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martedì 27 novembre 2012

I Domenica di Avvento


Dal libro del profeta Geremìa (Ger 33,14-16)
Ecco, verranno giorni - oràcolo del Signore - nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa d’Israele e alla casa di Giuda. In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra. In quei giorni Giuda sarà salvato e Gerusalemme vivrà tranquilla, e sarà chiamata: Signore-nostra-giustizia.

 Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési (1Ts 3,12-4,2)
Fratelli, il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi. Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù affinché, come avete imparato da noi il modo di comportarvi e di piacere a Dio – e così già vi comportate –, possiate progredire ancora di più. Voi conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù.

 Dal Vangelo secondo Luca (Lc 21,25-28.34-36)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».

 Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa Prima Domenica di Avvento (C) è tratto dal capitolo 21 di Luca, l’evangelista che accompagnerà l’Anno Liturgico che proprio oggi si inaugura.

Commentare questo testo però risulta assai difficile:
1)                 Innanzitutto per l’intrinseca difficoltà legata al linguaggio apocalittico che lo caratterizza;
2)                 Inoltre per il fatto che esso appare del tutto simile al vangelo commentato solo quindici fa, nella Trentatreesima Domenica del Tempo Ordinario (B), dove era presentata precisamente la versione parallela al nostro brano, secondo l’evangelista Marco…
3)                 Infine, perché questo testo fa chiaramente riferimento all’attesa del ritorno del Signore (la II venuta di Gesù), mentre noi lo leggiamo inaugurando l’attesa del Natale, cioè la festa che fa memoria della I venuta di Gesù…

Ma forse queste medesime difficoltà, invece che bloccare ogni parola, possono diventare l’occasione per intavolare qualche riflessione…

1)                 Il linguaggio apocalittico: così lontano dal nostro sentire odierno, può aprire lo spazio per conoscerlo meglio… Essere costretti a ritornarci sopra a così breve distanza, può rendercelo meno ostico e ostile (due parole che contengono la radice dell’inimicizia)… meno nemico dunque, meno spaventoso (perché è questa l’immediata sensazione che rilancia), per scoprire che in realtà si tratta – appunto – solo di un linguaggio, all’interno del quale il messaggio veicolato non è diverso da quello delle altre pagine evangeliche. “Apocalisse” infatti vuol dire “rivelazione” (non cataclisma finale)… si tratta dunque della medesima rivelazione del volto paterno di Dio, proposta da Gesù, che non censura, ma anzi si fa carico della drammaticità della vita (raccontata attraverso quelle immagini da fine del mondo che ci fanno storcere il naso). È dunque l’assunzione seria da parte del Signore del dramma iscritto nella vita e mai saltato o censurato per proporre uno slogan irenico (“Tanto Dio ci ama”), incapace di immischiarsi anima e sangue con le tragicità che ci accompagnano giorno per giorno. È cioè la dichiarazione che il venire di Dio non annulla la nostra storia, non la salta, non la censura, ma la prende sul serio, la assume (nella sua assurdità), se la incarna addosso… se ne fa scavare le viscere e su di essa (e mai a prescindere da essa) dice la sua Parola: «Verranno giorni nei quali realizzerò le promesse di bene che ho fatto», «In quel tempo farò germogliare un germoglio giusto, che eserciterà la giustizia sulla terra».

Il linguaggio apocalittico è dunque un modo per dire che la drammaticità che viviamo non è abbandonata a se stessa, ma è abitata dalla presenza crocifissa del Signore, che in essa vuole realizzare (non i nostri desideri), ma le sue promesse: promesse di giustizia…

La sua giustizia, non la nostra (retributiva – come se davvero si potessero fare i conti in tasca alla complessità dell’animo umano – e sempre alla ricerca di colpevoli – in modo da censurare il problema del senso)… Ma la sua giustizia, quella che dentro ai pasticci di una vita, di un’umanità intera, riesce sempre, in ciascuno a vedere i germoglietti di bene e ad accudirli.

2)                 In questo senso anche l’avere a che fare con un testo così simile a quello di appena quindici giorni fa, ci permette di non lasciarci scivolare troppo addosso l’invito a concentrarci sul nostro oggi, su ciò che siamo, ciò che avremmo voluto essere, su ciò che vorremmo ancora essere… alla luce del Figlio che viene ad abitare la nostra storia. Perché io credo che tutti, sotto lo strato di cinismo, freddezza e durezza di cui pare inevitabile coprirsi per stare al mondo, per sopravvivere in questo mondo, abbiano un lumicino che si scalda al sentire Paolo che dice: «Fratelli, il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti»… Tutti credo, sotto a questa scorza incrostata di paure, risentimenti, dolori, abbiamo la consapevolezza che davvero solo per amore valga la pena tornare ogni mattina a immergersi in questo mondo… amore per gli uomini e le donne, tutti figli e figlie (e in qualche modo vittime) di questa terra.

Ecco perché suonano forti le parole di Gesù: «State attenti a voi stessi che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita»; non perché esse stiano lì a sottolineare un richiamo morale (perché distorciamo sempre così le parole del Signore?) a guardarci dal sesso, dall’alcool, dalle droghe, ecc… ma perché davvero «rischiamo troppe volte, come persone e comunità, di esorcizzare l’ansia e la paura annegandole in falsi obiettivi che dis/perdono l’amore e intristiscono il cuore e abbandonano i poveri» [Giuliano].

La paura ostruisce i canaletti da cui potrebbe sgorgare l’amore… Qui sta il nodo cruciale del linguaggio apocalittico: la drammaticità della vita può farci decidere di essere schiavi della paura, mentre la presenza del Signore – che pure non toglie tale drammaticità – ci permette di vincerla.

Sempre il vangelo dice: «Molti moriranno per la paura»… è ottimista… a me verrebbe da dire “Tutti moriamo di paura”… questo è lo “stato normale” dell’uomo, spaventato dalla morte, dall’altro uomo, dalla natura, dalla fatalità… tutti elementi che prendono le forme di una fragorosa bomba atomica o di un silenzioso tarlo che mina le piccole costruzioni lavorative, affettive, familiari, amicali, sociali, che avevamo tentato…

Ma dentro a tutto questo il linguaggio apocalittico continua a ripetere: «vedranno il Figlio»; a lui si può attaccare la fiducia, che è l’antidoto della paura, e attua dinamiche opposte: dall’incrostazione otturante, alla liberazione dei canali dell’amore; dal ripiegamento meschino e omicida su di sé, all’apertura all’altro; dalla cupezza dello sguardo, alla limpidità…

3)                 Ecco perché ha senso leggere questi testi anche in preparazione al Natale. Perché la vita dell’uomo è troppo breve per essere presente contemporaneamente alla nascita storica di Gesù e al suo ritorno alla fine dei tempi. Anzi, la maggior parte di noi non ha visto né vedrà né l’uno né l’altro di questi avvenimenti… Eppure nella vita di ciascuno c’è una venuta (anzi una doppia venuta) del Signore… La dinamica dell’attesa è perciò sempre la stessa, ovunque ci collochiamo nel panorama delle generazioni umane: sempre a metà strada tra un Signore già incontrato e un Signore da reincontrare.

Parlano dunque a noi questi testi: siamo noi i molti che muoiono di paura e che però hanno avuto notizia di un Dio Padre di cui ci si può fidare.

