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martedì 29 maggio 2012

Trinità

Chiuso il Tempo di Pasqua con la celebrazione della Pentecoste, Lunedì è ricominciato il Tempo Ordinario, che avevamo già incontrato nelle Domeniche tra il Tempo di Natale e quello della Quaresima, e che ci accompagnerà fino alla fine di questo anno liturgico, cioè fino a quando, con il prossimo Avvento, inizierà l’anno nuovo: abbiamo perciò davanti a noi circa sei mesi di Tempo Ordinario.

Ma chi si aspettava, già per questa prima Domenica dopo Pentecoste, una Liturgia della Parola “ordinaria” (e magari ne aveva anche un po’ nostalgia…), dovrà invece fare i conti col fatto che la Chiesa ponga proprio in questa Domenica (e anche nella prossima, quando celebreremo il Corpus Domini) una delle solennità più significative per la comprensione del mistero cristiano: la Trinità.

È di questo dunque che dobbiamo parlare oggi…

…anche se non nascondo una certa resistenza nel farlo, perché mi pare che la precomprensione un po’ semplicistica e materialistica che abbiamo di questi contenuti di fede, sia davvero troppo invincibile perché si riesca a fare un discorso capace di incidere sul nostro vissuto.

Cosa intendo dire?

Che la situazione di una persona di cultura cristiano-cattolica che sente parlare di “Trinità” potrebbe essere tratteggiata in questo modo:

1.      il rimando immediato e istintivo che ha, di fronte a questa parola, non è il vangelo, ma il Catechismo (che non è solo una questione di copertina del libro…);

2.      la sensazione prima è quella di essere di fronte a qualcosa di “pericoloso”, su cui non si può scherzare, né fare domande: c’è di mezzo l’eresia e l’atavica paura cattolica di fronte ad essa (perché voleva dire morire… sul rogo!);

  1. il mistero della Trinità perciò non va indagato, ma “preso”, più o meno con le stesse modalità con cui si terrebbe in mano una scoria radioattiva;


4.      e se mai salisse alla mente una domanda sul significato di questa parola “strana”, essa verrebbe immediatamente bypassata ricordando che il “mistero della Trinità” non per niente si chiama “mistero” e che se proprio si vuole dire cosa significa, basta guardare al dogma: “Un unico Dio in tre persone: Padre, Figlio e Spirito Santo”…

  1. e se ci sentiamo ancora quelli di prima… amen… vedi il punto 3.



Forse esagero un po’… ma la mia impressione è proprio questa… che tutti conosciamo questa parola, tutti sapremmo ripetere il dogma, tutti saremmo pronti a difenderlo con le unghie, ma poi…

… poi questa cosa non si declina in nessun modo nel nostro agire, pensare, parlare… cioè: non ha incidenza alcuna sul nostro vivere da uomini e da cristiani.

Forse allora è necessario provare a partire da un altro punto di vista, che è poi quello da cui è partita la Chiesa: e cioè che Gesù nella sua storia ha parlato (nel senso forte che si può dare a questo verbo) del Padre e dello Spirito, anzi, più radicalmente si è detto (ha detto – agendo – di sé) sempre in relazione al Padre e allo Spirito, quasi che la sua identità non fosse dicibile se non dentro a questa relazione. Gesù è cioè chi non può essere detto senza contemporaneamente dire Padre e Spirito.

Allora, è dentro a questa dinamica che siamo chiamati ad immergerci (battezzarci), abbandonando la visione “cosale” della Trinità (Dove stanno? Come fanno a essere uno e tre? Come devo rivolgermi loro? Sempre con in testa il Padre con la barba, Gesù lì con Lui nell’alto dei cieli e lo Spirito che non si capisce bene se è lì o qui o un po’ qui e un po’ lì…) per accedere ad una prospettiva relazionale, per la quale io – come uomo – non posso dirmi se non in relazione a Dio, che a sua volta non può che essere Padre (pensabile sempre e solo come in relazione al Figlio e allo Spirito), Figlio (pensabile sempre e solo come in relazione al Padre e allo Spirito) e Spirito (pensabile sempre e solo come in relazione al Padre e al Figlio).

mercoledì 16 maggio 2012

La preghiera di Aiace

Aiace in un dipinto di Henri Serrur
di Barbara Spinelli

Ci abituiamo talmente presto ai luoghi comuni che non ne vediamo più le perversità, e li ripetiamo macchinalmente quasi fossero verità inconfutabili: la loro funzione, del resto, è di metterti in riga. Il pericolo di divenire come la Grecia, per esempio: è una parola d’ordine ormai, e ci trasforma tutti in storditi spettatori di un rito penitenziale, dove s’uccide il capro per il bene collettivo. Il diverso, il difforme, non ha spazio nella nostra pòlis, e se le nuove elezioni che sono state convocate non produrranno la maggioranza voluta dai partner, il destino ellenico è segnato.

Lo sguardo di chi pronuncia la terribile minaccia azzittisce ogni obiezione, divide il mondo fra Noi e Loro. Quante volte abbiamo sentito i governanti insinuare, tenebrosi: “Non vorrai, vero?, far la fine della Grecia”? La copertina del settimanale Spiegel condensa il rito castigatore in un’immagine, ed ecco il Partenone sgretolarsi, ecco Atene invitata a scomparire dalla nostra vista invece di divenire nostro comune problema, da risolvere insieme come accade nelle vere pòlis.
L’espulsione dall’eurozona non è ammessa dai Trattati ma può essere surrettiziamente intimata, facilitata. In realtà Atene già è caduta nella zona crepuscolare della non-Europa, già è lupo mannaro usato per spaventare i bambini. Chi ha visto la serie Twilight zone conosce l’incipit: “C’è una quinta dimensione oltre a quelle che l’uomo già conosce. È senza limiti come l’infinito e senza tempo come l’eternità. È la regione intermedia tra la luce e l’oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere”. Lì sta la Grecia: lontana dalle vette luminose dell’eurozona, usata come clava contro altri.

L’editorialista di Kathimerini, Alexis Papahelas, ha detto prima delle elezioni: “Ci trasformeranno in capro espiatorio. Angela Merkel potrebbe punire la Grecia per meglio convincere il suo popolo ad aiutare paesi come Italia o Spagna”. Il tracollo greco è “un’opportunità d’oro” per Berlino e la Bundesbank, secondo l’economista Yanis Varoufakis: nell’incontro di oggi tra la Merkel e Hollande, l’insolvenza delle Periferie europee (Grecia, e domani Spagna, Italia) “sarà usata per imporre a Parigi le idee tedesche su come debba funzionare il mondo”. Agitare lo spauracchio ellenico è tanto più indispensabile, dopo la disfatta democristiana in Nord Reno-Westfalia e il trionfo di socialdemocratici e Verdi, pericolosamente vicini a Hollande. La speranza è che Berlino intuisca che la sua non è leadership, ma paura di cambiare paradigmi.

