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martedì 30 aprile 2013

VI Domenica di Pasqua


Dagli Atti degli Apostoli (At 15,1-2.22-29)

In quei giorni, alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli: «Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati». Poiché Paolo e Bàrnaba dissentivano e discutevano animatamente contro costoro, fu stabilito che Paolo e Bàrnaba e alcuni altri di loro salissero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per tale questione. Agli apostoli e agli anziani, con tutta la Chiesa, parve bene allora di scegliere alcuni di loro e di inviarli ad Antiòchia insieme a Paolo e Bàrnaba: Giuda, chiamato Barsabba, e Sila, uomini di grande autorità tra i fratelli. E inviarono tramite loro questo scritto: «Gli apostoli e gli anziani, vostri fratelli, ai fratelli di Antiòchia, di Siria e di Cilìcia, che provengono dai pagani, salute! Abbiamo saputo che alcuni di noi, ai quali non avevamo dato nessun incarico, sono venuti a turbarvi con discorsi che hanno sconvolto i vostri animi. Ci è parso bene perciò, tutti d’accordo, di scegliere alcune persone e inviarle a voi insieme ai nostri carissimi Bàrnaba e Paolo, uomini che hanno rischiato la loro vita per il nome del nostro Signore Gesù Cristo. Abbiamo dunque mandato Giuda e Sila, che vi riferiranno anch’essi, a voce, queste stesse cose. È parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenersi dalle carni offerte agl’idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalle unioni illegittime. Farete cosa buona a stare lontani da queste cose. State bene!».

 

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (Ap 21,10-14.22-23)

L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello. In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 14,23-29)

In quel tempo, Gesù disse [ai suoi discepoli]: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate».

 

Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa Sesta Domenica del Tempo di Pasqua coincide quasi per intero con la parte conclusiva del capitolo 14 di Giovanni. Mentre infatti, domenica scorsa, l’invito era a soffermarsi sulle parole che Gesù dice ai suoi non appena Giuda è uscito dal cenacolo (Gv 13,31-35), stavolta l’invito è quello di concentrarsi su una parte del medesimo discorso, riportata qualche versetto più avanti (Gv 14,23-29).

Per comprendere però effettivamente ciò di cui si sta parlando, è utile tornare a leggere – ininterrottamente – tutto questo primo discorso che Gesù fa durante l’ultima cena (ne farà altri due: Gv 15,1-16,4 e Gv 16,4-33), e che appunto parte da Gv 13,31 e giunge sino a Gv 14,31:

(31) Quando fu uscito, Gesù disse: Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. (32) Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. (33) Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete ma, come ho detto ai Giudei, ora lo dico anche a voi: dove vado io, voi non potete venire. (34) Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. (35) Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri». (36) Simon Pietro gli disse: «Signore, dove vai?». Gli rispose Gesù: «Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi». (37) Pietro disse: «Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!». (38) Rispose Gesù: «Darai la tua vita per me? In verità, in verità io ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte. 14 (1) Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. (2) Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? (3) Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. (4) E del luogo dove io vado, conoscete la via». (5) Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». (6) Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. (7) Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». (8) Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». (9) Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? (10) Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. (11) Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse. (12) In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre. (13) E qualunque cosa chiederete nel mio nome, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. (14) Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò. (15) Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; (16) e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, (17) lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. (18) Non vi lascerò orfani: verrò da voi. (19) Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. (20) In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. (21) Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui». (22) Gli disse Giuda, non l’Iscariota: «Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?».

Come è facilmente intuibile anche “a occhio”, tutto questo lungo discorso è organizzato in questo modo: dopo i versetti 31-35 (su cui non ritorniamo, perché oggetto della lectio di domenica scorsa), il testo è strutturato in diversi momenti, introdotti ogni volta da una domanda dei discepoli («dice a lui Simon Pietro»; «dice a lui Tommaso»; «dice a lui Filippo»; «dice a lui Giuda, non l’Iscariota») e dalla successiva risposta di Gesù; e sostanzialmente gira intorno a tre concetti fondamentali: «(1) al centro la grande proclamazione cristologica: nel momento in cui ritorna al Padre, per i suoi discepoli Gesù è “la via” per la quale essi stessi possono giungere al Padre; (2) lo sviluppo teologico di questo concetto è la “conoscenza” e la “visione” del Padre a cui si incamminano e che già esperimentano i discepoli che seguono “la via” Gesù; (3) in partenza l’annuncio e la promessa soteriologicadell’ingresso dei discepoli nelle “dimore” del Padre in comunione col Figlio glorificato» [M. Laconi, il racconto di Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi 1989, 290]. Fin qui il testo che precede il nostro brano…

L’ultima domanda invece, quella di Giuda non l’Iscariota, è quella che inaugura – precisamente a questo punto del discorso – la risposta finale di Gesù, che coincide col vangelo odierno. Esso, forse, dopo la lettura di quanto precede, diventa più facilmente comprensibile, o per lo meno, non così estemporaneo.

Innanzitutto la prima battuta di Gesù: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola». Un’idea già esposta due volte nel discorso (al v. 15: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti»; – al rovescio – al v. 21: «Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama»; e successivamente, in negativo, al v. 24: «Chi non mi ama, non osserva le mie parole») e che ha un’eco interessante: noi spesso infatti ci troviamo molto più in sintonia con la logica del v. 21, quella cioè per la quale può dire di amare Gesù chi accoglie e osserva i suoi comandamenti, che è una cosa vera (perché non si aspetta di diventare buoni per fare cose buone, ma si diventa buoni facendo cose buone) e che peraltro è una logica che fa esplodere i confini in cui a volte ci vien da circoscrivere il gruppo di chi è veramente discepolo (perché se chi lo ama è colui che osserva i suoi comandamenti, allora anche chi è al di fuori della cerchia confessionale può amare il Signore – cfr. la I lettura)…