Ecco perché la presenza su questa terra va vissuta (sempre) in quel moto circolare tra attesa (di un incontro che deve ancora avvenire) e incontro (già avvenuto), nella forma del vegliare: «“Vegliate” non è più il verbo di prima (34:vigilate - state attenti) ma Agrupnèite, strano verbo: come dire “dormite nel campo”, “vegliate dormendo”… in costante implorazione o perché (se traduciamo letteralmente): “bisognosi di avere la forza di scansare ciò che vi viene addosso per travolgervi, e stare “in piedi” davanti al Figlio dell’uomo. Dunque il discepolo non deve fuggire dal mondo e dagli altri uomini (tentazione apocalittica). Neanche deve credere di dominare il mondo (tentazione teocratica). Nell’attesa terrena, talora drammatica, siamo tentati di disperderci o ubriacarci … Ma “«Guardate il fico e tutte le piante; (30) quando già germogliano, guardandoli capite da voi stessi che ormai l'estate è vicina…”. Dobbiamo  discernere i germogli (il Regno che viene), per non schiacciarli o trascurarli, ma accudirli. Il futuro che ci è promesso non è immaginario, non è fuori della storia, anzi fermenta già il presente, già sta radicandosi come un germoglio ‑ come l’attesa o il timore dell’arrivo di una persona può salvare o rovinare il presente di chi l’attende. È la certezza di questo arrivo che provoca la tenerezza appassionata per l’uomo: […] la premura affettuosa per l’uomo è l’espressione più autentica della fede cristiana. Una fede ormai disincantata da ogni fascino di potere: umile (siamo fatti di terra, come tutti …); laica (senza particolari ricette o poteri sacrali – se non la parola che ci è stata affidata – e l’eucaristia che la rinnova in sua memoria; solidale (noi siamo solo primizie simboliche della salvezza di tutti); fedele (al Signore, al suo Vangelo e ai poveri in cui egli vive … pregando sempre, perché ci trovi intenti ad accudire la sua “piccola” presenza e preparare la sua futura grande venuta)» [Giuliano].

domenica 25 novembre 2012

Oltre la separazione dei “Mondi”

 
 Siamo al momento finale dell’anno liturgico e come tale la liturgia di oggi ha uno scopo in qualche modo sintetico, ricapitolativo, del cammino fatto fin qui durante tutto l’anno.
Siamo sul Vangelo di Giovanni, ma non possiamo ignorare il guadagno che c’è stato durante tutto questo anno della comprensione del mistero cristiano, attraverso la meditazione del Vangelo di Marco. Leggiamo quindi Giovanni certamente secondo la logica e la prospettiva di Giovanni ma senza ignorare quello che abbiamo nel frattempo acquisito col vangelo di Marco. D’altronde i quattro vangeli hanno proprio lo scopo di integrarsi a vicenda e se trovassimo contraddizioni teologiche tra di loro, l’errore è certamente nella nostra comprensione e non nei vangeli.

E cominciamo subito con un problema che l’ascolto del vangelo di Giovanni mi ha posto e che subito mi ha insospettito.
Gesù a un certo punto dice a Pilato “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”. Ora, in realtà la traduzione è sbagliata e la frase così tradotta è fortemente esposta a contraddizioni che non hanno soluzione. Infatti apparirebbe legittima la domanda che fu di Giovanni il Battista prima e di Filippo poi, ricordate? “Signore, sei tu il Messia o dobbiamo aspettarne un altro? Se il tuo regno non è di questo mondo, allora, dobbiamo aspettarne un altro! E ancora, se il tuo regno non è di questo mondo, che ti sei incarnato a fare? Se il tuo regno non è di questo mondo, allora hanno ragione gli eretici che sostengono che non ti sei veramente incarnato, ma la tua è stata una “apparizione” del divino: tu non hai veramente calpestato questo suolo, ma sei solo apparso quasi come un fantasma… E per finire – senza concludere – se il tuo regno non è di questo mondo, come fai a dire che il tuo Regno è vicino? Si capisce bene che con una traduzione siffatta crolla tutto l’impianto evangelico: di tutti i vangeli e dello stesso annuncio dei suoi discepoli e quindi della Chiesa.
Ciò che fa problema è quel “di” in riferimento al mondo. E ci insegna subito quanto attento deve essere il nostro sguardo sulla bibbia dove anche le virgole possono cambiare tutto il senso di una frase e decidere del nostro atteggiamento in un senso o nell’altro.
L’espressione che la CEI traduce in “di” è la particella greca “ek” che non può essere tradotta in “di” (per il quale si usa invece perì) ma va tradotta semmai in “da”. Sembra una sciocchezza ma tutta la prospettiva cambia e finalmente ogni parte dei 4 vangeli si armonizzano nell’insieme. L’espressione corretta è dunque: “Il mio regno non è da questo mondo; se il mio regno fosse da questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è da qui [anche qui abbiamo enteuthen: tutte le volte che nei vangeli è usato, può essere sostituito meglio con “da qui”, in italiano nel brano in esame stonerebbe ma il senso dell’avverbio è questo: moto da luogo. Qui il senso è chiaro: non è da questo punto che io traggo potere. C’è un’ironia – tipica di Giovanni – sul luogo da cui Pilato prende potere: il pretorio. Come si vede l’espressione “quaggiù” usata dai traduttori se la sono proprio sognata! cfr Lc 4,9; 13,31; Gv 2,16; 7,3; 14,31]”.
Tirando le somme…
Il regno di Gesù è di questo mondo, perché non esistono altri mondi… come ha detto il Papa, Gesù “ascendendo al cielo, non è andato a vivere su un’altra galassia”… il mondo di Dio non può essere che il mondo dei suoi figli… dove volete infatti che abiti un padre o una madre se non accanto ai propri figli?… O pensiamo che Dio Padre se ne vada a vivere su un altro universo aspettando che i suo figli lo raggiungano? A suo modo già santa Teresina l’aveva capito! Diceva a una consorella: Cosa volete che faccia in cielo? Passerò il mio cielo sulla terra a fare del bene… ora pensate che santa Teresina sia qui sola e Dio stia ad aspettarla altrove?
Prima conclusione: Non riusciremo mai a capire il vangelo se non gli permetteremo di cambiare il nostro immaginario simbolico… Dobbiamo smetterla di immaginarci il mondo come un insieme di mondi… noi qua e Dio là… e i morti chissà dove…
L’incarnazione ha proprio questo di significato primo: la fine dei due mondi, la fine dell’aldiquà e dell’aldilà per essere tutti e tutto in Dio, nell’unico mondo possibile quello di Dio. Da cui, ho detto “da”!... cui, ogni figlio riceve vita, dignità, missione, regalità, libertà, giustizia, pace, salvezza. In una parola: diventa uomo. E ciò a partire da Gesù che come noi è di questo mondo, ma non riceve da questo mondo la sua Signoria. Non è questo mondo – ci sta dicendo Giovanni – che ci fa uomini. Non a caso metterà sulle labbra di Pilato: Ecco l’uomo! Essere uomini significa essere signori che – parafrasando Eliseo lo zio di Guido in “La vita è bella” – sanno farsi servi ma non servili perché solo così si può essere servi liberi senza diventarne schiavi. Essere uomini significa essere re e non paggi del padrone di turno (per questo davanti a Erode, Gesù tace rifiutandosi di fargli da giullare).