Può darsi che la secessione greca sia inevitabile, come recita l’articolo di fede, ma che almeno sia fatta luce sui motivi reali: se c’è ineluttabilità non è perché il salvataggio sia troppo costoso, ma perché la democrazia è entrata in conflitto con le strategie che hanno preteso di salvare il paese. Nel voto del 6 maggio, la maggioranza ha rigettato la medicina dell’austerità che il Paese sta ingerendo da due anni, senza alcun successo ma anzi precipitando in una recessione funesta per la democrazia: una recessione che ricorda Weimar, con golpe militari all’orizzonte. Costretti a rivotare in mancanza di accordo fra partiti, gli elettori dilateranno il rifiuto e daranno ancora più voti alla sinistra radicale, il Syriza di Alexis Tsipras. Anche qui, i luoghi comuni proliferano: Syriza è forza maligna, contraria all’austerità e all’Unione, e Tsipras è dipinto come l’antieuropeista per eccellenza.

La realtà è ben diversa, per chi voglia vederla alla luce. Tsipras non vuole uscire dall’Euro, né dall’Unione. Chiede un’altra Europa, esattamente come Hollande. Sa che l’80 per cento dei greci vuol restare nella moneta unica, ma non così: non con politici nazionali ed europei che li hanno impoveriti ignorando le vere radici del male: la corruzione dei partiti dominanti, lo Stato e il servizio pubblico servi della politica, i ricchi risparmiati. Tsipras è la risposta a questi mali – l’Italia li conosce – e tuttavia nessuno vuol scottarsi interloquendo con lui. Neanche Hollande ha voluto incontrare il leader di Syriza, accorso a Parigi subito dopo il voto. E avete mai sentito le sinistre europee, che la solidarietà dicono d’averla nel sangue, solidarizzare con George Papandreou quando sostenne che solo europeizzando la crisi greca si sarebbe trovata la soluzione? Chi prese sul serio le parole che disse in dicembre ai Verdi tedeschi, dopo le dimissioni da Primo ministro? “Quello di cui abbiamo bisogno è di comunitarizzare il nostro debito, e anche i nostri investimenti: introducendo una tassa europea sulle transazioni finanziarie, e sulle energie che emettono biossido di carbonio. E abbiamo bisogno di eurobond per stimolare investimenti comuni”. L’idea che espose resta ancor oggi la via aurea per uscire dalla crisi: “Agli Stati nazionali il rigore, all’Europa le necessarie politiche di crescita”.

La parole di Papandreou, ascoltate solo dai Verdi, caddero nel vuoto: quasi fosse vergognoso oggi ascoltare un Greco. Quasi fosse senza conseguenze, l’ebete disinvoltura con cui vien tramutato in reietto il Paese dove la democrazia fu inaugurata, e le sue tragiche degenerazioni spietatamente analizzate. Sono le degenerazioni odierne: l’oligarchia, il regno dei mercati che è la plutocrazia, la libertà quando sprezza legge e giustizia. Naturalmente le filiazioni dall’antichità son sempre bastarde. Anche la nostra filiazione da Roma lo è. Ma se avessimo un po’ di memoria capiremmo meglio l’animo greco. Capiremmo lo scrittore Nikos Dimou, quando nei suoi aforismi parla della sfortuna di esser greco: “Il popolo greco sente il peso terribile della propria eredità. Ha capito il livello sovrumano di perfezione cui son giunte le parole e le forme degli antichi. Questo ci schiaccia: più siamo fieri dei nostri antenati (senza conoscerli) più siamo inquieti per noi stessi”. Ecco cos’è, il Greco: “un momento strano, insensato, tragico nella storia dell’umanità”. Chi sproloquia di radici cristiane d’Europa dimentica le radici greche, e l’entusiasmo con cui Atene, finita la dittatura dei colonnelli nel 1974, fu accolta in Europa come paese simbolicamente cruciale.

Il non-detto dei nostri governanti è che la cacciata di Atene non sarà solo il frutto d’un suo fallimento. Sarà un fallimento d’Europa, una brutta storia di volontaria impotenza. Sarà interpretato comunque così. Non abbiamo saputo combinare le necessità economiche con quelle della democrazia. Non siamo stati capaci, radunando intelligenze e risorse, di sormontare la prima esemplare rovina dei vecchi Stati nazione. L’Europa non ha fatto blocco come fece il ministro del Tesoro Hamilton dopo la guerra d’indipendenza americana, quando decretò che il governo centrale avrebbe assunto i debiti dei singoli Stati, unendoli in una Federazione forte. Non ha fatto della Grecia un caso europeo. Non ha visto il nesso tra crisi dell’economia, della democrazia, delle nazioni, della politica. Per anni ha corteggiato un establishment greco corrotto (lo stesso ha fatto con Berlusconi), e ora è tutta stupefatta davanti a un popolo che rigetta i responsabili del disastro.
Le difficoltà greche sono state affrontate con quello che ci distrugge: con il ritorno alle finte sovranità assolute degli Stati nazione. È un modo per cadere tutti assieme fuori dall’Europa immaginata nel dopoguerra. Ci farà male, questa divaricazione creatasi fra Unione e democrazia, fra Noi e Loro. La loro morte sarebbe un po’ la nostra, ma è un morire cui manca il conosci te stesso che Atene ci ha insegnato. Non è la morte greca che Aiace Telamonio invoca nell’Iliade: “Una nebbia nera ci avvolge tutti, uomini e cavalli. Libera i figli degli Achei da questo buio, padre Zeus, rendi agli occhi il vedere, e se li vuoi spenti, spegnili nella luce almeno”.

Repubblica, 16 maggio 2012

martedì 15 maggio 2012

L'Ascensione

«Fino alla croce ci sono dei sentimenti naturali che possono in qualche modo, nonostante le nostre resistenze, darci il senso che essa è ancora dentro il nostro orizzonte umano. La risurrezione evidentemente già ci fa faticare di più, perché ci porta assolutamente al di sopra del nostro orizzonte. Ma l’ascensione impegna in modo ancora più totale la nostra capacità di trascendere la nostra esperienza e la nostra capacità di vivere – nella considerazione di questo mistero – tutto il prolungamento dell’esistenza che noi speriamo, ma che contrasta fortemente con la nostra esperienza immediata, che sa che al di là della vita c’è la morte. Bisogna, invece, che pensiamo che questo è il mistero veramente riassuntivo di tutto Gesù, di tutto il Cristo. Bisogna tornarci su spesso» [G. Dossetti, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 97-98].

