Pagine

ATTENZIONE!


Ci è stato segnalato che alcuni link audio e/o video sono, come si dice in gergo, “morti”. Se insomma cliccate su un file e trovate che non sia più disponibile, vi preghiamo di segnalarcelo nei commenti al post interessato. Capite bene che ripassare tutto il blog per verificarlo, richiederebbe quel (troppo) tempo che non abbiamo… Se ci tenete quindi a riaverli: collaborate! Da parte nostra cercheremo di renderli di nuovo disponibili al più presto. Promesso! Grazie.

mercoledì 27 giugno 2012

XIII Domenica del Tempo Ordinario






Il brano di vangelo che la Chiesa ci propone per questa Tredicesima Domenica del Tempo Ordinario è di un coinvolgimento emotivo tale, da rendere difficile ogni sua esplicitazione verbale. Come scriveva Rainer Maria Rilke infatti «la maggior parte degli avvenimenti sono indicibili, si compiono in uno spazio che mai parola ha varcato» [Lettere a un giovane poeta, Adelphi, Milano 1980, 13].


Questo – credo – dipenda innanzitutto da alcune pennellate narrative che l’evangelista pone nel testo, che vanno a stendersi proprio là nell’intimo delle nostre strutture antropologiche fondamentali, nelle corde scoperte (e per questo così sensibili) della nostra interiorità: si ha a che fare infatti con la morte e con la malattia. Tra l’altro non con una morte qualunque, ammesso che ne esista una definibile così; perlomeno non con una morte codificata, “normale”, naturale; qui non si parla di qualcuno che «spirò e morì in felice canizie, vecchio e sazio di giorni, e si riunì ai suoi antenati» (Gn 25,8)… si parla di una dodicenne, di una figlia, della figlia di un capo, della figlia di un uomo, di una figlia dell’umanità.

E non si parla di una malattia qualunque, ammesso che qualche malattia si possa definire “qualunque”, ma in particolare viene sottolineato il tratto estenuante, isolante, dis-umanizzante della malattia: si parla di una donna che «aveva molto sofferto», «da dodici anni», che aveva speso «tutti i suoi averi» e che – proprio perché la sua era una malattia legata al sangue (ecco perché inizialmente sarà così intimorita da Gesù) – era condannata alla condizione e alla considerazione di impura e dunque emarginata, esclusa dalla vita sociale e civile del suo popolo.

Ecco perché questo brano non può essere ridotto a un paio di semplici miracoli, i cui racconti sono abilmente intrecciati dall’Autore in un’unica storia (cfr. per esempio il richiamo per entrambe le donne ai “dodici anni”), ma che sostanzialmente possono essere archiviati nella cartella: “Belle cose che ha fatto Gesù”. Qui implicati infatti ci sono richiami impliciti – eppure affettivamente fortissimi – alle nostre dinamiche umane più profonde: per un verso, la paura della morte, la paura della morte dei propri cari, la paura della morte dei propri figli; lo sgomento che questo provoca (un figlio infatti non è mai solo un figlio… è la promessa per l’umanità del futuro, della vita che continua anche dopo la morte degli ormai “sazi di giorni”, è la speranza in un mondo nuovo…) con la domanda su Dio che questo implica; per l’altro, la paura della sofferenza, della solitudine, dell’esclusione, dell’inabilità, della perdita della possibilità di determinarsi nella vita… con la domanda inevitabile sul senso della vita alla luce del male, dunque nuovamente la domanda sull’identità di Dio…

Anche Balthasar diceva: «Le letture odierne suscitano domande terribili. Cristo guarisce un’ammalata, risuscita una morta. Questa è la sua professione. Perché poi, dopo di lui, gli uomini devono ammalarsi di nuovo e tutti devono morire? Dio vuole la morte? Se nulla cambia in questo mondo, per che cosa Cristo è venuto?».

E – come se ancora non bastasse – a rendere ancora più contorcente le nostre viscere sta il fatto che qui in gioco accanto alla disperazione accorata di un padre (Giairo), le protagoniste siano due donne. Ciò rende il quadro ancora più toccante, non tanto, o non solo perché l’essere donna rimanda alle sfumature antropologiche più legate alla fragilità, al bisogno di custodia, al bisogno di casa… e neanche solo perché nell’essere donna è implicato l’essere fonte della vita, anche se anche questo cordone pulsante dell’umanità rifluisce in questo brano: non a caso muore una ragazzina appena entrata nell’età della fertilità e si ha a che fare con un’emorroissa. Piuttosto ciò che è così pregnante del fatto che in gioco ci siano due donne lo si può rintracciare facendo lo sforzo di uscire dalla – pur necessaria – generalizzazione, provando a entrare a vivere la situazione dal di dentro. Solo provando, infatti, a entrare dentro al racconto, dentro al racconto dal loro punto di vista, si può capire la decisività di questa dominanza emotiva del femminile, che non è solo di questo brano, ma di tutto il vangelo. Gli uomini fanno disfano, vanno, vengono… ma gli affetti sono sempre e tutti al femminile (cfr la samaritana, la donna curva, la peccatrice perdonata, le lacrime sui piedi di Gesù, Maria di Magdala nel giardino del sepolcro, ecc…).

