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martedì 28 febbraio 2012

II Domenica di Quaresima

Dedicata al mio papà,
che mi ha fatto amare le montagne.


Campanile basso, Via delle Bocchette, Dolomiti di Brenta.


Due figli – due padri – due monti… Chissà cos’è successo davvero lassù?
A noi è giunta l’eco di un testo scritto, memoria del racconto di chi c’era, narrato chissà quante volte prima di trovare la formulazione che conosciamo…
Ecco il mistero della Parola di Dio… l’attestazione scritta di una storia, di cui si perdono i confini precisi, quelli così cari alla nostra contemporanea mentalità occidentale e che invece lì si sfumano e si perdono, per concentrarsi altrove.
Quanti silenzi che vorremmo riempire (Cos’ha pensato Abramo? Cos’ha pensato Isacco? Cosa vuol dire “trasfigurarsi”?) e che invece restano tali e chiedono di non essere riempiti.
Ma allora “Cos’è successo davvero su questi monti?” non è forse la domanda più corretta da porsi… Perché la storia è lì, è narrata, è quella, non c’è da aggiungere o togliere niente. Non c’è molto da capire – nella sua linearità: Dio chiede ad Abramo di sacrificare il figlio della (sua) promessa, Isacco; Abramo obbedisce, si appresta al sacrificio, ma viene fermato da Dio; Gesù sale su un monte alto con Pietro, Giacomo e Giovanni; viene trasfigurato; ad un certo punto appaiono Elia e Mosè che conversano con lui, i discepoli si spaventano; Pietro dice la faccenda delle tende perché non sa cosa dire, poi viene una nube e una voce dalla nube «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!»; poi, improvvisamente, non si vede più nessuno, se non Gesù solo coi tre discepoli.
Le storie sono queste – e al di là di qualche particolare che magari ogni tanto ci sfugge – le conosciamo da sempre. Chi le ha scritte ha pensato che questo fosse il modo migliore per tramandarle alle generazioni future, perché comprendessero. E non è stata un’operazione arraffazzonata, sbrigativamente condotta da chi andava di fretta: c’hanno messo 1000 anni a scrivere la Bibbia!
Eppure, la linearità di queste storie non ci lascia in pace. Ad ogni passo, sorgono in noi interrogativi, riluttanze, perplessità.
Cosa vogliono dirci, cosa possono dirci queste storie, su Dio, sull’uomo, sulla nostra vita?
Innanzitutto una cosa – banale forse, ma indicativa: che le cose importanti avvengono sempre sui monti!
Tutte le cose più importanti della Storia della Salvezza infatti succedono in montagna (Ararat, Sinai, Tabor, Calvario… per citare solo i più importanti)…
E anche nelle nostre due storie di questa II Domenica di Quaresima è così…
E forse anche nelle storie della nostra vita: i nostri “monti”, quelle vette (della terra o del cuore) dove ci siamo trovati qualche volta, soli con qualcuno a scavarci reciprocamente l’anima, a segnare svolte senza ritorno, a determinare il nostro essere…
A volte anche con Qualcuno o alla Sua presenza.
E però – contemporaneamente – questi sono tutti monti dai quali bisogna sempre scendere.
Mai il monte è la meta ultima.
Ciò che succede sul monte, qualunque cosa sia (vedere il volto trasfigurato del tuo Amico o la mano di tuo padre che si alza contro di te), diventa vero a valle; altrimenti è un’illusione, una magia, un gesto di autoerotismo spirituale.
Ma è vero anche il contrario… è ciò che succede a valle che ti porta sul monte; è ciò che succede a valle che prepara ciò che sarà sul monte.
Abramo e Isacco sul monte fanno esperienza di una nuova relazione tra loro e con Dio; addirittura l’esperienza di un nuovo volto di Dio. Escono cambiati, come figli, come padri, come uomini, da questa esperienza… Scendono cambiati da questo monte!
E però – contemporaneamente – è per tutto quello che era successo a valle (per tutto quello che era successo prima e per come si erano determinati prima, cioè per come avevano deciso di sé prima) che arrivano fin su quel monte che cambia la loro vita; che fa sì che la loro vita non sia più quella di prima, che loro non siano più quelli di prima! Senza ritorno, ma non senza futuro.
Nella vita infatti ogni nuovo monte ci modifica senza ritorno, ma non chiude mai i giochi sulla costruzione della nostra identità.
Così è per Gesù, che sale sul monte non innanzitutto e primariamente per mostrarsi ai suoi… Cioè non per far vivere ad altri un’esperienza. Ma innanzitutto e primariamente per viverla lui. È lui per primo che vive la trasfigurazione, che fa/patisce quell’esperienza, conversando con i profeti e la Legge (caratteristica inversione marciana: Matteo e Luca dicono: “Mosè e Elia”; Marco: “Elia e Mosè”) e ascoltando la voce di suo Padre che di lui dice «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!».
È lui per primo che scende “cambiato” dal monte, segnato senza ritorno dallo stare a scavarsi l’anima con Dio, la sua Parola, i suoi fratelli.
Ma anche per lui vale il contrario: arriva lassù e vive quell’esperienza lì, solo perché essa si è intessuta nella quotidianità della valle. Ed è vera, solo perché poi scenderà dal quel monte e tornerà a valle “tra le gente che cerca e dispera”…

