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martedì 30 ottobre 2012

XXXI Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del Deuteronòmio (Dt 6,2-6)

Mosè parlò al popolo dicendo: «Temi il Signore, tuo Dio, osservando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così si prolunghino i tuoi giorni. Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica, perché tu sia felice e diventiate molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto. Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore».

 

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 7,23-28)

Fratelli, [nella prima alleanza] in gran numero sono diventati sacerdoti, perché la morte impediva loro di durare a lungo. Cristo invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore. Questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli. Egli non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso. La Legge infatti costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti a debolezza; ma la parola del giuramento, posteriore alla Legge, costituisce sacerdote il Figlio, reso perfetto per sempre.

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 12,28-34)

In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi». Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

 

Il brano di vangelo che la Chiesa ci propone per questa Trentunesima Domenica del Tempo Ordinario, è un testo fondamentale. Lo sono tutti, ovviamente, ma ce ne sono alcuni che hanno una capacità sintetica tale, da emergere quasi fra gli altri e funzionare come da icona.

Siamo ormai all’interno del racconto della passione (siamo infatti a Gerusalemme): «Chi ha seguito Gesù nel suo cammino, nel Vangelo di Marco, ha sentito con quale radicale determinazione annuncia una rivoluzionaria visione dell’uomo, riportandolo al progetto originario di Dio, nel cuore delle grandi relazioni che costituiscono la nostra umanità (sessualità e fedeltà nell’amore – economia e condivisione dei beni – politica e dono di sé, invece che competizione per il potere), fino a convincere chi lo ascoltava della totale incapacità (cecità) dell’uomo… a seguirlo. Ecco allora la preghiera del cieco di Gerico: Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me! … che io riabbia la vista!

proseguendo il viaggio Gesù, con i suoi discepoli, arriva in città, a Gerusalemme… dove inizia lo scontro finale con i capi dei sacerdoti, i farisei e gli erodiani sul “covo di ladroni” quale era divenuto il tempio, sull’autorità con la quale Gesù si propone, sulla drammatica infedeltà di Israele, sulla moneta di Cesare, sulla risurrezione… e sempre più la lettura che Gesù fa delle situazioni che vede e delle questioni che gli presentano è totalmente diversa dalla mentalità corrente. Sentendo la profondità delle risposte di Gesù, uno scriba, cioè uno specialista delle Scritture, con simpatia (secondo Marco), interroga Gesù: Qual è il primo di tutti i comandamenti? Come a dire… e DIO? Dove va a finire, cosa ne è? – in tutto questo “stravolgimento” della legge, del tempio, delle tradizioni, delle mediazioni culturali ed etiche, che si erano faticosamente sedimentate nei secoli? Qual è la chiave di volta di tutta la storia della salvezza raccontata nelle Scritture? L’asse portante della vita e della interpretazione – o senso – di essa?

È l’amore, replica Gesù:“più grande di questo, altro comandamento non c’è?”» [Giuliano].

L’amore per Dio e l’amore per il prossimo. Prima Dio, poi il prossimo…

Così sembra dire il vangelo di Marco, come anche quello di Matteo: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Leggee i Profeti» (Mt 22,37-40).

E in effetti ci sembra scontato: noi abitualmente pensiamo così. Un buon cristiano innanzitutto ama Dio e poi (di conseguenza – quasi per far piacere a Lui che l’ha “comandato”) anche il prossimo. Tant’è vero che nella storia della Chiesa hanno sempre più assunto maggior peso e “odore di santità” le persone che lasciavano il mondo (i prossimi) per “stare più vicini a Dio”, per amare Lui solo, ecc… Anche oggi, tra le varie scelte di vita che un cristiano può fare, si pensa sempre che la vita consacrata o sacerdotale sia “un po’ più cristiana” delle altre, un po’ più vicina a Dio, appunto…

Eppure… qualcosa non torna in questo modo di pensare… Innanzitutto perché Gesù, per primo, ha passato molto più tempo per le strade e nelle case, che nelle sinagoghe, al Tempio o in luoghi eremitici; inoltre – se si guarda alla vita dei primi cristiani (leggendo per esempio gli Atti degli apostoli) – ci si accorge di quanto anche questi fossero sempre in giro, sempre immersi tra la gente, nelle vicende quotidiane dei suoi problemi (pensiamo alle lettere di Paolo) e poco rivolti col naso all’insù. Anzi gli Atti degli apostoli iniziano proprio con l’invito dell’angelo a tirar giù il nasone: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11).

Forse allora quel “primo comandamento” e “secondo comandamento” non vanno pensati come se formassero una graduatoria… Forse lì dentro c’è qualcosa di un po’ più radicale.

Lo tratteggia l’evoluzione che questo passo ha avuto nei suoi paralleli di Luca e Giovanni.

Luca infatti, quando ripropone l’episodio di questo dialogo di Gesù con lo scriba, lo riscrive in questi termini (Lc 10,25ss): innanzitutto colui che si rivolge a Gesù è chiamato “dottore della legge” e formula questa domanda: «“Maestro che devo fare per ereditare la vita eterna?”. Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?”. Costui rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”». È dunque in bocca al dottore della legge e non a Gesù che Luca mette l’associazione dei due passi dell’AT che formano il comandamento nuovo (Dt 6,5 e Lv 19,18), ma Gesù certifica quanto espresso dal suo interlocutore: «Hai risposto bene, fa questo e vivrai».

La cosa interessante è questo primo raccordo tra i due comandamenti, che – appunto – non sono più due, ma uno (manca infatti la dicitura “il primo è…”, “il secondo è…”, ma vengono espressi insieme con una “e” che li congiunge: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso).

