vita (così come spiega san Paolo: «Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio»)…

Ma se Pentecoste è tutto questo, se credere al dono dello Spirito santo, vuol dire credere ad una modalità nuova di accessibilità a Gesù (e in Lui, a Dio) – nonostante non lo si veda, non lo si senta, non lo si tocchi –, se vuol dire credere in una possibilità diversa – ma vera, addirittura più intima e universale – di relazione a Lui, che continua nonostante l’assenza fisica (in spirito, appunto…), se – inoltre – lo si fa basandosi sulla sua parola… allora non ci si può più porre di fronte a questo mistero come di fronte “a questo sconosciuto”… come se lo Spirito fosse qualcosa d’altro rispetto a quanto raccontato nel vangelo… come se credere in Lui fosse qualcosa di diverso che credere che Dio è «Abbà, Padre» e che «Gesù è Signore», “nonostante” la sua morte e la sua assenza fisica… che dunque Egli è incontrabile, che può davvero ancora alimentare la vita che continua, che può davvero plasmare i nostri cuori perché il suo Regno venga…

«… Si può dunque, nella vita feriale, camminaresecondo lo Spirito [di Gesù], disinquinando la storia dal basso – cominciando dalle piccole cose accessibili agli uomini senza potere, che però sono assuefatti ai segreti del Regno. E imparando a lasciarsi abitare e guidare da Lui. Così cresce il germe divino che dimorain noi, negli appuntamenti silenziosi e nascosti della vita d’ogni giorno…ove lo Spirito stesso viene in aiuto alla nostra debolezza

e intercede con insistenza per noi, con “aneliti senza rumore”.

 

QUANDO?:…

"   quando dobbiamo fare tante piccole cose senza senso, come sorridere a qualcuno, mentre tutto ci amareggia o ribolle dentro

"   quando lasciamo ad altri un minuscolo successo o affermazione, senza ritorsioni, per lasciarli crescere… in pace

"   quando silenziosamente condividiamo la passione dei sofferenti e disperati della terra - seduti per terra con loro

"   quando sperimentiamo il desiderio e insieme l’impossibilità di uscire dalle gabbie della carne e dall’egoismo - e confidiamo lo stesso che la liberazione è vicina e non ci sarà negata

"   quando la fame di compagnia e tenerezza ci rode la carne - e la solitudine sembra l’unica assurda risposta

"   quando facciamo i conti della nostra vita e vediamo un passivo incolmabile scavato nell’anima - e ci fidiamo che un Altro, inafferrabile, pareggerà

"   quando stiamo dentro l’amara realtà quotidiana sino alla fine, sottomettendoci con fatica alla monotonia corrosiva di una vita che si svuota

"   quando ci ostiniamo a pregare, sicuri di essere in ogni caso esauditi, anche se nessun segno ci perviene

"   quando la caduta diventa l’estremo umano modo di camminare, che ci rimane - perché sempre di nuovo chiediamo di essere accolti, amati, sollevati

"   quando affidiamo la domanda irrisolta e il desiderio inesaudito al mistero di grazia che tutto avvolge - dove Qualcuno, nel buio o nel disagio interiore, ci chiama con il nostro nome

"   quando ci esercitiamo nei disappunti delle faccende quotidiane, per imparare a morire con serenità ed amore - vivendo, appunto, come vorremmo morire

"   quando ci sono offerte scintille di gioia e compiutezza, e cerchiamo di condividerle …

 

 DOVE?:…

"   dove è nascosta la possibilità piccola, ma qualitativamente essenziale, della nostra libertà - di donarci

"   dove incontriamo… il diverso – perché l’alterità è la casa dello Spirito, “dove si manifesta la verità ‘più’ intera e le cose future”

"   dove siamo chiamati al coraggio di atteggiamenti nuovi… per “abbeverare di Spirito la nostra carne”, aprendola a gusti diversi, in vista della redenzione del nostro corpo

"   dove è nascosta la mistica quotidiana, perché questa accoglienza dello Spirito … è l’unione con Dio, l’eterno che scorre nella nostra storia!

"   dove si può gustare la sobria ebbrezza dello Spirito, di cui parlano i Padri e l’antica Liturgia: sobria, perché vissuta laicamente e sommessamente nella storia d’ogni giorno; ebbrezza, perché è una strana forza interiore, che vuole mandarci ‘fuori’… dagli angusti schemi mondani».
Giuliano […. su un testo di K Rahner…]

martedì 7 maggio 2013

«Memoria e Profezia» del Vaticano II: L'Ecumenismo


L'Ascensione: la festa della laicità


Dagli Atti degli Apostoli (At 1,1-11)

Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra». Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».