Chi riceve potere da questo mondo sappiamo a quali condizioni diventa un “grande”, una persona di successo, un vincitore, un’eccellenza nella vita e nel lavoro e nella missione, a cui aspiravano anche gli Apostoli: una grandezza disumanizzante ci ricorda Daniele che – poco prima del brano di oggi – descrive “bestiale”, mostruosa, rapace, violenta, distruttiva, cannibalesca…

I segni della presenza del Regno di Dio, allora non sono la forza, non sono il miracolo, non sono nemmeno le qualità umane e morali che ciascuno di noi può avere, perché anche i pagani hanno doti, qualità e sanno fare miracoli fin dai tempi di Mosè. I segni della presenza del regno di Dio in questo mondo sono esattamente la presenza di uomini e donne che hanno capito la logica attivamente non violenta della croce. Croce che storicamente li rende agli occhi del mondo zoppi, ciechi, sordi, prigionieri, persino pazzi e bestemmiatori, ma che in realtà sono quelli che veramente camminano, veramente vedono, veramente sanno ascoltare, veramente sono liberi, veramente sono saggi, veramente glorificano Dio, perché hanno capito che esiste una sola vera giustizia, una sola verità e di questa insieme a Gesù danno testimonianza: il proprio perdono fino alla morte e alla morte infame. E proprio mentre vive fino in fondo la logica del regno del Padre, fino al rifiuto estremo di usare il potere della forza contro i suoi fratelli fattisi nemici – compreso il potere della forza degli amici che vorrebbero e potrebbero sottrarlo da un’ingiusta condanna (con Gesù ci hanno provato gli apostoli all’inizio, Nicodemo, e persino sua madre) – e proprio mentre vive fino in fondo questa logica fino alla morte, vive ed esperimenta (dolorosamente) il regno che il Padre da sempre crea: il regno di un mondo fondato da relazioni nuove intessute di perdono. Perché è sull’amore che si regge tutta la storia (l’alfa e l’omega della seconda lettura). E così, facendo propria la misericordia di Dio, si rendono/sono resi perfetti come il Padre, e sono resi simili a Lui. Per questo un tale potere di consegnare la propria vita è eterno: perché solo ciò che è umano e non bestiale è eterno, perché solo l’umano veramente tale vive della stessa proprietà di Dio. E lo fa facendo proprio il perdono di Dio. Non a caso in Giovanni più che altri, il trono di Gesù è proprio la Croce, quella croce, , che vissuta così – in ciò che essa rappresenta come rifiuto della logica disumanizzante di questo mondo – diventa il segno e il luogo della propria e altrui (anche degli aguzzini) glorificazione, come ci ricorda san Paolo: ciò che il Padre ha perdonato ha anche giustificato, ciò che ha giustificato ha anche glorificato!

Tutto questo non è un esercizio accademico ma ha conseguenze pratiche nella missione della Chiesa e quindi nella nostra missione nel mondo. Perché da una errata comprensione e traduzione di questo vangelo nascono contraddizioni insolubili dell’essere chiesa. Affermazioni contraddittorie di cui spesso ci si riempie la voce come “la chiesa è in questo mondo ma non è di questo mondo” contraddicono il messaggio evangelico. Una realtà qualunque essa sia che non è di questo mondo, non esiste neanche nel mondo. La teorizzazione di una “separatezza” della Chiesa dal mondo, così cara a una parte del mondo cristiano – che comprende anche una parte della gerarchia cattolica – nasconde una mentalità pagana che niente ha a che fare con la solidarietà storica di Dio Padre in Gesù Cristo.
Siamo chiamati anche qui a rifondare il nostro pensiero, il nostro immaginario perché la salvezza di Dio in Gesù Cristo si manifesti come autentica misericordia e non come enunciazione di principi filosofico-teologici che niente dicono all’uomo prigioniero nell’ingiustizia del mondo.

Il forte sospetto che una errata traduzione del testo evangelico che abbiamo analizzato, venga proprio da una siffatta ideologia di pensiero.

martedì 20 novembre 2012

Cristo re


Dal libro del profeta Daniele (Dn 7,13-14)
Guardando nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto.

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (Ap 1,5-8)
Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra. A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen. Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto. Sì, Amen! Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!

 Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 18,33b-37)
In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».
 

In questa Trentaquattresima Domenica del Tempo ordinario, ultima dell’anno B, la Chiesa celebra la festa di Cristo, re dell’universo. Questo titolo, “re”, pur avendo una storia assai articolata, risulta però essere – associato a quelli di “profeta” e “sacerdote” – un’espressione fondamentale e sintetica dell’interpretazione che la Chiesa ha fatto lungo i secoli della funzione salvifica di Gesù: Cristo è il mediatore della salvezza in quanto profeta, re e sacerdote.

Evidentemente la panoramica dei titoli attribuibili a Gesù è assai più vasta, ma precisamente questi tre, soprattutto a partire dal XVI secolo in poi, sono stati privilegiati come elementi di sintesi della missione/identità di Gesù, tecnicamente, definiti i tria munera, i tre “uffici” di Cristo.

Ma cosa vuol dire che Gesù è re? E soprattutto: In che senso è re?

Innanzitutto è utile ricordare che l’applicazione della qualifica “regale” a Gesù, ha evidenti provenienze neotestamentarie: Egli infatti, per un verso, è descritto come colui che porta a compimento la figura del re di Israele e il suo significato nella storia dell’alleanza tra Dio e il suo popolo (sia la genealogia riportata dal vangelo di Matteo che quella riportata dal vangelo di Luca, per esempio, presentano Gesù come discendente di Davide); per l’altro, è colui che annuncia e insieme incarna il Regno di Dio che viene («Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo», Mc 1,15)…

Come mette in luce il mai sufficientemente compianto G. Moioli nella sua Cristologia, la domanda inevitabile che sorge diventa allora: «Quale sarà la ragione ultima per cui Gesù è la verità del “re” israelitico, in quanto presenza, attualizzazione reale del “regno” di Dio?». Ed evidentemente la risposta non può che essere: il fatto che «Gesù è il Figlio»!

Questa è precisamente la ragione per cui in Gesù si ritiene compiuta, o meglio, compiutamente rivelata la regalità, la signoria di Dio sul mondo. Ma appunto, precisamente per questo, la qualità di questo “dominio” non può essere semplicemente evinto dalla categoria linguistica di “re” – come a volte purtroppo anche la teologia o il Magistero hanno fatto: piuttosto dire che in Gesù si rivela compiutamente la signoria divina sull’universo, vuol dire che per sapere in quale modo Dio è re, devo guardare a come questa regalità è stata esercitata da suo Figlio, dal determinarsi storico dell’uomo Gesù, nei trent’anni di vita trascorsi su questa terra. In altre parole non devo partire da ciò che penso sia un re per poi applicare quest’idea a Gesù… ma devo partire da come ha vissuto Gesù e chiamare quel suo modo di essere lì regale, convertendo in me l’idea di regalità che la mia cultura mi ha introiettato!

In questo senso, come già accennato, sono soprattutto due le modalità in cui nel NT, ci si riferisce a Gesù in chiave regale: o in quanto compimento della regalità israelitica; o in associazione alla venuta del Regno di Dio. E ciò che in entrambi i casi i testi evangelici (ma anche paolini) trasmettono, è letteralmente un rovesciamento di quello che le nostre orecchie abitualmente associano al termine “re”, quando lo sentono: per quanto riguarda l’annuncio del Regno infatti ciò che salta subito all’occhio è la continua dialettica tra regalità e servizio («Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi però non sia così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti», Mt 20,25-28); mentre per quanto riguarda il compimento della regalità in Israele, il ribaltamento avviene sulla qualificazione della crocifissione, come intronizzazione-esaltazione di Gesù («Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: “Gesù il Nazareno, il re dei Giudei”. Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco. I capi dei sacerdoti dissero allora a Pilato: “Non scrivere: ‘Il re dei Giudei’, ma: ‘Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei’”. Rispose Pilato: “quel che ho scritto, ho scritto”», Gv 19,19-22).

