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lunedì 21 gennaio 2013

III Domenica del Tempo Ordinario (C)


Dal libro di Neemìa (Ne 8,2-4.5-6.8-10)

In quei giorni, il sacerdote Esdra portò la legge davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere. Lesse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque, dallo spuntare della luce fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e di quelli che erano capaci d’intendere; tutto il popolo tendeva l’orecchio al libro della legge. Lo scriba Esdra stava sopra una tribuna di legno, che avevano costruito per l’occorrenza. Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutti; come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. Esdra benedisse il Signore, Dio grande, e tutto il popolo rispose: «Amen, amen», alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore. I levìti leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura. Neemìa, che era il governatore, Esdra, sacerdote e scriba, e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: «Questo giorno è consacrato al Signore, vostro Dio; non fate lutto e non piangete!». Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge. Poi Neemìa disse loro: «Andate, mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che nulla hanno di preparato, perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza».

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 12,12-30)

Fratelli, come il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito. E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra. Se il piede dicesse: «Poiché non sono mano, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. E se l’orecchio dicesse: «Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l’odorato? Ora, invece, Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto. Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Non può l’occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; oppure la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi». Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra. Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue. Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? Tutti possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano?

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 1,1-4; 4,14-21)

Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto. In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode. Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore». Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

 

In questa Terza Domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa ci invita a tornare a riflettere sul vangelo caratteristico di questo anno C, quello di Luca. Siamo al capitolo 4 – salvo qualche versetto del I capitolo – e siamo agli inizi della vita pubblica di Gesù, in un momento – da questo punto di vista – parallelo a quello narrato domenica scorsa dal vangelo di Giovanni. I primi 2 capitoli di Luca infatti sono i cosiddetti “racconti dell’infanzia”, che dovremmo avere nelle orecchie, perché son quelli che abbiamo meditato nel recente tempo di Natale, da poco concluso; il III e i primi versetti del IV presentano il cosiddetto “trittico sinottico” (battesimo di Giovanni – battesimo di Gesù – tentazioni nel deserto); e i nostri versetti (dal 14 al 21) sono quelli che raccontano l’inizio del ministero pubblico di Gesù in Galilea.

Precisamente, Luca colloca questo inizio a Nazaret, la città dove Gesù è cresciuto: lì, nella sinagoga, Gesù – per la prima volta – dice qualcosa di esplicito su di sé (finora infatti aveva parlato solo in Lc 2,49, quando dodicenne aveva risposto ai genitori «Perché mi cercavate? Non sapete che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?»; e in Lc 4,1-13, rispondendo alle tentazioni): infatti, prende il rotolo del profeta Isaia e legge i versetti 1-2 del capitolo 61, seppur con qualche modifica (tralascia «guarire i contriti di cuore» – presente in Is 61,1 – e introduce – citando Is 58,6 – l’espressione «dare la libertà agli oppressi»; inoltre – a proposito di Is 61,2 – tralascia l’espressione «un giorno di vendetta per il nostro Dio», espressione che avrebbe limitato il significato universale del passo), che rende il testo profetico un testo in cui si accentua l’opera di liberazione e l’universalità di questa liberazione.

Dopo aver letto questi versetti, mentre tutti si aspettano una spiegazione esegetica del testo o una sua applicazione morale, come era prassi comune fra gli abituali predicatori della sinagoga, Gesù torna a sedere e se ne esce con un’espressione sconvolgente: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». In qualche modo cioè Gesù si attribuisce il compimento della promessa isaiana: la parola del profeta si compie con la sua venuta!

Gesù perciò, di sé, sta dicendo: di essere colmo dello Spirito del Signore («Lo Spirito del Signore è su di me»; elemento già presentato in Lc 4,1 «Gesù, pieno di Spirito Santo, ritornò dal Giordano e, sotto l’azione dello Spirito, andò nel deserto») e di essere l’eletto (l’unto) del Signore («mi ha consacrato con l’unzione»).

“Eletto” in vista di cosa? Per «portare ai poveri il lieto annuncio», «proclamare ai prigionieri la liberazione», «ai ciechi la vista», «rimettere in libertà gli oppressi», «proclamare l’anno di grazia del Signore».

Gesù sta allora proponendosi al suo popolo con una pretesa straordinaria… e con un’idea ben precisa del “mondo come Dio lo vuole”. Non a caso il compimento della profezia di Isaia che si compie con la sua venuta, coincide con quello che Marco e Matteo chiamano “la venuta del Regno”. Il Regno di Dio è precisamente questo: che ci sia una buona notizia per i poveri, la liberazione per i prigionieri, la vista per i ciechi, la libertà per gli oppressi, un anno di grazia del Signore… Tant’è che a Giovanni in prigione, dubbioso sul fatto che Gesù fosse davvero il messia («Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”», Mt 11,2-3), Gesù risponde raccontando ciò che accade dove passa lui: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!» (Mt 11,5-6).

Il Regno di Dio dunque, il mondo come Dio lo vuole, sono gambe storte che si raddrizzano, occhi ciechi che ci vedono, orecchie sorde che ci sentono, cuori induriti che si sciolgono… insomma l’umanizzazione della dis-umanizzazione in tutte le sue forme. Sia nel macrocosmo (poveri – prigionieri – ciechi – oppressi), sia nel microcosmo (noi, nelle nostre povertà – prigionie – cecità – oppressioni).