Per questo fanno trepidare così tanto questi brani… perché intercettano – nel femminile – il disvelamento dell’affettivo sul fattivo: questi testi tirano fuori le coordinate profonde di tutti, perché nella trasparenza dell’affettività femminile mettono sul piatto della storia le fragilità di ciascuno, le passioni, le paure, i desideri, la fede, la speranza, le disillusioni, le trepidazioni…

Proviamo allora a entrare nel testo, a intercettare la libertà storica dell’emorroissa… Essa vive la disperazione della malattia e delle sue conseguenze, in qualche modo ci “sbatte in faccia” nella sua carne, ciò che devasta di terrore il cuore di ogni uomo, la solitudine esistenziale, soprattutto nella forma definitiva della morte.

Di fronte ad essa il narratore ci informa che questa donna ha messo in moto tutta una serie di tentativi per salvarsi, richiamandoci vividamente alla quasi onnicomprensiva spinta che determina la nostra vita, le sue azioni, i suoi affetti, che non è altro che la ricerca di espedienti, per salvarci appunto dalle piccole e grandi morti che costellano il nostro percorso umano…

Fino a quando sente parlare di Lui… inizialmente lo vive come un ennesimo tentativo nella sua disperata rincorsa verso la guarigione (e quante volte anche noi, facciamo di Lui un “soluzione ai nostri problemi”…), tanto che gli si avvicina clandestinamente, consapevole di non poterlo nemmeno sfiorare per legge: toccare qualcuno sapendo di essere in uno stato di impurità, quindi sapendo di “contaminarlo” era infatti uno dei comportamenti più stigmatizzati in Israele che su questo campo ha sviluppato una delle legislazioni più precise e puntuali della storia. Spera infatti che Lui nemmeno si accorga del suo tocco… E quando invece si rende conto che Lui si gira e la cerca fra la folla rimane come impietrita, agghiacciata dalla paura che quello che lei considerava un amuleto per la vita, diventasse fonte di ulteriore accusa, disprezzo, condanna, stigmatizzazione…

Lui invece si gira, la guarda e si rivela… il Dio della vita, il Dio degli ultimi, il Dio delle donne… il Dio della relazione, il cui “effetto” salvifico “funziona” solo perché si acconsente ad un rapporto, ad un guardarsi, ad un cercarsi: «Gesù non dà rimedi senza guardarti in faccia, a costo di aspettare per anni e perdersi in tentativi innumerevoli e fughe infinite, che la nostra paura più o meno consapevole si inventa. Gesù vuole guardarla e parlarle, perché il suo rimedio non è una medicina o un espediente magico … ma la comunione amicale con lui. Allora, dopo una vita a cercarlo, una forza esce da lui, che le fa sentire nel suo corpo che era guarita…», Giuliano. Ciò da cui Dio guarisce non è infatti tanto un flusso di sangue, ma un flusso di morte e da questo ci si affranca solo se si ritrova la forza di dare credito alla vita… Ma ancora, è una forza che l’uomo non può darsi da solo… è solo uno sguardo amante che ci raggiunge che può scardinare in noi i meccanismi mortali da cui siamo affetti e a volte pure affascinati: «Gli empi invocano su di sé la morte, ritenendola amica» (Sap 1,16). Per quello è necessario lasciarsi guardare…

Un po’ come Luo Cuifen, l’emorroissa del 2000. «Luo Cuifen è una giovane donna di 29 anni nata a Kunming, nel Sud della Cina. Un giorno, stanca di dirsi passerà, domani vedrai che passa, è andata dal medico. C’era sempre sangue nella pipì del mattino e a parte il dolore, a parte la sottile preoccupazione crescente, non aiuta svegliarsi e per prima cosa vedere il tuo sangue: sangue sempre, sangue ogni giorno. Il medico le ha detto: sarà una disfunzione renale, faccia una radiografia. Ecco, la radiografia del torace di Luo Cuifen è una di quelle foto che spiega il tempo in cui viviamo. L’hanno pubblicata molti giornali. Merita di essere ritagliata e di stare attaccata coi magneti al frigorifero. Nel torace di Luo ci sono 23 aghi: alcuni sono lunghi anche 2,5 cm. Nella radiografia sono sparsi sullo scheletro come bacchette di shangai, il gioco dei bimbi. Sembra un fotomontaggio e invece no. Aghi nei polmoni, nei reni, uno rotto in 3 parti proprio sotto il cervello, aghi dappertutto. Luo non era mai stata operata in vita sua, non poteva trattarsi certo di un errore di un chirurgo né d’altra parte neppure il più distratto dei medici può scordare decine di aghi lungo un metro di corpo. E dunque? Dunque sono stati 23 tentativi di ucciderla. Luo era stata affidata ai nonni, appena nata. La madre lavorava, i nonni non volevano bambine in casa – le femmine sono solo un costo nella Cina rurale, le devi crescere e mantenere per vent’anni, poi passano alla famiglia del marito, non portano indietro niente. Così hanno pensato di ucciderla con gli aghi. Forse non avevano cuore di soffocarla né di abbandonarla in un campo, forse pensavano che un killer invisibile li avrebbe sollevati almeno dal peso di essere presenti al momento della morte: sarebbe morta nel sonno, poi l’avrebbero sepolta. Ma Luo era una bambina robusta e il suo corpo con gli aghi ha trovato un accordo: ha resistito. Certo da adolescente e poi da ragazza non ha avuto vita facile. Soffriva di ansia, di depressione e di insonnia, hanno raccontato poi i medici che da tutto il mondo sono accorsi a operarla. Tanti però, tante giovani donne soffrono di ansia e di insonnia, non è necessario che gli aghi si vedano nelle radiografie, ci sono aghi invisibili che bucano il respiro e quel che bisogna fare è resistere. […] A operare Luo sono arrivati 23 medici, uno per ago. […] I nonni sono morti, non possono più dire com’è andata ammesso che da vivi avrebbero avuto cuore e coraggio per farlo. Magari si sono rallegrati, nel tempo, dell’incredibile tempra di Luo. Magari la nonna, è bello immaginarlo, l’ha festeggiata a ogni compleanno ringraziando il cielo per non averla ascoltata. Magari no, invece. La ragazza dice che non ha ricordi dei momenti in cui le infilavano gli aghi. Dice che solo una volta ha origliato una conversazione che le era risultata incomprensibile, si diceva sottovoce di qualcosa avvenuto quando aveva tre giorni di vita. Dev’essere successo quindi in un solo giorno, in un momento, in culla, come fosse una bambola di quelle che si bucano nei riti del malocchio. Mio padre ha trovato la foto del torace di Luo e l’articolo che ne parla in un giornale straniero durante un viaggio, lo ha tenuto stropicciato nel portafogli e lo ha tirato fuori ripiegato in quattro. Tieni, mi ha detto, guarda fin dove si può vincere. Vincere il destino, vincere l’ignoranza e la violenza, vincere un corpo nemico, vincere gli aghi che bucano anche quando non sai cos’è che ti fa sanguinare. Combattere, spingere la sorte più in là. Finché si può, credo che intendesse dire con quel foglio conservato come un amuleto, finché si può resistere si deve». [C. De Gregorio, Malamore, Mondadori, Milano 2008, 143-145].