Raccogliendo l’invito di don Dossetti, anche noi allora, proviamo in questa Domenica di ascensione a tornare su questo mistero che la Chiesa ci invita a celebrare.


Innanzitutto va detto che i testi riguardanti l’ascensione cercano di trasmetterci l’esperienza intensa e lacerante che la prima comunità ha fatto del mistero che è condensato in questa partenza di Gesù («Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi»). Essa allora come oggi implica infatti una presa di distanza fisica del Signore dai suoi, una nuova modalità di presenza (detto in positivo), ma che sull’altro versante vuol dire l’esperienza di un’assenza! È questa la difficoltà insita in questo evento della vita di Gesù e della Chiesa: che storicamente si fa l’esperienza di un Dio che è l’assente, il lontano, l’invisibile, l’irraggiungibile… E il rimando è dunque alla nostra solitudine, alla paura atavica che essa ci fa patire, fino alle estreme manifestazioni dell’angoscia per la morte, che altro non è che la solitudine definitiva.

Questo è il problema a cui l’ascensione rimanda: è possibile continuare a credere e più radicalmente continuare a vivere dopo che Gesù diventa l’assente? Si può – cioè –affidarsi a un fondamento, a una sensatezza, a una salvezza, nonostante non sia verificabile? Si può dargli credito, sapendo che o ha consistenza o noi non l’abbiamo? O non resta che fermarsi col naso all’insù, aspettando che ritorni?

La risposta degli Atti sembra netta: «Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”».

C’è dunque, incontestabilmente una lontananza, una distanza, un’assenza… Eppure sembra che essa non sia destinata a interrompere il flusso della vita e dell’amore che la vita storica di Gesù ha prodotto… Sembra anzi che ci sia non solo una possibilità di continuazione della vita, ma quasi una necessità, un dovere, un’urgenza: non si sta col naso all’insù ad attendere il ritorno del Signore, ma ci si deve buttare a capofitto nella storia.

Ma bisogna avere un’attenzione… perché, certo, sarebbe facile e immediato dire, come infatti spesso è stato detto: l’ascensione è il momento in cui “finisce” il tempo di Gesù e inizia il tempo della Chiesa… e quindi “non stare col naso all’insù” vuol dire che l’Istituzione chiesa “deve prendere (come ha preso) il posto di Gesù” nella storia…

Prima c’era Gesù, incontrabile sulle strade della Palestina, che ha detto delle cose, ne ha fatte altre, ecc… ecc… ecc… ora c’è la Chiesa, che ci dice cosa dobbiamo fare, cosa dobbiamo credere, ecc…

Noi fotografiamo un po’ così il mistero dell’ascensione…

In realtà… forse, con un po’ troppa facilità… Saltando a piè pari quello che invece ha voluto dire storicamente per i primi discepoli non vedere più Gesù, non averlo più “a portata di mano” (vivo o risorto), non poterlo più consultare, ecc… e troppo spesso – parlando di ascensione – saltiamo a piè pari quello che vuol dire per noi questo non vederlo, non averlo “a portata di mano”, non poterlo consultare, ecc… cosa vuol dire per la Chiesa…

Patiamo questa cosa… ma quando dobbiamo parlare di ascensione partiamo come dei treni con quello che abbiamo imparato a catechismo (l’ascensione è Gesù che viene assunto in cielo) e stop… e ci dimentichiamo del problema…

Che invece c’è! Che Gesù sia e diventi l’assente infatti fa problema ad ogni credente: perché troppo spesso la vita ci rimanda ad un doverci far carico in prima persona, in solitaria (che si parli di se stessi o della Chiesa), di noi, delle scelte, delle fatiche, delle sofferenze, del male, dell’amore… E troppo spesso questa stessa vita, queste stesse scelte e fatiche e dolori, sembrano sovrastarci, sembrano mancare di un’intelligibilità, di una sensatezza, di una finalità…

Forse allora prima di precipitare subito su slogan tipo “è finito il tempo di Gesù inizia quello della Chiesa” dando per scontato tutto o troppo e risultando quindi di fatto insignificante per la nostra vita (tanto che i nostri ragazzi – e non solo loro… – se sanno che c’è l’ascensione – la pensano come una specie di Gesù fantasmino che se ne va in alto, non si sa bene dove, forse verso Dio che è addirittura al di là del cielo e… chi lo vede più? Concludendo ovviamente che lui starà pure lassù, ma quaggiù a noi tocca cavarcela da soli), forse – dicevo – è utile fare un passetto intermedio… e chiederci cosa vuol dire davvero questa ascensione.

Ci facciamo aiutare ancora una volta da don Dossetti [Ivi, 69-73.99], che con molto acume annota: «Mi sembra che sia detto anche a noi di non dovere stare lì a guardare il cielo fisico, per ritrovare un contatto con Gesù asceso alla destra del Padre», infatti «il cielo di cui si parla non è certamente il cielo fisico – questo già lo sappiamo, però bisogna sempre tornarselo a dire, per sgomberare l’anima da quella pesantezza che viene da questo rapporto con il cielo fisico –, e non è nemmeno una realtà spaziale o una realtà dell’ordine fisico o dell’ordine creato: il cielo non è questo. Questo cielo è esclusivamente Dio stesso»: Gesù assunto in cielo, vuol dire cioè Gesù immerso nel Padre. «Dunque, vedete, non compiamo nessun itinerario esterno. Soltanto si tratta di raggiungere degli spessori totalmente interni all’essere. […] In questo ordine di essere, in questo spessore intimissimo, Cristo è stato assunto. […] È in conseguenza di questo suo ritorno al Padre che lui si intimizza a noi: è veramente con noi ed è veramente in noi, ritornato al Padre, raggiunge in noi lo spessore più profondo del nostro essere, quello in cui il nostro essere giace in lui, in Dio». Perciò «nell’atto stesso in cui sembra allontanarsi, in realtà si fa massimamente intimo a noi e noi diventiamo massimamente intimi a lui»!