Ed è interessante che nel raccontare gli inizi della vita pubblica di Gesù, tutti gli evangelisti mettano in atto – ognuno a suo modo – uno strumentario specifico per dire che questo personaggio che è apparso sulla scena, è portatore di un messaggio incontrovertibile, univoco, chiaro: sia il passo di Isaia citato da Luca, sia l’episodio di Cana di Giovanni (II Domenica del Tempo Ordinario), sia l’annuncio del Regno di Marco e Matteo, dicono che il compimento delle scritture, l’uomo nuovo come lo pensa Dio, il suo Regno che viene, coincide con la Vita per l’uomo. Questo è Dio!

Ma allora – torniamo a chiederci – perché i poveri continuano ad essere poveri? Anzi, sempre più poveri? Perché i prigionieri restano imprigionati? I ciechi, ciechi? Gli oppressi, oppressi? Anche questo, sia a livello macroscopico che microscopico…

Certo c’è di mezzo la libertà dell’uomo, il suo chiudersi alla proposta affascinante ma tremenda di Gesù della vita che trova Vita solo donandosi… Ma possiamo davvero ridurre – com’era in passato – l’interpretazione del reale, all’esaltazione di Dio per ciò che è buono e alla condanna dell’uomo per ciò che non lo è? Come se ciò che di buono faccio, fosse sempre e solo merito di Dio, mentre ciò che faccio di cattivo fosse sempre e solo colpa mia?

Forse il coinvolgimento delle reciproche libertà assume i contorni di un gioco un po’ più complesso, non banalizzabile…

Un gioco che diventa un po’ più chiaro se si prova a scavare – senza false riverenze – nel mistero che soggiace a questa autodichiarazione di Gesù e alla realtà del mondo che abbiamo davanti. Più radicalmente infatti la domanda è: Perché Gesù, che di fatto ha vissuto così come si è autoproclamato, non ha guarito tutti i ciechi, liberato tutti gli oppressi, ecc…? Perché non ha poi continuato a farlo “automaticamente” con tutti i nuovi nati da donna? Perché non ci ha consegnato un mondo senza poveri, senza prigionieri, senza ciechi, senza oppressi? Se la profezia di Isaia è giunta a compimento in Lui, perché la storia non è cambiata? Gesù forse si sbagliava sul suo conto?

Ecco la domanda radicale…

Eppure se rileggessimo le domande appena poste, chiedendoci nel frattempo quale idea di Dio gli soggiaccia, quale immagine di Salvatore, ci accorgeremmo di entrare immediatamente in conflitto con il volto di Dio e l’immagine di sé che Gesù rivela lungo la sua storia. Per guarire tutti i ciechi, liberare tutti gli oppressi, ecc… Gesù avrebbe infatti dovuto trascendere la fisicità storica in cui, incarnandosi, aveva scelto di vivere (avrebbe dovuto smettere di essere uomo); per continuare “automaticamente” gli stessi miracoli con tutti i successivi nati da donna, avrebbe dovuto saltare la relazione con la libertà umana (avrebbe cioè dovuto smettere di essere colui che crea e pensa l’uomo come l’interlocutore serio della sua vita, ricollocandolo tra le creature determinate solo dalla necessità); per consegnarci un mondo senza poveri, prigionieri, ecc… avrebbe dovuto impedire all’uomo di farsi nella storia (avrebbe cioè dovuto smettere di essere il Dio che non si impone); e così via…

Il punto cioè pare essere quello per cui noi spesso abbiamo un’interpretazione un po’ troppo affrettata e riduttiva di quello che è il volto di Dio che Gesù ci ha rivelato: stando alla citazione di Is 61,1-2, forse un po’ troppo frettolosamente noi diciamo – o diamo per scontato – che Dio è il Dio dei poveri, degli oppressi, dei ciechi, dei prigionieri… Come se Dio fosse una cosa (e immediatamente il nostro pensiero irriflesso va all’immagine “classica” di Dio: onnipotente, infinito, anonimo…) e poi – poiché è buono (come se questa bontà fosse solo una sua qualità che si aggiunge alle altre) – fa cose buone (aiuta i poveri, ecc…). Invece, molto più radicalmente, Dio è colui che fin nelle fibre più intime di se stesso è amore che si dona: non è che Dio è colui che fa il buono, Dio è buono; Dio non è colui che ci lascia un po’ liberi, ma è colui che radicalmente scommette sulla libertà umana, sulla sua storia, sul suo farsi…

Il nostro rischio invece è quello di considerarlo in modo apriorico come il Dio della metafisica greca, a cui poi appiccichiamo qualche nostra buona intenzione, qualche idea riciclata da quello che nell’immaginario collettivo è “il buon Dio”, e che poi rimproveriamo perché non ha saputo gestire bene attributi metafisici greci e attributi misericordiosi romantici…

Ma Dio è Altro da tutto ciò, è radicalmente altro: Lui non fa le cose, lui è Colui che è, è Colui che porta un lieto annuncio ai poveri… ma non perché queste sono “cose carine” che ogni tanto è bello fare, ma perché è Lui che è così; e dietro alle esemplificazioni di Isaia appare il volto del Dio che radicalmente, dalle origini e per sempre, è il Dio della Vita degli uomini. Ma essere il Dio della Vita degli uomini, implica precisamente esserlo, sempre e in modo radicale: rispettandone la libertà, parlandogli nell’intimità, custodendone la storicità… che sono tutte cose che precisamente si compiono in Gesù di Nazaret: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

lunedì 14 gennaio 2013

II Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 62,1-5)

Per amore di Sion non tacerò, per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo, finché non sorga come aurora la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada. Allora le genti vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria; sarai chiamata con un nome nuovo, che la bocca del Signore indicherà. Sarai una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio. Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo. Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposeranno i tuoi figli; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te.