Luo, come l’emorroissa del vangelo che «si ostina a credere che la sua vita può cambiare; non si arrende al suo destino. Sente che la salvezza promessa deve poter trasfigurare quel vissuto disumano; che la si può toccare con mano. E dunque, osa trasgredire le spietate regole sociali, incapaci di pensare la novità della liberazione. [E] mentre l’umanità si presenta fin da subito con il volto dissanguato e con l’accanimento di chi continua a disperdere il sangue dell’altro, la divinità manifesta la volontà di mettere fine a quella dispersione. […] È un Gesù per nulla reticente, che ammette apertamente di essere entrato in contatto con una donna impura e che benedice l’iniziativa disperata che ha osato sfidare le leggi patriarcali per rivelare la forza liberatrice della salvezza» [L. Maggi, L’evangelo delle donne. Figure femminili nel Nuovo Testamento, Claudiana, Torino 2010, 32-33].

venerdì 22 giugno 2012

Germania 0 - Grecia 1

Natività di Giovanni Battista





Il 24 Giugno la Chiesa festeggia la Natività di Giovanni Battista.

E se anche – apparentemente – questa può sembrare una festa tra le altre, una delle tante indicazioni del calendario liturgico, in realtà, almeno due elementi dovrebbero subito farci attenti al fatto che in gioco vi è qualcosa di particolare:

-          Innanzitutto il fatto che la festa di un santo sostituisca le letture della domenica!

-          In secondo luogo che si tratti della festa della nascitadi un santo, non del suo martirio (che è festeggiato il 29 Agosto)… cosa che accade solo per Gesù e per Maria!

Si tratta dunque di un personaggio speciale, sul quale peraltro ci si sofferma anche in altri periodi liturgici (penso in particolare all’Avvento), ma che molto spesso noi tendiamo a dimenticare, facendo l’implicito ragionamento che se è solo il precursore, tanto vale concentrarsi sul protagonista, Gesù!

E se questo pensiero, indubbiamente, ha una sua parte di verità, non si può però nemmeno dimenticare l'altro versante, quello cioè per cui ciò che è scritto nei vangeli non è semplicemente il racconto di una storia, ma il cammino che la prima Chiesa ha delineato per accedere alla fede.

In questo senso Giovanni Battista non può essere guardato meramente come un “fase” preliminare del racconto che, quando si entra poi nel vivo, può passare in secondo piano, ma deve essere assunto in tutta la sua pregnanza di attestazione della struttura credente: noi siamo Giovanni Battista e continuiamo a esserlo anche dopo aver avuto accesso all’esperienza storica di Gesù.

Per comprendere questa cosa è forse utile ripercorrere la parabola del Precursore, così come ce la attestano i vangeli.


Per prima cosa, Giovanni è il personaggio evangelico che forse più di tutti – come scrive Giuliano in “Con Marco in cammino verso il Regno” – mostra come «l’esperienza di Dio non viene mai prima», la nostra conoscenza di Gesù, il nostro contatto con lui è sempre storico: «Niente noi possiamo avere di non storico». E storico vuol dire carnale, temporale, mescolato a sudore e sangue... Vuol dire – riferito al rapporto col Signore – che esso non è mai scioglibile dalla nostra umanità, fatta anche di limiti, inadeguatezze, stanchezze, ritardi, infedeltà...

L’annuncio del Battista mette in luce proprio questo: il desiderio di arrivare a Lui è inestricabilmente legato alla nostra impossibilità di produrre questo incontro.

L’esperienza che fa Giovanni infatti è proprio quella di desiderare la venuta del Signore e allo stesso tempo di esserne incolmabilmente distante. Ecco perché, insieme a tutta una tradizione di asceti, mette in atto una serie di tentativi che dicono il desiderio di colmare questa distanza: vesti di peli di cammello, digiuno, deserto... in una parola «quelle regioni sacre, le possibilità di vita umana che noi riteniamo meno compromesse con la storia, con la malvagità, con la distanza da Dio».