Interessante poi che il prosieguo del testo di Luca si concentri sulla seconda parte di questo comandamento, quella che riguarda il prossimo. Il dottore della legge infatti disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?»; domanda alla quale Gesù risponde raccontando la parabola del buon samaritano, che si conclude con il contro interrogativo di Gesù: «Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?», ribaltando il problema della prossimità, che non è più vista come delimitazione di una categoria (“Chi è il mio prossimo?” – e quindi “E chi non lo è?”), ma come disposizione interiore di ciascuno (“Chi è stato capace di essere prossimo al povero Cristo bastonato?” – e quindi “Cosa devo fare per essere capace anch’io di essere prossimo a chiunque?”).

Questo concentrarsi sull’amore per il prossimo (invece che sull’amore a Dio) a seguito del comandamento nuovo, lascia intuire che «Ama il prossimo tuo come te stesso è una conseguenza o esplicitazione storica dell’unico comandamento. Il dialogo vitale di amore tra gli uomini è il luogo della crescita reciproca nell’amore “divino” tra noi – secondo una dinamica interna che matura  progressivamente… e ci fa ricadere in Dio Padre, il solo capace di accoglierci (tutti insieme) nel cammino (nell’esodo) dalla nostra tormentata storia, a partire da Israele.

prima: "Prossimo" è il parente quelli della stessa tribù o popolo, appartenenti alla stessa alla grande famiglia allargata, che condivide sangue, lingua, religione, struttura sociale

poi: "Prossimo è colui a cui mi avvicino, o che si avvicina a me. A poco a poco, il concetto di prossimo si allargò, con diverse interpretazioni fino al tempo di Gesù, quando alcune scuole pensavano si dovesse uscire oltre i limiti della razza. Fu così che un dottore rivolse a Gesù questa domanda polemica: "Chi è il mio prossimo?" Gesù rispose con la parabola del buon Samaritano (Lc 10,29-37), in cui il prossimonon è né il parente, né l'amico… ma colui che si avvicina a te, indipendentemente dalla religione, dal colore, dalla razza, dal sesso o dalla lingua.

infine: la misura dell'amore al "prossimo" è amare come Gesù ci ha amato» [Giuliano].

Non a caso l’ultimo evangelista completa la parabola della fusione dei due comandamenti, esprimendosi così: «Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35), dove ciò che emerge è che Gesù non dice «Amatemi come io vi ho amato»,

 

              DIO
                |
                |
UOMO

 

ma («Amatevi [tra voi!!!] come io vi ho amato»).

Il comandamento nuovo, cioè, invita ad un amore debordante (nel senso letterale: che deborda):

 

    DIO
                  |
                  |
UOMO ---- ALTRI UOMINI

 

Anche perché – ricorda ancora Giovanni nella sua Prima lettera – «Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).

La parabola evangelica sul comandamento nuovo ci ha condotto allora a questo: il modo in cui Dio vuole essere amato coincide con il dirottamento del nostro amore sul prossimo. Un amore che ha la misura del suo: «Amatevi, come io vi ho amato».

Mi piacerebbe che a partire da queste considerazioni, provassimo – a livello personale ed ecclesiale – a ripensare a tanti luoghi comuni sull’amore di Dio e del prossimo che ancora ci abitano.

E vi lascio con i pensieri di Annalena Tonelli che sei anni fa, Giuliano riportava nella sua lectio:

“ … la vita ha senso solo se si ama. Nulla ha senso al di fuori dell'amore. La mia vita ha conosciuto tanti e poi tanti pericoli, ho rischiato la morte tante e poi tante volte. Sono stata per anni nel mezzo della guerra. Ho esperimentato nella carne dei miei, di quelli che amavo, e dunque nella mia carne, la cattiveria dell'uomo, la sua perversità, la sua crudeltà, la sua iniquità. E ne sono uscita con una convinzione incrollabile che ciò che conta è solo amare.

Se anche Dio non ci fosse, solo l'amore ha un senso, solo l'amore libera l'uomo da tutto ciò che lo rende schiavo, in particolare solo l’ amore fa respirare, crescere, fiorire, solo l’ amore fa sì che noi non abbiamo più paura di nulla, che noi porgiamo la guancia ancora non ferita allo scherno e alla battitura di chi ci colpisce, perché non sa quello che fa, che noi rischiamo la vita per i nostri amici, che tutto crediamo, tutto sopportiamo, tutto speriamo... Ed è allora che la nostra vita diventa degna di essere vissuta. Ed è allora che la nostra vita diventa bellezza, grazia, benedizione.

Ed è allora che la nostra vita diventa felicità anche nella sofferenza, perché noi viviamo nella nostra carne la bellezza del vivere e del morire”.

giovedì 25 ottobre 2012

XXX Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Geremìa (Ger 31,7-9)

Così dice il Signore: «Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni, fate udire la vostra lode e dite: “Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele”. Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione e li raduno dalle estremità della terra; fra loro sono il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente: ritorneranno qui in gran folla. Erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni; li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua per una strada dritta in cui non inciamperanno, perché io sono un padre per Israele, Èfraim è il mio primogenito».

 

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 5,1-6)

Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo. Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo: «Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek».

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 10,46-52)

In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.

 
 
L’episodio del cieco Bartimeo che la Chiesa ci propone nel vangelo di questa Trentesima Domenica del Tempo Ordinario è particolarmente significativo: ad una prima lettura infatti esso potrebbe apparire come uno dei tanti miracoli di Gesù raccontati dai testi evangelici, che per lo più noi abbiamo già sentito, riconosciamo e di cui magari sappiamo anche rinarrare la vicenda, ma che assolutamente non sapremmo collocare né geograficamente, né “cronologicamente” (tra virgolette, perché si fa evidentemente riferimento alla cronologia della ricostruzione evangelica).