Ma, insieme a quanto detto finora, bisogna anche considerare che, in qualche modo, questo primo versante della questione, non sta in piedi se non dentro ad un rapporto bilaterale/circolare con l’altro versante del problema che le citazioni mettono in luce («Se mi amate, osserverete i miei comandamenti»): perché è anche vero che chi ama Gesù, cioè chi si fa coinvolgere e conquistare da Lui, è colui che – proprio per questo – segue la sua parola, come un innamorato che vive il suo amore (le sue parole, i suoi gesti, le sue attenzioni, ecc…) non perché deve, ma perché ama, perché solo in quell’attuazione lì dice se stesso in verità… Scriveva Dossetti in occasione della Sesta Domenica di Pasqua del 1971: «Tutte le parole del Vangelo si concentrano nella persona di Gesù e nell’amore che dobbiamo a lui. […] L’unico modo per stare totalmente attaccati a Dio è quello di amare Gesù. E l’unico modo per stare attaccati all’Evangelo stesso del Signore, è quello di amare lui, la sua persona. Solo allora i suoi comandamenti, i suoi precetti, le sue indicazioni, i suoi insegnamenti restano nel nostro cuore; altrimenti persino le parole del Vangelo possono diventare idoli, o pretesti, o diaframmi superstiziosi. […] Fino a che non scatta un incontro personale col Signore Gesù, anche il rispettare, ammirare e meditare le stesse parole del Vangelo è una cosa che vale solo nella speranza che porti a questo incontro personale. Quando invece questo incontro è avvenuto, quando abbiamo incontrato il Signore Gesù, sia pure solo per qualche barlume – non possono essere mai altro che barlumi –, allora anche il Vangelo stesso diventa estremamente semplice e luminoso. […] Non lo diciamo in modo sconsiderato, no, sappiamo benissimo che vivere secondo l’Evangelo in concreto è difficile, perché siamo ammalati di tanti mali, soprattutto del male peggiore che è il male dell’io. Ma, nonostante questo, possiamo dire senza leggerezza che crediamo che il Vangelo diventi semplice e agevole, luminoso, quando un poco ci lasciamo attirare dall’amore per la persona del Signore. Allora anche tutti i nostri insuccessi e le nostre sconfitte non sono più degli inadempimenti a dei precetti, ma diventano elementi di un rapporto dinamico con una persona. Quando consideriamo il Vangelo come legge, se violiamo un precetto è un guaio: la violazione c’è stata. Ma se invece ricapitoliamo tutto il Vangelo in questa “semplificazione”, cioè nel nostro rapporto personale col Signore, l’inadempimento è una cosa riparabile, proprio perché è nella dinamica del nostro rapporto con la sua persona. Se io contravvengo il codice stradale, l’ho contravvenuto, ma se oggi non realizzo una parola del Vangelo e me ne accorgo e cerco di spremere dal mio cuore un pochino più di amore per il Signore Gesù, ecco che il buco è già colmato, anzi è meglio di prima, proprio perché non sono in rapporto con una norma o con una dottrina, ma sono in un rapporto dinamico con il Signore. E la violazione di un’ora fa o di un minuto fa può essere compensata da una decisione più forte di amore» [G. Dossetti, Omelie del Tempo di Pasqua, San Paolo, Milano 2007, 35-37].

Ciò che però di questa “dinamica circolare” diventa radicale nella seconda parte del v. 23 è che Gesù prosegue: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui».

Anche questa tematica del “dimorare” non è nuova nel discorso: al v. 3 Gesù aveva infatti detto «verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi»; inoltre per tutto il capitolo 14 aveva parlato della sua relazione col Padre nei termini di un essere reciprocamente l’uno nell’altro (v. 11: «Io sono nel Padre e il Padre è in me») e di un inclusione del discepolo in questa dinamica (v. 20: «Io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi»)… addirittura era già stato introdotto anche il “ruolo” dello Spirito (ripreso poi nell’odierno versetto 26): infatti al v. 17 si diceva «lo Spirito della verità voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi». Sostanzialmente cioè era già chiaro come il tema di questa grande pagina fosse il dono che Gesù fa ai suoi discepoli. Infatti «la sua partenza significherà l’apertura di un dono immenso e straordinario: Dio viene ad abitare in noi. La partenza di Gesù significherà di fatto il momento in cui si inaugura una sua presenza non più di tipo fisico – come era fino allora, e quindi limitata a qualcuno, in un certo tempo e in un certo luogo –, ma di tipo interiore, per cui Dio, Gesù e lo Spirito verranno a porre la loro dimora nel cuore dei discepoli, in ogni tempo e in ogni luogo» [P. Pezzoli, Giovanni 13-17, in AaVv., Scuola della Parola 2002, Diocesi di Bergamo, 230]. «Non vi lascerò orfani!», aveva detto Gesù al v. 18.

Ma, nonostante questo fosse già chiaro, come scrive ancora Laconi, il «prenderemo dimora presso di lui» del v. 23, «persino in uno scritto come il quarto vangelo, estremamente originale e persino spregiudicato nella profondità e intensità delle sue formule religiose, rappresenta una straordinaria eccezione. Non vi si parla soltanto della venuta di Dio in mezzo agli uomini; il discorso va molto più in là. Si tratta dell’amore di Dio verso il discepolo, della venuta verso di lui del Padre e del Figlio, della stabile dimora divina accanto alla sua vita. Si ha addirittura l’impressione di un grosso passo avanti persino nei confronti del Prologo, dove si alludeva alla “tenda” liturgica dell’abitazione del Verbo fra gli uomini, aprendo l’importante discorso sull’abitazione sacra – il Tempio – del Divino in terra. Qui ogni allusione liturgico-sacrale sembra decadere: Dio viene semplicemente a “prendere dimora” là dove gli uomini abitano, accanto alla “dimora” terrena del discepolo di Gesù». Non a caso la II lettura, tratta dall’Apocalisse, riporta quel sorprendente versetto, nel quale, nel pieno della descrizione della Gerusalemme celeste (il mondo come Dio lo vuole), si dice: «In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio», che fa da pendant con un altro sorprendente – ma più noto – passo del Vangelo di Giovanni 4,21.23: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. […] Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità».

Può perciò concludere Laconi: «L’immediatezza concreta, la quotidianità di questo divino “abitare” accanto all’uomo, alle cose e alle sue situazioni nella loro ovvia, e magari banale, consistenza, potrebbe apparire come il supremo tentativo teologico di Giovanni di portare alle estreme conseguenze il processo di avvicinamento di Dio all’uomo iniziato con l’Incarnazione. Al di fuori di implicazioni direttamente religiose o cultuali, Dio entra senza condizioni e senza limiti nella vita dell’uomo che crede in Gesù, “abita” accanto a lui, entra nella sua vita con una divina scelta di familiarità, di amicizia e di intimità sconcertanti». Bisogna cioè rinunciare a espliciti risvolti spirituali leggendo questa pagina: «Dio viene semplicemente a prendere parte alla vita del discepolo di Gesù, a vivergli accanto, come gli stanno accanto le cose e le persone che fanno parte della sua esistenza».

Ecco perché è possibile davvero pacificarsi il cuore, ascoltando Gesù che dice: «Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore». Perché questo suo abitare presso di noi, e dunque la possibilità reale di incontrarlo “in spirito” (perché «Dio è spirito» Gv 4,24), quindi di amare la sua persona, di lasciarcene affascinare e conquistare, fino a giocare la vita per lui e per la via che lui è, perché – appunto – affidabile nel suo farsi prossimo, è davvero ciò che può rompere autenticamente il giogo della paura che blocca il nostro sgorgare Vita.

martedì 23 aprile 2013

V Domenica di Pasqua


Dagli Atti degli Apostoli (At 14,21-27)

In quei giorni, Paolo e Bàrnaba ritornarono a Listra, Icònio e Antiòchia, confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede «perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni». Designarono quindi per loro in ogni Chiesa alcuni anziani e, dopo avere pregato e digiunato, li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto. Attraversata poi la Pisìdia, raggiunsero la Panfìlia e, dopo avere proclamato la Parola a Perge, scesero ad Attàlia; di qui fecero vela per Antiòchia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per l’opera che avevano compiuto. Appena arrivati, riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede.