Giovanni Battista infatti ha come prima caratteristica quella di essere il profeta penitente. Questo termine nella Bibbia non ha propriamente il significato di mortificazioneche ha assunto ai giorni nostri; piuttosto con penitenza si intende «il tentativo umano – che nasce dalla coscienza di peccato, di inadeguatezza, di distanza da Dio – per riprendere coscienza del luogo del vero obiettivo: Dio, la sua giustizia, la sua pace, la sua fraternità. E di girarsi verso di Lui. Per questo il termine greco dice piuttosto “convertirsi”».

Giovanni vuole dunque preparare il cuore del popolo all’avvento del Messia, convincendosi e convincendolo della sua distanza da Dio e dunque della necessità della conversione. In questo senso il suo annuncio suonerebbe più o meno come un: “Guardate che siamo lontani da Dio, bisogna cercare di arrivarci!”.

È quanto anche noi spesso tentiamo di mettere in atto quando ci accorgiamo che le cose non vanno: facciamo un po’ di violenza su noi stessi in modo da scuoterci e dire: “No. Adesso basta. È ora di cambiare. Di rivolgerci al Signore”.

«Ma la coscienza che c’è dentro è che tutto ciò che l’uomo può fare e che questo istinto di conversione suggerisce, anche violento, è sterile, è inutile. Giovanni Battista ne aveva coscienza acuta. Per questo finisce col dire: “Io battezzo solo con acqua”; ma questa è solo una purificazione esterna, il cuore non cambia: “Dopo di me verrà uno che battezzerà in Spirito Santo e fuoco”». La penitenza dunque è sterile, inutile, addirittura inacidente, se è fine a se stessa, se non mantiene sempre la consapevolezza di essere pedagogica: di servire perciò a preparare sé e gli altri ad accogliere Qualcuno.

Ecco perché il Battista oltre a essere il profeta penitente è anche il profeta “ultimo”, perché «uno che ha ricevuto il Vangelo [l’annuncio del possibile incontro tra Dio e l’uomo per volontà e ad opera di Dio in persona!] non può più illudersi che ci sia ancora spazio per salvarsi con questa penitenza: [...] il Signore ha rivelato che dopo Giovanni Battista le penitenze, se non sono dirette al Signore, non servono a niente, non cambiano il cuore di fronte a Lui. Il Vecchio Testamento è finito con il Battista».

Gesù in Matteo 11,11 ribadisce proprio questo: «Tra i nati di donna non è sorto mai nessuno più grande di Giovanni Battista, ma il più piccolo nel Regno dei cieli è più grande di lui»: è (solo) il più grande del Vecchio Testamento, non era possibile fare di più, infatti il più piccolo del Nuovo Testamento è più grande di lui. «E si capisce perché: ha ricevuto in regalo Dio nella sua storia, nella sua vita!».

Ma proprio qui si innesta l’imprescindibilità e l’insuperabilità di Giovanni Battista, del nostro essere strutturati come lui: perché anche quando abbiamo incontrato Gesù e ci siamo sbilanciati verso di lui, la nostra carne fatica ad essere definitivamente persuasa del ribaltamento teologico di cui Egli è portatore, quello cioè per cui non è l’uomo che può e deve arrivare a Dio, ma è Dio che – perché Padre – è in cerca dell’uomo.

Sembra quasi un gioco di parole, ma se provassimo ad assumerlo sul serio, ci accorgeremmo di quanta parte del nostro essere, del nostro pensare, pregare, scegliere andrebbe “convertito”.

Innanzitutto perché ci renderemmo conto che ciò che anima la nostra relazione al Signore, molto più che il nostro interesse di trovare (guadagnare!) una salvezza (per l’aldiqua e l’aldilà), è il suo interesse di avere parte con noi. Interessa molto più a Dio di me, di quanto a me interessi di Lui! Questo è ciò che senza ombra di dubbio emerge dalla lettura dei vangeli!

E questo sfonderebbe la dinamica della paura di Dio (che è ancora quella di Giovanni e nostra, di noi novelli Battisti), per la quale il nostro modo di stare al mondo si orienta sull’essere a Lui graditi o meno… che è una cosa molto diversa da quella che dice Teresa di GB che viveva orientata a “far piacere” al Signore (“piacere” a Dio e “fargli piacere” sono lontanissimi!): «Da qualche tempo mi ero offerta a Gesù Bambino per essere il suo piccolo giocattolo. Gli avevo detto di non servirsi di me come di un giocattolo di valore che i bambini si accontentano di guardare senza osare toccare, ma come di una piccola palla di nessun valore che poteva gettare a terra, spingere con il piede, bucare, lasciare in un angolo o anche stringere sul cuore se questo Gli faceva piacere. In una parola volevo divertire il piccolo Gesù, fargli piacere», [Manoscritto A].

Per Giovanni Dio è ancora colui dal quale ti puoi aspettare tanto il bene quanto il male, magari non in maniera indiscriminata (come era per gli dei capricciosi dell’Olimpo) ma retributiva (il bene ai buoni, il male ai cattivi; il bene a me quando sono buono, il male a me quando sono cattivo), mentre per Gesù no: tutta la sua parabola storica può essere letta come un grido implorante all’uomo perché gli creda quando dice che Dio è Abbà.