Ecco perché nasce il tempo della Chiesa: non perché ci sia una cesura (finito il tempo di Gesù – che ormai non ha più niente a che fare col mondo dell’aldiqua – inizia il tempo della chiesa), ma perché nasce la comunità di quelli che vivono di questo nuovo e intimissimo modo di rapportarsi al Signore risorto. Tant’è che anche il vangelo che la liturgia ci propone per questa domenica, mentre sta parlando dell’inizio della missione degli apostoli («Allora essi partirono e predicarono dappertutto»), annota: «il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano».

È in questo rapporto intimo – accessibile ad ogni credente – che infatti «scaturisce quella scintilla della fede che ci fa ritrovare Cristo glorificato nel Padre e presente in noi, e che realizza già per noi – dobbiamo avere il coraggio di dirlo – il ritorno di Cristo. Con ciò non si vuole confondere questo momento in cui Cristo ritorna in ciascuno di noi, personalmente, col momento del ritorno universale del Signore; però sono scintille dello stesso fuoco» [Ivi,, 100].

Infine, è proprio a partire da questa possibilità di accesso personale – nell’intimo – per ciascuno al Signore, che si può anche rendere ragione delle parole esplosive di Paolo, riportate nella seconda lettura: «Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti». Perché se è vero che subito dopo l’apostolo fa riferimento ai diversi ministeri e carismi presenti nella comunità ecclesiale («ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri»), intanto ha messo la bomba, sempre mal digerita dalla gerarchia e praticamente (cioè nella prassi) sempre da essa ben celata, per cui Dio «opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti»! Alla faccia di tutte le nostre gerarchie, istituzionalizzazioni e vocazioni! Come scriveva infatti Giuliano a proposito di Tersa di Gesù bambino: «Teresa cerca come amare il Signore e i fratelli nel modo più totale possibile: questi grandi desideri insaziati le facevano soffrire un vero martirio e cercava nel Vangelo una risposta: "Sento dentro di me la vocazione del guerriero, del prete, dell'apostolo, del dottore del martire... sento il bisogno, il desiderio di compiere per Gesù, tutte le opere più eroiche... Sento nella mia anima tutto il coraggio di un crociato, di uno zuavo pontificio, vorrei morire su di un campo di battaglia per la difesa della Chiesa... Sento in me la vocazione del prete... ma pur desiderando esser prete, ammiro e invidio l'umiltà di S.Francesco e mi sento la vocazione di imitarlo, rifiutando la sublime dignità del sacerdozio" (B 250,251). Anche lei vuole e non vuole: perché vorrebbe tutte le vocazioni insieme ma sono incompossibili. Soprattutto sono storicamente, cioè transitoriamente ineliminabili, necessarie ... ma hanno dentro una divisione. Chi fa il guerriero, fosse pure per amore della Chiesa, uccide; chi fa il prete si divide dal laico, chi fa lo zuavo pontificio mette fuori dalla porta qualcheduno: sono tutte vocazioni necessarie alla nostra storia, ma sono realtà divisorie, cioè inevitabilmente discriminanti - che è una parola terribile, perché ha una radice semantica che suggerisce che di là ci sono i criminali. Ogni vocazione che non sia l'ultima divide, ha dentro di sé un po' di male, un po' di veleno ineliminabile. E' necessario, deve accadere così, ma qualcuno ci deve piangere. Quelli che stanno fuori dalla nostra vocazione, dalla nostra casa, dalle nostre competenze e diritti - normalmente li chiudiamo fuori ... sono esclusi in qualche modo. Non se ne esce. Ecco perché Teresa rinuncia a tutte queste vocazioni: non la soddisfano. Ne cerca una di fondo che non sia divisoria, vivendo la quale non debba escludere nessuno, con la quale non debba scontrarsi con nessuno: una vocazione che riesca a includere tutte le altre e ad eliminarne tendenzialmente quel po' di veleno discriminante che contengono. Non si tratta di un male morale, ma insanguina lo stesso o divide lo stesso. La storia grande - come le nostre piccole storie lasciano sempre dietro di sé scie di sofferenze e di divisioni. Teresa cerca allora l'unica cosa che non divide, l'amore».
E che cos’è l’amore? Comportarsi «con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace»… in modo che fioriscano i segni della fede (nella carne degli uomini): «nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno»… così che l’emorragia di vita data dalla paura dell’orfanità, si trasformi nell’investimento dell’esistenza in una fraternità che tocca la pelle.

martedì 8 maggio 2012

VI Domenica di Pasqua


Perché ci sia uno scatto nella natura e nella portata della nostra fede trinitaria e cristologica, è necessario mettere mano alle forbici e operare una netta semplificazione della nostra vita. Ma dove cercare questa sintesi semplificante? Dice l’apostolo Giovanni: colui che non è nell’amore non conosce Dio. Quindi, se vogliamo fare una revisione della nostra fede battesimale e cristiana, dobbiamo parlare del nostro amore: la sintesi semplificante e fortificante non la possiamo trovare altro che in una considerazione nuova del nostro amore e della nostra carità.





Seguendo l’invito di Dossetti, parliamo allora del nostro amore: è infatti questa, la via per quello scatto della nostra fede che in questi tempi duri sentiamo il bisogno di fare. Le tenebre infatti (individuali, sociali, ecclesiali) si vincono solo sopportando la tensione degli opposti dentro di sé – come diceva Jung nel 1954 durante un dibattito al Club psicologico di Zurigo a proposito di una domanda sul pericolo di una guerra atomica: «Ritengo che dipenda da quanti sono in grado di sopportare la tensione degli opposti dentro di sé. Se quelli in grado di farlo sono in numero sufficiente, penso che la situazione non presenterà fratture e che saremo in grado di evitare innumerevoli pericoli» [in N. Neri, Un’estrema compassione, Mondadori, Milano 1999, 46]. Che è poi la stessa consapevolezza di Etty Hillesum quando scriveva: «L’unica cosa che si può fare è offrirsi umilmente come campo di battaglia. Quei problemi devono pur trovare ospitalità da qualche parte, trovare un luogo in cui possano combattere e placarsi, e noi, poveri piccoli uomini, noi dobbiamo aprir loro il nostro spazio interiore, senza sfuggire»;o ancora: «Quel che conta in definitiva è come si porta, sopporta, e risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima».

Ebbene anche oggi il compito per gli uomini e le donne – a maggior ragione per i cristiani e le cristiane – è quello di custodire la qualità alta della propria caratura umana, all’interno di un mondo che invece sempre più propone la dis-umanizzazione.

Dossetti diceva: è questione di fede; e si chiedeva “Quale fede?”. Per rispondere non poteva che indicare la necessità di parlare dell’amore: è dalla qualità del nostro amore che dipende la qualità della nostra fede (essa infatti non è altro che una relazione) e dunque la qualità della nostra vita.