In realtà invece è molto importante tentare di indagare perché l’evangelista collochi il racconto di un determinato evento (nel nostro caso questo miracolo) proprio a quel punto della narrazione: episodi e vicenda complessiva infatti si richiamano e rimandano, al fine di formare il volto di Gesù che l’evangelista vuole annunciare.

Questo discorso assume ancor maggior rilievo nel nostro caso, poiché l’episodio del cieco Bartimeo è l’ultimo dei miracoli di Gesù che la narrazione del vangelo di Marco riporta ed è collocato immediatamente prima dell’inizio del racconto della passione. Non a caso siamo ormai in terra di Giudea, precisamente sulla strada che da Gerico porta a Gerusalemme (la medesima in cui Luca collocherà la parabola del buon samaritano, Lc 10,29-35).

Gerico… «La più antica città del mondo, così dicono. A 200 metri sotto il livello del mare, vicino al Mar Morto, è un crocevia commerciale di carovane…» [Giuliano].

Qui ci ha condotto «il viaggio, che abbiamo percorso con i discepoli verso Gerusalemme nelle domeniche scorse», un viaggio che «ci ha fatto prendere coscienza delle sconvolgenti proposte del Vangelo nel cuore delle grandi relazioni che costituiscono la nostra umanità: sessualità e fedeltà nell’amore – economia e condivisione dei beni – la politica e la competizione per il potere. Ma nello stesso tempo ci ha reso più consapevoli della nostra radicale incapacità di seguire Gesù (…se andò intristito!)… C’è una specie di fame e di sete di salvezza negli uomini che Gesù incontra: chi domanda come fare nei conflitti affettivi e sessuali, chi vuol essere guidato nella divisione dei beni, chi… vuol essere il primo, a tutti i costi … Ma alla fine tutto finisce in una triste delusione, quando Gesù propone ad ognuno le sue sconvolgenti soluzioni “evangeliche”… […] Ora il viaggio prosegue …

C’è un cieco che passa la sua vita seduto (tanto, non vede dove andare) ai bordi della strada, senza poter intervenire nel frastuono della vita degli uomini che passano, sperando soltanto in qualche briciola di elemosina per sopravvivere. A Gerico! […] Un mendicante cieco. Mendicante perché cieco, e nessuno può farci niente. Cosa c’è di più inutile alla vita e alla storia della città, di uno che non vede cosa succede e non sa cosa fare, se non mendicare? Ma tanti di noi, quando scopriamo davvero chi siamo, dentro, andremmo a sederci volentieri vicino a lui, ne avessimo il coraggio!

Un giorno, proprio da quella strada, passa Gesù… La folla e i discepoli (e noi!) da tempo stanno seguendo il Signore, ma solo il cieco sussulta “al sentire che passava Gesù Nazareno”. Anzi, gli altri, a cominciare dai discepoli, si inquietano quando si mette a gridare invocandolo, e lo zittiscono, non certo per malevolenza, ma stizziti per l’inutile disturbo. Cosa si può fare a un cieco? Questo incontro casuale diventa così la parabola del tipico “incontro con Gesù”, per tutti quelli a cui la propria cecità comincia a pesare tanto da sbloccare l’orgoglio o la vergogna o la tristezza rassegnata… per lasciar emergere il gemito che ognuno ha dentro: Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!» [Giuliano].

Un incontro “tipico”, dunque, questo del cieco… un incontro “paradigmatico”… che non vuol dire però spersonalizzato!

Infatti – a ben guardare – non si parla qui della guarigione di un cieco, ma di questo cieco, di cui sono messi ben in evidenza il nome e la famiglia: Bartimeo, figlio di Timeo.

Ciò ribadisce – proprio in chiave sintetica dell’annuncio finora portato avanti da Gesù, nella sua vita pubblica – un primo elemento essenziale: quello dell’individualità mai negata di coloro che Gesù incontra. L’ultimo miracolo infatti è “fatto” non a un uomo qualunque, ma a questo cieco: Bartimeno, non chiunque, viene sanato: ciò mostra per l’ennesima e ultima volta (“ultima”, almeno in questi termini) che nell’incontro con Dio non è la genericità che salvaguarda l’universalità (non perché Gesù ha salvato un cieco, allora può salvare tutti i ciechi), ma precisamente la singolarità: proprio nella vicenda personalissima tra Gesù e Bartimeo si inquadra la possibilità per ciascuno di instaurare la stessa relazione col Signore. La “stessa” che però non è la “medesima”! Elemento essenziale di quel rapporto è infatti l’unicità dei soggetti in campo. La relazione con Gesù allora ha nella sua “struttura universale” (tipica, paradigmatica) l’immancabile implicazione personale. Non può essere dunque chiamato “modello” quello che si può evincere dall’ultimo e sintetico miracolo narrato da Marco: non siamo infatti di fronte a una struttura semplicemente da ripetere o mimare, senza implicazione personale; come se chiunque potesse sostituire – a prescindere – Bartimeo. Ma la singolarissima vicenda di Bartimeo dichiara aperta la strada alla singolarissima vicenda di ciascuno di noi col Signore! Perché proprio questo episodio con Bartimeo ci fa capire come “funziona” Dio quando si relaziona con un uomo.

Ciò diventa immediatamente evidente se si prosegue nella lettura.

Infatti nel grido di questo nostro cieco («Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!»), anche Gesù prende una caratterizzazione personalissima: non si tratta di un qualsiasi guaritore di passaggio ma di Gesù, Figlio di Davide.

