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martedì 25 dicembre 2012

Buon Natale!... Forse

 
Forse mai come in questo Natale 2012 ci sentiamo così vicini a Gesù, a Maria, a Giuseppe.

Guardiamo il presepe… molto bello certo, ma quello vero non è mai così bello, così ricco di luci… con la bolletta dell’Enel che non si riesce a pagare…

Forse… oggi capiamo meglio cosa vuol dire restare soli, senza un soldo in tasca, senza un lavoro degno di questo nome…
Forse… oggi capiamo meglio cosa vuol dire essere cacciati da un alloggio caldo e accogliente in cui si cercava rifugio per una sola notte…
Forse… ora capiamo meglio la sensazione di disagio che ha provato Maria… con le doglie imminenti e l’assenza di acqua per potersi lavare.
Forse… ora capiamo meglio l’angoscia di Giuseppe… la sua impotenza davanti all’ostilità degli uomini e della storia. Capiamo meglio l’angoscia di un padre che non riesce a proteggere come vorrebbe le persone che ama…

Forse… capiamo meglio l’ingiustizia patita da Gesù…
In fondo Lui ha sempre vissuto così: “da cacciato via”… da straniero… Ha sempre fatto fatica Gesù a trovare una casa accogliente, Lui che non aveva neanche una pietra dove posare il capo, Lui che non aveva neanche – diversamente dagli animali – una tana dove rifugiarsi… Qualche volta la trovava a Betania, a casa di Lazzaro, ma ha sempre vissuto da rifugiato… anche a Nazareth. In fondo ci era andato per nascondersi dal potente di turno, tanto insignificante era quel posto.

Sta per nascere Gesù... e l’unico posto in cui ha potuto nascere è la nuda roccia di una grotta, di una caverna… la stessa roccia fredda che accoglierà il suo corpo… ciò che restava di una vita consegnata…
Appena madre e ancora ragazza Maria... e già si esercita a compiere quel gesto che trent’anni dopo dovrà fare per custodire le spoglie del figlio amato, avvolgendolo in fasce.

Forse… oggi capiamo meglio cosa vuol dire, non trovare rifugio sicuro e stabile per poter condurre una vita dignitosa.
Forse… oggi capiamo meglio cosa vuol dire vivere al freddo riscaldati dal tepore e fetore degli animali… E da genitori indifesi e infreddoliti, stanchi e affamati…

Forse… oggi capiamo meglio quella solidarietà che Gesù ha voluto vivere con il nostro disagio…
Forse ora comprendiamo che cosa voleva dire quando ci invitava a essere solidali con chi, per una ragione o per l’altra, è emarginato…
Forse… oggi, i disagi di quest’anno e la speranza di un futuro migliore che sembra spegnersi, ci fanno scoprire che abbiamo qualcosa in comune con le persone che fino a ieri incontravamo solo per far loro l’elemosina, “la carità”. Forse ora ci accorgiamo che abbiamo molte cose in comune con loro… Con molte cose da dirci, più che da darci.

Forse oggi, invece di chiedere qualcosa – a Gesù, agli altri – avremo voglia di dire qualcosa: che ci siamo anche noi, solidali come Lui, perché cominciamo a capire che cosa si prova a trovarsi ai margini della storia…
E forse oggi abbiamo voglia di ringraziarlo per questo, perché da stasera, forse, abbiamo capito grazie a Lui, che per vivere felici, senza perdere la propria dignità, non si ha bisogno di molte cose: basta un bue, un asinello, una madre affettuosa anche se inesperta, un padre premuroso anche se spaventato e qualche pastore, qualche povero disprezzato, che venga a farci compagnia.

Buon Natale! Forse…

martedì 18 dicembre 2012

IV Domenica di Avvento

Dal libro del profeta Michèa (Mi 5,1-4a)
Così dice il Signore: «E tu, Betlemme di Èfrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti. Perciò Dio li metterà in potere altrui, fino a quando partorirà colei che deve partorire; e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli d’Israele. Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio. Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra. Egli stesso sarà la pace!».

 Dalla lettera agli Ebrei (Eb 10,5-10)
Fratelli, entrando nel mondo, Cristo dice: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: “Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”». Dopo aver detto: «Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato», cose che vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: «Ecco, io vengo per fare la tua volontà». Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo. Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre.

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 1,39-45)
In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».