 

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 9,24-28;10,19-23)

Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte. Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza. Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 24,46-53)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto». Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

 

Quest’anno la liturgia della Parola che la Chiesa ci propone in occasione dell’Ascensione, è curiosamente composta da due racconti del medesimo evento. Esso infatti nel NT è raccontato sia nel Vangelo di Luca (vangelo che caratterizza questo anno liturgico C), che nel libro degli Atti degli Apostoli, che tradizionalmente, ogni anno, va a costituire la prima lettura della solennità dell’Ascensione. Ci troviamo dunque di fronte – quest’anno, e solo per quest’anno C – ad una prima lettura e ad un vangelo che narrano la stessa esperienza…

Ciò detto, bisogna però anche aggiungere che, l’avere a disposizione e l’essere chiamati a meditare su entrambi i racconti neotestamentari dell’ascensione, non rende l’impresa meno ardua… Parlare di ascensione non è facile. Come scriveva don Dossetti infatti: «Fino alla croce ci sono dei sentimenti naturali che possono in qualche modo, nonostante le nostre resistenze, darci il senso che essa è ancora dentro il nostro orizzonte umano. La risurrezione evidentemente già ci fa faticare di più, perché ci porta assolutamente al di sopra del nostro orizzonte. Ma l’ascensione impegna in modo ancora più totale la nostra capacità di trascendere la nostra esperienza e la nostra capacità di vivere – nella considerazione di questo mistero – tutto il prolungamento dell’esistenza che noi speriamo, ma che contrasta fortemente con la nostra esperienza immediata, che sa che al di là della vita c’è la morte. Bisogna, invece, che pensiamo che questo è il mistero veramente riassuntivo di tutto Gesù, di tutto il Cristo. Bisogna tornarci su spesso» [G. Dossetti, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 97-98].

Raccogliendo dunque l’invito di don Dossetti, anche noi, proviamo a tornare su questo mistero che la Chiesaci invita a celebrare, cercando innanzitutto di precisare meglio perché Egli lo definisca come un qualcosa che «impegna in modo ancora più totale la nostra capacità di trascendere la nostra esperienza e la nostra capacità di vivere»… Cosa è in gioco con l’ascensione?

In gioco c’è l’esperienza intensa e lacerante che la prima comunità ha fatto della partenza di Gesù («Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi» / «si staccò da loro e veniva portato su, in cielo»), della sua distanza fisica, della sua assenza, della sua invisibilità, non “consultabilità”, non “fruibilità” almeno nei termini in cui lo era stato fino a quel momento (da vivo o da risorto). Questo è il problema…

Ed è un po’ troppo sbrigativo risolverlo dicendo “Beh, è ‘finito’ il tempo di Gesù, inizia quello della Chiesa”… Innanzitutto perché è una soluzione che toglie la realtà della drammatica in atto – che chiunque ha avuto un morto tra i suoi conosce molto bene –; inoltre perché bisogna intendersi bene su quel “finire del tempo di Gesù” e su quell’“iniziare del tempo della Chiesa”, che sono slogan utili e che dicono anche qualcosa di vero, ma che vanno intesi bene per non risultare fuorvianti…

Forse allora, è utile tornare a chiederci con un po’ di pazienza cosa abbia voluto dire davvero (e cosa voglia dire davvero) questa ascensione… Innanzitutto potremmo farci questa domanda: Letteralmente cosa vuol dire “ascendere”? E soprattutto: Dove è “asceso” Gesù?

Scrivono i biblisti bergamaschi su Scuola della Parola del 2003: «Il racconto dell’Ascensione non concede moltissimo alla descrizione: si dice che Gesù sale al cielo, mentre una nube lo nasconde allo sguardo. Il cielo non è tanto ciò che sta in alto, ma è un altro modo di essere di Gesù. Luca non insiste, non ha l’interesse di stupire il lettore con delle scenografie spettacolari; anzi, il suo modo di esprimersi è molto sobrio, nonostante la qualità del contenuto».

Ma se «il cielo non è tanto ciò che sta in alto», dove è stato assunto Gesù? Dove è andato a finire? E cosa si intende con questo “modo altro di essere”? Ci facciamo aiutare ancora una volta da don Dossetti [G. Dossetti, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 69-73.99], che con molto acume annota: «Mi sembra che sia detto anche a noi di non dovere stare lì a guardare il cielo fisico, per ritrovare un contatto con Gesù asceso alla destra del Padre», infatti «il cielo di cui si parla non è certamente il cielo fisico – questo già lo sappiamo, però bisogna sempre tornarselo a dire, per sgomberare l’anima da quella pesantezza che viene da questo rapporto con il cielo fisico –, e non è nemmeno una realtà spaziale o una realtà dell’ordine fisico o dell’ordine creato: il cielo non è questo. Questo cielo è esclusivamente Dio stesso».

“Gesù assunto in cielo”, vuol dire allora “Gesù immerso nel Padre”.