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 12,4-11)

Fratelli, vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 2,1-12)

In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

 

In questa Seconda Domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa ci invita a riflettere sui primi versetti del capitolo 2 del vangelo di Giovanni. Dopo il Tempo di Natale infatti, la Liturgia ci avvia alla scoperta della vita pubblica di Gesù, inaugurata col Battesimo al Giordano (celebrato domenica scorsa), e approcciata oggi dal punto di vista giovanneo. Non a caso infatti il nostro testo (Gv 2,1-12), fa parte di quella sezione inaugurale del vangelo di Giovanni, chiamata “prologo storico” (Gv 1,19-2,12), che ha precisamente la funzione di introdurre il lettore al resto della narrazione.

Di questa sezione è immediatamente importante sottolineare una particolare caratteristica strutturale: «Giovanni ha disposto le sequenze narrative di questa sezione in maniera molto chiara, secondo uno schema caratteristico. Lo segnala anche la Bibbia di Gerusalemme mettendo un titolo significativo a questa sezione: “la settimana inaugurale”. L’inizio della vicenda di Gesù è racchiuso nello spazio di una settimana di sei giorni; tale disposizione a noi ricorda subito un’altra settimana, quella dell’inizio per eccellenza: la settimana della Creazione, al sesto giorno della quale ci fu la creazione dell’uomo. Si osservino dunque i seguenti versetti: 1,29 “il giorno dopo”, il che significa che c’è stato un giorno precedente con la comparsa del Battista e adesso c’è un secondo giorno in cui è ancora il Battista il protagonista; 1,35 di nuovo l’annotazione: “il giorno dopo…”; 1,43 “il giorno dopo”; 2,1 “tre giorni dopo” [che la liturgia sostituisce con “in quel tempo”], una traduzione di per sé imprecisa, bisognerebbe infatti tradurre “due giorni dopo”, perché tale è nella lingua greca il significato dell’espressione “il terzo giorno” che compare nel testo originale.

Il materiale degli avvenimenti iniziali che riguardano Gesù e i discepoli è disposto quindi su un film che è fatto di sei grandi scene, e le nozze di Cana sono come il culmine di un cammino: da una parte il culmine degli eventi di cui si compone la presentazione iniziale di Gesù e, dall’altra, il sorgere della fede nei discepoli: “Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”.

Al termine dunque della settimana iniziale che ci riporta alla creazione, la comparsa e l’azione di Gesù hanno il valore di una ri-creazione del mondo; in particolare si allude alla ri-creazione dell’uomo (sesto giorno). […] Ciascuno dei sei giorni è caratterizzato da qualcosa di particolare e di unico:

- La prima giornata (1,19-28) è la giornata del testimone, del Battista […];

- Il secondo giorno (1,29-34), è il giorno di Gesù, della sua prima comparsa sulla scena […];

- Il terzo giorno (1,35-42) è il giorno dei primi discepoli […];

- Nel quarto giorno (1,43-51) la figura centrale è Natanaele […];

- La quinta giornata non c’è;

- La sesta giornata è Cana, con la rivelazione della gloria di Gesù nel segno del vino nuovo», [P.Pezzoli, La testimonianza del discepolo amato, in AaVv, Scuola della Parola, Litostampa Istituto Grafico, Bergamo 1997, 174-176].

Il testo di questa Seconda Domenica del Tempo Ordinario, allora, corrisponde al sesto giorno di questa settimana inaugurale: è quindi quello che più di tutti si carica di attesa da parte del lettore; anche perché la locuzione con cui è introdotto – «il terzo giorno» – (omessa come visto dal testo evangelico usato per la liturgia che la sostituisce con «in quel tempo»), produce essa stessa nei lettori un effetto d’attesa potentissimo: «“il terzo giorno” nell’Antico Testamento, era stato, per esempio, quello dell’arrivo al Sinai, il luogo dell’Alleanza (Es 19,10-11), oppure era il giorno in cui Os 6,2 annunciava l’azione di Dio che interviene per dare vita al suo popolo e salvarlo (“dopo due giorni ci ridarà vita e il terzo ci farà rialzare e noi vivremo alla sua presenza”, un brano che un antico commento ebraico spiega così: è il giorno in cui Dio ‘consola i morti’, cioè salva il suo popolo). Senza dire che a un lettore cristiano “il terzo giorno” richiama anticipatamente la Pasqua di Gesù» [Ivi, 184].

Dunque: Cosa avviene in questo sesto giorno della settimana inaugurale, in questo giorno inaugurato dall’espressione “il terzo giorno”, in questo giorno che suscita così grandi attese?

Avviene un miracolo… anzi… più precisamente: un segno!

La grande attesa del lettore si risolve in questo modo: ad un banchetto di nozze, in cui viene a mancare il vino, Gesù trasforma una spropositata quantità d’acqua (500/700 litri) in vino nuovo.