In questa Quarta e ultima Domenica di Avvento la Chiesa ci propone di riflettere sull’episodio del vangelo di Luca, tradizionalmente titolato “La visitazione”: Maria – dopo aver ricevuto, da parte dell’angelo Gabriele, l’annuncio del concepimento di Gesù – parte «in fretta» per andare da Elisabetta, sua parente.

«Per quale motivo Maria si reca da Elisabetta? Secondo un diffuso sentire popolare, e anche secondo diversi esegeti, Maria sarebbe stata spinta dalla carità e dalla volontà di servizio. “Maria poteva aiutare sua cugina nelle sue occupazioni quotidiane, offrendole quei servigi che le donne usano rendersi in tali circostanze” [scrive L. Deiss, ne Elementi fondamentali di Mariologia]. La “Serva del Signore” si fa serva degli uomini, come è nella logica del vangelo, dove l’amore di Dio si dimostra e si verifica nell’amore del prossimo. E. Bianchi annota che l’intenzione caritativa di Maria si trasforma però – nel racconto di Luca – in un viaggio missionario: “Maria va per fare il bene e finisce per portare Cristo” [E. Bianchi, Magnificat].

In realtà da nessuna parte del testo è suggerito che il viaggio di Maria sia stato motivato dal desiderio di aiutare Elisabetta. Tanto più che, come si è visto, Maria ritorna a casa sua prima della nascita del Battista (1,56). E l’espressione “Serva del Signore” (1,38) sottolinea l’obbedienza a Dio, non di per sé il servizio al prossimo. L’unico motivo, che può trovare un appoggio nel testo, è il desiderio di Maria di osservare il segno che l’angelo le ha indicato» [B. Maggioni, Il racconto di Luca, Cittadella Editrice, Assisi 2001, 36-37].

Pochi versetti prima infatti – durante l’annuncio dell’angelo a Maria («Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine», Lc 1,30-33) – Egli aveva aggiunto, quasi a indicare una traccia di attendibilità del suo messaggio: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,35-37).

Maria che «diversamente da Zaccaria [come annota ancora Maggioni], non ha chiesto un segno», individua nelle parole dell’angelo un’indicazione: un’indicazione che «nasconde un invito. Il segno e la sua verifica fanno [infatti] parte della logica delle rivelazioni. Dio mostra [N.B. “mostra” NON “dimostra”] la sua verità e non vuole che l’assenso della fede avvenga al buio»!

Precisamente in queste ultime indicazioni – purtroppo abitualmente soffocate dal continuo rilancio della lettura di questo brano che vede in Maria l’esempio di carità da seguire, accontentandosi ancora una volta di proporre semplicemente i luoghi comuni di una religiosità che troppo disinvoltamente fa “tornare i conti” della drammatica evangelica – sta la straordinarietà e – mi sia permesso – la spregiudicatezza di questo testo.

Esso infatti – precisamente mentre sta descrivendo il paradigma della fede di ogni credente: Maria, appunto – non ha paura di mostrare come la fede – cioè la relazione dell’uomo al suo Dio – non sia assolutamente da intendere come una fede cieca! Questa constatazione – che è un’evidenza che emerge da ogni interstizio evangelico – purtroppo ancora oggi risuona come una prospettiva sospetta: la catechesi neoscolastica degli ultimi secoli ha infatti radicalmente fatto sedimentare nelle nostre menti l’idea che se di fede si tratta, non c’è spazio per l’esercizio della ragione… Essa è “un salto nel buio”, se no che fede è?

“Curiosamente” invece proprio Maria – da sempre cantata come l’esempio della fede di ciascun cristiano – a fronte di una rivelazione di Dio, di un “farlesi” incontro di Dio, di un imbattersi in Dio, si appiglia all’unica “traccia” che l’angelo le ha lasciato per andare a constatare se effettivamente l’esperienza che ha vissuto ha una sua attendibilità. Il problema di Maria è infatti quello di ciascuno: “Questa rivelazione, questa lieta notizia, questo vangelo, – in ultima analisi –, questo Dio, è un Dio affidabile, è un Dio credibile, è un Dio degno di fede, della mia fede? Vale la pena dedicargli la vita, instaurare con Lui una relazione che diventi l’orizzonte di senso in cui comprendere il reale, incarnare la sua logica che conduce al dono della mia vita per amore dei fratelli?”.

L’angelo aveva parlato di Elisabetta… E Maria, «in fretta», va da lei!

