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venerdì 31 agosto 2012

XXII Domenica del Tempo Ordinario



Dal libro del Deuteronomio (Dt 4,1-2.6-8)

Mosè parlò al popolo dicendo: «Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo. Le osserverete dunque, e le metterete in pratica, perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”. Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E quale grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione che io oggi vi dò?».

 

Dalla lettera di san Giacomo apostolo (Gc 1,17-18.21-22.27)

Fratelli miei carissimi, ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, creatore della luce: presso di lui non c’è variazione né ombra di cambiamento. Per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di verità, per essere una primizia delle sue creature. Accogliete con docilità la Parolache è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza. Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi. Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo.

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 7,1-8.14-15.21-23)

In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti –, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?». Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». E diceva [ai suoi discepoli]: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».

 

Dopo la lunga “pausa” estiva, caratterizzata dalla lettura del capitolo 6 di Giovanni, la liturgia riparte con la lettura corsiva del vangelo di Marco. Siamo al capitolo 7, quello che segue appunto la moltiplicazione dei pani nella versione di questo evangelista e le guarigioni di Gesù nella regione di Genezaret. Quel brano si concludeva con un’atmosfera assai positiva: «Là dove giungeva, in villaggi o città o campagne, deponevano i malati nelle piazze e lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello; e quanti lo toccavano venivano salvati», Mc 6,56, che è il versetto immediatamente precedente all’incipit del brano odierno. Quest’ultimo si apre invece bruscamente su una scena di controversia con i farisei e gli scribi, che richiama da vicino l’atmosfera dura che domenica scorsa aveva tratteggiato Giovanni.

L’occasione della discussione in questo caso è la critica che viene mossa a Gesù perché i suoi discepoli «non si comportano secondo la tradizione degli antichi», nella fattispecie «prendono cibo con mani impure, cioè non lavate», come spiega il testo stesso.

La reazione di Gesù («Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti…») mostra come oggetto del contendere non siano tanto le puntuali e contingenti mancate abluzioni, quanto piuttosto la logica che sta dietro al rimprovero.

Gesù infatti non si sofferma a giustificare i suoi sul perché non si siano lavati le mani prima di mangiare, ma in modo veemente svela la dinamica che soggiace alla polemica farisaica: e cioè il mis-conoscimento del rapporto dell’uomo con la legge di Dio e dunque con Dio stesso.

Si tratta di un mis-conoscimento che – stando a come prosegue l’incalzante risposta di Gesù – si colloca a due livelli: innanzitutto vi è un mis-conoscimento antropologico (legato cioè a chi l’uomo sia) e poi un mis-conoscimento teologico (legato a chi Dio sia).

Per quanto riguarda l’uomo infatti, Gesù mostra come il modo legalistico–puritano di intendere la legge da parte dei farisei, di fatto avvalli l’idea che sia ciò che sta fuori dall’uomo a “contaminarlo”. Come spiega bene Raniero La Valle nel suo Se questo è un Dio ciò ha origini molto lontane: «Risalendo alle origini, il primo impulso documentato nell’esperienza di Israele è stato quello di stabilire una netta separazione dal sacro (per gli ebrei qadoš). Se il sacro fa male [«Chi vede Dio muore»], meglio prenderne le distanze, fissare una netta demarcazione di confini. Ma la cosa non è affatto facile, perché il sacro non si fa agevolmente circoscrivere, invade tutta la realtà. […] E se il sacro malefico invadeva tutta la realtà, il problema era appunto quello di ritagliarne e separarne lo spazio profano, una specie di zona franca di ciò che restava indenne e disponibile all’uomo. E così fu fatto, e sul confine fu fissata una barriera protettiva, i cui effetti, come spesso è dei muri, saranno devastanti. La barriera era quella che distingueva l’impuro dal puro; e le norme di purità furono poste a garanzia di tutto il sistema. […] All’inizio al sacro si sposava il termine impuro, al profano il termine puro. Impuro è ciò che sta in contatto col sacro, e ne viene contaminato. […] Poi le cose cambiano […]: l’impurità viene legata al peccato, e il rapporto tra le due coppie di opposti [puro-impuro; sacro-profano] si inverte, da parallelo che era; è la purità, non più l’impurità che viene attirata nella sfera del divino; distinguere il sacro dal profano coincide ormai con la separazione del puro dall’impuro. Dio tre volte qadoš, sacro, sacro, sacro, come lo cantano i cherubini di Isaia (Is 6,3) è puro; è il mondo, è il profano, è la storia che giacciono nell’impurità. […] Questa concezione del contrasto tra puro e impuro è troppo importante, è troppo potente nella sua pretesa di invadere e spartire l’intera realtà umana e divina, per liquidarla come una fissazione di rubricisti, per non interrogarsi sulla sua persistenza storica, per non chiedersi se non sia rimasta all’opera fino a oggi, anche se in forme sempre mutate. Anche le pulizie etniche vengono da lì. E non basta nemmeno dirimere la questione se alla coppia sacro-profano corrisponda la coppia impuro-puro o viceversa. […] Ancora più necessario è chiedersi in che cosa consista l’essere puro o impuro, sia che a essere puro sia il sacro, come è ormai nel senso comune, sia che lo fosse il profano, come era all’inizio. […] Ora dalla lettura delle prescrizioni bibliche, dalla ricognizione dei testi ebraici antichi […] risulta che il connotato essenziale della purità consiste nella separazione dei diversi, e che il disordine della impurità consiste nella loro reciproca contaminazione. La purità sta nella omogeneità e identità con se stesso di ognuno dei due ordini, il sacro e il profano, l’impurità sta nella loro congiunzione, confusione, interferenza. Per estensione, la purità è non mischiarsi con l’altro da sé, l’impurità è il meticciato. La purità è la solitudine, l’impurità è la compagnia. […] Quella che si afferma è una antropologia della disuguaglianza per natura degli esseri umani. La discriminazione tra puro e impuro degenera in una discriminante tra uomini e no, perfetti e incompiuti, nobili e volgari, integri per natura e malriusciti e contaminati. La categoria puro-impuro diventa il paradigma e il primo travestimento culturale di una discriminazione, e perciò di un dominio, che percorrerà tutta la storia» [pagg. 76-86].