In quest’ultimo titolo (“Figlio di Davide”) è racchiusa tutta la speranza di Israele, per secoli in attesa del «vero erede spirituale delle promesse “eterne”, fatte alla casa di Giacobbe; la mèta delle speranze nutrite per secoli nell’esilio… finché sarebbe venuto il Signore “a salvare il suo popolo”, anche se divenuto nel frattempo, lungo il cammino, “un resto” di popolo… zoppo, cieco…»… [Giuliano].

E poi quel Gesù (= Dio salva): «il cieco è l’unico nel vangelo di Marco che chiama Gesù per nome – a parte i demòni» [Giuliano].

È dentro a questo rapporto fatto di concretezza e lineamenti personali ben tratteggiati, che avviene l’incontro.

«Gesù si fermò e disse: “Chiamatelo!”. Chiamarono il cieco, dicendogli: “Coraggio! Àlzati, ti chiama!”».

Bartimeo aveva gridato… e Gesù l’ha chiamato… Interessanti gli echi che questa parola ha preso nei secoli… “I chiamati da Dio…”… Certo, sono tanti quelli che Gesù, nel suo vangelo chiama e che a noi vengono immediatamente in mente (pensiamo ai discepoli), ma quanti altri chiamati ci sono nel vangelo che invece non ci vengono in mente per niente (Maria, Bartimeo…)? E perché quelli ci vengono in mente subito e questi no?

Ma vediamo come reagisce alla chiamata il nostro amico cieco: «Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: “Che cosa vuoi che io faccia per te?”».

«C’è una serie di reazioni simboliche di una totale disponibilità all’incontro. Questo disabile è sicuro di essere finalmente di fronte alla sua salvezza. Ecco perché avviene l’inversione della domanda, lo scambio dei desideri “religiosi” - che legano cioè Dio e l’uomo! I discepoli, desiderosi del primo posto, avevano domandato poco prima a Gesù : noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo! senza neanche accorgersi del loro infantilismo evangelico. Qui è Gesù che, vista la disposizione “evangelica” del cieco, offre la sua completa disponibilità: Che vuoi che io ti faccia?» [Giuliano].

«E il cieco gli rispose: “Rabbunì, che io veda di nuovo!”. E Gesù gli disse: “Va’, la tua fede ti ha salvato”».

Come sempre nei miracoli di guarigione, l’avvenuto risanamento, è attribuito da Gesù alla fede degli uomini o delle donne che gli stanno di fronte: «Va’, la tua fede ti ha salvato».

Qui ritroviamo un altro elemento tipico, paradigmatico del rapporto col Signore. Esso non avviene attraverso una certificazione intellettualistica: non così si conosce la verità; ma nemmeno attraverso una fede cieca: un’adesione a dogmi o precetti su cui l’uomo non può esercitare alcuna razionalità.

Piuttosto organo di conoscenza del reale – dunque della verità – anche la propria (che è l’identità) – è la fede: è cioè quel credito dato a qualcuno o qualcosa, sulla base di un’affidabilità riconosciuta.

Questa è la modalità in cui sempre si disvela la realtà di Gesù a chi lo incontra e riconosce. Questa è anche la via paradigmatica di Bartimeo, che avendo avuto notizia di Gesù e ritenendo quest’ultima affidabile, aveva iniziato ad urlare, incurante dei rimproveri, finché non lo avevano ascoltato.

Che le cose stiano così è rivelato anche dal fatto che proprio su questa affidabilità del messaggio di Gesù – o più precisamente dell’uomo Gesù – erano andati in crisi i discepoli stessi. Ciò che aveva creato infatti – a partire dal capitolo 8 – l’incomprensione degli apostoli, traghettata fino al brano precedente al nostro (cfr. il vangelo di domenica scorsa, XXIX del Tempo Ordinario) e che sarà uno degli elementi decisivi dei racconti di passione (Gesù abbandonato dai suoi), è precisamente il fatto che l’annuncio (prima) e la realtà (poi) di un messia crocifisso risulta in-credibile, non credibile, appunto, non degna di fede.

Non a caso viene posto come elemento sintetico finale, un miracolo in cui viene sanata la cecità: per comprendere quanto infatti è stato finora annunciato e quanto sta per accadere sotto gli occhi di tutti, serve essere guariti dalla cecità che impedisce di leggere in quegli eventi l’attestazione affidabile della messianicità di Gesù e in essa della paternità di Dio.

Cecità dalla quale i discepoli della prima ora saranno guariti solo a fatti compiuti. Solo a posteriori.

Marco scrive infatti proprio quando questa cecità degli apostoli è stata ormai sanata, ma consapevole che i loro occhi nella croce non vedevano la rivelazione della salvezza.

Proprio perché alla prima Chiesa è invece così chiaro il fraintendimento/cecità di chi era là, quando Gesù passò su questa terra – tanto che i vangeli con grande coraggio non tacciono sulla debolezza dei testimoni della prima ora –, l’evangelista pone un miracolo di guarigione degli occhi in apertura del racconto di passione: per vedere la passione e morte di Gesù – e non per guardarla soltanto – c’è bisogno di tornare a percorrere la strada di Bartimeo: attaccare il cuore all’esperienza di un uomo la cui vita, il cui messaggio e la cui pretesa sono ritenute credibili.

martedì 16 ottobre 2012

XXIX Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 53,10-11)
Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità.

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 4,14-16)

Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 10,35-45)

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato». Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

 

In questa Ventinovesima Domenica del Tempo Ordinario il brano di vangelo che la Chiesa ci propone, va a completare l’itinerario che l’evangelista Marco – prima di addentrarsi nell’ultima parte del suo vangelo – sta facendo fare ai suoi lettori all’interno delle dinamiche profonde che costituiscono l’uomo di sempre: la sessualità (27° Domenica del Tempo Ordinario: Mc 10,1-16) – l’economia (28° Domenica del Tempo Ordinario: Mc 10,17-29) – il potere (la tematica odierna).