Uno strano re, dunque: un re che serve, un re che ha il suo trono su una croce… un re inedito, un re diverso… un re di cui non si è invidiosi… Come dice il brano di Giovanni, un re, il cui regno «non è di questo mondo»…

Ma appunto… non nel senso che il suo Regno è identico a quelli del mondo, solo che sta “in un altro mondo”, quello celeste, quello venturo, quello “dell’alto dei cieli”… Come se la distanza tra regni umani e Regno di Dio fosse solo temporale, cronologica… ma di fatto incarnasse le stesse modalità di dominio delle potenze terrestri (come a qualcuno piacerebbe…) e semplicemente – per ora – le stesse rimandando al giorno del giudizio universale…

L’essere di “un altro mondo” indica piuttosto l’obbedienza ad un’altra logica, ad un’altra prospettiva, ad un’altra mentalità («perché sono Dio e non uomo», Os 11,9)… la mentalità di Dio appunto… per indicare la quale si usa la medesima parola “regno”, ma precisamente per rovesciarne dall’interno il significato, proprio come con un calzino!

«Di fronte a lui tutto si rovescia: i vari personaggi assumono e recitano la propria parte in un gioco tragico di rovesciamento di ruoli e intenzioni, che ne rivela la debolezza, l’inconsistenza e la paura… e l’aggressività.

Chi lo vuole uccidere (i capi dei sacerdoti, per gelosia) non possono, e chi lo può uccidere non vuole, ma finisce per fare il volere, suo malgrado e per paura, di chi non ne avrebbe il potere. Pilato è costretto a sentirsi imporre che deve osservare la legge di Cesare da coloro che non possono sopportare il potere romano e lo odiano… e lui dovrà sottomettersi a loro, e loro rinnegarsi come ebrei e divenire “devoti romani!”.

Tutti (falsi coscienti) si sentono giudicati da quel “condannato” innocente – la cui regalità non è “da questo mondo”… la cui unica forza è la verità (che morde anche dentro di loro – che per questo vogliono oscurarla).

Ma perfino Pietro nega di essere quello che una portinaia ha riconosciuto bene in lui: un seguace di Gesù.

I soldati lo incoronano re per burla, senza sapere che incoronano di sofferenza l’unico vero re, Signore dell’universo, proprio per la sua consegna inerme al male, per il suo perdono ai suoi torturatori.

Il delinquente assassino è liberato e l’innocente è condannato… quando tutti sanno che è innocente.

Pilato non risponde mai: rimbecca sempre con altre domande. Il potere è “irresponsabile”, domanda ed esige soltanto, senza dialogo, se no, se guardasse in volto e rispondesse a chi l’interpella o protesta, diventerebbe umano e perderebbe potere…

E’ il racconto del dramma finale tra il nostro modo di vivere / e quello di Gesù - Il suo ideale ci affascina. Il suo sogno di pace e di riconciliazione universale di tutte le cose e perfino le beatitudini e le direttive di condivisione dei beni e delle risorse, di predilezione per i poveri e bisognosi sono ormai nelle utopie di tutti. Ma appena rientriamo nella tenaglia del quotidiano, il realismo della ragione ci sottomette alla necessità della competizione e della coazione, della aggressività armata di violenza verso gli oppositori. E presto… l’andamento della nostra storia ridiventa, come sempre, assurdamente oppressivo e divisorio (quando non insanguinato…!)

Dobbiamo lasciarci smascherare anche noi: nelle nostre contorsioni interiori dei deliri di onnipotenza, con relative aggressività e paure, nelle tensioni guerreggiate che viviamo in famiglia o in comunità, nel lavoro, nelle relazioni varie degli affetti e, nella politica. Il nostro modo di partecipazione personale al mistero di Cristo ha le sue radici e le sue sorti in questo dramma di ambiguità della nostra fede nella sua “regalità”.

Gesù non ha mezzi adeguati per trasformare il mondo e la storia. E questo ci delude profondamente! Il dramma di Gesù, nostro Signore, Re dell’universo, il dramma che ci ha lasciato in eredità è proprio questo Avendo rinunciato alla gestione del potere, degli eserciti, del danaro, della cultura … al ricatto degli affetti, perché sono tutti mezzi coercitivi, oppressivi e discriminanti, non ha altri mezzi efficaci, cioè omogenei alla logica della storia dell’umanità. Non riesce ad “imporsi” nella storia.

Avendo fondato tutto il suo progetto sul consenso delle coscienze, cioè dell’adesione libera dell’amore, non potrà mai fare concordati con il potere, cui scopo è il monopolio del potere stesso. Perché il potere non può lasciarsi negare senza morire, e chi lo abbandona per amore di Gesù non ce l’ha più. Gesù sa che non poteva dunque che venire crocifisso al suo sogno: “Re dei giudei”. Un cartello terribile, visto che sotto la croce i giudei lo sbeffeggiavano: “scendi dalla croce, se sei Figlio di Dio”. Ucciso dalla contraddizione dalla quale non vuole uscire, che l’amore si può testimoniare fino al sangue, ma non si può imporre. Quindi essere “re” di fronte alla violenza vuol dire essere inermi e vinti! La sua è una regalità “non da questo mondo”, cioè non nata dalla logica della competizione e della coazione, ma da un altro mondo alternativo, da lui seminato dentro questo. Con al centro questo statuto: testimoniare la verità con la vita» [Giuliano].

 

Il problema però non è solo ribadire questa diversa qualità dell’inaudita logica regale di Gesù (l’amore incondizionato per l’altro come criterio unico e definitivo per porsi nella vita), di cui spesso – penso e spero – abbiamo sentito parlare… Il problema infatti è anche come vincere quel meccanismo inconscio per cui noi di tutte queste cose, semplicemente, non ci ricordiamo… Sentir parlare di “Cristo re”, per esempio, ci rimanda istintivamente col pensiero a immagini ben diverse da quelle del servizio o della croce; sentir parlare della signoria di Dio, suscita immediatamente una reazione di timore e tremore, piuttosto che una consolazione viscerale per la qualità amorosa di quella signoria…

Il problema cioè diventa quello del perché, pur sapendo molte cose e avendo sentito molte parole sull’identità inequivoca di Dio come Padre, automaticamente la prima immagine che abbiamo in cuore di lui è quella di un padrone, di un tiranno, di un re al modo umano, appunto… Perché questa e non l’immagine evangelica che Gesù, senza alcuna ambiguità, traccia del volto del Padre, è quella che più di tutte ci è penetrata nella carne, nelle fibre, nelle congiunture del nostro essere? Perché negli sprazzi di immediatezza, di inconscio, di istintività, vince sempre la paura di dio e non l’affidamento al Padre?

Certo, secoli di discutibile educazione cristiana hanno sicuramente fatto la loro parte (come anche il senso dell’istituzione della festa odierna, sta lì a mostrare… è stata istituita infatti nel 1925 dall’enciclica Quas primas di Pio XI, che auspicava la regalità sociale di Cristo sul mondo, quindi il ritorno al cosiddetto “Stato cattolico”, come tanti siti conservatori reperibili su internet ci spiegano…), ma forse in gioco c’è anche la nostra radicale fatica a sbilanciarci verso una relazione personale col Signore, con la sua Parola, che – senza ombra di dubbio – ci rimanderebbe all’incondizionata paterna dedizione di Dio per noi, ma che invece evitiamo per la fatica di superare lo scoglio dell’affidamento, del lasciare davvero la signoria della nostra vita ad un altro, del rimetterci alle sue mani…

Ma io credo che questo sbilanciarsi in una fiducia, in un darGli credito, in un intraprendere finalmente una relazione dove darsi del “Tu”, sia davvero l’unico modo perché pian piano la Sua verità (che coincide con la vita di Gesù) penetri nei meandri profondi della nostra intimità e – goccia dopo goccia – arrivi a corrodere le paure e le durezze, le rigidità e le intransigenze, i timori ed i tremori… che l’immagine falsa che ci siamo fatti o che ci hanno dato di lui, continuamente rilancia, avvelenandoci il sangue e riversandosi sulle persone che compongono la nostra vita…

Perché solo questo è il criterio per sapere se il Dio che abbiamo in testa (in cuore) è quello di Gesù: se ci apre alla dedizione incondizionata per la vita degli altri (fino a saper donare la nostra per loro), o se ci chiude in uno sguardo gretto e impaurito (le cose sono sempre connesse) sugli altri.

domenica 18 novembre 2012

«Memoria e Profezia» del Vaticano II

LA LITURGIA
L’incontro svoltosi sabato 17 novembre, ha inteso aiutare a comprendere la storia e il senso del rinnovamento liturgico avviato dal Concilio Vaticano II.
Relatore: fr. Luca Fallica (Superiore della Comunità Benedettina di Dumenza)

(Relazione, Seconda parte)

«Memoria e Profezia» del Vaticano II.