Altro che fede cieca (che tra l’altro il Concilio Vaticano I ha stigmatizzato – con la Costituzione dogmatica Dei Filius – come inaccettabile)! La relazione che il Signore propone all’uomo onora fino in fondo la caratura pienamente umana (e dunque anche razionale) dell’uomo! Nessun salto nel buio, ma il paziente riconoscimento del farsi prossimo di Dio, l’intercettazione, nel nostro ordine degli affetti, di una promessa di senso lì contenuta, il credito dato a questa intuizione e il conseguente sbilanciamento verso un approfondimento della conoscenza di questo suo rivelarsi (fatto anche – non solo, ovviamente – di faticosa indagine sui testi, che invece molti cristiani non solo non hanno mai studiato, ma nemmeno mai letto…), la verifica di ciò che attraverso lo studio (Parola di Dio), il dialogo personale (preghiera), la vita ecclesiale (sacramenti), il volto dei fratelli (storia) emerge come volto del Dio di Gesù Cristo… per giungere ad un assenso consapevole… che riapre la circolarità appena descritta, dove infatti il consenso raggiunto, diventa occasione di nuove illuminazioni nell’ordine degli affetti, credito concessogli, ecc…

Ecco perché questo testo è coraggioso, perché non ha paura di mostrare come – per entrare in relazione con Dio – non ci sia affatto bisogno di uscire dalla carne, di censurare i nostri dubbi, di spegnere la nostra razionalità, di rispettare la nostra umana natura che prevede che per “farci” uomini, diventare uomini, ci si immerga nella storicità…

Maria – donna a tutti gli effetti, fatta di carne e sangue, sudore e fatica, gambe per andare in fretta da Elisabetta, “voce forte” per salutarla, entusiasmo e trepidazione per l’annuncio dell’angelo in cui le è capitato di imbattersi, tenerezza per il figlio che porta in grembo, desiderio di dirlo a qualcuno (a qualcuna…) –, l’esempio di fede dei cristiani di ogni generazione, non risulta affatto l’eterea semi-dea a cui spesso purtroppo ancora oggi è spesso ridotta dalla devozione popolare, colpevolmente alimentata da molti funzionari del sacro, ma ci appare – aprendoci ad un sorriso compiaciuto e tenerissimo – la ragazza a cui è capitato di tenere in pancia Dio, colma di paura e trepidazione, sospetti e incomprensioni, che non ha avuto paura di andare a vedere se davvero quell’angelo diceva il vero su Elisabetta!

Perché forse – se diceva il vero su Elisabetta – diceva il vero anche a lei…

E così Luca ci regala l’indimenticabile pagina della rivelazione del Signore (Elisabetta è la prima che chiama Gesù con questo titolo nel vangelo di Luca), chiusa fra le quattro mura di una casa normalissima, con protagoniste due donne – una ragazza madre e una donna sfiorita – e le loro pance (con i rispettivi abitanti) che si parlano di una gioia incontenibile: è il Signore che viene, nel mondo laico delle donne, nella quotidianità di quelli che non contano, nel cuore dell’umanità. «Perché Dio entra nella storia dalla porta di servizio, dove mai l’avremmo aspettato, perché da lì entrano i servi e i domestici…o, di soppiatto, i ladri. Noi eravamo e siamo sempre in attesa sul portone principale della religione, dell’intelligenza, della morale ascetica. Ma lui è entrato e continua a battere nella storia dal punto più basso, da dove noi cerchiamo faticosamente e inutilmente di allontanarci, dalla nascita alla morte: il ventre di una donna!

[Ma] Perché mai le donne sono protagoniste dell’incontro con il Signore? Persino in queste storie antiche, quando non era pensabile potessero neanche fare da testimoni affidabili di incontri umani? Perché la tentazione monofisita, (la tentazione più subdola e diabolica contro l’incarnazione) non le tocca. Cioè il corpo, la carne, pure sporca e malata, perfino il cadavere dell’amato… per loro ha sempre senso. E’ sempre il luogo della vita possibile, della comunicazione vera, l’unico luogo dove si trasmette la vita. Sono quindi più vicine all’accudire che al razionalizzare; a comprendere invece che proporre, a servire invece che pretendere. Anche loro sono intrise della congenita debolezza umana (e biblicamente sono state la prime a volerne uscire a tutti i costi) ma il circuito culturale non le chiude mai del tutto. La vita vale più dell’idea della vita!» [Giuliano].

martedì 11 dicembre 2012

III Domenica di Avvento


Dal libro del profeta Sofonìa (Sof 3,14-18)

Rallègrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele, esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme! Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico. Re d’Israele è il Signore in mezzo a te, tu non temerai più alcuna sventura. In quel giorno si dirà a Gerusalemme: «Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente. Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési (Fil 4,4-7)

Fratelli, siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 3,10-18)

In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe». Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile». Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.