I testi che la liturgia ci propone per questa Sesta Domenica di Pasqua sembrano venire esattamente incontro al nostro bisogno di soffermarci su questa tematica. È per questo che ci concentreremo in particolare sul ragionamento portato avanti nel vangelo di Giovanni.


Innanzitutto il Signore, nel lungo discorso fatto durante l’ultima cena, chiarisce bene i termini della relazione di fede: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi». Lo sbilanciamento è dunque suo: è lui che per primo ci ha amati, quando proprio di merito non si parlava («Mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi», Rm 5,8; «In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio»). E questo – molto più che una bella frasetta o uno slogan che di volta in volta i vari raduni cattolici ci propinano – ha una portata scaravoltante l’intero impianto su cui spesso è fondata la nostra religiosità: «Il livello assoluto è il solo livello assimilabile per l’uomo, egli è libero ovvero l’uomo è l’unico ente in grado d’arrischiarsi in maniera assoluta. Ma ciò accade poiché (comunque per primo) Dio si esprime in maniera assoluta, la sola misura favorevole per l’uomo. Donandosi fino all’abbandono Dio è chi consegna chiara dis-misura al reale, qualsiasi atteggiamento l’uomo ponga in campo non giunge dunque a misurarlo. […] Rispetto al libero dono divino, l’uomo ne diviene l’erede, egli non può restituirlo, lo traffica, non ne fa alcuna economia, lo dona a sua volta» [S. Ubbiali, Il sacramento cristiano, Cittadella Editrice, Assisi 2008, 69-70].

In questa relazione originata primariamente da Dio, il Signore invita a rimanere: «Rimanete nel mio amore». E immediatamente dice come: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore».

L’estrema logicità del procedimento (la fede-relazione è un dono, in esso bisogna rimanere, per rimanerci bisogna osservare i comandamenti) rischia però di far perdere la qualità vera di quanto Gesù – nelle parole dell’evangelista Giovanni – sta proponendo ai suoi: il pericolo – purtroppo effettivamente percorso dalla pratica ecclesiale – è infatti quello di perdere il contesto autentico di questo ragionamento e di farlo transitare – a mo’ di “copia e incolla” – in un altro ordine di problemi.

La riduzione a cui è andata incontro la proposta di Gesù è infatti quella di essere stata considerata come un comodo libretto di istruzioni per andare in paradiso: le indicazioni di Gesù sono infatti state sottratte dal loro contesto d’origine, dalla portata con cui e per cui lui le diceva, e sono state adottate come risposta a problemi diversi, a problemi altri dai suoi, a problemi originatisi molto più tardi nella storia della chiesa. La nuova e ristretta prospettiva era infatti quella dell’ansia di salvarsi l’anima, non quella della relazione attuale e vivificante col Signore; una necessità di salvarsi l’anima data dall’eccessiva accentuazione della malvagità dell’uomo: rimanere nell’amore di Dio, voleva infatti dire tentare con le opere buone di ingraziarsi quel Dio giustamente adirato con noi per la nostra pochezza, scordando il primato incondizionato del suo amore per noi e la qualità alta dei gesti dell’amore, che non possono mai essere ridotti a strumenti per salvare sé, altrimenti non sono più gesti dell’amore…

Questi ultimi infatti hanno la peculiarità di essere per gli altri: tra l’altro non nel senso estrinseco di fare qualcosa per qualcuno, ma nel senso pregnante dell’essere implicati in quello che si fa, dunque di un mettere in gioco sé in quello che si fa, compromettendosi dunque, impegnandosi in una relazione, in uno sbilanciamento, in un legame, in una congiunzione di destini, in un essere per l’altro più che in un dare qualcosa all’altro…

E ovviamente – come noto – i comandamenti da osservare per rimanere in quell’amore funzionale a salvarsi l’anima erano tutto un elenco di precetti morali, cultuali, folkloristici, perfino superstiziosi…

Ma che i “comandamenti da osservare” non fossero quelli è abbastanza evidente dai versetti successivi:

- Innanzitutto il riferimento alla pienezza della gioia («Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena»), pressoché sconosciuta ai cattolici pre-conciliari e di cui invece Dossetti scriveva: «Il Cristo risorto ci appare talvolta da un punto di vista umano, per una piega non ben chiarita del nostro animo, del nostro intelletto, come un essere evanescente che non ha più i sentimenti. […] Il Signore risorto – invece –, sì, è glorioso, è potente, è libero, è sovrano, è dominatore del mondo, delle anime e della storia, è il giudice che viene, ma è soprattutto un essere infinitamente felice. […] E questa gioia ce la vuole comunicare, questa gioia paradisiaca che sta nella compenetrazione piena, nella corrispondenza totale dell’amore del Padre e del Figlio e che si esprime finalmente in un amore completamente efficace per i suoi. […] Il Cristo, che è alla destra del Padre e che è completamente nella visione beatifica, del Padre, vuole, per amore, che noi raggiungiamo la pienezza di questa gioia: questo è il Risorto! » [G. Dossetti, Omelie del tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 242-243].

- In secondo luogo la precisazione: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi». Il discrimine cioè non è posto sull’adempimento di qualche norma o sull’assolvimento di qualche dovere, ma molto più radicalmente su un orizzonte di senso che investe la vita, il modo di stare al mondo, il modo di guardare a sé, agli altri, alle scelte…

È su questo che va valutata la qualità del nostro amore, e dunque della nostra fede, e dunque della nostra capacità di sopportare in noi la tensione degli opposti, e dunque di offrirci come campo di battaglia in cui i problemi possano trovare ospitalità, combattere e placarsi… È su questo che va valutata la nostra capacità di non sfuggire, di portare, sopportare e risolvere il dolore, mantenendo intatto un pezzetto della nostra anima.

È dalla nostra qualità amante che dipende la caratura umana della nostra identità (non a caso è sull’amore che verremo giudicati…). E l’indicazione di Gesù è chiara… La qualità amante è cristica: è nella sua prospettiva quando sa dare la vita («Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici»).

Un cristiano dovrebbe cioè alzarsi la mattina e avere come unica preoccupazione quella di disporsi in modo tale da essere uno che ama le persone che in quella giornata gli sarà dato di incontrare… che si tratti del marito, dei figli, dei fratelli, del panettiere, del capufficio, ecc… Tutto il resto è coreografia… Non a caso il brano di vangelo perentoriamente si conclude così: «Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

Saremo allora persone con una qualità umana significativa se guarderemo a tutto quanto ci accade intorno con uno sguardo amante – che sa dare la vita.