Il monte è così…
è come un parto…
che ha tutta una storia che lo precede…
una storia recente, fatta di scelte, attese, travagli del corpo e dello spirito…
e una storia remota, che affonda le radici in quella bimba, ragazza, donna, che lei è stata prima di essere mia madre… e in quel bimbo, ragazzo, uomo, che lui è stato prima di essere mio padre…
            e che ha un futuro…
un futuro recente, fatto di novità, gioia, preoccupazioni per il piccolo nuovo che abbiamo in mano…
                        e un futuro remoto, che chissà cosa sarà di lui, da ragazzo, da uomo, da padre...

E così nella circolarità tra monti e valli, tra parti e travagli pre e post partum, si scrive la nostra vita, come si è scritta quella di Abramo, come si è scritta quella di Gesù.
La domanda vera, allora, di fronte a queste loro storie è “Chi sono stati?” e “Chi vogliamo essere noi?”.



martedì 21 febbraio 2012

I Domenica di Quaresima: Le tentazioni nel deserto

Eccoci giunti all’inizio di una nuova Quaresima, di un nuovo tempo di preparazione per una nuova Pasqua di Risurrezione.

Il vangelo che la Chiesa ci propone per iniziare questo itinerario è quello delle tentazioni nel deserto… nella versione (stringatissima!) di Marco, il quale a differenza di Matteo e Luca non esplicita nemmeno quali siano state queste “tentazioni”, limitandosi a dire: «Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana».

È dunque solo leggendo il vangelo fino alla fine che si può scoprire cosa abbia inteso – qui all’inizio – l’evangelista per “tentato da Satana”… e arrivare a intuire che la tentazione per Gesù, come per ciascun uomo, è sempre una tentazione sull’identità.

È questo il punto su cui vorrei soffermarmi quest’oggi: la tentazione non è mai la tentazione riguardo a una cosa o a qualcosa… ma è sempre la tentazione sulla propria identità.






Il problema non è cioè immediatamente morale, ma sostanziale. In gioco, cioè, non vi è tanto la domanda su cosa è bene e cosa è male in astratto, ma sul chi sono io, sul chi divento facendo o non facendo una determinata cosa, pensando o non pensando così, reagendo così, parlando così, atteggiandomi così… fin dentro alle cose più quotidiane e immediate della vita: cosa dice di me il fatto che mi vesta così? Cosa dice di me il fatto che bacio così? Cosa dice di me il mio modo di stare a tavola? Il mio modo di salutare il giornalaio? Cosa dice di me la sensazione che provo di fronte alla morte? Di fronte a qualcuno che sta male? O di fronte a una coppia di innamorati? Ecc… ecc… ecc…

Ecco – io credo – la tentazione si attesti qui, a questo livello… è una tentazione identitaria.

È questa che ha patito Gesù per tutta la sua vita – proprio come ciascuno di noi. E in questo senso è interessante la scelta di Marco di non esplicitare le tentazioni nel deserto, perché ci costringe a mantenere salda la consapevolezza che la questione non è relegata e relegabile a un episodio di quaranta giorni, chiuso e risolto.

I quaranta giorni sono come la concentrazione in un tempo simbolico (i 40 giorni del diluvio, i 40 anni di Israele nel deserto, ecc…) di un’esperienza che è esperienza di tutta la vita: tutta la vita la questione è “Chi sono io? Chi sto diventando? Che uomo/donna sono? Che padre/madre sono? Che figlio/figlia sono? Che fratello/sorella, amico/amica, compagno/compagna sono?”.