 

Le letture che la Chiesa ci propone per questa Terza Domenica di Avvento, sembrano in qualche modo ricalcare la prospettiva che si voleva delineare già una settimana fa: lettura profetica di esultanza per la salvezza imminente (là Baruc 5,1-9 qua Sofonìa 3,14-18), scritto paolino che incoraggia la crescita nell’amore della comunità a cui si rivolge (in entrambi i casi, i cristiani di Filippi – là Fil 1,4-6.8-11, qua Fil 4,4-7), figura del Battista tratta in entrambi i casi dal capitolo 3 del Vangelo di Luca (là i versetti 1-6, qua i versetti 10-18).

La ripetizione di questa matrice dell’annuncio della Parola, che la Chiesa decide di proporre in questo tempo di Avvento (anno C), seppur crea qualche difficoltà di commento – perché il rischio di ripetersi diventa reale… –, in realtà è molto significativa: ancora una volta è ribadita (addirittura in maniera ridondante) l’impossibilità di avvicinarsi al Natale – e dunque di parlare dell’inizio dell’avventura storica di Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio, la sua piena Rivelazione – senza “passare” da Giovanni Battista.

I versetti del cap. 3 di Luca che la liturgia non ci fa leggere (quelli dal 7 al 9), indicano infatti questo necessario affluire delle folle (allora) e nostro (oggi) a Giovanni, nel deserto: «Le folle andavano a farsi battezzare da lui».

Perché questo bisogno di “passare” dal Battista? Cosa muoveva le folle di allora? E in che senso anche oggi, per noi, è imprescindibile il passaggio da Giovanni?

Un’intuizione si può avere dalla domanda che più volte gli viene rivolta: «Che cosa dobbiamo fare?», «Maestro, che cosa dobbiamo fare?», «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Questa domanda infatti rimanda al problema dei problemi, al risveglio della coscienza (dovuto ad un annuncio – in questo caso –, o ad un evento tragico o bellissimo, o alla noia di vivere, ecc…), per cui ci si rende conto che quotidianamente – anzi istante per istante – si ha a che fare con un abisso, con l’assoluto, con la scelta radicale di chi essere e chi diventare, col pericolo mortale di non risvegliarsi la mattina dopo e con la domanda inevitabile sul senso, che questa coscienza pone. Giovanni dice: «Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri», perché sta per arrivare l’atteso dai secoli, sta per succedere qualcosa di travolgente e che porta con sé una definitività; e la gente è immediatamente rimandata a se stessa. Di fronte ad un evento che sembra sconvolgere la storia, il problema di ciascuno diventa: “E io? Che cosa devo fare?”. Di fronte al Signore che viene, di fronte ad un mondo che finisce, di fronte alla mia vita che finisce, di fronte ad un figlio che mi nasce, di fronte ad un fratello che mi tradisce, che mi abbandona, che mi muore, che suda lacrime e sangue ogni giorno per i mille e mille motivi per cui nel mondo oggi si sudano lacrime e sangue, ioche cosa devo fare? Come mi devo porre? Chi devo/voglio scegliere di essere?

È la domanda delle domande… ecco perché vanno da Giovanni: da uno che in quel momento sembrava poter dare delle risposte, sembrava poter indicare una via, dire qualcosa… Ecco perché anche la Chiesa, continuamente, ci invita a “passare” da Giovanni. Perché “Che cosa dobbiamo fare?” è la domanda che deve salire in petto a tutti: il problema – anche solo sul fronte umano – del senso non può essere eluso: Cosa dobbiamo fare? Cosa dobbiamo fare per vivere una vita buona? E come facciamo a capire cosa è una vita buona? E poi, “buona” per chi? Verso cosa corriamo? Verso dove andiamo? Verso chi? E perché? Qualcuno lungo la storia ha parlato di premi, di aldilà, di vita dopo la morte… Era vero? E come si fa per guadagnarseli? Quali prove, quali sforzi, quali sacrifici? E se non è vero, cosa sono qui a fare? Ha senso ciò che faccio, se è destinato al niente? E se decido di sfruttare comunque questa cosa – che è la vita – che mi sono ritrovato a vivere, cosa devo fare perché non sia un’occasione sciupata?