 

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (Ap 21,1-5)

Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate». E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose».

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 13,31-35)

Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».

 

Il vangelo che la Chiesa ci propone per questa Quinta Domenica di Pasqua è tratto dal capitolo 13 del vangelo di Giovanni: un capitolo “svolta”, in quanto proprio qui iniziano ad essere raccontati i fatti degli ultimi giorni di vita di Gesù. Siamo infatti nel contesto dell’ultima cena, immediatamente dopo la lavanda dei piedi (che – come noto – in Giovanni sostituisce l’istituzione dell’eucaristia raccontata dai sinottici e da Paolo) e l’annuncio del tradimento. Giuda, come ricorda anche il primo versetto che la liturgia ci offre (Gv 13,31), è appena uscito.

È precisamente a questo punto che Gesù si mette a parlare, inaugurando un lungo discorso che durerà per ben quattro capitoli (da 13,31 a 17,26), del quale i versetti di questa domenica sono, appunto, l’incipit. Si tratta di un discorso la cui struttura e la cui formulazione rendono evidente che, «nel cenacolo, i discepoli svolgono per l’evangelista soprattutto la funzione dei rappresentanti della comunità cristiana futura. La curiosa ambiguità dei tempi verbali, abitualmente, ma non sempre rispondenti alle ultime ore di Gesù in terra, ne rappresenta un indizio eloquente. Qui parla Gesù, mentre si avvia alla croce; e nello stesso tempo parla il Signore glorificato e celeste, rivolgendosi alla sua chiesa» [M. Laconi, Il racconto di Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi1989, 278]. Ecco perché leggiamo questo testo anche nel tempo pasquale ed ecco perché in esso possiamo rintracciare il pilastro fondamentale della vita cristiana.

Ma andiamo con ordine… Cercando di ripercorrere gli elementi costitutivi dell’incipit di questo discorso.

Innanzitutto, quel “grido di vittoria”, pronunciato appena Giuda è uscito nella notte: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito». Questa esclamazione – e in particolare la sua collocazione immediatamente dopo la risoluzione di Giuda di attuare il suo tradimento – desta grandi perplessità. Non è di facile comprensione infatti immaginarla associata all’episodio appena accaduto: come può Gesù affermare «Ora il Figlio è stato glorificato», se la scena precedente dell’uscita di Giuda è tutto tranne che una glorificazione? «Perdere un discepolo non è mai un onore, non è mai una gloria; perdere un discepolo è una sconfitta. E lo è talmente, che Gesù era rimasto sconvolto (v. 21) al solo pensiero del tradimento» [P. Pezzoli, Giovanni 13-17, in AaVv., Scuola della Parola 2002, Diocesi di Bergamo, 225]. Di che gloria sta parlando dunque?

Forse dell’unica gloria che ha una consistenza vera… e che, sempre Pezzoli, prova a raccontare così: «Il Figlio dell’uomo è stato glorificato perché nella notte di Giuda è apparsa la luce dell’amore di Gesù che ha integrato il tradimento. Anche attraverso il tradimento di Giuda, si manifesta quell’amore “fino alla fine”, quell’amore perfetto che è il tema di questa parte finale del vangelo. Ciò che glorifica Gesù e glorifica Dio non è il tradimento di Giuda, ma quell’amore che si manifesta anche di fronte al tradimento, anzi arriva al massimo davanti al tradimento perché si rivolge anche a quello. Viene dato il boccone anche a colui che tradisce, anche per lui c’è la vita donata nella morte provocata proprio da quel tradimento. Ecco la gloria di Gesù! È il raggio di luce che illumina quella notte. È la gloria dell’amore, è lo splendore dell’amore di Dio che si manifesta in Gesù».

Interessante infatti poi la reciprocità della glorificazione, che questi versetti esplicitano: per ben cinque volte è ripetuto il verbo glorificare, attribuito di volta in volta al Figlio e al Padre, come a dire che questo “di più dell’amore” che caratterizza la vita del Figlio non è qualcosa di slegato dal Padre: come se Gesù “fosse stato tanto buono”, ma poi Dio arriverà a far tornare i conti… No! Gesù è Dio e Dio è Gesù; nel senso che è dentro la fornace trinitaria che arde questo “di più dell’amore”; è lì che il Figlio l’ha “imparato”; e la sua vita, con il suo concreto e storico decidere di se stesso (decidere di volta in volta chi essere) è la piena rivelazione di Dio (così come ricorda DV 4: «Dopo aver a più riprese e in più modi, parlato per mezzo dei profeti, Dio “alla fine, nei giorni nostri, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1,1-2). Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e spiegasse loro i segreti di Dio (cfr. Gv 1,1-18). Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come “uomo agli uomini”, “parla le parole di Dio” (Gv 3,34) e porta a compimento l'opera di salvezza affidatagli dal Padre (cfr. Gv 5,36; 17,4). Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il Padre (cfr. Gv 14,9), col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione che fa di sé con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l'invio dello Spirito di verità, compie e completa la Rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna»).

Precisamente in questa dinamica trinitaria, in cui il Padre è glorificato «perché nei gesti di Gesù, nei suoi atteggiamenti (la lavanda dei piedi, l’accoglienza di Giuda, l’atto di consegnarsi alla croce), si manifesta l’amore di Dio» e «Gesù viene glorificato, perché la sua umanità diventa la trasparenza di Dio» [Pezzoli], viene invitato ad entrare l’uomo: «Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».

«Ecco il tanto discusso specifico cristiano, ilnuovo statuto antropologico – come ristrutturato sul nuovo Adamo: sic-come io vi ho amato, amatevi anche voi (causale ed imitativo). Non è una nuova legge, un super-comandamento: Lui si è piuttosto innamorato di noi: uscito da sé si è abbassato fino a noi, per condividere la nostra sorte… tutto il resto è una conseguenza interna dell’amore. Non si può imitarlo senza innamorarci (decentrarci) anche noi» [Giuliano].

Ecco perché non c’è nient’altro da fare nella vita (cristiana) che rimettersi sempre dentro a questo flusso di amore che ci investe e ci trascina agli altri e dal quale noi ogni tanto ci sottraiamo perché ci pare sempre un dono in perdita, perché ci spaventiamo della morte, abbiamo paura del dis-perderci e vorremmo trattenerci un po’ per noi e tra noi… ma credere a Dio per un cristiano non vuol dire altro che credere a Gesù e credere a Gesù non vuol dire altro che aprire i propri canali al circolo del “di più dell’amore” che dilata sempre più la nostra interiorità, «per farci stare ognuno e ogni cosa che chiederà uno spazio – è terreno tuo che offri alla dilatazione del Regno» [Giuliano].

E in questo senso «è interessante anche un altro aspetto di questo comandamento: “Così come io vi ho amato, amatevi gli uni gli altri”. Secondo una certa logica, avrebbe dovuto dire: “Così come io vi ho amato, voi amate me”. L’amore di Dio scende su di noi, ma il movimento inverso non è quello di risalire, bensì il diffondersi nel mondo. Certo, poi la risposta ha sempre una dimensione verticale, ma il Nuovo Testamento è molto parco nel parlare di amore nostro per Dio» [Pezzoli]! «Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).