«Dunque, vedete, non compiamo nessun itinerario esterno. Soltanto si tratta di raggiungere degli spessori totalmente interni all’essere. […] In questo ordine di essere, in questo spessore intimissimo, Cristo è stato assunto. […] È in conseguenza di questo suo ritorno al Padre che lui si intimizza a noi: è veramente con noi ed è veramente in noi, ritornato al Padre, raggiunge in noi lo spessore più profondo del nostro essere, quello in cui il nostro essere giace in lui, in Dio». Perciò «nell’atto stesso in cui sembra allontanarsi, in realtà si fa massimamente intimo a noi e noi diventiamo massimamente intimi a lui»!

Tant’è che ancora i bergamaschi scrivono: «La parola “ascensione” a noi ricorda soltanto il momento finale, quando – quaranta giorni dopo la Pasqua – Gesù sale al cielo», ma essa «comincia ad apparire molto presto nel vangelo di Luca, ben prima del momento puntuale dell’ascensione. In Luca 9,51 leggiamo: “mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo…”. Letteralmente, quel “tolto dal mondo” è diverso nel testo originale e l’intera frase suonerebbe così: “mentre stavano compiendosi i giorni del suo salire (del suo essere assunto)”. È lo stesso vocabolo che abbiamo in Atti per indicare l’ascensione: il “fu assunto in cielo”, non rappresenta solo (o forse non tanto) l’essere tolto dal mondo, ma è il compimento di quella “salita” di Gesù, incominciata il giorno in cui ha con decisione orientato il suo volto e i suoi passi verso Gerusalemme. Il suo salire non avviene soltanto con l’Ascensione nel quarantesimo giorno, ma inizia con quel cammino verso Gerusalemme», proprio perché non è un salire “fisico”, ma un’immersione in Dio…

Ecco perché l’esperienza umanamente insuperabile – e insuperata – dell’assenza di chi non c’è più, è riletta dal NT come l’esperienza di una nuova modalità di presenza: perché Gesù non si è dissolto nel niente, ma si è immerso – trascinandosi dietro la sua umanità – nel Padre. La buona novella da annunciare a tutto il mondo è infatti che da sempre «la Chiesa vive di questa consapevolezza: Cristo è vivo in mezzo ai discepoli».

In questa ottica anche lo slogan prima citato del “finisce il tempo di Gesù, inizia quello della Chiesa”, assume la corretta intonazione: il tempo di Gesù – di per sé – non finisce; finisce una modalità della sua presenza e ne inizia un’altra, quella che noi chiamiamo Spirito. La Chiesa infatti altro non è (o non dovrebbe essere) che la comunità di quelli che vivono di questo nuovo e intimissimo modo di rapportarsi al Signore risorto e dentro a questo rapporto imparano la dedizione per gli altri… anzi è la dedizione per gli altri, perché l’incontro in spirito con chi è spirito è riconoscibile (da chi non è ancora solo spirito) sempre e solo a posteriori, mai “in diretta”…

Non a caso mentre il vangelo di Luca termina – senza che nessuno avverta questo come un problema – dicendo degli apostoli che «stavano sempre nel tempio lodando Dio», gli Atti – in maniera quasi sarcastica – aggiungono subito: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?». Come a dire che il nuovo modo di stare col Signore – starci in spirito – non ha niente a che vedere con il ritagliare uno spazio sacro in cui isolarsi, ma coincide con l’immersione nella secolarità. Dicevamo infatti qualche settimana fa: «il Nuovo Testamento è molto parco nel parlare di amore nostro per Dio» e invece che impostare il comandamento nuovo sulla logica matematica del “come vi ho amati io, amatemi anche voi così”, proclama: «Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri»… Come a dire che l’incontro “spirituale” (in spirito) passa dalla storia e dai volti che in essa abitano e non da un ritrarsi da essa.

La vita cristiana però «fatica a mantenere il modello di equilibrio della difficile tensione escatologica, nata dall’Ascensione, che è insieme un’assenza del Signore, abitata dallo Spirito – e un’attesa del suo ritorno, impegnata nell’annuncio fattivo del Regno a tutti gli uomini. Ci si orienta piuttosto ad una schizofrenia ecclesiale dove i due poli della tensione si separano e tendono a cristallizzarsi in due classi diverse: i laici comuni, che guardano in basso e curano le cose del mondo e i monaci che, alla deriva della fuga et contemptus mundi, guardano solo in alto. Scordandosi così che il Vangelo domanda fedeltà, condivisione, compassione, servizio radicali e totalizzanti per tutti i discepoli, pur in situazioni esistenziali diverse» [Giuliano].
In questo senso aveva proprio ragione, quando scriveva che: «L’Ascensione è la nostra festa: di noi che cerchiamo i semi della laicità, come il dono capace, man mano che gli uomini se ne rendono conto, di svuotare ed eliminare ogni discriminazione sacrale, ideologica, economica, sessuale… discriminazione sempre fondata sulla diversità che noi interpretiamo spesso come inferiorità e disumanità… lasciandoci sfuggire la forza di umanizzazione per noi, che invece ogni uomo che incontriamo sempre riserva come dono che solo lui può farci».
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...

I più letti in assoluto

Relax con Bubble Shooter

Altri? qui

Countries

Flag Counter