LA LITURGIA
 
L’incontro svoltosi sabato 17 novembre, ha inteso aiutare a comprendere la storia e il senso del rinnovamento liturgico avviato dal Concilio Vaticano II.
Relatore: fr. Luca Fallica (Superiore della Comunità Benedettina di Dumenza)
 


(Relazione, Prima parte)

martedì 13 novembre 2012

XXXIII Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Daniele (Dn 12,1-3)

In quel tempo, sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo. Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro. Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre.

 

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 10,11-14.18)

Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati. Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi. Infatti, con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati. Ora, dove c’è il perdono di queste cose, non c’è più offerta per il peccato.

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 13,24-32)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo. Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».

 

In questa Trentatreesima Domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa – attraverso la liturgia della Parola – ci invita a riflettere sul tema delle “cose ultime”, dell’escatologia, di ciò che deve accadere. Tema arduo, tanto che «J. Schmidt – come ricorda don Bruno Maggioni ne Il racconto di Marco –, commentando il c. 13 di Marco scrive: “quello che viene chiamato il discorso della parusia, l’apocalisse sinottica, figura tra i passi più incomprensibili del Nuovo Testamento e, di conseguenza, tra i più contestati di tutta la tradizione sinottica” [J. Schmidt, L’evangelo secondo Marco, Brescia 1956]. J. Schmidt ha ragione – prosegue Maggioni –: non è facile comprendere il genere letterario a cui il discorso appartiene (il genere apocalittico) e non è facile ricostruire le situazioni che sembra supporre. […] Non possiamo [quindi] fare a meno di una premessa teologica e letteraria riguardante l’escatologia e l’apocalittica: il discorso s’inserisce infatti in questo filone teologico e letterario. Il significato più ovvio di “escatologia” è quello di discorso sulle ultime e definitive realtà. Certo si tratta – anche se questa convinzione è maturata lentamente e faticosamente – di realtà che vanno oltre la storia, ma ciò non significa che esse non si preparino dentro la storia. In effetti l’escatologia biblica è un discorso sulla storia, un modo di leggerla e di assumerla».

Questa indicazione è molto interessante, libera infatti il campo da quelle interpretazioni banali e infondate che leggono nei testi biblici di genere apocalittico un tentativo di penetrare i segreti di Dio o di cedere alle curiosità “del quando e del come”. Interpretazioni che nascono dal fatto che «noi non siamo abituati a questo linguaggio apocalittico, che nella complessità della storia e nella caducità del cosmo sembra enfatizzare i germi negativi, che pur ci sono, ed estremamente gravi. Ma che vanno appunto evangelizzati, perché non paralizzino la speranza. Questo vuol dire che il Vangelo li disinquina dalla loro radice sacrificale e moralistica, che legge i fatti storici come punizione incombente di un Dio irato. Anche oggi perdura questa antica tentazione di sollevare il velo sul destino di consunzione del mondo con ambigue “rivelazioni punitive” … Sono predizioni tristi, annunci di angoscia e paura, che sfruttando in chiave religiosa o filosofica il complesso di colpa originato nell’uomo dalla sua invincibile inadeguatezza, lo schiacciano dentro la sua paura, corrodendone la speranza di salvezza. Sono letture antievangeliche» [Giuliano].

Niente di tutto questo, perciò! Anzi, fondamentale per la corretta interpretazione di questi brani, è un’ulteriore annotazione teologico-letteraria: sempre Maggioni infatti ci ricorda che «il linguaggio di questa letteratura è tipico: descrive gli ultimi tempi come tempi di guerre e di divisioni, di terremoti e carestie, di catastrofi cosmiche, e tutto questo nel segno di una grande subitaneità. Questo linguaggio è ampiamente presente nel discorso di Marco: non è il messaggio, ma semplicemente un mezzo espressivo che tenta di comunicarcelo. In nessun modo queste espressioni devono essere intese alla lettera».

Ma, dunque, se sono vere le annotazioni preliminari cha abbiamo fatto (se cioè l’escatologia biblica è un discorso sulla storia, un modo di leggerla e di assumerla e se il linguaggio apocalittico non coincide con il messaggio, tanto che in nessun modo queste espressioni devono essere intese alla lettera), sorge immediata la domanda riguardo a quale sia allora il messaggio sulla storia che – attraverso questo linguaggio sulle cose ultime – Marco sta proponendo…

In questo senso due paiono le certezze che emergono dal testo: innanzitutto il fatto che Gesù prevede tempi difficili e disorientanti per i suoi discepoli; ma, d’altro canto, che essi saranno accompagnati dalla venuta del Figlio dell’uomo.

A riprova di quanto dicevamo in precedenza, sull’attualità dell’annuncio escatologico (che parla del presente e non del futuro!), non possiamo negare che quella che il vangelo descrive come situazione “che deve avvenire”, “che accadrà in quei giorni”, in verità è la realtà della Chiesa di sempre, del presente di sempre della Chiesa, dell’umanità, di ciascuno: tempi difficili che mettono in discussione il senso dell’esistere – ma contemporaneo e cooriginario affidamento a un senso creduto certo! Quella che dunque immediatamente sembrava una riflessione per i tempi del dopo morte, diventa inaspettatamente un discorso sull’oggi, sulla struttura stessa della coscienza umana, del suo modo di stare al mondo… Essa infatti si trova sempre già ad avere a che fare con i “tempi difficili” e drammaticamente interrogata da essi sul senso del suo esserci, giocarsi, spendersi.

Questa è la trama di tutta la vita umana… l’aver intravisto una promessa di Vita a cui si è attaccato il cuore e l’imbattersi in continue e ripetute smentite di tale Vita… anche per Gesù è stato così. Non a caso Marco inserisce questo testo appena prima della passione di Gesù: lì infatti in maniera paradigmatica per tutta la storia della chiesa successiva, i tempi difficili si fanno intrinsecamente portatori del radicale interrogativo sul senso della vita, della vita di Dio!

Anche per la Chiesa sarà così – annuncia Gesù – anche per ciascun uomo che verrà dopo di Lui: la trama è la medesima…

Eppure in questo dramma, l’altro elemento che Gesù, con altrettanta forza, annuncia è la certezza della venuta del Figlio, la certezza dunque di un senso, di una verità, di una giustizia! «Questo è il tempo ultimo, non ne aspettiamo un altro, se non come compimento della “recente” venuta del Figlio dell’uomo… Nel nostro linguaggio ciò vuol dire che la salvezza avviene non per via di distruzione punitiva di questo mondo caduco, in vista di un altro mondo purificato di eletti , ma piuttosto che la salvezza è già avvenuta per via di un’incarnazionesalvifica - ove la corporeità debole ed effimera del mondo è accolta e assunta dal Figlio dell’uomo, per fermentarla e trasfigurarla dal di dentro» [Giuliano].