Ciò che è interessante in questa scansione, è il fatto che proprio quest’ultimo elemento sia lasciato alla fine, immediatamente dopo al terzo annuncio di passione e precisamente a ridosso del racconto dell’entrata di Gesù a Gerusalemme, dove troverà la morte; tale interesse ha origine in un doppio ordine di motivi: da un lato, il fatto che questo posizionamento, sottolinei una preoccupazione prioritaria, di chi organizza il materiale evangelico, proprio per questa problematica. E la storia della Chiesa non può che confermare tale intuizione originaria… Il potere è il vero pericolo del discepolo.

Dall’altro, e più radicalmente, la posizione di questa pericope, fa intravedere come in essa sia anticipato il problema del riconoscimento del crocifisso come messia.

In essa infatti è all’opera esattamente il problema capitale del cristianesimo: e cioè l’inaudito potere impotente di Dio… qui infatti sta precisamente l’incomprensione radicale – di allora e di sempre – dei discepoli del Signore: che non a caso è tematica che emerge anche in prossimità degli altri annunci della passione che Gesù aveva fatto.

Ma che cosa, propriamente, è oggetto di incomprensione, fraintendimento, scandalo per i discepoli?

Scrive P.A. Sequeri ne Il Dio affidabile: «La reazione sconcertata dei discepoli di fronte al progressivo delinearsi della ‘fine’ di Gesù è tema di cospicuo rilievo nella testimonianza. Lo sconcerto è direttamente – e significativamente – legato alle parole e ai gesti di Gesù che esprimono, insieme con la consapevolezza di tale fine, la propria decisione di non sottrarvisi in alcun modo. È questo che i discepoli propriamente non comprendono: ciò a cui cercano in tutti i modi di resistere. In verità, i discepoli non possono avere dubbi sul fatto che i capi giudaici rifiutano il radicalismo con il quale si assume la rappresentanza della verità di Dio; e cercano di contrastare con ogni mezzo l’autorevolezza con la quale egli esercita la sua anomala missione tra il popolo. Non possono aspettarsi dunque che Gesù venga accettato come suprema autorità religiosa: in una forma come quella alla quale sembra dare corpo Gesù, che appare con i tratti e le pretese del rifondatore messianico della religione giudaica. L’opposizione e il rifiuto, di cui Gesù è così acutamente consapevole, sono per così dire scontati. La paura della contrapposizione e della eventuale rappresaglia d’altra parte non spiega tutto: c’è anche chi è disposto ad accettare l’eventualità di una lotta cruenta. Nemmeno la mancanza di fede in Gesù è indicata dai testi come la radice dello sconcerto e della crisi: nessun cenno troviamo ad una qualche ritrattazione della professione di fede nella messianicità di Gesù di cui riferiscono i testi. La cosa veramente sconvolgente – realmente incomprensibile – per i discepoli è un’altra: Gesù manifesta anticipatamente la propria convinzione che la reazione dei sacerdoti e dei capi avrà successo; che essi riusciranno ad avvallarla con una pubblica condanna; e che la sua eliminazione avrà la forma pubblica di una oggettiva smentita della sua pretesa rappresentanza di Dio. Il quadro delineato dall’atteggiamento con il quale Gesù ‘punta pericolosamente’ su Gerusalemme non sembra includere l’intenzione di dare battaglia per la rivendicazione della propria pretesa. E l’epilogo previsto da Gesù esclude il suo insediamento al vertice di una struttura politico-religiosa entro la quale i suoi discepoli sostituiranno gli attuali detentori del potere di rappresentare Dio presso il popolo».

Esattamente questo insediamento invece hanno ancora in testa Giacomo e Giovanni… ma non solo loro…

La reazione alla loro richiesta («Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra») infatti, a fronte di un Gesù non per niente indispettito, è per gli altri discepoli di indignazione. Immaginando la vicenda, però, tale reazione appare più determinata dal nervosismo suscitato dall’esplicitazione di alcuni del desiderio inespresso di tutti (per vergogna o pudore), che per un’interiorizzazione autentica della prospettiva di Gesù espressa dalla sua risposta: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così».

Prova di questo è appunto il fatto che Gesù morirà da solo! Quelli che si indignano con Giovanni e Giacomo infatti non sono fuori dalla medesima logica di quelli. Infatti – continua Sequeri – «lo sconcerto – ma poi lo ‘scandalo’ – dei discepoli dipende propriamente dal fatto che essi vivono la passione e la morte di Gesù [o – per stare al nostro testo – il fatto che il Figlio dell’uomo sia venuto per servire] nella forma di una contraddizione ‘teologica’ decisiva. Essi sono sicuramente ‘dalla parte’ di Gesù di Nazaret, ‘contro’ i rappresentanti ufficiali della religione giudaica, ma continuano a credere esattamente nella teologia messianica alla quale questi ultimi fanno riferimento. La forza del dominio storico è anche per i discepoli la rappresentazione ovvia della potenza di Dio. E la legittimità della rappresentanza storica della verità di Dio fa circolo con quella rappresentazione. Essi perciò, proprio perché sono convinti della legittimità della rappresentanza di Gesù, non riescono a concepire che egli preveda e accetti l’impossibilità di affermare tale legittimità: imponendo storicamente l’evidenza del suo buon diritto ed esercitandolo nella forma del dominio. L’eccezionale potere taumaturgico e l’irresistibile autorevolezza profetica esibiti da Gesù sono soltanto anticipazioni – essi ne sono convinti (“abbiamo visto un profeta potente in parole ed opere”) – della irresistibile potenza di cui egli può disporre da parte di Dio in vista dell’affermazione di sé. Il punto critico di ‘differenziazione’ fra la fede di Gesù e quella dei discepoli» consiste invece nella smentita delle convinzioni dei discepoli e nell’identificazione che essi sono chiamati a fare tra Gesù e il Crocifisso.