Tutta la vita… Sia nel senso di “per tutta la vita, cioè fino alla morte”, sia nel senso di “per tutta la vita, cioè per ogni attimo della vita”.

Fino alla fine, ad ogni istante, in gioco c’è sempre il come mi sto determinando, il chi sto decidendo di essere, il chi sto diventando agendo così.

E questo – certo – è interessante sul nostro versante e credo sia sempre più necessario tornare a pensarci e trovare spazi di tempo per “guardarci dentro”, ma è altrettanto interessante pensato in riferimento a Gesù: anche lui è quell’uomo che ha deciso di sé, ha deciso chi essere, nelle piccole determinazioni (di pensiero, parola, gestualità, reazione emotiva, ecc…) quotidiane.

È qui che anche per lui si è attestata la tentazione identitaria: Chi sono? Chi devo essere?

È qui che ha scelto di essere uomo (e Dio) così.

Guardando allora con un po’ più di attenzione alla sua esperienza (che può e deve diventare matrice per la nostra), possiamo immediatamente scoprirne una caratteristica: la questione identitaria in Gesù e la sua relativa tentazione è sempre legata indisgiungibilmente ad un’altra identità e ad un’altra tentazione … che è quella del volto Dio.

Leggendo i vangeli ci si accorge infatti che la grande battaglia identitaria di Gesù si è condensata nella battaglia tra il volto di un Dio che è Padre e quello di un dio che è altro (tutt’altro… tanto di lui è stato detto – di tutto, appunto).

Il problema sta tutto qua… Sul come si risolve la questione di Dio… Questo ci identifica, dice cioè la nostra identità…

E parimenti, guardando alla nostra identità, si capisce o almeno si intuisce in che Dio crediamo.

È questo il senso di “Gesù definitiva rivelazione del Padre”: quella sua vita lì, la sua vita così, è coincisa con il vero volto del Padre. Ha creduto nel volto vero del Padre e quindi la sua storia – che mostrava in ogni singolo gesto la sua idea e fede in quel volto di Dio – è la piena rivelazione di quel volto!

Ecco perché per lui la tentazione è sempre e contemporaneamente antropo-teologica. È sempre sulla propria vita di uomo e sull’idea di volto di Dio che ha in testa (e in cuore). Perché sono come due poli indivisibili e inter-determinantisi: se penso Dio così, non posso che vivere così; se vivo così, non può che essere perché penso a Dio così!

E non c’è scampo. È così per Gesù – in maniera eminentemente riuscita (cioè lui è riuscito a far coincidere sempre vita e vero volto di Dio) – ma è così per tutti gli uomini. Per tutti! Anche per quelli che non credono in nessun dio.

Perché anche scegliere di non credere a Dio è una determinazione che mi determina, appunto. Cioè indisgiungibile dalla risposta che dò alla domanda “Chi sono io?”. “Se Dio non c’è, io sono… ecc… ecc… ecc…”; “Se Dio c’è, io sono…”; “Se Dio è così, allora io…”.

Il punto è che troppo spesso noi non sappiamo rispondere alla domanda “Chi è Dio?” e dunque lasciamo inevasa la domanda “Chi sono io?”. Dove “inevasa” vuol dire che non diamo una risposta, lasciando che sia il caso, la spontaneità del momento, l’istintualità a determinarci, a decidere chi siamo e a rivelare contemporaneamente che – appunto – non sappiamo (o non ci importa di sapere) chi è Dio.

O peggio pensiamo di saper rispondere alla domanda “Chi è Dio?” (magari dando sbrigative risposte preconfezionate imparate al catechismo chissà quanti anni fa…), ma la nostra vita non assomiglia minimamente agli “stessi sentimenti di Gesù”… facendo sorgere in chi ci vede vivere la domanda “Ma in quale dio credi??”.

Certo, poi la casistica può moltiplicarsi, ma ciò su cui io vorrei concentrare l’attenzione è il fatto che tutto ciò che faccio dice chi sono e contemporaneamente dice come penso Dio e viceversa tutto ciò che penso e credo su me e su Dio è vero solo se si esplicita in quotidianità. Altrimenti sono solo mere speculazioni o pii desideri.

Ma una volta accolta in cuore questa indivisibile circolarità tra la scelta della mia identità e la scelta dell’identità di Dio, la questione diventa qual è il volto di Dio che merita il mio credito. Cioè, se è così legato il “Chi sono io?” al “Chi è Dio?”, la domanda “Chi è Dio?” non può più rimanere inevasa o risolta sbrigativamente con due definizioni del catechismo.