Precisamente questo annuncio – che coincide con tutta la vita di Gesù – è ciò che dischiude nuovamente – e nonostante tutte le disillusioni e i fallimenti della nostra Vita – la possibilità di un affidamento al senso, la possibilità del credere, la possibilità della fede… di quel dar credito che permette di guardare ai “tempi difficili” come a sequenze di un film, di cui non diventano mai l’anima. Esse possono far temere, trepidare, scoraggiare… ma non saranno mai la chiave interpretativa dell’interezza della vita, il cui polo gravitazionale – il senso – sta altrove… e cioè precisamente in quegli sprazzi di umanità amante e amata che si sono sperimentati («siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo», 2Cor 4,8-10).

In questo senso assume ancor maggior chiarezza l’indicazione preliminare che ponevamo rispetto al genere letterario apocalittico che caratterizza il vangelo di questa domenica: «L’escatologia biblica è un discorso sulla storia, un modo di leggerla e di assumerla. Questa è la sorprendente prospettiva biblica, interessante e concreta. Lo sguardo al futuro (cioè la rivelazione di ciò che sarà) rende importante il “presente” e offre un criterio di scelta e di valutazione. L’attenzione è, tutto sommato, rivolta al presente: il futuro offre un criterio di orientamento nel presente, ma è in questo presente che il futuro si gioca». Lo sguardo al futuro, è dunque solo un modo per parlare del presente, del mio decidere odierno di me stessa. Ma anche: per imparare a leggere il mio oggi, lo devo guardare come se lo guardassi dal domani; in qualche modo come se guardassi l’attuale scena del mio film, a partire dal finale, così come mirabilmente ha mostrato Henry David Thoreau, ripreso poi dal film “L’attimo fuggente”: Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza e in profondità e succhiare tutto il midollo della vita, sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire in punto di morte che non ero vissuto.

E cos’è che alla fine, in punto di morte, ci eviterà di scoprire che non abbiamo vissuto? Io credo: che ci sia “lì” qualcuno che ci vuole bene… Tanto che forse, addirittura a pensarci bene, tutta la vita è la ricerca di due braccia che ci amano tra cui morire…

Chi ha vissuto in maniera esemplare questa intuizione di vivere guardandosi dalla fine, è Etty Hillesum:

[Prima che Spier morisse] «Delle cose ultime, essenziali della vita e del dolore non si può parlare, la voce non ce la fa. Io comprendo tutto di te e tutto ciò che ti riguarda io lo porto con me ed ho ringraziato di nuovo Dio per il fatto che nella mia vita esista un uomo come te. Devi occuparti della tua salute; è il tuo primo sacro dovere se vuoi aiutare Dio. Un uomo come te, uno dei pochi ad essere una dimora autentica per un po’ di vita, un po’ di dolore, un po’ di Dio – i più infatti hanno tradito da tempo sia la vita che il dolore e Dio, per essi sono ormai soltanto suoni vuoti – ha il sacro dovere di mantenere, nel migliore dei modi possibili, il suo corpo, la sua “dimora terrena” in buono stato, per poter offrire a Dio ospitalità il più a lungo possibile. Manca ancora molto tempo alla fine. Anch’io mi occuperò di te. Ho così tanta forza, che tu puoi prendertela tutta e in me nasceranno nuove energie. Ti ho così infinitamente caro, la tua anima è così infinitamente cara alla mia. La mia anima di quando in quando vorrebbe giacere accanto alla tua, e questo a poco a poco non ha più nulla a che vedere col desiderio che una donna può provare per un uomo. A volte vorrei distendere il mio corpo nudo, così come Dio l’ha creato accanto al tuo corpo nudo, così come Dio ti ha creato, e ho soltanto la sensazione che la mia anima voglia coricarsi accanto alla tua. Se in questo periodo non si scoppia di tristezza, né dall’altro lato per autodifesa ci si indurisce e si diventa cinici o rassegnati, allora si diventa più dolci, più miti, più disperati, più comprensivi, più innamorati. Io so come tutto questo stia accadendo dentro di te e tu mi hai portata con te sul tuo cammino, ed io vivo insieme con te la stessa strada fino alla fine. La mia autenticità ed il mio amore hanno mille anni ed ogni giorno invecchiano di mille anni. Quest’epoca, come noi oggi la esperiamo, posso sopportarla, posso anche perdonare Dio per il fatto che vada come deve andare – il fatto è che si ha in sé tanto amore da riuscire a perdonare Dio!! E tu devi occuparti della tua salute e riposarti e riposarti, ora io non posso star molto vicina a te – col pensiero però sono sempre vicina a te – ma promettimi che avrai buona cura di te».

 

[Alla morte di Spier] «Ho scritto un giorno che volevo leggere la tua vita fino all’ultima pagina. È cosa fatta. L’ho letta fino in fondo. Mi sento colma di una gioia profonda: tutto ciò che è stato era sicuramente giusto, altrimenti non avrei dentro di me questa forza, questa gioia, questa certezza. Eccoti dunque coricato in questo piccolo bilocale, caro grande e buon amico. Ti ho scritto un giorno: il mio cuore volerà sempre verso di te come un uccello libero, ovunque io sia sulla terra, e ti troverà sempre. E c’è questo, che ho scritto sul diario di Tide: tu sei diventato un pezzo di cielo, nella mia vita, che si incurva sopra di me, e non devo far altro che alzare gli occhi al cielo per essere vicina a te. E anche se dovessi essere rinchiusa in una cella sotterranea, questo pezzo di cielo si dispiegherebbe in me, e il mio cuore, come un uccello, spiccherebbe il suo volo libero verso di lui, ecco perché tutto è così semplice, sai, terribilmente semplice, bello e ricco di significato». «Avevo ancora mille cose da chiederti e da imparare dalla tua bocca. Ormai dovrò cavarmela da sola. Sai, mi sento forte, sono persuasa di riuscire nella vita. Sei tu che hai liberato in me le forze di cui dispongo. Mi hai insegnato a pronunciare senza reticenza il nome di Dio. Hai fatto da mediatore tra Dio e me, ma adesso tu, il mediatore, ti sei ritirato, e il mio cammino porta ormai direttamente a Dio».

 
[Quando inizia a stringersi la morsa sulla comunità ebraica] «Sono accadute molte cose dentro di me, in questi ultimi giorni, ma esse hanno finito col cristallizzarsi attorno a un’idea: la nostra fine. L’ho guardata in faccia la nostra fine, probabilmente deplorevole, che si prospetta fin d’ora nelle piccole cose della vita ordinaria, e le ho fatto posto nel mio senso della vita, senza che questo ne sia uscito sminuito. Non sono né amara né ribelle, ho trionfato sul mio abbattimento e ignoro la rassegnazione. Continuo a progredire di giorno in giorno, senza più tanti ostacoli come una volta, pur considerando la prospettiva della nostra eliminazione… Affermo spesso di aver saldato i miei conti con la vita, perché l’eventualità della morte si è integrata nella mia vita. Guardare in faccia la morte e accettarla come parte integrante della vita, significa allargare questa vita. Al contrario, sacrificare fin d’ora, anche solo un pezzetto di questa vita alla morte, perché si ha paura e ci si rifiuta di accettarla, è il modo migliore per non conservare altro che un povero pezzettino di vita mutilata, che meriterebbe a malapena il nome di vita. Questo può sembrare paradossale: escludendo la morte dalla propria vita non si vive in pienezza, e accogliendo la morte, al centro della propria vita, si allarga e si arricchisce la propria esistenza».

martedì 6 novembre 2012

XXXII Domenica del Tempo Ordinario



Dal primo libro dei Re (1Re 17,10-16)

In quei giorni, il profeta Elia si alzò e andò a Sarèpta. Arrivato alla porta della città, ecco una vedova che raccoglieva legna. La chiamò e le disse: «Prendimi un po’ d’acqua in un vaso, perché io possa bere». Mentre quella andava a prenderla, le gridò: «Per favore, prendimi anche un pezzo di pane». Quella rispose: «Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo». Elia le disse: «Non temere; va’ a fare come hai detto. Prima però prepara una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché così dice il Signore, Dio d’Israele: “La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà fino al giorno in cui il Signore manderà la pioggia sulla faccia della terra”». Quella andò e fece come aveva detto Elia; poi mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni. La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia.