«Il criterio ermeneutico di saldatura [di tale identificazione] fra Gesù e il Crocifisso è l’interpretazione della dedizione incondizionata di Dio come rifiuto delle forme storiche del dominio». Questo è il consenso che i discepoli – per il momento – non riescono a pronunciare; forse, per ora, nemmeno a comprendere. «Capiranno dopo … E’ un Dio troppo diverso (dal loro!) quel Padre che ha mandato Gesù nel mondo. Un Padre nel quale, appunto, Gesù è rimasto l’unico a credere. Un Dio troppo diverso dal dio che ci hanno insegnato e che elaboriamo continuamente dentro di noi … anche dopo il Vangelo, a costo di  manipolare e stropicciare continuamente la sua esperienza e le sue parole» [Giuliano].

«La forma del dominio storico potrebbe infatti anche essere intesa – in perfetta buona fede – come la garanzia inevitabile della dedizione, per lo meno nel momento in cui viene in gioco la sopravvivenza della sua verità di fronte alla tenacia della reazione opposta dall’incredulità. […] Ma secondo Gesù la richiesta e la ricerca di tale garanzia sono l’estrema tentazione della fede: la sollecitazione del Satana, che si serve della parola di Dio per legittimarsi. […] Nella prospettiva di quella tentazione la fede testimoniale è destinata a perdere il proprio sostanziale rapporto con la scena originaria: nella quale non si rivela un nuovo e più affidabile ‘padrone del mondo’: bensì la fine di ogni ‘padronato’. Dunque è proprio la buona fede che trae argomento dalla efficacia della testimonianza, la debolezza pericolosa in ordine alla fedeltà richiesta. La fede cioè disposta alla esibizione del potere di liberare dal male a proprio vantaggio, anche contro l’altro. La fede che mira a legittimarsi seducendo con segni prodigiosi, indiscutibilmente seducenti. La fede insomma che sarebbe disposta a lasciarsi definitivamente persuadere della irresistibile violenza del potere di Dio, ma resiste invece alla rivelazione della sua disarmata dedizione. Essa va respinta, da essa è necessario prendere irreversibile distanza: perché alla radice di quella fede, anche quando essa pronunci il nome di Dio e difenda i diritti della sua verità, c’è il peccaminoso assenso accordato alla identificazione tra la signoria della verità trascendente e la forma del dominio prevaricatore, tra l’affermazione di sé e la negazione dell’altro». Ma è proprio a questo che i discepoli – di allora e di oggi – fanno fatica ad accedere: essi infatti «ormai conquistati dal successo di Gesù, si vedono proiettati sul ‘dopo’: nel momento della sua definitiva acquisizione di un ‘potere religioso’ che gli spetta di diritto. E che ora è invece indegnamente detenuto dai capi del popolo. Ma il punto è proprio questo: Gesù mostra di non avere la stessa ‘fede’ dei suoi discepoli. E si consegna ‘volontariamente’ a quella morte, dove sembra scomparire persino la memoria del potere e dell’autorevolezza fino a quel momento esibiti e rivendicati come connaturali alla sua persona. La testimonianza evangelica conferma che questa è obiettivamente l’alternativa – la prova/tentazione – che l’esercizio effettivo della sua missione e la percezione dell’imminenza della sua fine violenta hanno posto anche a Gesù di Nazaret. Essere fedele alla missione della rappresentanza storica della verità di Dio, e consegnarsi ad una fine ormai costruita come rappresentazione storica dell’inattendibilità di quella pretesa, sono gli elementi del conflitto angoscioso vissuto da Gesù di fronte a Dio. La morte di Gesù sta per essere consegnata alla storia come evento che falsifica la pretesa della sua assoluta rappresentanza: può egli stesso accettare di essere tolto di mezzo in quel modo?

Il modo in cui effettivamente Gesù ha vissuto la sua passione e la sua morte davanti agli occhi dei suoi stessi discepoli conferma che egli accettò l’ambiguità della sua stessa eliminazione, per rimanere assolutamente fedele alla inaudita verità di Dio che era oggetto della sua ‘rivelazione’. Nessun miracolo per salvare se stesso. Nessuna esibizione di potenza destinata a colpire i suoi persecutori. Nessuna maledizione divina destinata a sigillare la fine di ogni rapporto con la storia che lo respinge. La verità di Dio rappresentata da Gesù rimane quella che coincide con l’implacabile tenacia della dedizione: e unicamente nella forma della dedizione può essere rappresentata sulla scena storica. Nemmeno l’interesse per l’affermazione della particolarità storica di colui che a quella verità rende testimonianza. Anzi, proprio questo è il caso in cui la forma della verità di Dio e la forma della testimonianza devono assolutamente coincidere».

Per questo un altro grande maestro – Bruno Maggioni – può scrivere: «nella misura in cui i modi coi quali i discepoli esercitano la loro autorità assomigliano a quelli delle altre autorità, insospettitevi» [in Il racconto di Marco]!

Ma se anche – a questo punto – sarebbe facile addentrarsi nella critica delle forme storiche (di potere) che la Chiesa di Gesù ha assunto e continua ad assumere nella storia, preferisco concludere invitando ciascuno – e me per prima – a guardarsi addosso: perché spesso mi accorgo di quanto – pur avendo tentato di impostare la mia vita (attraverso la collocazione geografica, la gestione del tempo, la compagnia dei fratelli, i criteri per le scelte, ecc…) a partire dalla mia fiducia in Gesù – i meccanismi spontanei della mia interiorità non sono poi così cambiati… anch’io nella vita e nei miei modi di fare tante volte sono trasparenza di un’idea di dio padronale e potente… e non del volto paterno e crocifisso del Dio di Gesù.