Ed è perché Teresa gli ha creduto, che può dire quel che dice. Ed è per questo che è santa! Perché nella lotta spirituale (che non è quella contro i vizi, ma è quella contro le false immagini di Dio!) ha rotto definitivamente la dinamica della paura, ha mandato in frantumi il volto del Dio pauroso con cui la sua cultura le aveva tessuto l’anima.

Ma Giovanni non va disprezzato né superato, perché tutte le nostre anime sono state tessute col filo della paura di Dio (forse questo è il cosiddetto “peccato originale”); lo ripeto ancora, noi siamo Giovanni. Ma dentro a questo tessuto, anche noi possiamo fare quell’esperienza (e la dobbiamo far fare ad ogni uomo!) che Teresa traduce scrivendo: «Compresi che, se ero amata sulla terra, lo ero pure in Cielo» [Ivi].

Solo questa esperienza di due granelli di gratuità, seminati dentro all’insuperabile Giovanni che siamo (e a cui sempre rispunterà il dubbio su Dio, sul suo volto, con i conseguenti tentativi di adoperarsi per piacergli, facendo sforzi per migliorarsi, resistere ai vizi, aderire ad un ideale irreale di umanità pura…), terrà aperto il canale perché invece lo Spirito d’amore del Padre e del Figlio ci faccia compagnia e si diverta a stare con noi.

martedì 12 giugno 2012

XI Domenica del Tempo Ordinario (B)


Questa Domenica ricomincia (finalmente!) il Tempo Ordinario e la Chiesa ci propone due delle tre parabole del seme raccolte nel quarto capitolo di Marco. Lascio parlare in proposito due esegeti che alimentano da tempo le mie riflessioni, perché mi paiono capaci di rendere davvero bene l’idea di ciò che vi è in gioco, più di quello che forse sarei in grado di fare io.

«La vita è più di quello che si vede.Gesù trovò buona accoglienza fra quella gente della Galilea, ma sicuramente non risultava facile a nessuno credere che il regno di Dio stesse arrivando. Non vedevano nulla di particolarmente grande in quanto Gesù faceva; ci si attendeva qualcosa di più spettacolare. Dove sono quei “segni straordinari” di cui parlavano gli scrittori apocalittici? Dove si può vedere la terribile forza di Dio? Come può Gesù assicurare che il regno di Dio è già fra di loro?

Gesù dovette insegnar loro ad “avvertire” la presenza salvifica di Dio in maniera diversa, e cominciò suggerendo che la vita è più di quello che si vede; mentre noi viviamo in maniera distratta gli aspetti apparenti della vita, all’interno dell’esistenza avviene qualcosa di misterioso. Gesù mostra loro i campi della Galilea: mentre essi camminano per quelle strade senza vedere nulla di speciale, sotto quelle terre sta avvenendo qualcosa che trasformerà il seme seminato in un bel raccolto. Lo stesso avviene nel focolare: mentre si svolge la vita quotidiana della famiglia, qualcosa si verifica segretamente all’interno della massa della farina, preparata all’alba dalle donne; presto tutto il pane sarà fermentato. Così avviene con il regno di Dio. La sua forza salvifica è già all’opera all’interno della vita, e trasforma tutto in maniera misteriosa. La vita sarà come la vede Gesù? Dio sarà silenziosamente all’opera all’interno del nostro stesso vissuto? Sarà questo il segreto ultimo della vita?

La parabola che più sconcertò tutti fu forse quella del seme di senape.





Gesù avrebbe potuto parlare di un fico, di una palma o di una vigna, come faceva la tradizione; invece, in maniera sorprendente, sceglie intenzionalmente il seme di senape, considerato proverbialmente come il più piccolo di tutti: un granello delle dimensioni di una capocchia di spillo, che con il tempo diventa un arbusto di tre o quattro metri, su cui in aprile si rifugiano piccoli stormi di cardellini, cui piace molto mangiarne i chicchi. I contadini potevano contemplare la scena in qualunque tramonto.

Il linguaggio di Gesù è sconcertante e senza precedenti. Tutti attendevano la venuta di Dio come qualcosa di grande e possente; si ricordava in maniera particolare l’immagine del profeta Ezechiele, che parlava di un “cedro magnifico” piantato da Dio su “una montagna elevata ed eccelsa”, che “avrebbe messo fuori rami e prodotto frutti”, servendo da riparo a ogni sorta di passeri e uccelli del cielo. Per Gesù, la vera metafora del regno di Dio non è il cedro, che fa pensare a qualcosa di grandioso e possente, bensì la senape, che suggerisce qualcosa di debole, insignificante e piccino.

La parabola dovette penetrare profondamente in loro. Come poteva Gesù paragonare il potere salvifico di Dio a un arbusto uscito da un seme così piccino? Si doveva abbandonare la tradizione che parlava di un Dio grande e possente? Bisognava dimenticare le sue grandi gesta del passato ed essere attenti a un Dio che è già in azione in ciò che è piccolo e insignificante? Avrebbe forse ragione Gesù? Ognuno doveva decidere: o continuare ad attendere l’arrivo di un Dio possente e terribile, o arrischiarsi a credere nella sua azione salvifica presente nell’umile operato di Gesù.