Ecco, la Chiesa è il “luogo” dove ci si ama gli uni gli altri, dove si devono sperimentare e vivere relazioni nuove, dove ciò che è distintivo è il “di più dell’amore” per ciascuno… Non a caso la Liturgia per la seconda domenica consecutiva ci fa leggere dal libro dell’Apocalisse la frase: «Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi»… Dove sorge spontanea la domanda: «Ma chi le asciuga, tutte queste lacrime? Sembra di vederla, questa moltitudine “di ogni nazione, tribù, popolo e lingua”, piangente, affamata, assetata, colpita dal sole e dall’arsura. Sembra di vederla nel senso che la vediamo proprio, nelle strade delle nostre città. Ed è proprio come la descrive la Parola di Dio (che non mente mai!): parla rom, rumeno, arabo, somalo, malinké, francese ed inglese stentati… E hanno fame, rovistano nei cassonetti con un uncino di fortuna, mendicano, stracciati, lungo le tangenziali. Probabilmente, piangono, reietti, lontani da casa. E chi le asciuga tutte le loro lacrime? A quali gesti concreti di custodia siamo chiamati, noi, per asciugarne almeno qualcuna? O pensiamo che ci penserà poi l’Agnello, nell’al di là, quando ritornerà glorioso… Perché l’Agnello quando tornerà glorioso ci dirà: “ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato” (Mt 25,42-43)… avevo le lacrime agli occhi e non me le avete asciugate…» [Davide Petrini].

Anche tutto il resto è importante, ma questo – a detta di Gesù, durante l’ultima cena – è il discrimine. Per questo la gloria del Padre e del Figlio trasborda (lo Spirito!) nella costituzione di una comunità che crede all’amore di Dio, se ne lascia convertire le dinamiche profonde seppellite nei meandri della nostra umanità, e di esso vive… “buttandolo” su altri.

In questo infatti sta la “novità” di questo comandamento nuovo, che non è un comandamento. Come ricorda Pezzoli, infatti, «esistono dovunque tra gli uomini convinzioni o comandamenti che insegnano come l’altro, il prossimo, vada amato, apprezzato, accolto e rispettato; soprattutto molto aveva insegnato su questo l’Antico Testamento. E allora in che senso è il nuovo comandamento di Gesù? Principalmente a motivo di quel “come io ho amato voi”. L’amore coltivato dalla comunità di Gesù non è una generica apertura all’altro, ma è il riflesso di quell’amore conosciuto nella vita di Gesù, nei suoi gesti, nelle sue parole». È l’assunzione della dinamica trinitaria… che ci ha investito, ci ha convinto, ci ha riplasmato…

E allora l’amore della comunità di Gesù è inevitabilmente strutturato come quello trinitario, che si riversa sempre su un altro, perché funziona per contagio: come il Padre e il Figlio non rimangono lì soli nell’eternità ad amarsi, ma trasbordano e “buttano fuori” lo Spirito (che è l’amore che si vogliono – infatti Egli procede dal Padre e dal Figlio – e travalica il rapporto duale), così gli uomini e le donne investite dall’amore di Dio non restano lì semplicemente a ri-amarlo, ma lo “buttano fuori”, lo riversano su altri… innestando una reazione a catena che davvero può raggiungere i confini del mondo (geografici e interiori).

lunedì 15 aprile 2013

IV Domenica di Pasqua (C)


Dagli Atti degli Apostoli (At 13,14.43-52)

In quei giorni, Paolo e Bàrnaba, proseguendo da Perge, arrivarono ad Antiòchia in Pisìdia, e, entrati nella sinagoga nel giorno di sabato, sedettero. Molti Giudei e prosèliti credenti in Dio seguirono Paolo e Bàrnaba ed essi, intrattenendosi con loro, cercavano di persuaderli a perseverare nella grazia di Dio. Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la parola del Signore. Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo. Allora Paolo e Bàrnaba con franchezza dichiararono: «Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore: “Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”». Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero. La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione. Ma i Giudei sobillarono le pie donne della nobiltà e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Bàrnaba e li cacciarono dal loro territorio. Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio. I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (Ap 7,9.14-17)

Io, Giovanni, vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. Uno degli anziani disse: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide col sangue dell’Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro. Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi».

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 10,27-30)

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

 


In questa Quarta Domenica di Pasqua, la Chiesa ci offre un vangelo brevissimo, ma intensissimo. Siamo al capitolo 10 del vangelo di Giovanni: Gesù è a Gerusalemme in occasione di una festa ebraica e mentre passeggia nel Tempio, viene interpellato dai Giudei – coi quali aveva già avuto diversi scontri: «Fino a quando terrai l’animo nostro in sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». Gesù – quasi sconsolato – risponde: «Ve l’ho detto e non credete… ma voi non credete, perché non siete mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io dò loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

Ecco… tutto il vangelo odierno è contenuto in queste potentissime frasi… Infatti dopo le prime tre domeniche di Pasqua, in cui il vangelo si soffermava sui racconti di apparizione, la Chiesa vuole ora farci fare un passettino ulteriore: mentre là infatti raccontava l’evento e contemporaneamente lo spiegava, qui prende una piccola distanza dall’evento e prova a concentrarsi sul senso. Come succede con le persone che amiamo: quando le abbiamo vicine le viviamo e le sentiamo, ma per vederle con occhi nuovi serve una distanza nuova. Così è il vangelo (che non a caso è la buona notizia che parla di una persona – anzi di tre): Giovanni infatti fa dire queste parole (che a noi servono per tentare di capire la risurrezione dei morti) a Gesù quando – secondo la cronologia evangelica – egli è ancora “vivo e vegeto”. In realtà però, quando Giovanni scrive, la prima comunità cristiana ha già vissuto “la distanza nuova” della morte e risurrezione che permette appunto di vedere Gesù con occhi nuovi. E dentro a questo gioco strabiliante di passato, presente e futuro che si intrecciano in questo testo, emergono parole potentissime che l’evangelista vuole lasciare alla sua chiesa: alle sue pecore il Signore dà la vita eterna… non andranno perdute in eterno… nessuno le strapperà dalla sua mano… e se questo non bastasse: «Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre»! Quasi a riaffermare in maniera ritornante e sempre più incontrastabile quanto aveva detto qualche versetto prima: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».