Ciò che mi contamina è dunque ciò che sta fuori di me, è l’altro. Questa è la mentalità ebraica dei farisei che parlano a Gesù e però anche la nostra, basta pensare a tutto ciò che mettiamo in atto per non farci “contaminare” da chi è diverso da noi… per qualsiasi ragione lo sia: colore della pelle, condizioni igieniche, stato di vita, conto in banca, situazione affettiva, ecc…

Questa è la logica antropologica che Gesù invece vuole ribaltare, alla quale anzi si oppone con violenza: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». Gesù cioè – quello che Raniero La Valle arriva a chiamare il “Dio meticcio”, proprio per sottolineare questa opposizione alla logica della contaminazione che arriva da fuori – rimette a fuoco dal suo punto di vista la “questione uomo”: non sono le cose esterne il problema dell’uomo, ma è l’uomo stesso ad essere problema per se stesso. Ognuno è cioè richiamato a se stesso, alla qualità della sua interiorità, allo spessore della sua intimità più intima, al cuore del suo cuore. Questa è la sede del puro e dell’impuro, del sacro e del profano, che al di là dell’abbinamento di significato, vuol dire che è il cuore dell’uomo la sede di una vita buona o meno. E non buona in senso solo morale, ma nel pieno senso esistenziale, evangelico, umano. Gesù, in buona sostanza, riconduce l’uomo a sé, mostrando che è ora di smetterla di “arrangiarsi” nella vita dando la colpa ad altro o ad altri o ad Altro, cioè pensandola, decidendola, vivendola secondo una logica che non mi chiama mai in causa personalmente, ma trova sempre il problema ad extra. È tra te e te – pare dire Gesù – che si determina la qualità della vita.

E questo – come dicevamo – non può non contemplare anche il livello del rapporto col Signore. La relazione al sacro che mettevano in atto i farisei (e noi con loro) è infatti una relazione de-responsabilizzante. Basta definire i confini, basta sapere cosa si può fare e cosa no, basta conoscere cosa è dovuto a Dio, che tutto è risolto: il resto è il mio spazio, sono le mie cose, è la mia vita, Lui è fuori, nel suo spazio, nelle sue cose, nella sua vita. Ma così la relazione non esiste: è solo rimandata o circoscritta alle cose, mai ai cuori dei due interlocutori.

Ma questo non è Dio. Scrive infatti ancora Raniero La Valle: «Se [Dio] ci avesse tenuto alla purità, alla non contaminazione, alle identità prigioniere di se stesse, non avrebbe fatto l’uomo a sua immagine, non avrebbe introdotto la riproduzione sessuata, causa di tutte le combinazioni e le differenze, non avrebbe dato corso alla storia, la quale senza relazioni non sarebbe possibile».
Soprattutto non è il Dio di Gesù Cristo: «Con l’apparizione di Dio nel bambino neonato accadde la caduta di tutta la strutturazione della realtà nelle categorie di puro e impuro e la sua riconduzione a unità. Il primo segno è che per il parto non si trova luogo – che fosse una casa o un albergo – dove fosse possibile osservare le regole di purità», (cfr Lev. 12,2 per le regole di purità per la donna che aveva appena partorito e Is 1,3 per la vicinanza agli animali). «Se quella era la nuova “Presenza” di Dio sulla terra, essa si manifesta quindi fuori del luogo deputato, e fino ad allora esclusivo; fuori del santo dei santi, fuori del tempio, senza la mediazione dei sacerdoti vestiti solo di lino; è un’altra struttura del divino che cade. Ciò troverà poi piena esplicazione nella risposta di Gesù alla Samaritana («Né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre; i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità, Giov. 4,21-23) e nel fatto che la sua morte e risurrezione avverranno fuori della città, fuori del tempio. Ma è già alla nascita che egli si pone fuori del recinto del sacro. […] La divisione tra sacro e profano entra in crisi con l’incarnazione. In quella che nella liturgia e nell’arte sacra chiamiamo “epifania di Gesù”, non ve n’è più traccia. Finisce quell’ambiguo gioco di rimandi tra puro e impuro, tra sacro puro e profano impuro. E cade non perché sopravviene una concezione più avanzata, ma perché ne viene meno (ne viene tolto) il presupposto radicale: la giustapposizione tra il divino e l’umano, l’intransitabilità della soglia che divide il mondo da Dio. Se l’invasione di campo del sacro nel profano e del profano nel sacro, la mescolanza, la contaminazione tra Dio e uomo rappresentano la massima impurità, proprio questa Dio sceglie e fa sua. Il gesto sorprendente di Dio è di mantenere la distinzione ma di abolire la distanza. […] La massima impurità diventa pertanto la nuova forma dell’economia divina: la comunione del sacro col profano (nulla è più riservato, tutto è riportato alla condizione comune), il meticciato tra il divino e l’umano. Il Dio puro dell’assoluta trascendenza si impasta anche lui di terra, e si presenta nel volto di Cristo come divino e umano insieme, “perfetto nella divinità e perfetto nell’umanità, veramente Dio e veramente uomo”, come professa il Concilio di Calcedonia. Un Dio meticcio» [pagg. 97.115-118].