Il problema dunque diventa quello di capire questo segno.

Innanzitutto perché è meglio dire “segno” e non “miracolo”? Perché Giovanni stesso sceglie questo linguaggio. Egli infatti non vuole porre tanto l’accento sul fatto prodigioso, quanto piuttosto sull’intenzionalità di Gesù che lì si mostra: «Questo primo gesto di Gesù [infatti] è un gesto attraverso il quale traspaiono le intenzione di Dio» [Ivi, 185].

«Chi ha seguito Gesù viene portato a conoscere Dio; chi ha incominciato a seguirlo, magari ancora un po’ nell’oscurità, intuendo che Gesù offre una nuova familiarità, intuendo che in lui si trova una dimora in cui è bello fermarsi, a questo punto percepisce che le intenzioni di Dio sono queste, cioè che l’uomo viva, che l’uomo faccia festa, che abbia abbondanza; là dove la sua gioia viene meno, incontra il Dio che gli dà la gioia, che lo vuole invitare a nozze» [Ivi, 185]!

L’uomo nuovo, creato nel sesto giorno della nuova settimana inaugurale, è dunque l’uomo felice; l’uomo come lo vuole Dio è l’uomo che fa festa, è l’uomo che è nella gioia, nella convivialità, nell’amicizia…

Questo dato evangelico inequivocabile è il medesimo che altrove è espresso con la categoria di “Regno di Dio”: esso infatti non è altro che “il mondo come Dio lo vuole”, e cioè, la pienezza della vita dell’uomo, l’umanizzazione della sua interiorità ed esteriorità, la dilatazione dell’amore… (cfr. la descrizione del Regno di Dio di Mt 11,2-6: «Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. Gesù rispose loro: “Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!»).

Ma…

Se questo è Dio, se questa è l’idea di uomo che ha in testa…

Perché spesso viene veicolato, all’interno dello stesso cristianesimo, un volto altro di Dio? Un volto ambiguo, un volto da cui all’uomo può venire sia il bene che il male?

E inoltre: Perché se questo è il progetto di Dio per l’uomo, noi oggi ci troviamo molto più spesso di fronte a un mondo dis-umanizzato che a un mondo in festa?

Forse le due problematiche non sono slegate…

Di certo la prima ha a che fare con la strutturale incapacità dell’uomo (ben delineata attraverso il mito genesiaco di Adamo ed Eva) di fidarsi del volto promettente di Dio: l’uomo ha sempre paura che in fin dei conti la bontà di questo Dio sia fasulla, illusoria… che prima o poi Dio chiederà il conto… Nessuno scampa al dubbio insinuato dal serpente che Dio si mostri apparentemente tanto buono, ma solo per poter colpire alle spalle («Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna […]: “Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male”», Gn 3,1.5).

Oggi il dubbio è divenuto addirittura radicale: non solo la sua bontà potrebbe essere illusoria, ma addirittura Lui in persona potrebbe non esistere.

Questo dubbio su Dio ha come inevitabile conseguenza, lo smarrimento dell’uomo: se Dio mi si mostra buono, ma poi non lo è, o addirittura se non esiste, vuol dire che la mia vita non è al sicuro nelle sue mani… vuol dire che dunque non posso affidargliela… vuol dire che o mi salvo da solo… o non mi salva nessuno…

Ed ecco la seconda problematica… Per chi si deve salvare da sé tutto diventa un probabile pericolo… Non mi posso fidare nemmeno di chi mi dorme accanto… Mi devo guardare da tutti… Chi mi sta intorno è un potenziale nemico, di certo un rivale nella lotta per la sopravvivenza (fisica, affettiva, carrieristica, ecc…).

Non c’è spazio per la festa nella gara per la sopraffazione: se devo emergere io, qualcun altro deve soccombere… Ed ecco che la spirale di competizione e morte che la guerra tra fratelli ingenera porta alla dis-umanizzazione che oggi ci si palesa dinnanzi con così tanta evidenza…

Ma il Signore aveva detto un’altra parola sull’uomo e sulle sue relazioni con i fratelli… E precisamente questa parola dovrebbe ridiventare per i cristiani il centro della vita, il motore propulsore della loro azione e preghiera, il senso ultimo della loro passione: fare dei piccoli spazi che ci sono dati in questa storia, angoli di Regno di Dio!

Ed è molto interessante che proprio in questa domenica in cui leggiamo dell’uomo com’è pensato da Dio, si celebri la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, simbolo mai così eloquente della lontananza del mondo che stiamo costruendo, dal Regno che il Signore ci ha proposto… Paura, respingimenti, violenza… proprio là dove il Signore dice: accoglienza, fraternità, amore…

Infine… una parola su Maria… colei che pare dare uno spintone a Gesù perché questi inizi il suo ministero pubblico: quando infatti pone il problema della mancanza di vino e Gesù le risponde in modo elusivo, quasi scostandosi dalla sua richiesta, lei nemmeno gli risponde, ma si rivolge direttamente ai servi dicendo: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela»… Un po’ come quelle mamme che portano i bimbi dal dentista e quando loro gli dicono “Mamma non ci voglio andare”, non gli rispondono nemmeno e – rivolgendosi al dottore – esclamano “Ci pensi lei!”.