E questo dilaterà i confini del nostro cuore, perché se impareremo a guardare ad ogni uomo con lo sguardo con cui guardiamo “ai nostri” – e lo potremo fare solo stando in mezzo a loro – faremo nostra l’intuizione illuminante di Pietro, che stando in casa di Cornelio, si accorge che «Dio non fa preferenze di persone».

E così, potremo davvero tentare di seguire quando ci suggerisce l’apostolo Giovanni nella sua Lettera («amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore»), senza che l’amore per tutti scada nell’amare nessuno, ma diventi determinazione a non abbandonare, a non lasciare soli quelli che ci circondano, a dare una carezza a chi non l’ha mai ricevuta… a esserci… facendo spazio, per chi non ha casa… offrendo le nostre braccia, come casa, i nostri petti, le nostre spalle.

Io credo che sia questa la risposta alla domanda che ogni volta che si parla di amore ci sale alle labbra: “Cosa vuol dire amare?”. Io credo sia proprio questo: offrire spazi di sé, perché altri li abitino.

E se qualcuno vuole approfondire qualche tratto che io ho delineato, ma ho lasciato un po’ implicito, qui sotto trova un pezzo della lectio di Giuliano di tre anni fa…

Anch’io sono un uomo come te!  Ma adesso finalmente mi sono accorto che…

            È una delle “scoperte” più importanti e determinanti della genuinità della nuova “fede” a cui sono chiamati i discepoli. La visione che Pietro ha appena avuto (At 10,11ss) del lenzuolo contenente ogni specie di bestie impure… purificate dal Signore, trova sempre (lungo i secoli… fino ad oggi!) una opposizione dura e sorda…che tenta invincibilmente di attenuarne l’esplosività, ridividendo il lenzuolo dell’umanità in zone di maggiore o minor purezza o ortodossia o vicinanza a Dio, secondo i criteri culturali, razziali, religiosi, morali… che impregnano le diverse identità delle persone e dei popoli. Ma tutte queste barriere culturali sono ormai relativizzate dall’irruzione nel cuore della gente – i singoli e i gruppi! ‑  dello Spirito mandato da Gesù! Con due effetti dirompenti. Il primo effetto dello Spirito è l’apertura del cuore dei discepoli alla fraternità universale degli uomini nella loro uguale dignità, secondo le misure sconfinate del cuore del Padre, che annulla ogni discriminazione, compresa quella religiosa o sacrale. Il convertito fa fatica a capirlo, perché vorrebbe ‘sacralizzare’ tutto quanto l’ha effettivamente aiutato a incontrare il Signore. Ma il Signore non si ferma nelle forme sacre attraverso le quali passa storicamente, le quali anzi, se “assolutizzate”, disviano dall’incontro con il Signore, che ci chiama sempre più avanti nel cammino! La seconda è l’altra esperienza di Pietro, che per uscire dalle strettoie insuperabili dalla sua invincibile diffidenza verso i pagani, è stato “spinto” ad andare a casa dell’altro. Non per insegnare o convertire … ma per “capire”, cioè per dilatare il cuore e comprendere sperimentalmente… “Andare a casa dell’altro” (la missione!) è già segno di amore, è smuoversi da casa propria, è portare lo Spirito… Una dinamica interiore essenziale alla maturazione della fede, perché fa scattare la scintilla delle due conversioni che si incontrano: mentre Pietro stava per entrare, Cornelio gli andò incontro. La contemporaneità (mentre ancora parlava… lo Spirito…) vuol esprimere la doppia azione dello Spirito, che non è “portato” da Pietro, ma è da lui riconosciuto, accolto e annunciato, e per così dire garantito, con l’inserimento nell’intreccio ecclesiale attraverso il Battesimo. Ogni missione, dunque, è autenticata dalla retromissione, cioè dal ritorno dello Spirito che, annunciato dal discepolo, innesca sempre nuove sintesi di umanità convertita, nuove esperienze di fede, nuove relazioni di amore, nuove occasioni di speranza. Se queste sono accolte, ri/convertono a loro volta  il discepolo stesso, lo aprono a più ampi orizzonti e lo purificano dalle inevitabili incrostazioni storiche della sua fede di partenza. Senza queste “scoperte” o consapevolezze nuove, che l’ingresso dei pagani nella chiesa ha fatto fare a Pietro, Paolo, Barnaba… e poi alla comunità, il gruppo dei discepoli di Gesù sarebbe forse divenuto una sterile setta giudeocristiana…

Non siamo stati noi ad amare Dio… il primato dell’amore di Dio in ogni storia!

            In questo sta l’amore, dice Giovanni, non siamo stati noi ad amare Dio, ma è stato lui ad amare noi. Perché? Perché il nostro amore è “bisogno”, ben motivato dalla nostra situazione di indigenza radicale…E non può essere subito amore dell’altro, ma è amore di sé! Non mira a far crescere l’altro, ma usa l’altro per accontentare sé! Come troppo spesso le nostre vicende quotidiane di competizione, di prepotenza e relative frustrazioni… ci confermano giorno dopo giorno! Non è questo l’amore di cui parla Gesù! L’amore esemplare, generativo di ogni vero amore, è quello del Padre, che ha mandato il figlio a salvarci, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui, a costo di fargli assorbire su di sé il veleno che ci faceva morireQuesto vuol dire divenire vittima di espiazione per i nostri peccati! Non poteva sopportare che noi ci perdessimo nella nostra miseria… perciò l’ha assunta, vissuta e disinquinata nel lungo tragitto della sua breve vita, da Betlemme, a Nazareth, a Gerusalemme. Questa esperienza umana del figlio, che ha vissuto nella sua vicenda storica in questo mondo il suo rapporto ineguagliabilmente intenso con il Padre, che gli donava la vita, la forza e la fede, ci ha coinvolti in questa sua originale dinamica vitale di amore. Ci ha aperto la strada all’apprendimento (ma è un dono del suo Spirito) di questo alfabeto nuovo dell’amore. All’inizio (e sempre da capo!) balbettiamo, mescolando parole vecchie e parole nuove, sentimenti egocentrici con desideri di gratuità, convinzioni discriminati con la consapevolezza che Dio non fa preferenze di persone: abbiamo i suoi mezzi (Parola – Eucaristia – nel tessuto ecclesiale che è il suo corpo) per imparare ad amarci nella storia, “come lui ci ha amati” ­ cioè con il suo amore, che è lo Spirito. Sono gesti, atteggiamenti, cenni di perdono o consolazione o vicinanza, umili espressioni sempre ricominciate, nelle quali apriamo il cuore alla benevolenza del Padre che passa attraverso di noi, per lo Spirito di Cristo Gesù. È il modo cristiano di “conoscere” vitalmente Dio. Una conoscenza che ha bisogno delle mani, della pelle, degli occhi, della bocca… del cuore, nelle umili faccende quotidiane, dove, imitando questo primato dell’amore divino, ci sbilanciamo ad amare gli altri, senza verifiche e senza misure, senza giudizi e senza ricatti, senza paure di fallimenti o di inutilità, perché anche solo il desiderio o il tentativo… è “generato in noi da Dio” ed ha già tutto il suo compenso dentro di sé!