 

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 9,24-28)

Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte. Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 12,38-44)

In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa». Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».

 

«Gesù sta avvicinandosi alla conclusione (l’esodo) della sua avventura umana, a Gerusalemme e, man mano che espone sempre più chiaramente alle folle il suo “vangelo”,– come abbiamo potuto ascoltare nelle ultime domeniche ‑ il conflitto con gli scribi, i farisei e i capi del popolo si fa più violento, perché questi sono gli unici che ne capiscono bene la drammatica alternativa al loro insegnamento e ancor più al loro comportamento: Lo udirono i capi dei sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo di farlo morire. Avevano infatti paura di lui, perché tutta la folla era stupita del suo insegnamento (Mc 11,18). Gesù ha proposto con disarmata radicalità le esigenze “smisurate” del Regno nell’intimo delle dimensioni costitutive dell’uomo: dal conflitto sessuale si esce solo per fedeltà, dal conflitto economico si esce solo per comunione, dal conflitto per il potere si esce solo per servizio, come ha fatto il figlio dell’uomo …. Poi ha simbolicamente esautorato il tempio, divenuto un fico sterile e una spelonca di ladroni, indicando nel cuore dell’uomo la “casa” dell’incontro col Padre suo. Ha quindi ripreso e completato il comandamento “primo” sottolineandone la connessione essenziale col secondo: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza, e il prossimo tuo come te stesso (12,29s).É una questione di amore! Ma adesso, che il tempo del suo insegnamento è alla fine, davanti all’ostilità omicida della classe dirigente e all’incomprensione tonta dei discepoli, come spiegare cosa vuol dire “amare”?

Una donna, vedova e sola, gli viene in aiuto!» [Giuliano].

 

Le protagoniste di questa Trentaduesima Domenica del Tempo Ordinario, sono – infatti – due vedove, quella di Sarepta e quella che Gesù vede nel tempio di Gerusalemme; due donne dunque; due donne povere; due donne sole; due donne emarginate… eppure, proprio loro diventano i personaggi principali di alcuni dei passi fondamentali del racconto biblico (il ciclo di Elia, il vangelo…).

Anche se forse ormai siamo un po’ abituati a questi stravolgimenti che la prospettiva biblica insinua dentro alla logica consueta in cui l’uomo vive, ragiona e giudica, non possiamo non tener desta l’attenzione e cogliere – con immenso stupore – la radicalità della scelta proprio di questi personaggi come rappresentanti emblematici della storia della fede di un popolo (Israele, prima; la Chiesa, poi) e soprattutto non possiamo non far la fatica di andare a tentare di capire cosa voglia dire porre la vedova che «gettò due monetine», come esempio di autentica vita umana, in contrapposizione allo stile degli scribi…

Ciò che in particolare colpisce è lo stretto legame tra gli episodi concreti di queste donne che vengono raccontati nel testo biblico e il riferimento alla totalità della vita e della morte che attraversa le narrazioni delle loro storie: la vedova di Sarepta infatti dice «Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo» dove in questo “e poi moriremo” è contenuta tutta la radicalità della situazione che sta vivendo, della tragedia che la attraversa, della totalità chiamata in causa, la vita, la morte, l’esserci, il non esserci, l’esistere, il morire…; della vedova del tempio, Gesù invece sottolinea come mentre gli altri gettavano nel tesoro del loro superfluo, lei «vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere», letteralmente “tutta la sua vita”…

Questa capacità tipicamente femminile di dare “tutta la propria vita” per ciò che si ama, mi ha fatto venire in mente una frase che spesso ripeteva Giuliano: “Una donna quando ama, diventa atea”… intendendo con ciò sottolineare come, mentre una certa modalità maschile, tende sempre – in qualche modo – ad approcciarsi al reale che vive con una mentalità calcolatrice (non a caso la vedova del Tempio aveva due monete e – calcolando – avrebbe potuto metterne una nel tesoro e l’altra tenersela per sé… invece le getta entrambe!) – una donna – laddove ama e lo fa veramente – non trova nessuna norma superiore alla dedizione totale dell’amore: nemmeno dio… ecco perché atea…

 

Questo emerge anche in maniera evidente nel racconto della triste storia della maga Circe che Concita De Gregorio ha mirabilmente rinarrato nel suo Malamore e che vi voglio raccontare: «Si sa che i bambini vogliono sentire sempre la stessa storia. Questa poi è magnifica: racconta di una donna bellissima e anche orribile, a pensarci bene, orribile perché faceva paura. Una maga triste. […] Era diventata cattiva perché non voleva più stare sola, era disperata, tutti le davano dei baci, le dicevano: come si sta bene con te, si sta proprio benissimo come in paradiso. Poi se ne andavano, però. Dopo un po’ la salutavano e partivano. A volte non la salutavano nemmeno, partivano di notte senza dirle niente, così la mattina lei si svegliava e non trovava nessuno. […] Così lei restava di nuovo sola e alla fine si arrabbiava tantissimo, ma tantissimo. Allora faceva le magie.