C’è dunque da studiare, da indagare, da lasciarsi incontrare… da valutare e da decidere…

E questo vale per tutti…

Ma per un cristiano, in particolare, tutto questo vuol dire dare credito (e trovare le ragioni fondate per farlo!) al volto di Dio che Gesù ha rivelato. A quel Gesù che alla tentazione di tutta la vita sulla propria identità e sull’identità di Dio ha risposto – non solo a parole, ma con la vita – che Dio è Papà che ama i suoi figli e allora io posso vivere da affidato… anzi posso anche morire affidandomi… posso anche morire solo e maledetto (senza maledire nessuno, che se no la gente poi penserebbe che Dio è un Papà che vuole bene solo a chi fa il bene)… posso anche essere l’unico che ha colto e che custodisce questa verità e pur di non rinnegarla posso anche stare su una croce… perché tanto è lui che tiene la mia verità, la verità della mia identità, non lo sguardo di chi passando mi giudica maledetto da Dio.

E allora il “proposito” per questo tempo simbolico che è la Quaresima, potrebbe davvero essere quello di rimeditare la correlazione tra mia identità e l’identità di Dio e tra identità pensata, voluta, creduta e identità vissuta… nelle pieghe quotidiane di un’esistenza… che pare scorrerci via, come sabbia tra le dita, ma che ha la potenza di dire a tutti chi è Dio chi voglio essere io.

martedì 14 febbraio 2012

VII Domenica del Tempo Ordinario

In questa Settima Domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa ci invita a proseguire la lettura del vangelo di Marco.
Subito dopo la guarigione del lebbroso (Mc 1,40-45), di cui abbiamo letto settimana scorsa, inizia una nuova sezione (Mc 2,1-3,6), in cui l’evangelista raggruppa una prima serie di cinque controversie: la prima coincide con quella del brano di vangelo proposto dalla liturgia di questa domenica (Mc 2,1-12) ed ha come tema la possibilità di Gesù di rimettere i peccati; la seconda riguarda la sua abitudine di mangiare con i peccatori (Mc 2,13-17); la terza, il digiuno (Mc 2,18-22); la quarta e la quinta, il sabato (Mc 2,23-28 e Mc 3,1-6).

«I cinque conflitti sono ordinati secondo una struttura letteraria che non sembra casuale. Passando dall’uno all’altro si assiste a una opposizione crescente (dapprima una reazione interiore, poi una reazione che si fa più esplicita, infine la decisione di uccidere Gesù). Così la serie delle controversie termina con il ricordo della croce. Paradossalmente, sembra di scorgere – man mano che l’opposizione cresce – che il motivo dell’opposizione al contrario si affievolisca: la reazione nasce dalla pretesa da parte di Gesù di perdonare i peccati (un privilegio di Dio) e termina con una disputa sul sabato (in fondo una questione dibattuta fra i dottori della legge). Il fatto è che Marco non è tanto interessato ai singoli motivi del conflitto, bensì a qualcosa che sta oltre, più a fondo: il Cristo è rifiutato al di là dei precisi pretesti che l’uomo sa scovare. Dunque, prendendo a pretesto alcuni casi particolari, Marco intende, da una parte rivelare le resistenze dell’uomo (non solo del fariseo, ma dell’uomo di ogni tempo) [1] e, dall’altra, rivelarci la pretesa messianica di Gesù, pretesa unica, che è la vera ragione del rifiuto [2]» [B. Maggioni, il racconto di Marco].

Già questi primi elementi ci obbligano a soffermarci a fare qualche riflessione.

[1] Innanzitutto una “psicologia ante litteram” su come “funziona” l’animo umano in una situazione di conflitto: l’opposizione ha una parabola che va crescendo; diventa sempre più pretestuosa; si “auto-fomenta” attaccandosi ad aspetti oggettivamente secondari se non addirittura irrilevanti; diventa omicida.

È innegabile che l’evoluzione che le cinque controversie di Mc 2,1-3,6 descrivono, riesca a cogliere un aspetto dell’animo umano, un suo modo di agire, che è presente ancora oggi; così tanto, da far concludere che siamo di fronte ad una struttura di sempre della conformazione umana, che è la seguente: l’uomo continuamente cerca ragioni per darsi ragione e quando trova qualcosa o qualcuno che è di ostacolo al consenso che si è costruito, al senso che ha dato alle cose, al mondo, alla vita, istintivamente diventa omicida. La sua reazione è cioè quella di “rimuovere” l’ostacolo: mettendolo in discussione, screditandolo, eliminandolo.