Non vi chiamo più servi…ma vi ho chiamato amici

            Questa trasformazione radicale del rapporto con Dio, che da servi legati a un padrone (è l’origine della “religione”!) ci ha aperto la strada dell’amicizia con Gesù, è appunto il frutto di questa nuova conoscenza vitale di cui abbiamo ricevuto la forza e il mandato. Questo è il testamento di Gesù. Non è una conoscenza intellettuale, ma esistenziale ed operativa, come un rapporto profondo di amore e dedizione interiore che investe il cuore e dal cuore impregna la testa, le parole i sentimenti e le opere che si fanno. Gesù ha imparato e vissuto nel quotidiano questo riferimento appassionato e totale al Padre, che l’ha travolto e gli ha impregnato di gioia e di pienezza la vita. E ora non ha altro desiderio che comunicarcelo: tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi. Non per essere ringraziato o venerato o ubbidito… ma per amicizia, che è la voglia spontanea del cuore che il tuo amico goda di tutto ciò che tu sei e che hai, a partire dall’esperienza fondamentale della sua vita, il rapporto con il Padre!

martedì 1 maggio 2012

V Domenica di Pasqua




Le letture che la Chiesaci offre in questa Quinta Domenica di Pasqua, sono davvero ricchissime e bellissime.

Siamo ancora all’interno della riflessione sulla risurrezione, che prosegue anche se in modalità nuove. La questione sembra infatti quella della domanda di vita del discepolo: quasi che Gesù in questo stralcio (Gv 15,1-8) del lungo discorso fatto durante l’ultima cena (Gv 13,1-17,26), voglia rispondere all’anelito più vero dell’uomo, quello sul senso del vivere.

E la risposta sembra essere molto perentoria: il segreto per la Vita è rimanere in Lui, proprio al modo in cui il tralcio rimane nella vite. Come infatti un tralcio non può vivere, non può ricevere linfa vitale, senza il restare ben ancorato alla sua pianta, pena il seccare, il non dare frutto e dunque l’essere tagliato e gettato nel fuoco, così l’uomo non può Vivere se non rimane in Lui, dove questo Vivere con la “V” maiuscola indica non solo e non immediatamente la vita eterna (anche!), ma piuttosto una diversa qualità di vita, che vale sia per l’aldiqua che per l’aldilà: una vita cristicamente piena, degna, riuscita, amata…

Il problema diventa allora cosa voglia dire questo “rimanere in Lui”.


Il rischio di queste pregnanti espressioni evangeliche è infatti sempre quello di risultarci vuoto, lontano, di fatto insignificante per la nostra vita quotidiana… E se anche immediatamente ci suscitano qualche emozione, spesso non riusciamo ad andare molto più in là della reazione sentimentale, umorale, superficiale… e perciò stesso, passeggera… mai veramente incidente sulla nostra vita.

La questione è infatti che cosa significhi questo “rimanere in Lui” nella concretezza delle scelte, del decidere delle cose e di noi; nel vortice quotidiano delle mille cose da fare e a cui pensare; nella drammaticità delle nostre relazioni, dei nostri affetti, delle nostre idealità, del nostro corpo, delle nostre inconsistenze…

Purtroppo su questo intreccio tra la relazione col Signore e il resto della vita, su questo impregnamento degli interstizi storici con la sua Parola, è necessario ancora soffermarsi… Proveniamo infatti da decenni (anteriori al Concilio Vaticano II) segnati da una predicazione che spesso – forse inconsciamente – riproduceva uno schema dualistico della realtà: c’era la vita “profana” – da una parte – e “le cose che riguardano Dio” – dall’altra; e l’unico legame diventava il timore che “le cose di Dio” avessero un impatto negativo sull’altra vita, quella normale, quella di tutti i giorni, quella profana, che la gente avvertiva come “più sua”: l’altra è “roba dei preti”. Tant’è vero che ancora oggi nel leggere il brano del vangelo di Giovanni proposto dalla liturgia, immediatamente certe espressioni ci rimandano a quello stesso orizzonte di senso peccaminoso-infernale: il rimanere in Gesù infatti sembrava più dovuto alla paura di fare la fine del tralcio che si secca e non produce frutto (che immediatamente noi associamo a colui che vive una vita immorale) e dunque viene tagliato e bruciato (cioè va all’inferno). In realtà, se si osserva da vicino il discorso, si vede con chiarezza come Gesù non vada per niente in questa direzione; e non è necessario essere esegeti per accorgersene: se infatti – anche solo ad un puro sguardo grammaticale – si leggono queste frasi senza pre-comprensioni, si evince in modo inequivocabile la positività del messaggio del Signore, il suo tentativo di infondere adesione, speranza, incoraggiamento (altro che minaccia, paura, ritorsione…).

Ma perché fare questa digressione sul passato e non andare dritti alla risposta alla domanda: Cosa significa “rimanere in Lui”? Perché forse la nostra forma mentis (nostra sia in senso personale che ecclesiale) è ancora troppo pre-conciliare…

Da un lato infatti questo emerge – come detto – dal fatto che anche a noi viene subito in mente la lettura peccaminoso-infernale descritta sopra (“rimanere in Lui” vuol dire non far la fine del tralcio che si secca); dall’altro, perché, ad un’osservazione più approfondita, questa lettura immediata ci giunge alla mente perché la sua radice errata (il dualismo) non è ancora stata pienamente estirpata, nonostante il Concilio sia iniziato 50 anni fa!