Giovanni – dicevamo già la scorsa volta – è – a detta di Gesù stesso – il più grande frutto della religiosità umana, che – nel suo senso autentico – è precisamente questo inevitabile imbattersi nella domanda del senso… Giovanni è come l’emblema di quella tensione umana per cui non ci si sente mai “risolti”, “finiti”, “arrivati”; per cui è sempre in atto (anzi: deve essere sempre in atto) un necessario migliorarsi, un cercare altrove, oltre; un con-vertirsi, per dirla con le sue parole…

In sostanza Giovanni rappresenta tutto lo sforzo dell’umanità e del singolo a trovare e a perseguire una risposta alla domanda “Cosa siamo qui a fare?”.

Ecco Giovanni! Ecco la necessità di “passare” da lui: perché senza questa tensione per la ricerca di un senso (del senso!), semplicemente essa non si dà. Non c’è vita senza senso, senza tensione – almeno – per un senso. E non c’è possibilità di trovarlo – o meglio di farsi trovare dal senso – se esso non è contemplato come possibile. Ecco perché – forse più che mai – per la nostra generazione contemporanea è indispensabile “passare” da Giovanni…

Anche perché poi – a ben guardare – Giovanni qualche risposta la dà… «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto», «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato», «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe»… Giovanni cioè sembra indicare, come possibile risposta al “Cosa dobbiamo fare?”, la via della solidarietà, intesa in senso forte, non in quello della carità “a distanza” della nostra società occidentale, per cui il povero – se lo si aiuta – lo si fa da lontano, lo si fa “lasciandolo a casa sua”: l’importante è che non venga da noi… No, qua Giovanni parla piuttosto di quella disposizione interiore – fondata, perché scavata nell’“anima” – che guarda all’altro – sempre e comunque – come ad un fratello, ad “uno dei nostri”, “uno dei miei”, per questo mi diventa caro e me ne prendo cura…

Precisamente in questa scia si porrà Gesù!

Eppure…

Gesù non è Giovanni! Anzi, a detta di Giovanni stesso, «viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali».

Infatti – a ben guardare – se è vero che Gesù si inserisce sulla scia della risposta giovannea alla domanda “Che cosa dobbiamo fare?”, proseguendo e radicalizzando l’amore al prossimo come criterio per “pesare”, “misurare”, giudicare la propria vita, è anche vero che Gesù non sarà esattamente come Giovanni se lo aspettava: «Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».

Giovanni infatti sembra ancora dell’idea (in questo ancora molto seguito da tanti cristiani) che il “bene” vada fatto (agli altri), per evitare di avere conseguenze negative (noi): evitare di “bruciare come paglia con un fuoco inestinguibile”, detto con le sue parole; “di andare all’inferno”, detto con le nostre… Dove l’oggetto vero di interesse, ancora una volta, siamo noi e la nostra salvezza: gli altri contano e “servono” solo come mezzi per i miei fini, per il mio bene, per i miei interessi (per quanto di interessi “spirituali” si tratti…).

La logica di Gesù è invece tutt’altra! Tant’è che Giovanni – racconta Matteo – all’inizio non era molto persuaso del modo di essere Messia di Gesù, tant’è che – dal carcere – gli manda i suoi discepoli a chiedergli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,3). Perché Gesù stravolge la logica umana (e giovannea) della necessità di salvarsi, del fare il massimo per migliorarsi, dell’essere il “più buoni possibile” per meritarsi il paradiso… La proposta di Gesù infatti non è un itinerario di autosalvezza, non è un percorso ascetico, in cui l’uomo sforzandosi raggiunge la perfezione morale o spirituale o mistica… Questo è ancora Giovanni – il massimo che la ricerca religiosa ex parte hominis può raggiungere…

Ma, come dicevamo anche domenica scorsa… uno sforzo destinato a farci sempre ritrovare seduti per terra: perché tutto parte da noi e arriva a noi; senza possibilità di (con)vincere davvero la nostra radicale consapevolezza di non poterci salvare da soli. Esattamente come non siamo potuti nascere da soli o farci uomini e donne da soli…

Precisamente qui sta il discrimine tra Giovanni e Gesù, tra l’Antico e il Nuovo Testamento, tra un itinerario di autosalvezza e il Vangelo. A differenza di Giovanni, infatti, Gesù non risponde (se non solo in seconda battuta) al “Cosa dobbiamo fare?”, ma al “Chi siamo?” e solo a partire da lì propone anche un “fare” – o meglio un “essere” che si media inevitabilmente in un “fare”.