[…] Euriloco era talmente terrorizzato che non riusciva a parlare. Quando alla fine si era calmato e Ulisse gli aveva di nuovo chiesto chi ci fosse in quella casetta in mezzo all’isola dove erano approdati, Euriloco aveva detto poche e chiare parole: una maga orribile e cattiva. “E che genere di magie farebbe?” aveva domandato Ulisse. “Magie del genere sparizioni e misteriose trasformazioni”. “Ah!” aveva detto Ulisse. […] Siccome tutte le volte che aveva mandato in perlustrazione due uomini e l’araldo, che poi sarebbe l’ambasciatore, era finita che qualcuno se li era mangiati, stavolta Ulisse decise di fare due gruppi di uomini e di tirare a sorte. Il primo gruppo l’avrebbe comandato lui e l’altro Euriloco, il suo uomo migliore, il capitano in seconda. Un gruppo sarebbe rimasto a fare la guardia alla nave, l’altro sarebbe andato a vedere chi c’era nella casetta. Toccò a Euriloco. Non che ne fosse molto contento, però era andato. E il giorno dopo era tornato da solo in preda al terrore. Euriloco era arrivato alla casa con venti uomini, avevano visto i leoni e i lupi che ci giravano intorno ma la cosa strana è che le bestie feroci non li avevano aggrediti, anzi: gli scodinzolavano intorno, come cani addomesticati quando accolgono il padrone. Bussarono alla porta e chiesero permesso. Un’ancella molto bella gli venne incontro e aprì la porta. Poi andò a chiamare la padrona di casa. E arrivò Circe. Questa storia che Circe fosse una maga orribile e cattiva non è che sia proprio esatta. Tanto per cominciare non era affatto orribile, anzi era molto bella. Ma molto bella. Euriloco e i suoi rimasero a bocca aperta non appena la videro. È questa la prima cosa che andrebbe detta di Circe, che era una donna bellissima. Talmente bella che i nostri non riuscirono a trattenersi dall’entrare in casa sua, non appena lei li invitò. Tranne Euriloco, che di donne belle ne sapeva qualcosa e quindi rimase in disparte, si nascose dietro la casa e osservò tutta la scena. Lei gli dà da bere una pozione e li trasforma! […] In maiali. […] Qualcuno grugnì, a qualcuno spuntarono delle setole al posto dei peli sulle braccia, poi gli uscì fuori una coda arricciata e un muso da maiale. La magia le era venuta alla perfezione, Circe era molto soddisfatta. Anche stavolta quegli uomini non l’avrebbero lasciata e, come gli altri, trasformati in lupi o leoni, sarebbero rimasti a proteggerla e a farle compagnia su quell’isola sperduta. Euriloco si era preso un bello spavento a vedere i suoi compagni tramutati in maiali. Era tornato di gran corsa verso la nave. E aveva raccontato tutto a Ulisse. […] Ora ci va lui. Sentì un rumore alle sue spalle, come di foglie, come il fruscio di un paio d’ali. Allora si fermò, si mise in ginocchio e chinò la testa. Aveva capito che quello era Ermes, dio dei ladri, poeta e fingitore e, cosa più importante di tutte, messaggero di Zeus. […] “Dove vai così di fretta, Odisseo?” disse Ermes. […] “Da Circe, la maga, mio signore” rispose Ulisse. […] “È una maga pericolosa, Circe” disse Ermes dai sandali alati. “Ma non è cattiva, e nemmeno orribile. Anzi, vedrai che è molto bella, molto. Lei vorrà darti da bere una pozione magica per trasformarti in qualche bestia selvatica. Perché vuole che restiate qui. Si sente sola, tutti gli uomini che vengono da lei poi scappano. Forse perché è troppo bella, o perché è un po’ magica… va be’, comunque tu prendi questa erba e mangiala, vedrai che la sua pozione non funzionerà. Lei allora vorrà stare con te, vorrà amarti. Tu fallo, lei merita il tuo amore. Ma falle promettere che poi libererà tutti i tuoi compagni. Devi essere molto furbo e deciso con lei, ma nello stesso tempo devi volerle molto bene. E Ulisse va [e] bussa alla sua porta. Circe era davvero molto bella. E non sembrava neppure troppo cattiva. Certo era una donna determinata e, come aveva detto Ermes, c’era qualcosa di magico in lei, qualcosa che può fare anche un po’ paura. Ulisse fece come aveva detto Ermes e la pozione magica di Circe non funzionò. Lei all’inizio rimase abbastanza stupita, poi cominciò a fare gli occhi dolci e a cercare di incantare Ulisse. Allora lui tirò fuori la sua spada e la puntò verso il petto di Circe. “Tu adesso” le disse “devi liberare i miei compagni e trattarci come ospiti di riguardo”. Lei lo guardò spiazzata, non era abituata ad avere di fronte uomini così determinati e sicuri di sé. Allora Ulisse vide che non era poi troppo cattiva, e vide che in fondo ai suoi occhi c’era una grande dolcezza. Lasciò cadere la spada e la baciò. Circe e Ulisse stettero insieme un anno intero. […] Stettero molto bene. Avevano da mangiare, da bere, andavano a caccia, giocavano a dadi e ogni tanto andavano anche al mare. Le ancelle di Circe accudirono con molta attenzione i compagni di Ulisse. E Circe accudì Ulisse. La sera, spesso lui andava a guardare il mare dalle scogliere. E pensava alla sua casa e a Itaca. Però dopo un po’ Circe lo raggiungeva e cercava di distrarlo, insieme passeggiavano per i giardini dell’isola e parlavano. Si stava bene con Circe, era una donna molto intelligente, ed era molto divertente parlare con lei, non ci si annoiava. Ulisse raccontava della guerra di Troia, Circe degli dei e delle loro storie, e parlavano finché il sole non si era del tutto nascosto dietro il mare color del vino. Erano felici. [Ma] Ulisse se ne andò e Circe restò di nuovo sola nella sua isola…». Vedova, anche lei!

 

Certo la storia di Circe è molto diversa da quella delle altre due vedove, soprattutto da quella del vangelo… è la storia di una donna che per amore è disposta ad avere un uomo-leone, un uomo-lupo, un uomo-maile… eppure a sentirla, anche questa fa venire un po’ di giramento di pancia nel notare quanto, colei che abbiamo sempre considerato la cattiva di turno, in realtà era solo una donna che voleva amare… che dunque voleva dare la sua vita… una vita che nessuno era disposto a prendere, ma che indubbiamente rimanda alla stessa disposizione interiore delle due vedove delle letture, a dare la loro vita per amore e a darsi in modo talmente radicale da risultare atee, senza nessun dio, se non l’amato!

E – inaspettatamente – Gesù addita proprio questo lato del cuore femminile come quello giusto con cui stare al mondo! Non a caso è lo stesso che incarnerà a sua volta solo poche pagine dopo, morendo in croce per amore dell’umanità, senza dio… Di un dio che norma l’incondizionata dedizione dell’amore anche lui infatti è ateo! Mentre di una donna che dà incondizionatamente la sua vita per ciò che ama… beh… in quella dedizione lì, Egli ha riconosciuto il “suo Dio”!
«Lì, [infatti,] credo, di fronte alla vedova del tempio, il Signore ha fatto il suo sogno più ardito, come vedesse realizzato l’anelito che in tutta la sua vita di messia e maestro non aveva ancora visto realizzare. In questa povera donna ha sognato la sua chiesa, presto vedova e spaventata, senza appoggi, dispersa come un gregge senza guida, magari in balia di pastori vili o incapaci, ma sempre umilmente irremovibile nel suo amore fedele, nell’affidamento totale al suo Signore – perché, pur dentro le prove e le ferite della storia, la sua vita tutt’intera rimaneva donata a lui! Affascinato da questa donna, Gesù vuol coinvolgere i discepoli in questo grande evento (pur impercettibile ai più). Come a dire: c’è qui davanti uno (una!) che è capace già adesso di ciò che dovrete imparare anche voi, per essere miei discepoli: “donare tutta la propria vita”. Questa povera vedova è dunque già sacerdote del nuovo tempio, non costruito da mani d’uomo. È protagonista di una nuova dinamica di salvezza, ignota agli uomini del tempio, perché è “amicizia” in Cristo che adesso verrà nella storia non solo e non più “in relazione al peccato”, ma, come suggerisce la lettera agli Ebrei, ormai spinto solo dalla predilezione di amore che lo coinvolge con noi! È la nuova alleanza predetta dai profeti! Gesù la scopre già in atto di fronte a Dio, nella vedova che ha davanti, discepola inconsapevole di quell’altra vedova di Sarepta (per di più straniera!), sua antenata spirituale, che offrì a Elia, il più grande profeta, la farina e l’olio della sua sopravvivenza. Gesù ha meditato, pregato e vissuto le Scritture, prima di spiegarcele (sa che parlavano di lui! “bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi” Lc 24,44). Ha capito il messaggio profetico di queste vedove che hanno donato tutto quanto avevano, tutta l’intera vita. Ancora di più: intuisce e sperimenta che, nelle mani della due vedove, il dono di tutto ciò che hanno (farina e olio, spiccioli e … la vita intera) fa diventare inesauribile ed eterno (cioè eucaristico) il dono stesso, per quanto piccolo e insignificante nella grande storia. Anzi, sarà questa dinamica che fermenterà la storia» [Giuliano].
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