giovedì 23 agosto 2012

XXI Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro di Giosuè (Gs 24,1-2.15-17.18)

In quei giorni, Giosuè radunò tutte le tribù d’Israele a Sichem e convocò gli anziani d’Israele, i capi, i giudici e gli scribi, ed essi si presentarono davanti a Dio. Giosuè disse a tutto il popolo: «Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrèi, nel cui territorio abitate. Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore». Il popolo rispose: «Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché è il Signore, nostro Dio, che ha fatto salire noi e i padri nostri dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; egli ha compiuto quei grandi segni dinanzi ai nostri occhi e ci ha custodito per tutto il cammino che abbiamo percorso e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati. Perciò anche noi serviremo il Signore, perché egli è il nostro Dio».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni (Ef 5,21-32)

Fratelli, nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri: le mogli lo siano ai loro mariti, come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, così come Cristo è capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo. E come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli lo siano ai loro mariti in tutto. E voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo: chi ama la propria moglie, ama se stesso. Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 6,60-69)

In quel tempo, molti dei discepoli di Gesù, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?». Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre». Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio».

 

In questa ventunesima domenica del tempo ordinario, il brano di vangelo arriva a concludere il lungo itinerario che la liturgia della Parola ci ha fatto seguire in queste domeniche estive: la lettura del capitolo sesto di Giovanni.

L’epilogo del lungo discorso di Gesù lì contenuto sul pane della vita è duro: «Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui»; e lo è a maggior ragione se posto – come accade nelle letture odierne – accanto all’episodio raccontato al capitolo ventiquattresimo di Giosuè: lì – al di là della questione sulla storicità del testo – è presentata infatti la grande adunanza delle tribù di Israele che dopo i quarant’anni nel deserto al seguito di Mosè, l’ ingresso nella terra di Canaan, la terra promessa, al seguito di Giosuè e la spartizione dei territori fra le dodici tribù, si raduna per rinnovare l’alleanza al Signore, Dio di Israele.

Il contrasto col Vangelo è evidente perché da un lato è presentato il consenso di massa al rinnovamento della fedeltà al Signore attuato da tutte le tribù di Israele nei loro massimi rappresentanti, e dall’altro l’abbandono di quasi tutti i suoi che Gesù subisce.

Evidentemente i due brani non si possono paragonare in modo semplicistico, soprattutto perché il primo ha chiaramente enfasi nazionalistica e dunque tradisce una certa idealizzazione dei fatti, eppure nonostante queste considerazioni il contrasto appare pungente, perché sottolinea ancora più fortemente la disfatta comunicativa di Gesù: di certo da questo testo emerge che Gesù non sa farsi pubblicità…

Ma non bisogna farsi ingannare dalle apparenze… andando a scavare un po’ dietro e oltre i versetti presentatici, scopriamo infatti che anche questa grande adunata di Israeliti devoti, in realtà nasconde grandi elementi di fragilità nel suo rapporto col Signore: innanzitutto è un unanime consenso a seguire il Signore, che però è frutto di un esperienza molto gratificante e confermante (la conquista della terra promessa) e che dunque assume il carattere della facile osannazione di chi ci è favorevole, di chi ci dà da mangiare (come era successo allo stesso Gesù, immediatamente dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci, che è l’episodio che inaugurava il capitolo 6 di Giovanni e a cui era conseguito addirittura il tentativo degli ascoltatori di farlo re); inoltre la storia di Israele che precede e soprattutto che segue questa altisonante alleanza con Dio, mostrerà che, se Dio rimane fedele, il popolo invece tornerà continuamente a tradire il consenso dato e ad adorare gli idoli.

Alla luce di queste considerazioni assume allora forse valore diverso il metro di giudizio con cui si misura la capacità comunicativa di Gesù: non è detto che il consenso di massa sia sinonimo di vera comprensione del messaggio e di autentica adesione a colui che lo proclama…

E di questo Gesù è più che consapevole, dato che – come si ricordava poc’anzi – ha appena fatto esperienza del travisamento del suo gesto di dare da mangiare: lentamente allora il suo parlare diventa sempre più chiaro, esplicito, “duro”, lo definiscono gli ascoltatori. All’audiencebasata sul fraintendimento o su una facile illusione, preferisce la decisione libera di fronte a un messaggio chiaro. Sembra cioè che l’intento di Gesù sia molto più quello di dirsi in verità, che quello di creare consenso.