E invece è fino alle midolla che dovrebbe penetrarci questa conversione: in quale Dio crediamo e quale mostriamo?

venerdì 12 ottobre 2012

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro della Sapienza (Sap 7,7-11)

Pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne in me lo spirito di sapienza. La preferii a scettri e troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto, non la paragonai neppure ad una gemma inestimabile, perché tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento. L’ho amata più della salute e della bellezza, ho preferito avere lei piuttosto che la luce, perché lo splendore che viene da lei non tramonta. Insieme a lei mi sono venuti tutti i beni; nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile.

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 4,12-13)

Fratelli, la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e della spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto.

Dal vangelo secondo Marco (Mc 10,17-30)

In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre». Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una sola cosa ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni. Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio». Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».


La prima lettura di questa Ventottesima Domenica del Tempo Ordinario, raccoglie uno stralcio del discorso che il re Salomone avrebbe fatto parlando della sapienza. Al di là della finzione letteraria, ciò che è interessante è la ripetuta sottolineatura di quanto la sapienza sia preferibile ad ogni altra cosa egli potesse richiedere nella preghiera: «La preferii a scettri e troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto, non la paragonai neppure ad una gemma inestimabile, perché tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento. L’ho amata più della salute e della bellezza, ho preferito avere lei piuttosto che la luce»; e commenta: «perché lo splendore che viene da lei non tramonta».

Ciò che dunque rende la sapienza così desiderabile è il fatto che essa, a dispetto di tutte le altre cose pure desiderabili (scettri, troni, ricchezza, gemme inestimabili, oro, argento, salute, bellezza, luce…), non tramonti, possegga cioè una dimensione di eternità, di non corruttibilità: è qualcosa che può rimanere.

Il problema di Salomone è dunque il problema di ogni uomo: è il problema della salvezza, del fatto che la vita che spendiamo non sia vana, che qualcosa di essa rimanga, che abbia un senso, che noi rimaniamo. Nonostante oggi suoni anacronistico dire “il problema della salvezza” e nessuno paia preoccuparsene, in realtà se esso viene declinato – per esempio traducendolo in domande quali “Che senso ha la vita se poi si muore?”, “Cosa sono qui a fare?”, “Come è giusto spendere la vita?”, “Per cosa vale la pena farlo?”, “E tutto questo mio correre, affannarmi, preoccuparmi, darmi da fare, ha qualche futuro?”, “Io sono destinato a finire nel niente, e così tutte le persone che amo e tutto ciò che mi circonda?”, ecc… – salta immediatamente all’occhio come questo sia IL problema, il problema di tutti e di ciascuno.

Non a caso il capitolo 7 del libro della Sapienza da cui è tratta la nostra prima lettura iniziava sottolineando la parità di condizione – dal punto di vista del problema esistenziale – tra chi parla (Salomone) e ciascun uomo; i versetti 1-6 infatti suonano così: «Anch’io sono un uomo mortale uguale a tutti, discendente del primo uomo plasmato con la terra. La mia carne fu modellata nel grembo di mia madre, nello spazio di dieci mesi ho preso consistenza nel sangue, dal seme d’un uomo e dal piacere compagno del sonno. Anch’io alla nascita ho respirato l’aria comune e sono caduto sulla terra dove tutti soffrono allo stesso modo; come per tutti, il pianto fu la mia prima voce. Fui allevato in fasce e circondato di cure; nessun re ebbe un inizio di vita diverso. Una sola è l’entrata di tutti nella vita e uguale ne è l’uscita. Per questo pregai». E precisamente a questo punto iniziano i versetti 7-11 che compongono la nostra prima lettura, con la scelta salomonica di chiedere, su tutto, la sapienza.

A ben guardare il problema è il medesimo che assilla anche il “tale” di cui si parla nel vangelo, che proprio per cercare una risposta a questo angosciante mistero, «corse incontro» a Gesù «e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”».

Il problema è lo stesso, è il nostro, è quello di tutti: Cosa dobbiamo fare? Cosa dobbiamo fare per vivere una vita buona? E come facciamo a capire cosa è una vita buona? E poi, “buona” per chi? Verso cosa corriamo? Verso dove andiamo? Verso chi? E perché? Qualcuno lungo la storia ha parlato di premi, di aldilà, di vita dopo la morte… Era vero? E come si fa per guadagnarseli? Quali prove, quali sforzi, quali sacrifici? E se non è vero, cosa sono qui a fare? Ha senso ciò che faccio, se è destinato al niente? E se decido di sfruttare comunque questa cosa – che è la vita – che mi sono ritrovato a vivere, cosa devo fare perché non sia un’occasione sciupata?

Ce n’è per tutti… Perché nessuno è esentato dal problema del finire delle cose… del finire delle persone… del finire di se stesso… è un’evidenza che continuamente ci si ripresenta e ravviva l’angoscia dentro…

Dunque proviamo ad andare, insieme a questo “tale”, da Gesù, per chiedere a lui allora cosa dobbiamo fare per avere in eredità la vita eterna… Immediatamente la risposta di Gesù sembra ricalcare la tradizione: risponde come ci si aspetta che risponda, come avrebbe risposto qualsiasi rabbì del tempo… in qualche modo suscitando una certa delusione in chi domandava: «Gesù gli disse: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”. Egli allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”».

La delusione arriva dal fatto che l’indicazione di Gesù ricalca ciò che già da sempre si è fatto e che ugualmente non ha saziato la domanda di senso, non è sembrata una risposta adeguata alla prova della vita, se non altro non ha risolto il problema di questo “tale”.