Con queste espressioni Gesù inserisce nella storia di Israele e nella storia dell’umanità, una novità inaudita. Perché fino ad allora “pastore” dell’uomo era qualcun altro: un pastore terrificante. «Questo “pastore” avvelena da sempre la vita dell’uomo sulla terra, e lo fa spasimare dietro obiettivi fallaci che lo svuotano e lo “sfiniscono”. Come dice l’antica sapienza biblica condensata nel Sal 49: Ascoltate, popoli tutti, / porgete orecchio abitanti del mondo, / voi nobili e gente del popolo, / ricchi e poveri insieme. […] Nessuno può riscattare se stesso, / o dare a Dio il suo prezzo. / Per quanto si paghi il riscatto di una vita, / non potrà mai bastare / per vivere senza fine, / e non vedere la tomba. / [   ] Come pecore sono avviati agli inferi, / sarà loro pastore la morte; / scenderanno a precipizio nel sepolcro, / svanirà ogni loro parvenza / gli inferi saranno la loro dimora. […] Questa è l’esperienza incancellabile degli innumerevoli greggi umani che si susseguono sulla faccia della terra: il pastore che li conduce è la morte – e l’ovile dove tutti li sospinge è … negli inferi. Su questo non c’è dubbio, e tutta la sapienza di Israele ne è impregnata. In questo contesto appare la luce nuova, in Cristo. L’incrollabile speranza che emerge nelle Scritture, infatti, è questa: che Dio e non la morte, è il vero pastore del popolo. Gesù l’ha imparato e poi insegnato: proprio quando ha l’impressione di entrare in una valle oscura, proprio quando le promesse antiche sembrano essersi tutte esaurite, abbandonato dai discepoli e anche dal Padre, si apre un varco attraverso la morte, un sentiero nuovo verso… i pascoli della vita, attraverso modalità impensabili, che fanno fremere le fibre della sua carne e stridere le categorie e i simboli che le vogliono esprimere… E paralizzano i discepoli stessi, che ne sono sconvolti, si disperdono come pecore spaventate (Mt 26,31).

Un agnello, un uomo come tutti, apparso nella fila sterminata del gregge umano, nato da donna, nato sotto la legge, uguale a noi in tutto, eccetto il peccato… passato attraverso le inevitabili sofferenze, esperienze e fragili conquiste umane, in uno sperduto paesino della Galilea… si rivela sempre più chiaramente ai discepoli... attraverso segni e parole… come il Messia, di cui parlavano le Scritture. È consapevole di essere colui che salverà le pecore della casa di Israele dalla perdizione. Vincerà il “pastore antagonista” – la morte! – non evitandola, con qualche privilegio miracoloso, ma affrontandola senza lasciarsene schiavizzare. Non è lei il pastore dell’umanità, ma il Padre, che ha dato a Gesù ogni potere» [Giuliano].

Ecco il punto che Gesù va a toccare, il centro del suo “essere venuto”, lo snodo dove si vede se una proposta, una vicenda, una libertà è degna di essere ascoltata o va a cadere nel vociare confuso del mercato umano: il problema della vita e della morte; della vita che rimane; della morte che non annienta… In base a quello che si dice su queste questioni (che la Chiesa chiama giustamente “ultime”, escatologiche) – in base a quello che si dice a questo livello, dove non c’è possibilità di gradazione, ma c’è il tutto (la vita) o il niente (la morte) – una proposta risulta degna di ascolto o meno; e Gesù lo sa.

Non basta dire parole vere; non basta fare segni che tolgano il problema contingente delle vicende che si stan vivendo; non basta nemmeno fare tutto questo con autorità… L’uomo valuta ciò che sente in base a quanto questo risponde al problema della vita e della morte.

Oggi infatti la mediocrità in cui spesso siamo gettati è dovuta al fatto che nessuna proposta ha la pretesa di dire qualcosa che vinca la morte, che valga al di là della morte… non i soldi, non il successo, non la salute, non gli amori facili… e infatti la nostra vita si riempie di tutte queste cose, per soffocare dentro l’anelito che dice: “Tutto questo finisce sottoterra”… Non crediamo più che ci sia qualcosa che regga il confronto con la morte, nessuna proposta pare all’altezza, tutte in qualche modo sono state screditate… Tanto vale allora vivere senza pensare che si deve morire… E tutta la nostra economia, la nostra politica, il nostro quotidiano pensare, parlare, scegliere, va in questo senso (spesso)… Perché morire fa paura… e allora meglio non pensarci… anche perché nessuno – come dicevamo – in proposito, sembra riuscire a tenere testa al problema del morire (e del rimanere morti, che è il vero dramma).

Ecco, Gesù in questo senso sfida questo indicibile, questo invalicabile confine del nulla, questo straziante destino che fa ammutolire tutti: Lui parla e ha il coraggio di dire che la sua proposta tiene testa anche alla morte, per questo è vera e va ascoltata, perché permette di abitare davvero la tragicità della drammatica umana.

Stando al vangelo sembra che tutto giri intorno al fatto di essere “sue pecore”… E la domanda che sorge spontanea è evidentemente quella che chiede: “Come si fa a essere sue pecore?”. Ecco il punto… il problema vero a cui il brano conduce… essere “sue pecore”… L’immagine è fin troppo inflazionata per lasciar correre con troppa disinvoltura ciò che ci salta in mente con immediatezza: “essere sue pecore è andare a messa”, “è comportarsi da bravi cristiani”, “è non fare il male”… Che non sono cose false o sbagliate… ma bisognerebbe anche saper dire cosa vuol dire andare a messa e vivere una vita eucaristica… cosa vuol dire essere “bravi cristiani” (formula curiosa, perché un cristiano non ha bisogno di essere bravo… dire “cristiano” è infatti già dire molto più che “bravo”…)…

Piuttosto – stando al testo – pare che l’essere sue pecore sia legato a tre caratteristiche: ascoltare il pastore, conoscerlo e seguirlo. Ma non nel senso con cui noi solitamente affrontiamo il problema religioso, per il quale di fronte al problema della salvezza (del salvarsi l’anima), sale pressante la domanda sul da farsi e le indicazioni che si possono racimolare si trasformano in precetti morali, itinerari spirituali, dogmi da credere… sotto questo meccanismo è fin troppo evidente la nostra ritornante mentalità mercantile: Cosa devo fare per pagarmi la salvezza? Credere questo, non fare questo, celebrare questa pratica… e sono apposto… Come se il problema della salvezza sia qualcosa di slegato da me, da chi sono io veramente. È il problema dell’anima, è il problema dell’aldilà. Non c’entra nulla con la mia vita, con ciò che amo, spero, temo… Più o meno come portare la macchina a far la revisione… E il tono della domanda che i Giudei gli rivolgono è molto chiara in questo senso: «Fino a quando terrai l’animo nostro in sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». Lette in quest’ottica le parole di Gesù sull’essere sue pecore han veramente poco da dirci… aggiungono forse qualche prescrizione, indicazione, orientamento… Ma questo non è Gesù, questo non è il vangelo… questo slegare vita e morte, anima e corpo, aldiqua e aldilà è un germe che si è insinuato un po’ dopo nella storia della Chiesa e dell’umanità… Per Gesù invece l’aldiqua non va vissuto per l’aldilà. Le due realtà non sono separate. Quello che sarò è quello che sono. Quello che costruirò dentro come consistenza e dilatazione umana, sarò io (da viva e da morta).