È questa forse la Madonna che dovremmo pregare…

lunedì 7 gennaio 2013

Battesimo del Signore (C)


Dal libro del profeta Isaìa (Is 40,1-5.9-11)

«Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati». Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata. Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno, perché la bocca del Signore ha parlato». Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda: «Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede. Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo a Tito (Tt 2,11-14;3,4-7)

Figlio mio, è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo. Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone. Ma quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia, con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo, che Dio ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, affinché, giustificati per la sua grazia, diventassimo, nella speranza, eredi della vita eterna.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 3,15-16.21-22)

In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».

 

In questa Seconda Domenica dopo Natale, la Chiesa ci invita a celebrare la festa del Battesimo di Gesù.

Apparentemente questa sembra la cosa più ovvia del mondo: Gesù si è fatto battezzare da Giovanni e così ha inaugurato il suo ministero pubblico… Le nostre orecchie ormai avvezze a sentire raccontare questa vicenda infatti, non riescono a cogliere immediatamente la paradossalità che si cela dentro a questo evento… eppure… che Gesù si faccia battezzare, è stato fin da subito un “signor problema” per la Chiesa nascente. Non tanto perché se ne metteva in discussione l’autenticità… anzi, proprio per il motivo opposto. Scrive infatti don Bruno Maggioni: «La maggioranza degli studiosi considera il battesimo di Gesù un fatto storico fra i più sicuri. Depone a favore della sua storicità la testimonianza letteraria molteplice, ma soprattutto il fatto che il suo ricordo procurò alla tradizione successiva un innegabile “disagio teologico”, che si è cercato di attenuare: il battesimo poteva, infatti, far pensare che Gesù fosse inferiore a Giovanni, o che fosse bisognoso di conversione come gli altri uomini. D’altra parte sappiamo che le comunità primitive non si sentivano costrette a tramandare tutti i fatti di Gesù: se hanno tramandato il battesimo – nonostante le difficoltà che poteva suscitare – è certamente perché lo hanno considerato particolarmente importante. E di fatti è un tornante che segna la transizione dal Battista a Gesù, dal vecchio al nuovo, dall’attesa alla venuta, e gran parte di questa “novità” è proprio racchiusa nel suo aspetto “scandaloso”» [Il racconto di Luca, 79-80].

Perché – dunque – Gesù si fa battezzare? Perché se Gesù è Figlio di Dio, Dio lui stesso, si fa rimettere i peccati da Giovanni? Gesù è senza peccato si legge nelle Scritture («Cristo non commise alcun peccato e non fu trovato alcun inganno nella sua bocca», 1 Pt 2,22)... Forse che san Pietro si è sbagliato? Forse che Gesù si mette in fila con i peccatori semplicemente perché non era Dio, ma solo un uomo, bisognoso come tutti del perdono di Dio, appunto? O forse era sì Dio, ma non lo sapeva? Aveva bisogno cioè, come tutti, di prendere coscienza della sua identità, della sua missione, della sua figliolanza...? Ma anche in questo caso: com’è possibile che il Figlio di Dio non sapesse di essere il Figlio di Dio? Che Dio è allora?

Ovviamente entrambe le soluzioni non sono accettabili per il credente che vuole tentare di rendere ragione di questo fatto: non si può ammettere che Gesù non sapesse di essere il Figlio di Dio (lui stesso infatti nel Vangelo rivendicherà con autorità questa sua identità: tanto che per questo verrà messo a morte, «egli deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio» – Gv 19,7), né tanto meno che non lo fosse e dunque avesse bisogno del perdono dei peccati (di se stesso infatti dirà: «il Figlio dell' uomo ha autorità in terra di perdonare i peccati», Mt 9,6)!

Ma allora come porsi – da credenti – di fronte a questa situazione? Perché Gesù, pur essendo Figlio di Dio e senza peccato, si fa battezzare da Giovanni?

Qualcuno (già all’epoca neotestamentaria) cerca di risolvere la cosa, chiamando in causa una non meglio definita giustizia, quasi un piano preordinato indisponibile a Gesù stesso, che determina questa situazione. Matteo infatti – a differenza di Marco e Luca – orchestra la vicenda in modo tale che Giovanni inizialmente si rifiuti di battezzare Gesù, dicendo «Io ho bisogno di esser battezzato da te e tu vieni da me?» e accetti solo quando Gesù gli ribatte «Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia».

Ma questa soluzione, ben al di là dall’essere tale, è in realtà solo uno spostamento del dilemma: in queste parole che Matteo mette in bocca a Gesù infatti, emerge solo il fatto che anche l’evangelista aveva lo stesso nostro problema: rendere ragione di questo fatto... La sua risposta infatti risulta una non-risposta, un semplice spostamento del problema, che – pur suonando diversamente (Perché Dio nel suo piano anteriore e indisponibile al Figlio, ritiene giusto farlo battezzare tra i peccatori?) – rimane.

Altri tentativi di soluzione sono stati posti invece nella linea della pedagogia divina: Gesù cioè qui agirebbe col solo intento di insegnare qualcosa (l’umiltà, per esempio), o di aspettare tempi più maturi per rivelarsi (farebbe dunque finta – per il momento – di essere un uomo qualsiasi, uno tra i tanti)...