Questa annotazione, che potrebbe suonare come molto edificante quanto a contenuto virtuoso dell’atteggiamento che suggerisce (essere se stessi senza preoccuparsi del giudizio altrui), in realtà nel caso di Gesù crea un problema ulteriore: qui infatti non si sta parlando di uno dei nostri figli preso in giro dai compagni a cui insegniamo che deve “fregarsene” di quello che pensano gli altri… Qui si tratta del Figlio di Dio, venuto a rivelare il Suo volto… si sta parlando perciò di Qualcuno a cui dovrebbe – almeno un po’ – interessare la problematica dell’audience, la problematica del farsi conoscere e riconoscere dai più, se non addirittura da tutti, come già auspicavano i profeti…

In gioco cioè c’è il serio problema del non riconoscimento di Gesù come il Messia, la possibilità del fallimento della rivelazione di Dio, la perdita – da parte dell’uomo – dell’appuntamento col Signore che viene…

Eppure nonostante questa alta posta in gioco, il Signore non cede alla tentazione di cadere nel ricatto della paura: per paura che vadano via tutti, abbassare il tiro della sua verità, annacquarla o mitigarla… Anzi, man mano il dibattito si fa sempre più serrato, fino al rilancio estremo del «Volete andarvene anche voi?», cioè fino al rischio di rimanere del tutto solo.

Ma cosa c’è dietro a questa “dura” ostinazione che è disposta ad accettare anche l’abbandono totale? Perché per salvaguardare un po’ più di pubblico – e dunque non rischiare che la sua verità non avesse più orecchie che l’ascoltassero – Gesù non accetta di cedere su qualche punto?

La risposta sembra stia in questo: se – come già accennato – per Gesù prevale la verità sul consenso, sarebbe assurdo ridurre la verità per mantenere il consenso; se la verità deve andare persa (morirà solo in croce!), meglio che lo sia per il cuore duro dell’uomo (che può sempre convertirsi), che per la sua mancata proclamazione da parte di chi la conosce; se essa infatti per paura viene censurata o annacquata non ha speranza di essere accolta in verità…

La scelta di Gesù allora, qui come in tutto il Vangelo, è sempre quella di correre il rischio di non essere capito ma di “dire la verità”, meglio di dirsi come verità: e ogni volta che nel vangelo c’è qualche reazione negativa al suo dire o agire è sempre perché scatta questa dinamica (controversie sul sabato, sulla vicinanza a certe categorie di persone, sull’autorità che si attribuisce, ecc, ecc, ecc; fino all’emblematico episodio della morte: Gesù non rinuncia alla sua verità, alla verità che lui è, a costo di morire – solo e nel fraintendimento!).

Il punto allora sta nel comprendere quale sia e di che tipo sia questa verità che Gesù difende strenuamente con le unghie e che pare sovrapporre a tutte le altre istanze della sua vita (l’avere dei discepoli – l’uomo a cui comunicare la Verità; il desiderio di essere compreso; il desiderio di vivere…).

Innanzitutto va liberato il campo da quella mentalità pre-conciliare che si era irrigidita sulla formulazione dottrinalistica, per cui Gesù avrebbe rivelato le verità (al plurale) su Dio, rimandando quasi inconsciamente a pensare al rapporto con Dio in termini intellettualistici (le verità sono cose che si capiscono e conoscono con la razionalità) ed estrinseci (quasi che Dio non avesse altra relazione con l’uomo che spedire dal cielo il manuale che racchiude le definizioni che lo riguardano – pensiamo al Catechismo di Pio X – e l’uomo, da parte sua, non avesse che da imparare tali definizioni).

Ciò che allora è assolutamente da evitare, è la riduzione della verità di Gesù alle verità (al plurale) intese in questo senso. Quella di Gesù è la verità!

Ma ancora una volta: non cambierebbe niente il passaggio dal plurale al singolare se non convertissimo l’idea di verità che abbiamo in testa. Essa nella sua matrice intellettualistica, dottrinalistica, estrinsecistica, è una riduzione assolutamente inadeguata per dire Dio.

Può invece instradare la celebre auto-identificazione di Gesù con la verità stessa: «Io sono la verità» (Gv 14,6). Qui infatti è evidente come la verità di cui parla Gesù non sia riducibile ad una definizione, ad un concetto, alla risoluzione di qualche enigma… Essa coincide con la sua persona, cioè con la sua libertà storica, con l’esperienza terrena di quegli anni vissuti in una piccola porzione di spazio.