E questa “consistenza”, questa “vita che rimane in eterno”, la si scopre mettendosi dietro a lui, come buon pastore… di nuovo, non perché abbia chissà quali consigli, o nuovi precetti, o parole che – limitando la nostra natura umana peccaminosa – ci evitino l’inferno… Ma perché ascoltarlo, conoscerlo, seguirlo, vuol dire ripercorrere la vicenda del darsi storico della sua libertà (chi lui ha deciso di essere) e scoprire che il suo “segreto” per la Vita è stato perderla… non in maniera mortificante e autolesionistica, repressiva di sé e della sua umanità, ma perché affetto da “troppo amore”…

Ecco… chi si fa convincere e contagiare da questa malattia del “troppo amore” è una sua pecora a cui è promessa la vita che rimane e un abbraccio così forte nelle mani del Padre che nessuno potrà strapparlo.
 


 

E dentro a una logica così non c’è spazio per dire: beh, allora, quello là è fuori da questo abbraccio… perché se fosse solo un credo, beh, chi non crede è fuori; se fosse solo una norma, beh, chi non la segue è fuori… ma siccome è una “malattia” che viaggia per contagio, quella del lasciarsi toccare dentro dal troppo dell’amore, beh allora è davvero per tutti. E il compito del cristiano è fin troppo chiaramente evidenziato… contagiare, contagiare, contagiare… senza paura di essere a volte inadeguati, pasticcioni, infelici e imbranati nel proporsi… senza paura addirittura di tradire quello stesso amore che si va contagiando… perché il ricircolo dell’amore che il Signore non ha mai interrotto (né da vivo, né da morente, né da risorto) è nuovamente sempre lì da ri-attingere. Per questo bisogna continuamente seguirlo senza pensare ad un certo punto di essere noi i pastori… perché quando la storia fa tremare d’angoscia le nostre viscere e la paura blocca i nostri canali dell’amore, allora anche noi – magari cristiani da sempre – abbiamo bisogno di tornare a farci contagiare da Lui… fonte inesauribile dell’amore che si commuove dentro…

martedì 9 aprile 2013

III Domenica di Pasqua


Dagli Atti degli Apostoli (At 5,27-32.40-41)

In quei giorni, il sommo sacerdote interrogò gli apostoli dicendo: «Non vi avevamo espressamente proibito di insegnare in questo nome? Ed ecco, avete riempito Gerusalemme del vostro insegnamento e volete far ricadere su di noi il sangue di quest’uomo». Rispose allora Pietro insieme agli apostoli: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo a una croce. Dio lo ha innalzato alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono dei peccati. E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono». Fecero flagellare [gli apostoli] e ordinarono loro di non parlare nel nome di Gesù. Quindi li rimisero in libertà. Essi allora se ne andarono via dal Sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù.

 

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (Ap 5,11-14)

Io, Giovanni, vidi, e udii voci di molti angeli attorno al trono e agli esseri viventi e agli anziani. Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia e dicevano a gran voce: «L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione». Tutte le creature nel cielo e sulla terra, sotto terra e nel mare, e tutti gli esseri che vi si trovavano, udii che dicevano: «A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli». E i quattro esseri viventi dicevano: «Amen». E gli anziani si prostrarono in adorazione.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 21,1-19)

In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla. Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri. Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatre grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti. Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».

 

In questa Terza Domenica di Pasqua la Chiesa ci propone di meditare sull’ultimo capitolo del vangelo di Giovanni, quasi per intero. Innanzitutto va detto che il suo accostamento alla prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, risulta davvero simpatico: fa sorridere infatti sentire di questi uomini ormai così saldi e determinati nel loro annuncio e poco dopo ascoltare che quei medesimi personaggi, pochissimo tempo prima, erano invece ancora così impacciati nel riconoscimento del Signore risorto, ancora così addentro a quel processo di costruzione della loro fede in Lui.

Simpatico e piuttosto consolante…

Anche perché Giovanni in poche pennellate riesce a descrivere con efficacia la situazione – soprattutto interiore – di coloro che compongono questa terza scena di apparizione ai discepoli: sono in sette («Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli») e misteriosamente – nonostante le due apparizioni precedenti in cui Gesù aveva, tra l’altro, usato parole quali «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» – stanno facendo ciò che facevano prima della loro avventura umana con il Signore. Non solo non hanno fatto un passo in avanti (sono assolutamente distanti dalla situazione di annuncio descritta dagli Atti), ma sembrano addirittura aver fatto un passo indietro, aver subito una regressione: «Disse loro Simon Pietro: “Io vado a pescare”. Gli dissero: “Veniamo anche noi con te”. Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla». Non a caso la scena risulta molto simile a quella narrata in Lc 5,1-11 (cfr. anche Mt 4,18-22 e Mc 1,16-20), all’inizio della vita pubblica di Gesù e all’inizio della vita da discepoli dei discepoli: sono ancora sulle sponde del lago a fare i pescatori.

Eppure non sono più gli stessi… Addirittura questo testo fa apparire sotto una luce nuova anche quel «lasciarono tutto e lo seguirono» (Lc 5,11) degli inizi. Aver percorso tutta la vicenda di questi uomini fa infatti guardare le cose da un’altra prospettiva: certo rimane encomiabile ed esemplare la loro disponibilità a lasciare tutto e a seguire prontamente il Signore, ma ora comprendiamo quanto (ancora) poco fosse penetrata nella profondità delle loro viscere quella loro disposizione. In mezzo ora ci sono (secondo la scansione temporale sinottica) tre anni di vita vissuta con Gesù; tre anni in cui tante cose son state viste, dette, ascoltate, fatte, capite, fraintese… Soprattutto tre anni con un epilogo assolutamente pregnante per la vita di chi amava quell’uomo morto in croce… Tre anni di storia che hanno scavato e plasmato e cambiato, e umanizzato e allargato lo spazio interiore di questi uomini, il loro modo di guardare alla vita, di pensare alla vita…

E Giovanni è bravissimo a descrivere tutto questo: «Disse loro Simon Pietro: “Io vado a pescare”. Gli dissero: “Veniamo anche noi con te”. Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla [esattamente come in Lc 5]. Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù [come allora non avevano riconosciuto in Gesù qualcuno di così affascinante per cui giocare la vita]. Gesù disse loro: “Figlioli, non avete nulla da mangiare?”. Gli risposero: “No”. Allora egli disse loro: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”. La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci [si ripete la “pesca miracolosa”: Gesù è il medesimo da vivo e da risorto]. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: “È il Signore!” [lo riconosce proprio perché Gesù si presenta facendo le cose che faceva prima e che diceva essere il modo in cui Dio si rivelava (chiamare per nome, guarire, mangiare insieme, fare la Cena, spiegare le Scritture…)]. Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare [uno dei versetti più commoventi, in cui tra l’altro non si dice che Pietro riconobbe Gesù. Gli è bastato sentire che era il Signore per lanciarsi in mare e raggiungerlo. Si vede che dopo il rinnegamento e i fatti della passione e morte, aveva proprio un esagerato desiderio di rincontrare il suo maestro e amico]».