Questo avviene nel macrosistema (è ciò che è accaduto a Gesù, che – guarda caso – morirà proprio in nome della prima obiezione che gli viene mossa: «Si è fatto Dio»; un’obiezione che ha fatto strada! prima insinuatasi nei cuori; poi esplicitandosi a bassa voce, nelle mormorazioni di pochi; poi sempre più fomentandosi, fino ad essere urlata in tribunale e diventare causa di morte)…

Ma è anche ciò che avviene nel microsistema che è la nostra vita, dove continuamente abbiamo bisogno di dire “io”, prevaricando sugli altri… E per farlo studiamo tutti i metodi possibili immaginabili, da quelli più sofisticati e difficili da individuare; a quelli più maldestri e ingenui… che menomale che ci sono, perché ci permettono di imparare la struttura di fondo di questi meccanismi, che è uguale per tutti, dai più sempliciotti e subito smascherati a quelli più subdoli e nascosti.

Ma tutti – tutti! – siamo dentro a questo meccanismo. A volte – quando conviene al nostro “io” – il marchingegno della prevaricazione (non solo economica o predatoria; ma anche di stima e accettazione da parte degli altri; di lotta per il primo posto… che sia nella carriera o nel cuore di un uomo, ecc…) agisce attraverso la conformazione al parere predominante (e quante ragioni la nostra ragione ha cercato e cerca per difendere posizioni di questo genere); altre volte – per converso – il marchingegno dell’autoaffermazione agisce attraverso la non-conformazione, l’assunzione di posizioni volutamente non condivise dai più, il fare il “Bastian contrario”.

Quante volte nelle varie vicende (grandi e piccole della vita) abbiamo corso il rischio di agire così: di prendere una posizione, di fare una scelta, di determinarci in un certo senso perché condizionati dal bisogno di accettazione o di auto-affermazione (che sono le due facce della stessa medaglia) e poi continuamente rimuginare in cuore la ricerca delle mie ragioni… e poi nelle mormorazioni dei piccoli gruppi fomentarsi a vicenda nelle nostre ragioni… fino ad arrivare ad urlarle in faccia all’“oppositore”, che ormai è guardato come un nemico… e in quanto tale da eliminare… Perché poi le ragioni iniziano sempre ad essere circostanziali e poi arrivano sempre a tirare in ballo i massimi sistemi…

Ecco siamo così. E a Gesù è capitato proprio così: preso in mezzo a queste nostre dinamiche eternamente ferite dal bisogno di “contare qualcosa”, di prevaricare su qualcuno, di emergere, di dire “io”, di essere più importanti, più amati, più benvoluti degli altri.

I farisei siamo noi…

Proviamo a guardarli e vediamo se non ci riconosciamo: individuano in Gesù, in ciò che fa e dice, qualcosa che rompe il loro schema, il loro orizzonte di senso, il modo in cui collocavano le varie vicende della vita (Dio solo può perdonare… Se uno è malato è perché è colpevole… Coi peccatori non si deve avere a che fare… ecc… ecc… ecc…). Prendono dunque posizione, gli si oppongono: si accorgono che è uno bravino e che quindi potrebbe effettivamente mettere in discussione il loro primato, il loro primeggiare, il loro prevaricare, nell’ambito religioso… che allora voleva dire anche sociale, politico ed economico… e gli si oppongono…

Ma non fanno qualcosa di molto diverso dalle folle che invece si “alleano” a Gesù: anch’esse hanno di mira il “contare qualcosa”… e si alleano al più forte, a chi in quel momento pare vincente (infatti poi spariranno tutte!). Queste però sono meno sofisticate: finiti i benefici, finiscono le osannazioni.

Quegli altri invece sono più sotterranei… elaborano una strategia espulsiva (omicida) nei confronti di Gesù – dell’ostacolo alla loro buona riuscita – più complessa…

«Alcuni scribi pensavano in cuor loro: “Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può perdonare i peccati se non Dio solo?”»; «Gli scribi e i farisei, vedendolo mangiare con i peccatori e i pubblicani, dicevano ai suoi discepoli: “Perché mangia e beve insieme ai pubblicani e ai peccatori?”»; «I discepoli di Giovanni e i farisei vennero da lui e gli dissero: “Perché i tuoi discepoli non digiunano?”»; «I farisei gli dicevano: “Guarda! Perché i tuoi discepoli fanno in giorno di sabato quello che non è lecito?”»; «Essi tacevano, uscirono subito i farisei con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire».