Questa radice consiste sostanzialmente in una confusione: Gesù aveva detto «Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me» – aveva cioè focalizzato l’attenzione sulla nostra relazione personale con Lui e sull’impossibilità per l’uomo di un’auto-fondazione di se stesso; aveva cioè dato connotazione estremamente positiva al “rimanere in Lui” (“Rimanere in lui” infatti significava entrare in quella relazione che fonda una vita bella, una vita pensata come unitaria, come impregnata e sostenuta per intero da quella relazione!) –, noi invece il discrimine lo abbiamo posto ad un altro livello, che è quello morale. A noi infatti viene immediatamente in mente che il tralcio che non porta frutti e che si secca è l’uomo dal comportamento etico riprovevole, è quello che fa i peccati, è quello che non rispetta i precetti (per dirla col linguaggio degli anziani) o è quello che è interessato ad altro o non è interessato a niente, che non viene mai alle proposte della parrocchia, che non si fa coinvolgere (per dirla col linguaggio dei nuovi pretoriani del vangelo). “Rimanere in Lui” perciò assume la connotazione negativa di cercare di scampare l’inferno, accettando qualche sacrificio, sempre con il solito vecchio meccanismo per cui il male (che senza alcun rispetto per la nostra personale titolarità morale, associamo acriticamente a ciò che “altri” dicono essere male) sarebbe migliore, ma ci asteniamo dal farlo per evitare conseguenze nefaste (terrene o eterne) e sempre con la solita prospettiva dualistica: Dio non c’entra con la mia vita, semplicemente la dovrà giudicare, per cui nel “mondo del sacro” adempio i precetti che lo rabboniscono (precetti magari totalmente estrinseci rispetto al mio modo di essere) e nel profano cerco di evitare di scatenare le sue ire…

Anche l’educazione cristiana va in questo senso: andare a messa, dire le preghiere, confessarsi almeno una volta ogni tanto, non avere comportamenti morali (in particolare sessuali) riprovevoli, ecc… Questo fa un buon cristiano… Ovviamente non sono cose sbagliate… Ma bisogna stare attenti: proposte in questo modo rischiano infatti di rimanere alla superficie della nostra identità (quando mai arriveremo invece a decidere insieme a Dio, l’intonazione migliore da dare al “Ti amo” che vorremmo sussurrare all’orecchio di qualcuno?). e che si rimanga alla superficie, lo si vede benissimo se si pone la questione al rovescio, cioè se ci si chiede se le cose elencate qui sopra bastino a fare di un uomo un “buon cristiano” (come diceva don Bosco). E io credo che la risposta inconscia di molti purtroppo sia “Sì”, mentre Gesù contro chi ragionava in questi termini ha scagliato parole di fuoco: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini» (Mc 7,6-8).

Perché il comandamento di Dio – come ci ricorda sempre Giovanni nella sua I lettera – non era un’adesione a un codice etico o a una precettistica cultuale – per salvarsi la vita –, bensì: «Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri».

Il discorso – è bene chiarirlo – non vuole andare nel senso di un discredito di una correttezza morale o di una legittima scrupolosità cultuale: piuttosto ciò che si vuole ribadire è la loro non decisività. Sono cose importanti, ma non sono il nocciolo incandescente della fede cristiana. Questo è il punto: “rimanere in Lui” è ben più che garantire un’irreprensibilità morale o rispettare le norme liturgiche della propria comunità religiosa. “Rimanere in Lui” è l’entrare in relazione con Lui, il decider-si per Lui, il coltivare un intreccio di libertà che impregna ogni tempo della vita. Questo vuol dire credere «nel nome del Figlio suo Gesù Cristo»: riconoscere cioè l’impossibilità per l’uomo di fondare se stesso (e questa è un’evidenza della storia, prima ancora che un dato di fede: nessuno sceglie di nascere; tutti hanno bisogno di qualcuno per crescere e più radicalmente per vivere; nessuno può salvarsi la vita dalla morte) – «Come il tralcio non può portare frutto da se stesso, così neanche voi» – e dare credito all’affidabilità del fondarsi in Gesù – «senza di me non potete far nulla».

È questo ritenere credibile il fondare la vita su di Lui che apre ad un entrare in relazione con Lui: è perché in Lui – cioè nella storia di Gesù – intuiamo la promessa di Vita, che lo scegliamo come Signore della nostra vita. “Rimanere in Lui” è dunque godere della sua compagnia. E se dietro a questo “Lui” siamo capaci di non immaginarci un Signor Nessuno, imprevedibile e pericoloso per i poteri che ha, ma di riconoscere il volto di Gesù che la sua storia lascia intravedere, il “rimanere in Lui” non può che essere liberante.

Ecco perché Giovanni si azzarda addirittura a dire che «se il nostro cuore non ci rimprovera nulla», allora vuol dire che «abbiamo fiducia in Dio»; che è una frase potentissima, che scardina dal di dentro tutta una morale fondata sui sensi di colpa… Se qualcuno infatti venisse a dirci che il suo cuore non gli rimprovera nulla, noi certamente penseremmo che è un superficiale, o uno che ha abbassato o azzerato le soglie della consapevolezza di sé… E chissà perché non ci verrebbe in mente invece di trovarci di fronte a qualcuno che ha avuto così tanto coraggio da dar credito davvero al Signore, da entrare fattivamente in un rapporto con Lui, in un “rimanere” che gli alimenta la Vita e lo libera dalla paura della morte e dunque del peccato…

Il fatto è che le logiche sono diverse: come prima diversi erano i piani del discorso. Gesù ha sempre parlato al livello profondo del senso delle cose, della verità dell’esistenza, della salvabilità dell’identità di ciascuno attraverso l’amore, della possibilità per tutti di essere sé di fronte a Lui, dunque di essere tenuti, voluti, amati, salvati… La nostra ricezione invece rischia sempre di scivolare a delle applicazioni pratiche (Cosa devo fare? Andare a messa, andare a confessarmi, non toccare, non toccarsi, non farsi toccare, ecc…) che perdono il senso delle cose, la freschezza di una relazione, la straordinarietà del parlare a tu per tu con Dio, la gioia vera del vivere secondo il vangelo, di amare i fratelli…

Forse perché ultimamente sappiamo, come si vede dalla I lettura, che chi con coraggio ci prova a introdursi in questa relazione, poi – per amore – rischia sempre di fare una brutta fine: Paolo, da quando incontra il Signore, continua a essere oggetto di desideri omicidi e infatti scappa prima da Damasco con la cesta, poi da Gerusalemme per aiuto dei fratelli…
Ma la paura di perdere la vita non si placa con un goffo tentativo di pagare a Dio la nostra vita eterna… essa perde la sua ragione di esistere quando si entra in relazione autentica col Dio-Amore di cui ci si fida!
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