La verità allora – quella che Egli difende così strenuamente – è il suo determinarsi così all’interno della Vita. E proprio perché è di questa “qualità”, che rimane una verità assolutamente non sintetizzabile: non basta raccontare la storia di Gesù per incontrare la verità; non basta tradurla in indicazioni morali; nemmeno in un percorso di imitazione; non basta cioè dire che Gesù è colui che ha creduto all’affidabilità del Padre, ha vissuto di questa fede e per questo ha proposto l’amore incondizionato tra gli uomini come realizzazione piena della vita di ciascuno… Perchè dire questo, è ancora tentare di dire la verità saltando la storia: cioè dire in parole più aggiornate, più pregnanti ed emozionanti, quello che prima del Concilio dicevano i dogmi in maniera un po’ fredda e incomprensibile…

Per incontrare la verità di Gesù non si può allora saltare la relazione personale con Lui: ogni tentativo di prescindere da questo mettersi in gioco personalmente, elaborando anche la sintesi più particolareggiata di Lui è ancora mancare il bersaglio. Non a caso tutto lo scandalo del capitolo 6 di Giovanni, fino alle dure conseguenze di questi versetti finali, ruota intorno al suo proporsi come pane e carne e sangue da mangiare… che sono i termini forti per richiamare alla necessità di una “assunzione” di Lui, di una relazione personale e autentica.

Ecco perché la domanda che pone ai Dodici non è “Non mi avete capito neanche voi?”, ma “Volete andarvene anche voi?”: perché è l’interruzione della relazione che impedisce l’accesso alla Verità.

E questo – credo – sia molto significativo per giudicare anche della nostra religiosità…

sabato 18 agosto 2012

XX Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro dei Proverbi (Pr 9,1-6)

La sapienza si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne. Ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola. Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città: «Chi è inesperto venga qui!». A chi è privo di senno ella dice: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza».



Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni (Ef 5,15-20)

Fratelli, fate molta attenzione al vostro modo di vivere, comportandovi non da stolti ma da saggi, facendo buon uso del tempo, perché i giorni sono cattivi. Non siate perciò sconsiderati, ma sappiate comprendere qual è la volontà del Signore. E non ubriacatevi di vino, che fa perdere il controllo di sé; siate invece ricolmi dello Spirito, intrattenendovi fra voi con salmi, inni, canti ispirati, cantando e inneggiando al Signore con il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo.



Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 6,51-58)

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».



In questa Ventesima Domenica del Tempo Ordinario, si apre la quarta e penultima parte del capitolo 6 di Giovanni, che il liturgista ha voluto spezzare perché in queste domeniche estive potessimo riflettere approfonditamente su di esso.

Prosegue il discorso tra Gesù e i Giudei, che, sebbene già serrato nei versetti precedenti, qui trova il momento di più grande tensione prima della drammatica finale che leggeremo domenica prossima.

Questa tensione nasce soprattutto dal fatto che Gesù, coscio del continuo fraintendimento a cui le sue parole sono sottoposte, decide di non tentare più di spiegarsi diversamente, ma sceglie di cavalcare questa incomprensione. Di fronte infatti allo scandalo dei Giudei per l’identificazione di Gesù col pane vivo disceso dal cielo e per l’offerta della sua carne per la vita del mondo, ribadisce ancora più esplicitamente la necessità, per avere la vita, di mangiare la sua carne.

A noi forse sembra strana, se non altro esagerata, la reazione di incomprensione dei Giudei: noi infatti di fronte all’affermazione di Gesù di essere il pane disceso dal cielo e alla proposta di mangiare della sua carne per avere la vita, istintivamente pensiamo all’eucaristia, a quel pane e a quella carne offerti per noi, e dunque non ci viene molto da “sobbalzare sulle sedie” e ci risulta per lo meno strano il vigore con cui i Giudei reagiscono alle parole di Gesù («Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”»).

Questa nostra reazione non è del tutto fuori luogo, anche Giovanni infatti, quando scrive questa parte del suo Vangelo, ha in mente la celebrazione eucaristica delle prime comunità cristiane e cioè il significato che nella prima Chiesa ha assunto l’ultima cena e la morte e risurrezione di Gesù e indubbiamente si sta rivolgendo a dei cristiani: quindi forse il suo intento è quello di mostrare in chiave polemica la durezza dei Giudei o, se non altro, di usare questo escamotage letterario per invitare i suoi a riflettere sul corpo e sangue offerto da Gesù per la salvezza del mondo.

Identificare però immediatamente questo discorso giovanneo di Gesù con quella che è la nostra messa e avere reazioni di perplessità e stupore di fronte alle posizioni che assumono i Giudei, ci impedisce di metterci realisticamente nei loro panni e di entrare in quel gioco letterario in cui invece lo stesso Giovanni vuole introdurci: cioè attraverso gli occhi dei Giudei, fare, noi cristiani, la fatica di andare a capire o a ripensare quale sia il senso vero dell’eucaristia che celebriamo e in cui già crediamo. Soffermarci infatti sullo scarto linguistico tra Gesù che parla e i suoi ascoltatori sempre più irrigiditi nell’incomprensione, può aiutare anche noi a capire lo spessore delle questioni in gioco, senza correre il rischio di accontentarci di risposte preconfezionate, non pensate e dunque estrinseche al nostro cuore.

In questo senso, ciò che pare suscitare più clamore fra i Giudei è la pretesa di Gesù di essere mangiabile. Ciò che essi non riescono ad accettare è infatti non tanto che egli abbia un cibo per loro (avevano appena assistito alla moltiplicazione dei pani e dei pesci reagendo molto positivamente), quanto piuttosto che siaLui tale cibo.