Gesù infatti ricolloca l’uomo nella giusta posizione che da sempre egli agli occhi di Dio ha tenuto – ma della quale si era scordato (l’uomo, non Dio!) strada facendo: e cioè quella per cui l’uomo è figlio amato, sempre e comunque! Figlio, la cui vita è già sempre tenuta in mano dal Padre, salvata ex parte Dei. Vita – dunque – per la cui salvezza egli non deve dannarsi l’anima, sputare sangue, mortificare il corpo, primeggiare sugli altri… Essa infatti è già “al sicuro”. E se non lo fosse – per opera d’Altri – l’autosalvezza raggiunta sarebbe comunque sempre e solo illusoria, destinata inevitabilmente alla tomba!
Lo scardinamento di Gesù allora sta esattamente a questo livello: proprio perché rivela all’uomo la sua autentica identità filiale (umana in senso pieno), Egli gli consegna anche il “compito/dono” di incarnarla fino in fondo; un “da farsi” dunque, ma che trova senso solo in questa prospettiva, solo in seconda battuta, come risposta (accogliente) ad un regalo arrivato solo per l’incondizionata e inequivoca dedizione dell’Abbà-Dio. Ecco perché il “da farsi” non ha più i contorni dello sforzo, della rinuncia ascetica, del volontarismo, dell’apparire – ultimamente – contrario all’umanizzazione dell’uomo: perché esso diventa circolo d’amore in cui proprio perché inondato di bene, io irraggio sugli altri il bene; proprio perché figlio, divento fratello; proprio perché oggetto di dedizione, divento capace di dare la vita. Ecco in che senso allora Gesù – come concludevamo la scorsa volta – non va cercato, ma semplicemente accolto nell’intimità più intima della nostra interiorità, dove ci «rinnoverà con il suo amore».

martedì 4 dicembre 2012

II Domenica di Avvento


Dal libro del profeta Baruc (Bar 5,1-9)

Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione, rivèstiti dello splendore della gloria che ti viene da Dio per sempre. Avvolgiti nel manto della giustizia di Dio, metti sul tuo capo il diadema di gloria dell’Eterno, perché Dio mostrerà il tuo splendore a ogni creatura sotto il cielo. Sarai chiamata da Dio per sempre: «Pace di giustizia» e «Gloria di pietà». Sorgi, o Gerusalemme, sta’ in piedi sull’altura e guarda verso oriente; vedi i tuoi figli riuniti, dal tramonto del sole fino al suo sorgere, alla parola del Santo, esultanti per il ricordo di Dio. Si sono allontanati da te a piedi, incalzati dai nemici; ora Dio te li riconduce in trionfo come sopra un trono regale. Poiché Dio ha deciso di spianare ogni alta montagna e le rupi perenni, di colmare le valli livellando il terreno, perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio. Anche le selve e ogni albero odoroso hanno fatto ombra a Israele per comando di Dio. Perché Dio ricondurrà Israele con gioia alla luce della sua gloria, con la misericordia e la giustizia che vengono da lui.

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési (Fil 1,4-6.8-11)

Fratelli, sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo, dal primo giorno fino al presente. Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù. Infatti Dio mi è testimone del vivo desiderio che nutro per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù. E perciò prego che la vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento, perché possiate distinguere ciò che è meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi di quel frutto di giustizia che si ottiene per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 3,1-6)

Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetràrca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetràrca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetràrca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Càifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccarìa, nel deserto. Egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaìa: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie, spianate. Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!».

 

In questa Seconda Domenica di Avvento, la Chiesa ci introduce – con le sue letture – in un clima di attesa decisamente più luminoso di quello presentato la settimana scorsa da Lc 21:

-          «Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione, rivèstiti dello splendore della gloria che ti viene da Dio per sempre» – proclama il profeta Baruc;

-          «Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!» – gli fa eco Isaia, citato da Luca…

-          E Paolo, nella sua lettera ai Filippesi, non è da meno: «Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù».