Proprio in questo tuffo di Pietro si vede in maniera evidente che non sono più gli stessi uomini che Gesù aveva incontrato tre anni prima. Pietro non è più solo affascinato da quello che Gesù fa e dice (e perciò lo segue), anzi qui neanche vede che è Lui. Eppure in quei tre anni ha costruito dentro la consistenza di un rapporto di bene per Gesù che – nonostante le sue fatiche, i suoi tradimenti, le sue incomprensioni – ora esplode nella sua evidenza: Pietro vuole bene a Gesù, ecco la differenza; un bene non più solo detto, o percepito, o sperato… un bene vissuto, scavato dalla storia, sagomato dalla vita (fatta di sudore, lacrime e sangue: «Diceva Anna Magnani al truccatore che prima del ciak stava per coprirle le rughe del volto: “Lasciamele tutte, non me ne togliere neanche una. C’ho messo una vita a farmele tutte» [dal documentario Il corpo delle donne, reperibile in rete]).

E da questo punto di vista è interessantissimo come Giovanni fa proseguire il testo, perché – come diceva don Bosco – non basta voler bene a qualcuno, ma bisogna che lui lo sappia… Ecco perché l’evangelista ritaglia un dialogo personalissimo tra Gesù e Pietro… che merita proprio di essere guardato più da vicino…

Siamo ormai alla fine del vangelo e Gesù incontra qui per l’ultima volta i suoi discepoli. E non è indifferente che proprio alla fine il discorso cada sul bene tra Gesù e Pietro. Anzi, nel leggere questo testo, non bisogna assolutamente dimenticarsi di questa collocazione, perché l’ultimo atto di Gesù – come per ciascuno – è necessariamente la sintesi prospettica con cui guardare a tutta la sua vita. Lì infatti si condensa il tutto di quello che è stato, come una sintesi incandescente della sua persona.

E l’interessante è che alla fine del vangelo, nell’incontro conclusivo dell’esperienza terrena del Signore, ciò che Gesù sente di domandare a uno dei suoi, e a quell’uno particolare che era Pietro, è se Gli voglia bene. È come se alla fine, ciò che, su tutto quanto hanno vissuto, detto, patito, deciso, sorriso, pianto, imparato, insegnato, ecc…, conta unicamente è la qualità del bene che è passato tra di loro, è la consistenza della relazione che si è creata, è l’apertura dei canali dell’amore a cui il rapporto li ha abilitati. È come per noi: alla fine cosa conta? Al momento del ritorno al Padre che ci sia qualcuno che ci vuole bene… Forse addirittura tutta la vita è la ricerca di due braccia che ci amano tra cui morire…

Ma al di là delle reazioni immediatamente sentimentali che queste considerazioni suscitano, ciò che risulta interessante è che per Gesù, la sintesi del suo percorso vitale stia in questo: che i suoi abbiano imparato ad amare; ad amare come Lui; ad amare Lui.

Non a caso affida proprio a Pietro (che risponde affermativamente anche se sempre un po’ incerto alla triplice domanda: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?»), il compito di essere guida per gli altri: nella logica di Gesù infatti il compito di essere guida di un altro non dipende da criteri estrinseci alla persona (al sesso, all’età, al quoziente intellettivo, ecc…), ma alla qualità cristica dell’amore che la abita. Pietro è guida del gregge perché dopo tanti travagli, gli si è costruita dentro la capacità d’amare il Signore e i fratelli al modo di Gesù. Quante riflessioni potremmo fare in proposito sulla situazione ecclesiale…

Ad ogni modo… quando tutto sembra apposto, riconciliato, finito… eccoti la parola “finale” che non ti aspetti: «Seguimi!». Ma come? Pietro non è colui del quale abbiamo detto che attraverso la vita ha imparato ad amare al modo di Gesù? Non è colui che Gesù ha scelto per guidare gli altri proprio per questo? Non era dunque arrivato? Cosa deve ancora seguire?

… Deve seguire ancora il suo amico e maestro (cfr. Mt 16,23; Mc 8,33): la proposta di Gesù infatti non è un itinerario morale (faccio / non faccio determinate cose e sono apposto) e nemmeno un’adesione intellettuale a certe verità (conosco a memoria il catechismo e sono un buon cristiano): è piuttosto una relazione, in cui la conformità a Cristo la si impara vivendo, agendo, amando… Ecco perché si conclude con quel «Seguimi!»: perché ad amare al modo di Gesù, dunque a essere uomini e donne, si impara in un continuo incontro, scontro, confronto, mescolamento, allontanamento, comprensione, imitazione, adesione, paura, nascondimento, ri-appropriazione tra la sua libertà e la nostra: quella che Paolo chiama la conformazione a Cristo.

martedì 2 aprile 2013

II Domenica di Pasqua


Dagli Atti degli Apostoli (At 5,12-16)

Molti segni e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli. Tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone; nessuno degli altri osava associarsi a loro, ma il popolo li esaltava. Sempre più, però, venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di uomini e di donne, tanto che portavano gli ammalati persino nelle piazze, ponendoli su lettucci e barelle, perché, quando Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro. Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti impuri, e tutti venivano guariti.

 

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (Ap 1,9-11.12-13.17-19)

Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù. Fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore e udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: «Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese». Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro. Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la sua destra, disse: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi. Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle presenti e quelle che devono accadere in seguito.

 

Dal vangelo secondo Giovanni (Gv 20,19-31)

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

 

«La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”», così Giovanni descrive il primo incontro che i discepoli fanno con Gesù risorto (solo Maria di Magdala l’aveva già incontrato).

Manca Tommaso, si scoprirà più avanti nel racconto, ma ciò che colpisce di più a questo punto della narrazione non è questo, bensì vedere il registro su cui Gesù si colloca per ritrovare i suoi. “Pace a voi”, gli dice; e lo ripeterà ancora due volte (una dopo aver mostrato i segni della passione e l’altra “otto giorni dopo”, quando finalmente ci sarà anche Tommaso).

La paradossalità di questo saluto – che magari in prima battuta sembra piuttosto naturale (dato che siamo abituati a sentire che Gesù risorto saluta in questo modo e che – se ci ricordiamo un po’ anche ciò che diceva da vivo – era stato proprio lui a consigliare ai suoi di salutare così, quando entravano in casa di qualcuno: «In qualunque casa entriate, prima dite: Pace», Lc 10,5) – salta agli occhi se proviamo ad andare a vedere come si erano lasciati i discepoli e Gesù l’ultima volta che si erano visti... Gv 18,1 era l’ultima volta in cui i discepoli comparivano, là dove si diceva appunto che «Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cedron, dove c’era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli». Da questo momento in avanti essi spariscono: in quel giardino infatti arriverà Giuda, «con un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiaccole e armi» e arresteranno Gesù. Soltanto Pietro ricomparirà ancora – ma nell’episodio del rinnegamento – e in seguito il discepolo amato – l’unico che fa una bella figura – perché “adotta” Maria. I discepoli non ci saranno nemmeno quando si tratterà di andare a recuperare il corpo morto di Gesù: ci andranno infatti Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea, due che erano discepoli “di nascosto”… E non faranno nemmeno il tentativo di raggiungere il loro Maestro morto – la mattina – come le donne, per l’ultima replica umana alla morte, che è la cura di quel suo corpo cui restituire dignità. Non crederanno nemmeno a Maria di Magdala che pure era andata ad annunciargli: «Ho visto il Signore!». Niente! In Gv 20,19 essi sono ancora con le porte chiuse per paura dei Giudei.