Ma anche in questi casi le risposte non reggono: la finta assunzione dell’umanità da parte del Figlio di Dio infatti è addirittura scartata come eresia dalla Chiesa cattolica (docetismo); ma anche la prospettiva pedagogistica di Gesù è sempre più vista come una riduzione della sua identità: sarebbe cioè sbagliato porsi di fronte alla storia di Gesù, cercando di estrarne insegnamenti, codici morali, itinerari spirituali, prescindendo dal suo porsi nel mondo. Non bisogna infatti pensare che ci sia da una parte la vita umana di Gesù e dall’altra i vari insegnamenti per il buon vivere oggi che da essa si possono trarre! È piuttosto il decidersi storico dell’uomo Gesù la rivelazione di Dio: è la storia concreta di Gesù – che di volta in volta ha deciso di sé, ha deciso chi essere – il volto di Dio e il volto dell’uomo rivelati definitivamente nel tempo!

Allora forse anche di fronte al fatto del battesimo di Gesù – al suo decidersi cioè di mettersi in fila per la remissione dei peccati – è necessario porsi con questo atteggiamento. Non tanto domandarsi quindi “Cosa ci vuole insegnare Gesù, facendo così?”, quanto piuttosto “Chi sta decidendo di essere, in quella scelta?”.

Stando ai testi neotestamentari e alla riflessione della Chiesa in proposito, le risposte potrebbero essere diverse (sta decidendosi per una solidarietà con l’uomo peccatore; per un’adesione alla domanda di salvezza del suo popolo; per un andare a vedere le risposte che il momento storico offriva), ma tutte riconducibili a una: Gesù sta decidendo di essere uomo; azzardando un po’ i termini: sta imparando ad essere l’uomo che – da sempre – ha deciso di essere.

Per questo va da Giovanni; perché essere uomo nella Palestina di quel tempo, voleva dire mettersi in fila col suo popolo. Per questo prega: perché dentro a quel dialogo col Padre, il suo pregare è il suo decidere chi essere, è il suo decidere di essere uomo! Pregare infatti è sempre decidere di sé – accedere insieme a Dio e a sé stessi. «Non a caso Gesù ha pregato in tutti i momenti decisivi della sua vita e della sua missione (Cfr. 5,16; 6,12; 9,18.28-29; 11,1; 22,41; 23,46)».

E proprio nel momento in cui Gesù decide di essere uomo al 100%, l’uomo che – da sempre – ha deciso di essere, arriva la voce dal cielo, voce quasi di conferma, di approvazione, di compiacimento: Gesù è Dio cosìe Dio conferma “un” Gesù così: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».

Questa frase, tra l’altro, non è una semplice esclamazione di consenso, ma – per le esperte orecchie ebree – rimanda inequivocabilmente a Isaia 42: dove dell’eletto di cui Dio si compiace si dice che «porterà la giustizia alle nazioni. Non griderà, non alzerà il tono, non farà udire la sua voce per le strade. Non spezzerà la canna rotta e non spegnerà il lucignolo dalla fiamma smorta; presenterà la giustizia secondo verità. Non verrà meno e non si scoraggerà, finché non avrà stabilito la giustizia sulla terra» (Is 42,1 ss); e anche che sarà preso per mano e custodito «per aprire gli occhi dei ciechi, per fare uscire dal carcere i prigionieri e dalla prigione quelli che giacciono nelle tenebre» (Is 42,7).

Gesù dunque, nella sua intima relazione col Padre, sta decidendo di essere l’uomo – rivelazione di Dio – capace di giustizia senza violenza; di verità senza sopraffazione; di fiducia e stabilità; di liberazione per gli oppressi della terra... Con tutto quello che questa sua scelta comporterà: perché Egli sa benissimo, che l’amore è ciò che di più feribile esiste, tra le cose che esistono, e che dunque la sua scelta di umanità sarà una scelta per la morte. Sempre Isaia, descrivendo il Servo d’Israele, dice infatti: «Disprezzato e rigettato dagli uomini, uomo dei dolori, conoscitore della sofferenza, simile a uno davanti al quale ci si nasconde la faccia, era disprezzato, e noi non ne facemmo stima alcuna. Eppure egli portava le nostre malattie e si era caricato dei nostri dolori; noi però lo ritenemmo colpito, percosso da Dio ed umiliato. Maltrattato e umiliato, non aprì bocca. Come un agnello condotto al macello, come pecora muta davanti ai suoi tosatori» (Is 53,3-7).

E in questo scegliere di Gesù di essere uomo – e dunque Dio – così, non c’è niente di pedagogico, nessun insegnamento da trarre! Non sta invitando anche noi a essere capaci di giustizia senza violenza; di verità senza sopraffazione; di fiducia e stabilità; di liberazione per gli oppressi della terra. Molto di più, sta abilitando la carne umana a percorrere quella strada impossibile (non a caso il cielo si apre – si squarcia cioè la presunta barriera tra il mondo di Dio e il mondo dell’uomo – e lo Spirito di Dio può scendere): perché nello sconforto di una vita che – a differenza dell’annuncio di Natale – sembra essere fatta di tenebre senza nessuna luce che ci brilli dentro (di violenza senza giustizia, di sopraffazione senza verità, di canne spezzate e braci incenerite, di scoraggiamenti, e di impossibilità di salvezza), sia detto a tutti, che se è stato possibile una volta in un uomo, essere Uomo così, allora è possibile per tutti sempre, e dunque per noi, oggi!

La verità è in cammino: seguila!