Tutta questa effervescenza ovviamente è legata al mistero del Natale di Gesù che – con l’Avvento – ci prepariamo ad accogliere; eppure l’attenzione non è ancora posta precisamente su di Lui: la Chiesa infatti ci invita a concentrarci (e lo farà per due domeniche di seguito) sul Precursore, su Giovanni.

Questo dato è molto interessante: la Chiesa infatti – per parlare della venuta di Gesù – invita sempre a farlo passando da Giovanni Battista.

E questo da sempre, tant’è che tutti e quattro i vangeli attribuiscono grande importanza a questo personaggio e sottolineano come si possa iniziare a parlare di Gesù solo attraverso suo “cugino”…

Diventa indispensabile dunque anche per noi oggi, ripercorrere l’esperienza storica di quest’uomo (storica al 100%, data la puntigliosità di Luca nel collocarla nel quadro dei grandi avvenimenti storico-politici dell’epoca: «Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetràrca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetràrca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetràrca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Càifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccarìa, nel deserto»).

Lo facciamo lasciandoci guidare dalle preziose indicazioni contenute nel capitolo 1 del libro Con Marco in cammino verso il Regno del Monastero delle Carmelitane scalze di Legnano.

L’autore – p. Giuliano Bettati – scrive infatti: «Anche oggi è necessario, per avvicinare Gesù e riscoprire la possibilità e – se volete – l’approfondimento di una nuova autenticità del nostro personale incontro con Gesù, incontrare prima Giovanni Battista». Egli è infatti la sintesi più riuscita del tentativo umano – prima di Gesù – di arrivare a Dio.

Gesù stesso infatti di lui, dirà: «In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista», Mt 11,11.

Ma questo non è vero solo storicamente – per cui per tutti quelli che sono venuti cronologicamente prima di Gesù, la massima aspirazione religiosa è rappresentata da Giovanni –, ma è vero soprattutto esistenzialmente: anche per chi è nato dopo Gesù e anche per chi già l’ha conosciuto nella sua storia personale, l’esperienza del Battista rimane paradigmatica; dal punto di vista dell’uomo la sua rimane infatti l’esperienza emblematica della nostra ricerca religiosa. Giovanni Battista infatti è il «profeta penitente».

Nella Bibbia questo termine ha un significato un po’ diverso rispetto a quello con cui lo utilizziamo noi oggi, come sinonimo di “mortificazione”, che risulta infatti un senso un po’ parziale. «Penitenza invece è il tentativo umano – che nasce dalla coscienza di peccato, di inadeguatezza, di distanza da Dio – per riprendere coscienza del luogo del vero obiettivo: Dio, la sua giustizia, la sua pace, la sua fraternità. E di girarsi verso di Lui. Per questo il termine greco dice piuttosto convertirsi, girarsi cioè, verso un altro obiettivo che sia alieno da noi e che abbiamo scoperto. Per questo la prima reazione è – e in Giovanni si vede benissimo – far violenza su di sé e sugli altri e dire: “No. Stiamo sbagliando: adesso basta! Bisogna girarsi verso un’altra realtà e quindi mettere in crisi, strappare un po’ di involucro, un po’ di strutture per prendere coscienza che bisogna andare da un’altra parte”. […] Pensate a tutti i Giovanni Battista della storia e a quello che è necessario per ognuno di noi: le leggi, le pene, i castighi, le minacce, i ricatti a livello istituzionale e personale, a livello di comunità. Sono tutti Giovanni Battista: il tentativo, dall’esterno, di convincere noi stessi e la gente con questi grandi strumenti antropologici che l’uomo si è inventato lungo la storia [penitenza, digiuno, silenzio, celibato, ecc…] per scuotere uno e dirgli: “Guarda che sei lontano da Dio, bisogna cercare di arrivarci”».

Eppure…

«La coscienza che c’è dentro è che tutto ciò che l’uomo può fare e che questo istinto di conversione suggerisce, anche violento, è sterile, è inutile», «non converte il cuore. Potete fare tutto quello che volete: digiuni, penitenze ecc.; ma […] il cuore rimane tale e quale». Di questo «Giovanni Battista aveva coscienza acuta. Per questo finisce col dire: “Io battezzo solo con acqua”; ma questa è solo una purificazione esterna, il cuore non cambia: “Dopo di me verrà uno che battezzerà in Spirito Santo e fuoco».