E io credo che il nocciolo della questione stia proprio qui: anche a livello intraecclesiale. Il problema cioè è quale sia la pretesa (la proposta) di Gesù di fronte all’uomo e d’altra parte la riduzione di tale pretesa di cui noi continuamente siamo tentati.

Ciò che infatti Gesù propone non è un cibo, ma è se stesso come cibo; non propone una via, ma è Egli stesso via; non propone uno stile di vita, ma è Egli stesso vita; non propone una o alcune verità, ma è Egli stesso verità («Io sono la via, la verità e la vita», Gv 14,6).

Noi spesso invece, sia personalmente che ecclesialmente, siamo andati e andiamo alla ricerca di cibo da Lui, non di Lui; di indicazioni per trovare la strada, di consigli o norme per uno stile di vita, di definizioni o concetti per capire il senso della vita, ma non della via, verità e vita che Lui è.

Spesso cioè lo scollamento – che Giovanni visibilizza magistralmente in questi versetti del suo Vangelo prendendo come prototipi i Giudei – è quello tra la persona di Gesù e tutta una serie di accessori alla relazione con Lui che, se possono essere utili a favorire tale rapporto, di certo non possono sostituirlo.

Per i Giudei questo era naturale, perché di fronte avevano Colui che a loro pareva essere solo un uomo: magari un uomo un po’ speciale, un profeta, uno degno di essere fatto re, anche un uomo di Dio. Ma pur sempre un uomo, dunque uno da cui non ci si deve aspettare la salvezza, ma istruzioni per raggiungerla, consigli, indicazioni, norme, ma nulla più.

La pretesa di Gesù invece è quella di non essere un cartello indicatore della meta, ma la meta stessa. Questo è l’inaccettabile per i Giudei e dall’altra parte è il fondamento – a volte dimenticato – dei cristiani: il cristianesimo infatti non è una religione del libro o della morale, addirittura non è nemmeno una religione – ribadisce spesso mons. Coletti – ma è una fede, cioè una relazione con il Vivente. Non si fonda cioè su un insieme di precetti da rispettare, su un insieme di definizioni da apprendere, su dei traguardi graduali da raggiungere: ma sul rapporto a tu per tu di ciascuno col Signore.

Questo, spesso per paura della responsabilità (nostra) o della impossibilità alla gestione di coscienze libere (dal punto di vista istituzionale), è stato storicamente adombrato, lasciato in secondo piano; non necessariamente per malizia, ma per tutta una serie di andirivieni storici, sociologici, psicologici, ecc… che non sta ora a noi ricostruire.

Ma, ad ogni modo, ogni volta che ecclesialmente o personalmente questa centralità della relazione a tu per tu col Signore va in ombra, stiamo riducendo la portata della proposta di Gesù all’uomo: se non si dà questo dialogo interiore tra la nostra libertà e la sua, ma ci si accontenta di sapere alcune cose di Lui, di applicare alcune cose che ha detto, di ripetere alcune cose che ha fatto ricadiamo nell’errore dei Giudei di cercare da Lui del cibo, ma non di assumere Lui come cibo, ci illudiamo di essere bravi cristiani, senza conoscere il nostro Signore, ci illudiamo di comportarci bene, senza andare ad indagare con Lui, nell’autenticità che si denuda di fronte a chi la ama, le profondità più nascoste e più tenebrose della nostra interiorità.

In altre parole, se non ci avventuriamo in questa relazione personale, ci limitiamo a credere ad un’ideologia (piuttosto che ad un’altra), sposiamo un codice etico (piuttosto che altro), seguiamo alcuni orari (piuttosto che altri), leggiamo un certo libro (piuttosto che un altro), facciamo certi gesti (piuttosto che altri), ecc… non uscendo mai da quell’estrinsecismo, da quella lontananza, da quella sensazione per cui in fin dei conti tutto questo con me non c’entri proprio niente… anzi mi passa tre metri sopra la testa e non entra mai a interrogare davvero la mia intimità, a interpellare la mia libertà, a chiedermi “Chi sono?” e “Chi voglio essere?”.

La proposta di Gesù sembra invece proprio andare contro questo modo estrinseco di vivere il rapporto col Padre, che poi è il rapporto col senso, con la vita, con la morte, con gli altri… Il suo invito è ad entrar-ci dentro, a smuoversi verso un affidamento, un lasciarsi andare, un dare credito, un fidarsi… è un invito a mangiare il cibo che dà la vita e non tanti piccoli cibi che non saziano, a puntare alto, a puntare al centro, senza disperdersi – per paura di non farcela o di essere ingannati – alle tante proposte periferiche che non sono mai definitive… è un invito a giocarsi per Lui, ad accettare la sua pretesa di essere via, verità e vita nostra… è un invito ad accogliere questo sguardo alto sull’uomo, chiamato non a sentir parlare di Dio, non a fare cose per Lui, non a parlargli per interposta persona, ma a vivere della relazione personalissima con Lui.