Ecco… questa prima serie di considerazioni credo possa già portarci a pensare e a ri-pensare il nostro modo di porci nella vita… ri-pensare al nostro modo di fare le scelte, ai meccanismi che attuiamo (magari del tutto inconsapevolmente – perché sono istintivi, infatti hanno a che fare con il nostro istinto di sopravvivenza nel branco… e lo siamo ancora tantissimo – un branco – e stiamo tornando ad esserlo sempre di più!), al perché siamo di questa idea e non di un’altra, al perché quella relazione con quella persona si è interrotta, non si è approfondita, non mi è più interessata… Non sarà forse perché la nostra ragione ha solo cercato ragioni per darsi ragione?

[2] Ma come uscirne? Come ha fatto Gesù? Come si è posto lui nella vita?

Ha detto la verità e non l’ha difesa: «Figlio ti sono perdonati i tuoi peccati», «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori», «Nessuno versa vino nuovo in otri vecchi… ma vino nuovo in otri nuove», «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!»…

La sua verità infatti era che Dio è Padre, è cioè colui che ama, e per il quale è più importante – di tutto! – l’altro, l’uomo («Tu mi hai dato molestia con i peccati, mi hai stancato con le tue iniquità. Io, io cancello i tuoi misfatti per amore di me stesso, e non ricordo più i tuoi peccati» dice Isaia nella prima lettura, cioè – specifica Paolo nella seconda – in Dio per l’uomo c’è solo un sì!) e questa era una verità indifendibile, perché difenderla voleva dire “armarsi contro l’altro” che la pensava diversamente… Ma “armarsi contro l’altro” contraddiceva la sua verità che era “sei più importante te di me, non alzerò mai la mano contro di te”. E infatti Gesù non usa mai la sua potenza miracolosa contro l’uomo (mai!); la usa sempre e solo per fare il bene all’uomo, per liberarlo dal male… in coerenza alla sua verità (sei più importante te di me!). Non la usa nemmeno per difendere le sue posizioni: mai quando gli chiedono un segno che attesti la sua veridicità lui agisce; sempre si sottrae, fino alla fine, quando non scenderà dalla croce, nonostante tutti gli dicessero «Scendi e ti crederemo».




 

 
Sabrina Taddei, acquarello su cartone.


Gesù dunque rompe dal di dentro questo meccanismo umano, lo fa implodere… rimanendo sempre fedele (a costo di morire!) alla sua indifendibile verità, che era una faccia, la faccia di Dio che gli uomini avevano così tanto deturpato e infangato da fargli dire e fare tutto e il contrario di tutto… rendendolo a loro immagine e somiglianza!

Ebbene, pare dirci Marco, il cammino del discepolato passa da qui.

Per questo è così difficile e contemporaneamente così tradito nella storia dell’umanità. Perché “avere gli stessi sentimenti di Cristo” vuol dire arrivare a rompere in noi questo meccanismo, che è strutturale e ancestrale: quello dell’istinto di sopravvivenza, cioè della prevaricazione, dell’approvazione del gruppo… meccanismo un tempo reso visibile nella lotta all’interno del branco per il più forte, oggi mascherato attraverso la ricerca della ragione di ragioni per darsi ragione.

“Avere gli stessi sentimenti di Cristo” vuol dire allora saper dire la Verità (cioè prima essersi fatti da essa incontrare e innamorare) e poi non difenderla, non difendersi, perché se la difendi la tradisci…
Noi forse – inguaribili idealisti – siamo pronti in momenti particolarmente entusiasti a promettere che “Daremo la vita per te” (come Pietro), ma poi non riusciamo a vincerci nemmeno un pochino nella quotidianità… Credo che da lì si debba partire, perché è evangelizzando i pezzettini, che poi si diventa capaci di vivere il vangelo in grande.

giovedì 9 febbraio 2012

dePILiamoci

Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell'ammassare senza fine beni terreni.
Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell'indice Dow-Jpnes, nè i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo.

Il PIL comprende anche l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.
Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro dibattere o l'onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell'equità nei rapporti fra di noi.
Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.
Può dirci tutto sull'America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani.