Non era una decisione facile; che cosa ci si poteva attendere da qualcosa di così insignificante come quanto stava accadendo in quegli sconosciuti villaggi della Galilea? Non bisognava fare qualcosa di più per forzare gli eventi? Gesù poteva comprovare l’impazienza che regnava in non poche persone. Per contagiarle con la sua fiducia totale nell’azione di Dio, propone come esempio quanto avviene del seme che il seminatore semina nella sua terra.

Gesù li rende attenti a una scena che sono abituati a contemplare tutti gli anni nei campi della Galilea: dapprima terre seminate dai contadini; dopo pochi mesi, campagne coperte di messi. Ogni anno, alla semina segue con piena sicurezza il raccolto. Nessuno sa bene come, ma qualcosa si verifica misteriosamente sottoterra. Lo stesso avviene con il regno di Dio: esso è già all’opera in maniera occulta e segreta; vi è soltanto da attendere che giunga il raccolto.

L’unica cosa che il contadino fa è deporre in terra la semente; fatto questo, il suo compito è concluso. La crescita della pianta non dipende più da lui; egli può coricarsi tranquillo alla fine di ogni giornata, sapendo che la sua semente si sta sviluppando; può alzarsi ogni mattina e comprovare che la crescita non si arresta; nelle sue terre sta succedendo qualcosa senza che egli se lo sappia spiegare. Non rimarrà deluso; a suo tempo, avrà il suo raccolto.

Quel che importa realmente, non è il seminatore a farlo; il seme germoglia e cresce sotto l’impulso di una forza misteriosa che a lui sfugge. Gesù descrive in ogni dettaglio questa crescita, affinché i suoi uditori la possano quasi vedere. All’inizio dalla terra spunta soltanto un filo insignificante di erba verde, poi compaiono le spighe; più tardi si possono già osservare gli abbondanti chicchi di frumento. Tutto avviene senza che il seminatore abbia dovuto intervenire, perfino senza che sappia davvero bene come tale meraviglia si produca.

Tutto contribuisce in qualche modo a far sì che un giorno giunga il raccolto: il contadino, la terra e la semente. Ma Gesù invita tutti ad avvertire in questa crescita l’azione occulta e potente di Dio. La crescita della vita che si può osservare anno dopo anno nei campi seminati è sempre una sorpresa, un dono, una benedizione di Dio. Il raccolto va al di là dello sforzo che i contadini hanno potuto compiere. Qualcosa del genere si può dire del regno di Dio. Non coincide con gli sforzi che qualcuno può fare: è un dono di Dio immensamente superiore a tutti gli affanni e i travagli degli essere umani», J. A. Pagola, Gesù. Un approccio storico, Borla, Roma 20102, 138-141.

Ciò che vi è in gioco in queste parabole dunque è prima di tutto una conversione sull’idea di Dio che abbiamo in testa: innanzitutto il fatto che «è il Regno stesso, già deposto nella storia come un seme, che viene, non sono gli uomini a farlo venire. […] L’atteggiamento prioritario del cristiano nel mondo [dunque] è l’attesa fiduciosa. Perché il regno di Dio non è cosa degli uomini, ma di Dio. Non è una realtà da ‘forzare’, come facevano gli zeloti al tempo di Gesù o come sono tentati di fare gli attivisti cristiani in ogni tempo. Il regno di Dio non è questione di organizzazione oppure di efficienza, ma semplicemente di accoglienza» [B. Maggioni, Le parabole evangeliche, Vita e Pensiero, Milano 20036, 39].

E di un’accoglienza tutta particolare, perché «evidentemente la pretesa di Gesù di essere l’inizio del Regno esige una profonda conversione ‘teologica’ prima che morale: anche nel tempo del compimento Dio non pianta alberi ma getta semi. È un modo assolutamente nuovo di intendere il compimento!

Il primo scopo della similitudine non è di invitare alla speranza o di suggerire all’uomo come comportarsi nei confronti di Dio. Essa piuttosto vuole suggerire una maniera diversa di immaginare la presenza del Regno nella storia. La similitudine è teologica. Ne consegue che il modo peggiore di interpretarla è quello di applicare l’immagine del seme al ministero di Gesù (e, eventualmente, della Chiesa primitiva) e quella dell’albero alla Chiesa. In realtà, il tempo di Gesù non è solo l’inizio e il fondamento del tempo della Chiesa, ma il ‘codice genetico’ che ne determina l’identità, la fisionomia e il carattere. Anche quello della Chiesa è tempo di semi, non di alberi. E sempre sorge la domanda: è qui il regno di Dio? Capovolgere la similitudine partendo dall’albero – eravamo un piccolissimo seme e ora siamo una grande comunità! – significa fraintenderla. Gesù l’ha raccontata per coloro che vivono nella situazione del seme» [Ivi, 45].

martedì 5 giugno 2012

Corpus Domini 2012: Gesù "può" donare lo Spirito solo dopo aver donato il corpo

È sempre un po’ difficile argomentare riguardo a certe “tematiche” che la Chiesa nelle sue annuali feste liturgiche ci propone. Il rischio è infatti quello o di dire sempre le stesse cose… o di trovare l’appiglio “ad effetto” per variare un po’ sul tema, senza però riuscire a cogliere in profondità il mistero celebrato.