Se non avremo il coraggio di questo rapporto (sia di attuarlo come singoli, sia di permetterlo e favorirlo come Chiesa) rimarremo con in mano una vuota struttura del sacro incapace di salvare.

venerdì 3 agosto 2012

XVIII Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro dell’Èsodo (Es 16,2-4.12-15)

In quei giorni, nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. Gli Israeliti dissero loro: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine». Allora il Signore disse a Mosè: «Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina o no secondo la mia legge. Ho inteso la mormorazione degli Israeliti. Parla loro così: “Al tramonto mangerete carne e alla mattina vi sazierete di pane; saprete che io sono il Signore, vostro Dio”». La sera le quaglie salirono e coprirono l’accampamento; al mattino c’era uno strato di rugiada intorno all’accampamento. Quando lo strato di rugiada svanì, ecco, sulla superficie del deserto c’era una cosa fine e granulosa, minuta come è la brina sulla terra. Gli Israeliti la videro e si dissero l’un l’altro: «Che cos’è?», perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: «È il pane che il Signore vi ha dato in cibo».



Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni (Ef 4,17.20-24)

Fratelli, vi dico e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri. Voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità.



Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 6,24-35)

In quel tempo, quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?». Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato». Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».



In questa Diciottesima Domenica del Tempo Ordinario continua il discorso sul pane del cielo, che l’evangelista Giovanni aveva iniziato al primo versetto del sesto capitolo e che costituiva il vangelo di domenica scorsa (Gv 6,1-15). Come dicevamo, siamo infatti all’interno di un ciclo di 5 domeniche che si concentrano proprio su questo argomento, di cui oggi ci è proposta la seconda “tappa”.

In verità non è mai raccomandabile smembrare un testo concepito come unitario, sarebbe decisamente più opportuno presentarlo nella sua interezza, ma le esigenze pastorali costringono a questo spezzettamento: da questa necessaria soluzione metodologica cercheremo allora di prendere il vantaggio di poterci concentrare su alcuni elementi specifici, tentando per altro verso di evitare il rischio di perdere di vista l’insieme.

Il brano odierno riprende dal versetto 24. Ci sono 8 versetti di “stacco” rispetto alla conclusione del testo di domenica scorsa (v. 15) ,che sono quelli in cui è narrato lo “spostamento” di Gesù all’altra riva del lago e la presa di coscienza della folla della sua assenza.

Dopo l’incomprensione di questa rispetto al senso del gesto di Gesù della distribuzione dei pani e dei pesci («Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo»), la relazione è riproposta al di là dal mare. Stavolta il confronto diviene diretto, la folla e Gesù interloquiscono direttamente, ma anche in questo caso l’esito sarà incerto e il fraintendimento chiaro.

Il problema che la folla pone è infatti quello che riguarda il sottrarsi di Gesù rispetto al loro desiderio di acclamarlo addirittura re: dietro alla domanda «Rabbì, quando sei venuto qua?» sta infatti tutta la delusione dell’incomprensione appena consumata: Perché Gesù se ne è andato? Perché se ne è andato senza dire niente? Perché non vuole continuare a sfamarci? A essere il re che dà da mangiare al suo popolo?

Il problema dell’incomprensione verte tutto sul senso del pane che Gesù vuole dare e che la folla vuole ricevere. Quella cercava qualcosa che riempiva la pancia, Egli proponeva invece qualcosa che riempiva la Vita.

Il brano odierno è infatti la precisazione di questa incomprensione, o meglio, l’inizio della sua esplicitazione (tutto il capitolo 6 di Gv infatti è costruito intorno a questo fraintendimento). Gesù infatti alla folla che sostanzialmente gli chiede conto del suo essersi sottratto, risponde chiarendo in che senso si è sentito frainteso: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo».

L’incomprensione verte quindi sulla qualità del pane, o, detto fuor di metafora, sulla consistenza esistenziale da perseguire: non il cibo che non dura è il correlato dell’uomo, la risposta adeguata alla sua domanda sul senso, la risoluzione della sua fame, bensì il cibo che rimane per la vita eterna.

Ma cosa si nasconde dietro a questi paragoni: Cosa è il cibo che non dura e cosa (chi) è il cibo che rimane per la vita eterna?

Un primo livello di risposta è facile, per i cattolici quasi automatico: cibo che non dura è il pane inteso in senso letterale, quello fatto di acqua e farina che Gesù aveva distribuito il giorno prima, cibo che appunto si limita a saziare e riempire la pancia; e cibo che rimane per la vita eterna è Gesù.

Questa seconda risposta, che a prima vista potrebbe sembrare la più difficile (cosa è il pane che rimane per la vita eterna?), è invece tanto più facile se si nota che è il testo stesso a suggerirla: in chiusura di questo brano arriva infatti quell’identificazione esplicita tra Gesù e il pane («Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!») che tanti smottamenti provocherà in seguito nella folla e fra i discepoli stessi…

Al di là dell’automatismo di questo primo livello della risposta, il problema vero diventa però capirne il senso: al di là della lettera, quali sono quelle dimensioni o esperienze o orizzonti umani fatti di pane che non dura? Cos’è che nella vita non è degno di un darsi da fare, data la sua inconsistenza nel tempo? E – sull’altro versante – in che senso Gesù è il pane che rimane per la vita eterna? In che senso è il pane della vita? Evidentemente un’accentuazione in chiave eucaristica è ineludibile. Ma anche lì… non si può trattare di una prospettiva estrinseca, per cui mangiare il pane del cielo equivarrebbe a fare la comunione tutte le domeniche e così considerarsi “apposto” per la vita eterna. Anche lì il problema è di senso. Cosa vuol dire allora la proposta di Gesù a darsi da fare per il pane che rimane per la vita eterna? In altre parole, cosa vuol dire che Gesù è il senso della vita dell’uomo? È la pienezza di cui invece – per altre vie – egli torna sempre ad aver fame?