Quando e da chi è stato fatto questo attualissimo discorso? Cliccare qui per scoprirlo e da cui (grazie a un amico) l'ho copiato.

martedì 7 febbraio 2012

VI Domenica del Tempo Ordinario




In questa Sesta Domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa ci propone – nel vangelo – la prosecuzione del testo letto nelle settimane scorse.
Da Gesù si presenta un lebbroso.
Già la prima lettura – con i suoi pochi versetti tratti dal capitolo 13 del libro del Levitico – ci dà un’idea di cosa volesse dire essere lebbrosi nel popolo ebraico. Ma chi volesse farsene un’idea più precisa troverebbe soddisfazione al proprio interesse leggendo l’intero capitolo 13 del Levitico, che analizza in maniera puntuale (e a tratti curiosa) la problematica legata alle malattie della pelle.
Inoltre, se qualcuno davvero si prendesse la briga di leggere Lv 13, potrebbe – a quel punto – proseguire ancora per un capitolo e leggersi anche Lv 14, che parla delle modalità di purificazione e ri-accoglimento nella comunità del lebbroso guarito (modalità a cui fa riferimento lo stesso Gesù nel nostro vangelo).
Ma andiamo con ordine: da Gesù si presenta un lebbroso, senza nome né storia…
Semplicemente si tratta di un lebbroso. E questo bastava a tutti per capire la situazione in cui quest’uomo viveva: emarginato socialmente; considerato impuro e in qualche modo colpevole della sua situazione; impossibilitato a riabilitarsi, se non attraverso una improbabile guarigione.
È un disperato, un non-uomo (un uomo cioè privato, dallo sguardo con cui gli altri lo guardano e dallo sguardo con cui lui si guarda, della dignità umana), un infelice, senza speranza di lieto fine.
Ricorda qualcun altro questo lebbroso… molti altri… che sono nella sua stessa situazione esistenziale, seppure oggi – almeno da noi – non esista più la lebbra… Eppure quanti ancora, allontanati perché considerati impuri/indegni/diversi; ostracizzati e rispediti fuori dall’accampamento, spesso col supporto della legislazione; quanti infelici, disillusi da una storia che davvero sembra loro non offrire più chance per una buona riuscita della vita.
E allora… dentro a questo lebbroso mettiamoci tutti… compresi noi stessi, che almeno ogni tanto ci siamo sentiti così… Ma contemporaneamente mettiamoci dalla parte di Gesù… perché anche in questo “ruolo” siamo stati tutti almeno una volta, quando qualche disperato ci si è gettato – realmente o metaforicamente – alle ginocchia…
E leggendo come è andata quella volta tra quel lebbroso e Gesù, proviamo a confrontare la nostra esperienza, i nostri sentimenti, i nostri modi d’essere e di reagire, con i loro…
«Venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio», letteralmente «E viene da lui un lebbroso invocante lui e cadente in ginocchio»: l’immagine è molto forte e dice, senza bisogno di ulteriori decriptamenti lo status del nostro amico lebbroso. «Ha sentito parlare di Gesù, visto che in tutta la Galilea se ne parlava, come si dice poco prima … Ma è un escluso, un impuro! Deve essere allontanato dalla convivenza umana, a colpi di pietra. Chi gli si avvicina diventava impuro anche lui. Eppure… questo lebbroso trasgredisce la legge di Dio, pur di parlare a Gesù. Chissà come ha intuito che Gesù era connivente con lui! Infatti Gesù l’ha già misteriosamente guarito ‑ “dentro” ‑ dal male più subdolo e devastante che lo opprime, che è l’inconsapevole introiezione della  segregazione, come una maledizione accettata e meritata, in qualche modo, fino a convincersi che è giusta, e farsene colpa. Per questo la legge voleva che lui stesso gridasse di sé: Immondo! Immondo!... a convincere se stesso, ancor prima che per allontanare gli altri. Questo avvelenamento interiore che fa perdere a uno anche il minimo di stima di sé, provoca la disintegrazione della persona, perché ne taglia in radice la speranza, giustificando per di più, con questa auto-maledizione, la discriminazione che lo distrugge umanamente. Come lo schiavo, che si convince della “naturalità” della sua schiavitù… fino a spegnere perfino il desiderio di libertà!» [Giuliano].
«E gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi”». Il lebbroso – “chissà come” – ha percepito che questo uomo che è Gesù non si sarebbe messo ad urlare, non lo avrebbe scacciato a sassate… non avrebbe avuto paura di lui; ma si sarebbe lasciato avvicinare. “Se vuoi, puoi purificarmi”. È lo schema tipico dei miracoli evangelici: essi – che sono sempre e solo segni della liberazione dell’uomo dal male (infatti, come mai Gesù maledice l’uomo, nemmeno dalla croce, nemmeno i suoi assassini, così neppure mai usa il suo potere speciale per fare male a qualcuno; in tutto il vangelo solo lui si fa male!) – presuppongono una fiducia in Gesù; è quando Gesù si sente investito di questa fiducia speranzosa da parte di qualche persona menomata nella sua umanità, che “scatta” il miracolo…
Anzi, più precisamente, scattano le viscere di Gesù, del quale infatti si dice che «mosso a compassione», «lo toccò», «avendo steso la sua mano».
A distanza di pochi versetti dal racconto del miracolo della guarigione della suocera di Pietro, Gesù di nuovo allunga la mano verso l’uomo, verso l’uomo sofferente, verso l’uomo intoccabile… e lo tocca…