In questa domenica per esempio l’invito che la festa del Corpus Domini implica, è quello di fermarsi a riflettere sul mistero dell’incarnazione, dell’istituzione dell’eucaristia, della presenza reale di Cristo nell’ostia consacrata (per stare solo alle tematiche immediate e tralasciare quelle correlate), che però – a ben vedere – sono praticamente tutto il mistero cristiano… E allora come fare, in poche righe a tracciare qualche commento su fronti così ampi? Come farlo, soprattutto, evitando i rischi classici della predicazione sopra delineati: usare tante parole e tanti “effetti speciali” per nascondere il niente che si sta dicendo e per velare la fatica dell’oratore di cogliere davvero ciò che è implicato in quanto si celebra; chiudersi in un più onesto, ma non meno infruttuoso silenzio apofatico?

Perché è così difficile? Perché in particolare alcune tematiche lo sono così tanto?

Perché rimandano a problematiche vaste, apparentemente complicate, in qualche modo da riservare agli esperti, sostanzialmente lontane dalla vita: Cosa vuol dire per esempio celebrare la festa del Corpus Domini? Del corpo e sangue del Signore? Cosa implica credere in questa realtà?


Finché si tratta di dire che Gesù nella sua vita terrena aveva un corpo, fatto di carne ed ossa, tutto fila via liscio: qualsiasi cristiano lo ammetterebbe senza fare una piega; così come il dire che nell’ultima cena Egli abbia offerto il suo corpo e il suo sangue, che noi riceviamo ancora oggi a messa. Ma quando si incomincia a dire che Gesù non era un semplice inviato di Dio (come ce ne furono tanti nell’AT), non era un uomo che Dio ha scelto per svolgere una missione, non era neanche un corpo umano che Dio ha animato e condotto come una marionetta per assolvere ad un compito, ma era lui stesso Dio… le cose si fanno complicate. La domanda diventa infatti: Che senso ha parlare di corporeità per Dio?

I più di fronte a quello che appare un complesso problema intellettuale e cervellotico, si stufano, si perdono e lasciano perdere… Anche perché – come già detto – lo avvertono come qualcosa di assolutamente staccato dalla loro quotidianità: di fatto superfluo e dunque inutile rispetto al loro vivere. Ci si accontenta di dire: il parroco da piccolo mi ha insegnato che c’è Dio, che è Padre, Figlio e Spirito Santo. Il Figlio è sceso sulla terra, si è fatto uomo: quindi era Dio e uomo; è morto per noi e prima di morire ha istituito l’eucaristia donandoci pane e vino, che sono suo corpo e suo sangue. Cosa questo voglia dire, implichi o come avvenga, son problemi del parroco: a me basta andare a messa, dire le preghiere e fare l’offerta, che il problema religioso è risolto. Il resto della vita è un altro conto…

Qualcuno invece – più ardito – insiste molto su questo versante cristiano della “corporeità” di Dio, suggellata dal fatto che il gesto più importante che Gesù ci abbia lasciato ha in sé i segni poveri del pane e del vino, suo corpo e suo sangue. Insistono molto perché individuano in questa logica corporea, una dinamica importantissima per l’individuazione dell’identità umana: la fine cioè di tutto il disprezzo (ereditato dalla filosofia greca) di ciò che è carnale e di tutta l’esaltazione spiritualistica – e disincarnata – che per secoli ha mortificato l’umano, a favore di un’impostazione più unitaria – non più dualistica – su chi l’uomo sia; con tutte le conseguenze sul piano ecclesiale, culturale, sociale che questo nuovo modello antropologico promuove (per esempio l’uguale importanza delle vocazioni, la pari dignità dei membri della Chiesa, la rivalutazione della corporeità, la libertà da certi moralismi, ecc…).

Altri invece, proprio per queste stesse conseguenze ecclesiali, sociali, culturali, si distanziano un po’ da questa insistenza sulla corporeità in Dio, spaventati da una riduzione troppo umana/umanizzata del mistero divino.

In questa situazione sembra proprio che, allora, centrale diventi rispondere alla domanda posta prima: Che senso ha parlare di corporeità per Dio? Infatti solo indagando questa questione, si potrà risvegliare dal torpore il gran numero di persone che avvertono questi discorsi come lontani dalla loro vita, si potrà cioè rendere ragione della loro centralità, non semplicemente ribadendola (come spesso avviene nella predicazione) senza motivarla, ma investigando “il succo del discorso”; e solo in questo modo inoltre si potrà prendere posizione tra l’eterno doppio fronte intra-ecclesiale, diviso tra chi vorrebbe sempre una sottolineatura forte della corporeità e chi invece preferisce trascurarla un po’; solo così infine si potrà prendere posizione non tanto come tifosi di un partito e dunque appassionati, ma determinati solo dal campanilismo, quanto piuttosto sulla base di una capacità di rendere ragione delle proprie posizioni…

Addentrandoci dunque nella complessità di questa problematica, mettiamo subito in luce cosa c’è in gioco: Perché fa così problema pensare insieme Dio e corpo?