Ecco un brano evangelico (Mt 2,1-12) che mette a nudo la mia ignoranza della cultura ebraica… non parlo tanto di quella biblica che già è notevole, ma proprio della cultura ebraica in quanto tale soprattutto dei tempi in cui gli apostoli scrivono.

Intanto dalle letture che la liturgia ci offre, si evince quel grande capovolgimento di mentalità che appare nel Nuovo Testamento. In Isaia (prima lettura: Is 60,1-6), che parla agli ebrei esiliati in Babilonia, viene fatto rivivere il “sogno” della Gerusalemme lontana… una Gerusalemme che rinasce dalle sue ceneri e che accogliendo i deportati dalla cattività babilonese diventa il luogo dove tutta l’umanità trova il suo centro… Paolo (seconda lettura: Ef 3,2-3a.5-6) rivela che questo centro, questa Gerusalemme non è un luogo geografico, anzi non è proprio un luogo, ma un cuore, una carne, un volto, insomma una persona concreta: Gesù Cristo immagine trasparente di Dio Padre. Lui è la vera Gerusalemme ove ogni popolo senza sentirsi umiliato, senza dover rinunciare alla propria specificità (ri)scoprirà se stesso come “luogo” abitato da Dio perché da sempre da lui amato.

Ma cosa c’entra allora la stella? E i maghi (e non pudicamente magi e che comunque non hanno niente a che vedere coi ciarlatani di oggi)? È qui che si rivela la vergogna di non conoscere come si dovrebbe la cultura in cui sono immersi gli apostoli e quindi gli scritti del Nuovo Testamento…
Tutto inizia – come sempre per un pio giudeo – da uno scritto biblico… Ebbene nel libro dei Numeri ad un certo punto Balak re di Moab nemico di Israele fa chiamare il “mago” Balaam e gli chiede di maledire Israele… E questi non solo non lo maledice ma lo benedice con queste parole (Nm 24,15ss):

«Oracolo di Balaam, figlio di Beor,
oracolo dell’uomo dall’occhio penetrante,
oracolo di chi ode le parole di Dio
e conosce la scienza dell’Altissimo,
di chi vede la visione dell’Onnipotente,
cade e gli è tolto il velo dagli occhi.
Io lo vedo, ma non ora,
io lo contemplo, ma non da vicino:
una stella spunta da Giacobbe
e uno scettro sorge da Israele
…»
 
È proprio a partire da qui che tutto Israele si è messo a cercare “la stella che spunta da Giacobbe (un altro modo di chiamare Israele: cfr Gen 32,28) e che regnerà e dominerà (scettro) su tutti i popoli… Da qui l’idea di un Messia condottiero, politico e militare… Idea che come sappiamo Gesù cercherà di scardinare senza riuscirci (lo faranno fuori anche per questo!)… Ed ecco spiegata anche la domanda dei Maghi e la motivazione della condanna di Gesù posta sulla croce: «Dov’è colui che è nato, “re di Giudei”?».

Ogni tanto quindi nel corso della storia, anche ai tempi degli apostoli, c’era un rabbino che indicava in questo o quel personaggio il “condottiero”, la “stella da seguire”, il Messia liberatore tanto atteso… Puntualmente le aspettative andavano deluse e il sogno si rivelava un incubo invaso dalla repressione militare…
Immaginate ora lo sconcerto, non solo dei giudei ma anche dei cristiani che provenivano da quella fede, di una Gerusalemme rasa al suolo col suo tempio (circa 50 d.C.): Chi dobbiamo attendere? Sorgerà mai una stella che ci porterà luce liberandoci dalle tenebre delle legioni (e fedi) pagane?

Ed ecco che a questo livello si inserisce il brano del Vangelo di oggi, che lungi da essere una fiaba per bambini (cosa di per sé legittima se vogliamo parlare a bambini col linguaggio che i bambini possano accogliere, lo è molto meno quando lo usiamo per parlare agli adulti), è un racconto fortemente polemico e a tratti persino implacabile nel suo giudizio tranciante e iperbolico (cfr lo sproporzionato “tutta Gerusalemme”)…
Che ci sta dicendo Matteo? Ora che abbiamo in parte ricostruito il suo background culturale possiamo provare a darne una spiegazione più plausibile e aderente al testo senza quelle infiorettature romantiche che il folclore vi ha sedimentato…
Matteo era un ebreo convertito al cristianesimo dal giudaismo… parla (scrivendo) a cristiani come lui convertiti dal giudaismo, cresciuti nel “sogno” della Gerusalemme come luogo di ritrovo di popoli e culture definitivamente convertite al Dio dell’ebraismo… e scioccati dal crollo del sogno con la distruzione definitiva del tempio e quindi della possibilità di un “risorgimento” gerosolimitano…
Matteo non ripropone l’antico sogno come farebbe qualunque tradizionalista, non ritorna ad un passato idealizzato, Matteo – in sintonia con gli altri apostoli – mostra che ben altra è la Gerusalemme che Dio ha costruito per tutti i popoli!
Anzi polemizza con “tutta” la Gerusalemme storica (e quindi indirettamente anche con la tradizione profetica anteriore!), che pur conoscendola ha rifiutato (Gv 1,9-11) “la luce che sorge dall’alto” (Lc 1,78) e che illuminerà le genti (Lc 2,32) e i semplici che vorranno accoglierla (Lc 2,9ss)!