Bene, in questa situazione a Gesù la prima cosa che viene in mente di dire è: “Pace a voi!”. «Neppure qui come in nessun altro testo, li rimprovera rivangando la faccenda che quando lui era in pericolo i suoi prodi se la sono svignata. Questo è il primo gesto della redenzione, il più bello che ci sia in tutte le Scritture del Nuovo Testamento, quello simboleggiato dall’espressione di Gesù che dice: “Chi cercate voi?” “Gesù, il Nazareno” “Sono io!”, gli altri non c’entrano (cfr. Gv 18,4-9). Impara, evangelizzatore d’assalto! Gesù è quello stesso che prima, quando le cose andavano bene, ai suoi ragazzotti diceva: “Se non prendete la vostra croce e non mi riconoscerete davanti agli uomini, un giorno io non saprò neanche chi siete”. Giusto, perché quando stiamo tutti bene i ragazzotti hanno bisogno di essere istruiti sul fatto che qui non è come iscriversi al club della vela…ci sto, non ci sto, mi va, non mi va, devo provare i buoi, …stai a casa! Ma quando viene il pericolo vero, lo stesso che quando le cose vanno bene ai suoi dice “Ragazzi, questo è un gioco duro, non è una roba per dilettanti!”, i suoi li chiude nella cuccia (e non è vero che non c’entrano perché non han fatto altro che dire: “Signore ci siamo noi! Cosa possiamo fare? Ci organizziamo…”) e alle guardie dice: “Prendete me, tutto quello che sanno, che credono, che fanno, è perché gliel’ho insegnato io, quindi prendete me!”. Questa è la redenzione. Questo è lo stile dell’Evangelo e della testimonianza. Questo è stile, le due parti insieme e cioè: non c’è il Vangelo allo zucchero filato che dice: “Se venite con me vi faccio stare bene, vi spariscono anche i brufoli, vi faccio volare, vi faccio vedere Dio…”…No! Non c’è, il Vangelo non è piazzato come un coefficiente del benessere, ha la durezza che deve avere, però, siccome la Parola di Gesù è che ciascuno deve offrire la propria guancia, non quella di suo fratello (tanto perché qualche volta ci confondiamo), quando viene il momento del pericolo il Signore si aspetta che come fa lui, ciascuno dei discepoli per suo conto offrendo la propria, tenga al riparo i suoi. Anche quelli che di per sé hanno ricevuto dal Signore la vocazione a farsi avanti, non si devono fare avanti al posto suo. Questa è la differenza, questo è Dio. L’uomo sarà anche peccatore, ma Dio non vuole che si faccia avanti al posto suo» [P.A. Sequeri, sbobinatura della lezione del 12 marzo 2003 del Corso di Teologia Fondamentale in FTIS].

Ecco il primo elemento fondamentale del brano: Gesù non è risorto per arrivare a tirare i conti, non ha cambiato l’atteggiamento di redenzione verso i suoi che aveva tenuto durante la passione, ha riconciliato quel pezzetto di storia – piccolo ma tanto determinante – del tradimento di tutti i suoi, semplicemente presentandosi e esordendo con “Pace a voi!”.

E che la chiave di lettura del vangelo odierno sia precisamente il perdono – e più radicalmente il perdono in senso forte, cioè la vera e propria ricostruzione delle condizioni affinché l’altro possa ricostruirsi e ricostruire la relazione – è dato anche dalla seconda cosa che Gesù dice: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Gesù cioè come prima istanza – da Risorto – ha quella di fare dei suoi “ministri della riconciliazione” – come dice Paolo in 2Cor 5,18. Perché – come ricordava il prof. Luca Moscatelli in una sua conferenza – “se mi dicessero che posso perdonare chi voglio – e so cosa vuol dire essere perdonato – beh, perdonerei tutti! O no?”… Anche perché lì Paolo è interessante davvero; dice: «L’amore del Cristo infatti ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro. Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana» (2Cor 5,14-16) – alla maniera umana, infatti, uno avendo un potere (in questo caso quello di rimettere i peccati) potrebbe farne anche un uso scorretto, tipico di chi non sa cosa vuol dire davvero avere il cuore e la storia e la provenienza riconciliata (come cantava Zaccaria in Lc 1,72: «egli ha concesso misericordia ai nostri padri»). Ma in più Paolo – giusto per non lasciare adito a dubbi – dice: «Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione» – è l’esperienza dell’essere riconciliati che abilita alla riconciliazione. È perché a Pietro e agli altri non imputa le loro colpe, il motivo per cui subito dopo può invitarli a farlo con chiunque!

Se pensiamo a cosa invece spesso voglia dire nella nostra vita cristiana “riconciliazione”, c’è proprio da mettersi le mani nei capelli e concludere con Petrosino che “L’uomo fa sempre così: prende una roba e ne fa una schifezza”…

Interessante – ad ogni modo – che a Gesù prema così tanto questo fatto della riconciliazione… Forse perché a ben guardare, presa nella sua caratura profonda, essa è l’unica dinamica che può permettere la vita: viviamo – infatti – solo quando gli altri ci abilitano a farlo, quando ci perdonano la nostra inadeguatezza, il nostro non essere mai all’altezza, il nostro tradire, il nostro non riempire i loro desideri… Ciascuno di noi, per gli altri, è sempre inevitabilmente anche questo… Ma se la paura, o l’inacidimento, o l’intransigenza, o la durezza, o “la convinzione di avere la verità”, o chissà che altro, chiude l’altro nel suo errore, nella sua uscita infelice, nel male che ha fatto, se cioè prevale il nostro bisogno di avere ragione sul bene che vogliamo all’altro – beh lì lo uccidiamo e uccidiamo la nostra relazione con lui. Gli spegniamo la fonte zampillante del suo cuore, mettendoci sopra la pietra delle nostre buone ragioni…

Ecco – invece Gesù – da vivo, da morto e da risorto proclama sempre (non solo a parole, ma con le decisioni concrete della sua libertà) che è sempre più importante la faccia dell’altro, cha abbia lo spazio per ricostruirsi, che noi gli facciamo questo spazio, che gli ri-creiamo quelle possibilità di Vita, che magari lui stesso da solo ha rovinato…

E a ben guardare è la stessa cosa che fa con Tommaso: al quale concede tutto, gli va dietro in tutto, pur di ricostruirgli intorno – intorno alla sua intransigenza («Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo») – la possibilità di un ri-allacciamento della relazione.

È questo il compito di ciascun cristiano e della Chiesa tutta: avere pazientemente il coraggio di mettersi lì a ricreare per tutti la possibilità della Vita.
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