Perché tutta la storia della religiosità umana, fin dentro al testo biblico ha pensato Dio come incorporeo, nel senso di illimitato e illimitabile, infinito e invulnerabile, che sono tutte caratteristiche che necessitano una non corporeità: chi ha un corpo ha dei confini e soprattutto è feribile. Scrive Elaine Scarry [in La sofferenza del corpo, il Mulino, Bologna 1990 (1985), 348-49.353-54.360-61]: «In tutto l’Antico Testamento, il potere e l’autorità di Dio sono una conseguenza, estrema e continuamente ribadita, del fatto che gli uomini hanno un corpo ed Egli ne è privo. È questo fatto che, prima di tutto, viene trasformato nella revisione cristiana, poiché, nonostante la differenza tra uomo e Dio continui ad essere immensa come lo era stata nelle Scritture ebraiche, il fondamento di tale differenza non è più costituito dal fatto che uno abbia un corpo e l’Altro no. La trasformazione non riguarda tanto l’oggetto della fede quanto la struttura stessa della fede, la natura dell’immaginazione religiosa. […] Tale modificazione insiste sul fatto che l’onnipotenza, come anche più modeste forme di potere, deve essere connessa alla sensibilità corporea. Non è che il concetto di potere venga eliminato, né tanto meno scompare l’idea della sofferenza: è la precedente relazione tra loro che viene meno. Essi non sono più manifestazioni l’uno dell’altra: il dolore di una persona non è il segno del potere di un’altra. La dimensione della vulnerabilità umana non corrisponde più alla dimensione dell’invulnerabilità divina. Essi sono ora slegati e possono pertanto aver luogo congiuntamente: Dio è sia onnipotente sia soggetto al dolore. […] Connettere sensibilità e autorità, attribuire autorità alla sensibilità, significa collocare il dolore e il potere dalla stessa parte. […] Una delle caratteristiche peculiari del dolore è che il suo opposto, il potere, può trovarsi in un luogo differente; tuttavia, è possibile avvertirne la presenza o l’assenza, l’aumento o la diminuzione, in relazione all’aumentare o al diminuire del dolore. Di solito, la variazione di una coppia di contrari non è parallela ma inversa; l’aumento dell’umido corrisponde a una diminuzione del secco; muovendoci verso est ci allontaniamo da ovest; l’aumento della luce fa diminuire le tenebre. Tuttavia, il fenomeno del dolore ha frequentemente luogo in situazioni in cui il suo accrescimento è accompagnato da un accrescimento di un potere che si accumula altrove. La nuova relazione che si instaura nel Vangelo tra il corpo del credente e l’oggetto della fede sovverte questa relazione di esclusione tra dolore e potere, poiché colloca nello stesso luogo sensibilità e autorità, che non si possono pertanto più avere una alle spese dell’altra. Il conferimento dell’autorità dello spirito alla sensibilità ha come conseguenza anche la dissoluzione del confine tra corpo e voce e permette quindi il passaggio dall’uno all’altra. Nell’Antico Testamento, il corpo appartiene solo all’uomo, e la voce, nella sua forma estrema e priva di attributi, appartiene solo a Dio. Con la croce, ciascuno mantiene la propria collocazione originaria, ma nel contempo fa la sua comparsa nella sfera da cui era stato precedentemente escluso».

Ecco dunque l’implicazione del parlare insieme di Dio e di corpo – possibile solo in Gesù – e cioè lo scardinamento di un’atavica immaginazione religiosa implicante la separabilità di principio di alcuni ambiti: il cielo/la terra; il potere/il patire; il corpo/lo spirito; Dio/l’uomo; il soprannaturale/il naturale; la grazia/la libertà; ecc… In Gesù è cioè richiesta una conversione dell’idea di Dio, dell’idea dell’uomo e della ragione che si usa per pensarli che è talmente scaravoltante i luoghi comuni, le convinzioni sedimentate in secoli di storia, le precomprensioni che succhiamo dal seno di nostra madre, che nemmeno due millenni di cristianesimo sono ancora riusciti a digerire. La lunga citazione riportata mostra qualche sprazzo, indica qualche possibile percorso rispetto a cosa voglia dire questo prendere sul serio l’inedito Dio cristiano che pur restando Dio non può più essere detto – in Gesù – senza corpo; che pur restando onnipotente, non può più essere detto – in Gesù – invulnerabile; che pur restando infinito, in Gesù può essere detto realmente presente in un pezzo di pane e in un goccio di vino. Ma soprattutto che pur restando Dio, non può più essere detto – in Gesù – a prescindere dall’uomo e a priori rispetto alla sua storia con lui, tanto che «L’accesso al senso specifico per la trascendenza divina coincide con il riconoscimento per la propria singolarità (questa è la fede: accogliersi come quell’uomo), giacché la trascendenza divina si rivela dando luogo alla unicità individuale. L’accesso a Dio coincide con l’accesso a io. I due poli sono inseparabili anche se sono né assimilabili, né omologabili» [S. Ubbiali, Il sacramento cristiano, p. 128].

Ma assumere questa prospettiva vuol dire rivedere molti dei nostri schematismi religiosi (individuali ed ecclesiali). Per fare solo un esempio significativo, assumere questa prospettiva vorrebbe dire smettere di pensare il rapporto dell’uomo con Dio come un tentativo di superamento od estraniazione dalla storia, dalla realtà, dalla corporeità, come se queste dimensioni andassero superate, come se da esse bisognasse elevarsi… ma piuttosto pensare il rapporto con Dio come inestricabile dalle nostre dinamiche antropologiche, ammettendo quindi che per l’accesso al sacro ciascuno è di per sé – proprio e solo in quanto umano – già abilitato.

Non a caso Gesù stesso può donare lo spirito (mistero che abbiamo da poco celebrato a Pentecoste) solo dopo aver donato definitivamente il suo corpo: «Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: “È compiuto!”. E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19,30).
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...

I più letti in assoluto

Relax con Bubble Shooter

Altri? qui

Countries

Flag Counter