Ed è proprio questo che fa emergere tra le righe una fondamentale attualizzazione per noi occidentali malati di esistenzialismo: la verità non è frutto della mia/tua/nostra ricerca… la verità, la luce, la stella, è “data” e ci “precede”. Io devo solo aprirmi ad accoglierla nel nuovo che arriva. E accoglierla vuol dire – come fanno i Maghi – lasciarmi mettere in moto da lei prendendo lei come guida e in suo nome accettare di percorrere strade inesplorate, lasciandomi scomodare verso l’incognito. L’ignoto fisico, spaziale, temporale, ma anche culturale e religioso e politico… Chi non si apre all’ignoto, si chiude in una tomba! L’avevano capito persino i greci e decantato Omero.

Questa è la fede! Che non è un insieme di verità da imparare a memoria, ma una storia da vivere, un terreno continuamente da esplorare che si rivela ogni volta nuovo e mai definitivamente acquisito (e i dogmi non sono tanto dei “punti fermi”, quanto piuttosto linee dinamiche, verità da esplorare). E non nel senso che posso perdere la fede, questo banalmente va da sé, ma qui si vuole sottolineare che la fede è cammino di fede in fede. E ogni volta è “altra” (è così che resta se stessa!) perché l’oggetto della fede, del cammino è q/Qualcuno che è sempre A/altro (da me/noi, dal mio/nostro pensare e amare, dalla mia/nostra storia di fede passata). E infatti anche in questo Matteo sottolinea polemicamente che Erode e la sua Coorte non si muovono!… pur conoscendo le Scritture, pur sapendo che la stella da cercare non andava cercata in cielo ma nella storia concreta di Israele, restano turbati e cominciano a tramare… L’incredulità è sempre figlia della paura della novità, perché il nuovo rompe sempre gli schemi, anche teologici e seguire il nuovo domanda sempre di perdere qualcosa (cfr Mt 19,16-22 e paralleli) (e pur di non perderci, ci si perde in ridicole e fuorvianti ricerche astronomiche che fondino l’attendibilità storica del racconto!).

Anzi Matteo calca veramente la mano quando fa capire che proprio in Gerusalemme (sede del tempio e di ogni istituzione sacra e civile in Israele), i Maghi perdono di vista “la stella” (e infatti devono chiedere, come cercando a tastoni – cfr Atti 17,27 – rischiando di finire tra le grinfie dei nemici della Luce)! E la “ritroveranno” solo quando usciranno da Gerusalemme, “sopra il luogo dove si trovava il bambino” perché la stella “li precedeva”. E solo fuori Gerusalemme provarono “una gioia grandissima” nel ritrovarla.

Non so se noi oggi riusciamo a percepire la violenza “blasfema” che questo scritto evocava nelle orecchie, nelle menti e nei cuori dei suoi interlocutori! E il suo linguaggio poetico mi sembra ne accentui ancora ulteriormente l’impatto. Quasi che il contrasto tra la pacata dolcezza quasi fiabesca del racconto (un bambino-Re) accentui ancor di più l’assurdo agitarsi tenebroso di “tutta Gerusalemme” che lo ripudia.
E infatti la drammaticità del racconto che si coglie tra le righe del linguaggio “infantile”, sfocerà nella tragedia della strage degli innocenti…

Il nostro vero peccato a ben pensare sta tutto qui: nell’avere depotenziato il Vangelo al punto da averne svuotato la portata di stravolgimento culturale e religioso! L’abbiamo reso “politicamente corretto” e forse è per questo che non riesce più a smuoverci dal nostro torpore…

Un’ultima osservazione la dedico solo ai doni dei Maghi, riportandola nel contesto all’intenzionalità dell’autore.
Tutta la bibbia rappresenta Israele secondo tre coordinate fondamentali:
1) A Israele tutto, prima che ai suoi re, spetta la dignità regale; 2) Israele tutto è un popolo di sacerdoti; e 3) Israele nel suo insieme è la sposa del Signore.

Se per l’oro e l’incenso il riferimento è immediato, più difficile è coglierlo nella mirra. Ebbene la mirra è proprio il profumo dell’amore, della sposa che lo celebra l’amore dell’amato in quel bellissimo poema dell’amore umano (e quindi divino) che è il Cantico dei Cantici (la mirra è citata 14 volte in tutto l’AT e ben 8 volte qui in: 1,13; 3,6; 4,6; 4,14; 5,1; 5,5; 5,13).

Con questi tre doni offerti dai Maghi, ancora polemicamente, Matteo – giudeo convertito e quindi ancor più autorevole – vuole mostrare come queste prerogative non sono più del solo Israele ma ora appartengono ad ogni popolo, ad ogni uomo e donna che si lascia guidare dalla luce di questa stella che è il Cristo.

Adesso tutti costoro appartengono al regno del Signore. Tutti costoro costituiscono un popolo sacerdotale e tutti costoro profumano del profumo d’amore dello Sposo.
Adesso, in questo bambino “invisibile” agli intrighi e all’agitarsi del potere politico, religioso, economico, militare… e della folla (“tutta Gerusalemme”!), l’umanità intera può scoprirsi sposa amata dal Signore.
Ecco perché al rivedere la stella, al vedere il bambino, furono i Maghi, siamo noi, invasi da una immensa incommensurabile pe
rmanente gioia…
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