È quasi diventato più famoso il gesto di san Francesco che abbraccia il lebbroso, di questo tocco di Gesù… Ma Francesco l’aveva fatto proprio perché voleva imitare il suo Maestro. È lui che ha aperto questa via impervia, ma vera (l’unica vera), del prendere contatto con chi è fuori dall’accampamento! Per tirarlo dentro, perché non si senta più fuori, a costo di essere messo fuori lui: fuori dove infatti finirà crocifisso.
E mi vengono in mente tanti uomini e tante donne, la cui vita potrebbe essere rappresentata con un cerchio (che indica l’accampamento) e loro con un piede dentro e un piede fuori, una mano ben salda a quelli di dentro e una ben salda a quelli di fuori… incompresi – magari – soprattutto da quelli dentro… che magari non si accorgono che Gesù è già andato fuori e quindi sono loro “i tenuti, nonostante tutto”…
Mosse le viscere di Gesù, sciolto dentro dalla disperazione fiduciosa di questo lebbroso, il miracolo “viene come da sé”: «“Lo voglio, sii purificato!”. E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato».
Ma da questo incontro intensissimo, con uno scambio di aspettative, promesse implicite, gesti forti e – a loro modo – eversivi (da entrambe le parti), il testo sembra farci uscire bruscamente: «E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: “Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro”».
Come “subito” la lebbra “partì da lui”, così “subito” Gesù “rimandò” il lebbroso. Perché questa brusca reazione? «Perché Gesù sapeva che manifestare il Regno di Dio con potenza ha in sé una grossa ambiguità: la gente infatti rischia di cogliere la potenza e non il messaggio che c’è dentro. […] Per noi infatti il metro di giudizio con cui misuriamo tutte le cose è il potere […] e Gesù si scontra contro questo pregiudizio dell’uomo: sa che questo fa deviare ogni tentativo, ogni parola che lui dice; perché noi la interpretiamo a nostro modo. Il vero problema è che però la fede proposta da Gesù è il superamento del Dio del potere, del Dio onnipotente. È come se Gesù, proprio dentro il miracolo, domandasse alla gente: “Credi che è onnipotente l’amore e non il potere?”» [p.Giuliano Bettati, in Con Marco in cammino verso il Regno].
Gesù quasi si spaventa di se stesso… Non ha resistito a farsi commuovere da questo poveretto, ma ora sa che il rischio di essere frainteso diventa più realistico (e diverrà – difatti – reale, come prontamente annota Marco: «quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte»).
Eppure sul calcolo delle opportunità, ha vinto la smisurata empatia per quell’uomo…
Sarebbe bello ora, ripercorrere questo episodio immaginandoselo nella testa… Immaginando gli sguardi, le espressioni del volto, il tono delle voci… le trepidazioni, il vortice dei pensieri nella testa di ciascuno, le paure, i desideri, le pressioni interiori, i sentimenti…
E poi provare a immaginarci noi nei panni del lebbroso… prima dell’incontro con Gesù e dentro a questo incontro…
Oppure, immaginarci nei panni di Gesù, avvicinati dai lebbrosi dei giorni nostri, che teniamo lontano dai nostri accampamenti: extracomunitari, omosessuali, coppie irregolari, malati, morenti, handicappati, ecc… ecc… ecc… e immaginarci che gli tendiamo la mano e li teniamo saldi, come terremmo qualcuno che amiamo!
Così – forse – a provare anche solo a immaginarlo, questo gesto, questo modo di stare al mondo, ci diventa più familiare… naturale… spontaneo…

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