Gesù si accorge di questa delusione e ha una reazione imprevista: «Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò».

Ebbene, in questo «lo amò», sta tutto il senso del brano. Tutto ciò che segue infatti – e che conosciamo a memoria (la proposta di Gesù di andare, vendere tutto ciò che aveva, darlo ai poveri, poi tornare da lui e seguirlo; il diniego e l’andarsene rattristato dell’altro; l’affermazione di Gesù dell’assoluta difficoltà per i ricchi di entrare nel Regno; lo sconvolgimento dei discepoli a tale annuncio) – mostra come l’incomprensione tra Gesù e quel tale – e forse tra noi e Gesù – non stia tanto nelle parole, nelle soluzioni, nelle proposte, più o meno accettabili e accettate; ma nella logica con cui si pensa la vita.

L’ansia di questo “tale” infatti e tutti gli elementi che compongono il suo modo di porsi di fronte a Gesù e il suo modo di domandare, rimandano ad una prospettiva per cui la vita è una conquista. Come dicevamo anche nelle nostre domande esplicative, tutto ruota intorno alla questione del “Cosa devo fare?”… Quali sforzi, quali sacrifici, quali rinunce? Oppure: quali imprese, quali fatiche, quali eroicità?

In evidenza è dunque l’attività dell’uomo, il suo doversi dare da fare, il suo dover – appunto – conquistare una meta, realizzare un successo, afferrare un risultato.

La prospettiva di Gesù invece va esattamente nel verso opposto: «Lo amò»; cioè come primo approccio ha esattamente quello di togliere l’altro dalla sua frenetica attività e di porlo in una situazione di passività, recettività: prima che quello decida se accettare o meno la sua proposta, anzi, prima ancora di formulargliela, Gesù lo investe di benevolenza, di uno sguardo amante, dell’invito ad entrare in quel suo spazio interiore che ha allargato per farci stare anche lui, l’ultimo arrivato.

E non solo, ma proseguendo, continuamente ripropone questa logica: quando poi effettivamente formula la sua proposta, invitando quell’uomo ricco a lasciare tutto, darlo ai poveri e seguirlo (suggerendogli dunque di mettersi nella posizione di chi si deve affidare, piuttosto di chi deve gestire); quando ai discepoli “sconcertati” e “stupiti” dichiara l’impossibilità umana a costruirsi una salvezza; quando infine mostra come però l’impossibilità umana, diventi possibile in Dio, dunque in un mettere in Lui la propria vita…

Il succo di tutto il brano dunque non credo sia propriamente quello di un invito a lasciare tutto ciò che abbiamo o – come lo abbiamo spesso ridotto noi – a lasciare simbolicamente qualcosa di nostro – dato che lasciare tutto è impensabile –; quanto piuttosto lasciare la logica della conquista per la logica dell’affidamento (che è l’unica poi, che, anche materialmente, consente di lasciare tutto senza rimpianti e inacidimenti postumi).

L’invito di Gesù cioè sembra essere quello di chi suggerisce all’uomo di porsi nella vita in maniera nuova. Da quando infatti siamo “gettati” in questo mondo, il nostro tentativo innato e immediato è quello di salvarci la vita, di imparare a gestire le situazioni, a controllarle, a dominarle: per sapere sempre cosa fare, come fare ed eventualmente cadere in piedi. E tentiamo di usare questa strategia anche nelle cose che invece gestibili non sono: l’amore, il dolore, la morte, la vita nuova che ogni tanto sgorga… E ci ritroviamo a chiedere al Signore: “Cosa dobbiamo fare?”, “Come si gestisce il dolore, l’amore, la morte, la nascita, …?”.

Ma l’evidenza continuamente ci rimanda che per quanto proviamo e magari a volte ci vada anche bene, restano cose non in nostro possesso, non dominabili, non controllabili. Ed ecco il senso di fallimento, la frustrazione, la delusione, la disperazione: perché non poter gestire la morte, vuol dire dover morire e restare morti, per quanto ci compete…

Fin qui noi…

Dentro qui, quell’uomo di Nazareth, che i cristiani credono essere il Figlio di Dio, inserisce la sua buona notizia: l’impossibilità di salvarvi la vita non è disperante, perché non doveva nemmeno essere una vostra preoccupazione; essa infatti è già nelle mani sicure del Padre. È lui che salva la vita, per questo essa diventa vivibile e non nei termini di una giungla dove il più forte vince, ma nei termini di una casa, dove si può davvero essere fratelli e prendersi cura dei piccoli, perché la vita di tutti è al sicuro e l’altro non ha motivo di essermi rivale o nemico o avversario, perché non ha niente da guadagnare sulla mia pelle…

È quello che fin da piccoli impariamo, ancora più originariamente che l’istinto di sopravvivenza e dunque – forse – più autenticamente: infatti appena “gettati” in questo mondo, prima di imparare a sopravvivere, abbiamo imparato a stare nelle mani di colui/colei tra le cui braccia inevitabilmente ci hanno messo … ed è questo affidamento naturale e inevitabile per tutti e per ciascuno che ci ha fatto uomini e donne – più di qualsiasi altra cosa… forse davvero allora, come diceva il vangelo di domenica scorsa, dovremmo ritornare a essere bambini, e come dice il vangelo di oggi, dovremmo acconsentire ad essere poveri tra i poveri… laddove non esistono più padri, ma solo «case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà»… la vita eterna, la vita che rimane, che è solo il bene che avremo saputo scambiarci tra piccoli, tra poveri, quella volta che uno aveva bisogno di una carezza e non c’era nessuno che gliela faceva.
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