Innanzitutto va chiarita la fame. Quale fame Gesù vuole saziare? Non quella della pancia, evidentemente, ma allora quale? In gioco non pare esserci meramente la fame del sapere cosa fare (un itinerario morale o spirituale o prassistico); la fame della risoluzione di qualche problema; la fame di un trascorrere solamente una vita tranquilla. In gioco c’è il problema dell’uomo, anzi più radicalmente in problema uomo: il problema del senso dell’esserci, il problema del dover morire, il problema del vivere e di come farlo, di come sia giusto e degno farlo, non in senso relativo, ma assoluto… di che cosa ci stiamo a fare qui, di che senso hanno le tombe in cui necessariamente finiamo, di quale felicità è percorribile e se davvero essa sia una proposta percorribile, per me, per gli altri, per tutti… di dover cercare, scavare, in cosa impegnarsi: nello studio, nell’interiorità, nel lavoro, nella disponibilità agli altri, nella straordinarietà, nella quotidianità, nello svago, nel vantaggio… quante proposte intra ed extra ecclesiali… tutte con la loro plausibilità e convinzione e argomentazione… ma a chi dar retta in questo vociare continuo? Quali criteri usare per decidere di sé e degli altri, come sapere cosa è giusto e cosa è bene nelle situazioni?

Tutto questo e molto altro è ciò che Gesù vuol saziare.

Sempre nel vangelo di Giovanni ciò è sintetizzato magistralmente nella frase: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). La pienezza della gioia… ecco cosa vuol saziare Gesù… ecco perché la sua pretesa apparirà sempre – già al suo tempo come oggi – “esagerata”, appunto troppo pretenziosa, troppo ardita, illusoria, incredibile… Perché – diciamo noi aridi vecchi uomini di ogni età – è impossibile per l’uomo tale gioia.

La sua proposta “funziona” invece all’incontrario… lui chiede di essere creduto: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato»; a fronte della (comprensibile) incredulità umana, sfiancata dalla tragicità della vita – che si rivela tanto più drammatica nel tentativo della società odierna di relegarla nell’oblio, tanto essa è insostenibile – Gesù chiede che gli venga dato credito: che si abbia la fede – diremmo, se tale termine non fosse così consumato e logoro, da rimandare meramente a un’adesione formale a verità incomprensibili e di cui sinceramente – per onestà intellettuale – l’uomo di oggi fa volentieri a meno.

Un credito che non ha il sapore dell’iniezione di fiducia della psicologia fai da te che continuamente ci ripropone l’ottimismo, come soluzione delle crisi. Egli non chiede che si creda in qualcosa, che ingenuamente si continui a dire che poi comunque le cose andranno per il verso giusto (al massimo nell’aldilà): Egli chiede che si creda a Lui. E anche lì non solo alle cose che dice, non solo alle cose che fa, ma all’uomo e al Dio che è. L’adesione cioè non è intellettualistica o moralistica, ma personale.

Che Gesù è il pane di vita, vuol dire che la fame dell’uomo è saziabile solo vivendo di Lui, acconsentendo nel segreto a dar credito che l’umanità che ha attuato lui è l’umanità dalla gioia piena, che non ha più fame né sete e che lo è in assoluto, perché “certificata” da Dio in persona. Acconsentendo e ribadendo tale paradigma in ogni interstizio della propria interiorità: così che ogni decidere di sé e degli altri, ogni pensare e pensarsi, ogni porsi e ritrarsi, abbia come logica la signoria del Signore.

Non in senso mimetico: non è banalmente un’imitazione quella che viene chiesta, non è una ripetizione di gesti e parole, nemmeno di sentimenti e intenzioni; ma è un’assunzione, nella personalità irripetibile di ciascuno, di ciò che Egli è. Ecco perché il cristianesimo non può essere mai ridotto a un insieme di dottrine o di precetti – e quando la chiesa lo ha fatto ha espresso il peggio di sé ad intra e ad extra – perché l’assunzione singolare della forma Christi può avvenire solo in una relazione tra due libertà, tra due persone, tra due volti, due cuori, due carni, che si mischiano, si ridistanziano, si fraintendono, si rispiegano, si ricomprendono, si entusiasmano, si deludono, si amano, si temono, si riaffidano, in una circolarità incandescente che si autoalimenta.
Ma – ammesso questo vortice identificativo – come può essere credibile come pane che dona la pienezza della gioia, uno che è morto crocifisso? Uno che «non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere» (Is 53,2)? Perché credere e seguire uno che va a morire? Questo è ancora di più l’inaccettabile – ieri come oggi, con l’uomo sempre alla ricerca del bene “per sé”. Ma la forma Christi è proprio questa: la pienezza della gioia è l’amore, l’essere per gli altri, perché gli altri siano, fino alla morte – fino a morirne: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15 11-13).
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