Da un lato dunque il fatto che «le penitenze non mettono in contatto la nostra storia di oggi con la salvezza del Signore», dall’altro il fatto che «la necessità di conversione, di senso della propria lontananza da Dio, di coscienza della propria inadeguatezza sono contemporanee».

Oltre Giovanni Battista dunque, ma mai senza Giovanni Battista…

Infatti: certo che «un battesimo di conversione per il perdono dei peccati» dice qualcosa dell’esperienza umana, anzi forse addirittura, come si diceva prima, è il massimo che l’uomo di per sé può fare (accorgersi del male che fa o del bene che non fa e cambiare strada), ma Gesù è un’altra cosa.

Infatti «il dolore, la sofferenza del mondo, quindi la penitenza, vanno tenuti in conto; però non sono la chiave interpretativa della storia, come invece per Giovanni Battista. Tutta questa realtà non è più la chiave d’interpretazione del mondo. È a motivo di ciò che il Battista è valido, è contemporaneo, è profeta, è precursore; ma è prima di Gesù Cristo e “Non è degno di sciogliergli i legacci dei sandali” (Mc 1,7).

Perché? Perché il Signore ha portato un’altra parola che riavvolge tutta questa difficile, contraddittoria realtà della storia, nella paternità di Dio».

«C’è [infatti] come un crinale che divide, attraversa i popoli, la storia, la Chiesa, i gruppi, le famiglie e il cuore dell’uomo e che separa e unisce – il crinale fa questo – il mondo della necessità e il mondo della grazia, il Vecchio e il Nuovo Testamento. […] Gesù si è inserito nel tessuto di tutta l’umanità nel paesino di Nazareth, vivendo storicamente, accettando i ritmi biologici, l’economia, la religione, la politica del suo paese; in questa realtà necessaria, dove le cose vanno avanti perché sono sempre andate avanti così o poco diversamente, con la possibilità nuova che noi chiamiamo grazia. Si chiama grazia perché è gratis. Non è la conseguenza del meccanismo delle cose, non è la conseguenza dell’economia, né della santità di sua madre, né della bravura del maestro che gli ha insegnato la Bibbia; non è la conseguenza del Tempio, dove si prega Dio nell’ombra, nel cuore, ecc… Non è la conseguenza di tutte queste cose, neanche le più alte. Neanche di Giovanni Battista. È un puro regalo».

«Se uno non capisce il salto di qualità, allora ritiene che Gesù Cristo sia un grande profeta, un grande fondatore di religione, sia quello che mette l’uomo nella situazione di poter qualche volta incontrare Dio. No, non è niente di tutto questo! Altrimenti lo si confonde con un Giovanni Battista, con un Budda, con un Confucio, con un grande uomo, con Marx, con Freud, con chi ognuno ritiene sia stato un grosso sconvolgimento, un grosso orizzonte nella propria vita», un “uomo normativo” lo chiamano le scienze umane…

«Gesù [invece] è un’altra cosa! È quello che dà la possibilità all’uomo di vivere veramente da uomo; con una grazia di cui l’uomo non è capace (grazia vuol dire questo!) e viene dal di fuori. Ecco: questa è appunto l’esperienza ricevuta in regalo [gratis] dopo che l’uomo ha riscontrato che anche con tutta la dedizione possibile [Giovanni Battista] si ritrova seduto per terra. Allora è possibile la venuta di Gesù», che infatti non è da cercare, ma da accogliere!

Il Natale che viene, allora, e questo tempo di avvento che ci prepara ad esso non sia l’esperienza del nostro sforzo per arrivare a Dio, ma piuttosto la seria presa di coscienza del nostro ritrovarci – di nuovo e sempre (esistenzialmente!) – seduti per terra, ma raggiunti da un Signore, che proprio a noi, si mette in braccio nei panni di un neonato.

domenica 2 dicembre 2012

Cammino di perfezione



Incontro tenuto il 24 novembre 2011, presso la "Comunità Missionarie Laiche" PIME a Legnano.

(unico "refuso" quando dice "perfezione perfetta ma non compiuta" intedeva - come mi ha confermato a voce - "creazione perfetta ma non compiuta")

Ringraziamo Silvano Petrosino per aver concesso l'autorizzazione alla publicazione.
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