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domenica 22 aprile 2012

I segni della vergogna

Graffito di Alessameno

Più leggo e rileggo questi racconti apostolici della resurrezione di Gesù, e più mi convinco che noi troppo presto saltiamo alla verità della resurrezione senza soffermarci adeguatamente sulla paura dei discepoli. Eppure tutti gli evangelisti sono concordi nel testimoniare questa paura dei discepoli.
Vorrà pur dire qualcosa. Perché la saltiamo? Abbiamo paura delle nostre paure?
Abbiamo già visto come le “ragioni” che i diversi racconti danno dà di questa paura non reggono a uno sguardo attento.
Già altre volte gli apostoli hanno assistito alla “resurrezione” dai morti (Lazzaro, la fanciulla morta)… certo non si può parlare propriamente di resurrezione in quanto poi sono (ri)morti.
Ma insomma se un amico che credevo morto poi lo scopro ancora vivo e vegeto… più che la paura mi invaderebbe la gioia.
Abbiamo provato a trovare alcune spiegazioni di questa paura:
L’insistenza nel masso che copriva il sepolcro ci ha fatto riflettere su quale sconvolgimento profondo nella visione religiosa del mondo dei morti questo comportava: la scoperta che il mondo dei morti non esiste perché scoperto vuoto! Il superamento della divisione dell’aldiquà e dell’aldilà con una visione nuova: essere in Dio, o non essere in Dio! Così che in realtà le cose stanno in ben altri termini: è morto anche se vivo chi non è in Dio, è vivo anche se morto chi è in Dio!

Anche il mostrarsi di Gesù a partire dalle mani e dei piedi ci insegna qualcosa. Una persona non la si riconosce che dal volto, dalla corporatura… le mani di un crocifisso assomigliano a quelle di un qualunque crocifisso: perché non poteva essere scambiato per uno dei ladroni? Forse i discepoli che lo avevano tradito, temevano una vendetta? Anche per questo che Gesù mostra le ferite: per mostrare in quelle mani ferite e disarmate la totale assenza del rancore nel dono della pace del perdono totale …
Notavamo però che è anche vero che forse noi siamo le nostre ferite. Accolte senza rancore. Mostrate in perdono. Normalmente noi le nascondiamo, perché ce ne vergogniamo. E viviamo nel rancore di chi ce le ha inflitte. Gesù invece per sempre se ne vanterà, per sempre sarà riconosciuto come “Il Crocifisso”, per queste è venuto. Anche i discepoli col tempo impareranno a vantarsene (Atti 5,41; 2Cor 11,30; 1Cor 1,23). Forse sbagliamo a passare il tempo a rimarginare le nostre ferite. Forse anche le nostre, saranno per l’eternità i segni della nostra identità (cfr 2Cor 11,25-28). Tutto sta allora, sebbene inflitteci dagli altri (o dalla nostra immaturità), di accoglierle come nostre. Come il nostro modo di fare giustizia rompendo la catena del disprezzo. Allora sebbene non rimarginate, non ci abbrutiranno più, ma saranno occasione di un di più di umanizzazione diventando ciò che ci abbelliscono. Per noi e per gli altri.

Ora però in questo racconto di Luca che la liturgia ci propone, i discepoli lo scambiano addirittura per un fantasma… Ma non c’erano anche i discepoli di Emmaus che lo avevano riconosciuto allo spezzare del pane?…
Poco credibile anche questa esposizione di Luca… È evidente che tutto il suo racconto ha come scopo principale di far capire ai pagani greci convertiti al cristianesimo che credevano ai fantasmi, che la resurrezione di Gesù non aveva niente a che vedere con le visite degli ectoplasma come la credenza popolare anche italiana immagina: i morti non hanno messaggi “divini” da darci diversi da quelli che già sappiamo (cfr Il racconto del ricco e del povero Lazzaro in Lc 16,19-31). Infatti mangia e beve: i fantasmi non mangiano e bevono! È una argomentazione rischiosa quella che Luca utilizza: perché non fa cogliere la differenza che pure c’è sebbene nella continuità della stessa persona, tra il corpo risorto di Cristo e il corpo di Gesù di Nazareth! Evidentemente a lui premeva semmai sottolineare l’identità… Più prudentemente san Paolo usa la metafora del seme (1Cor 15,13): perché come è il nostro ferito corpo alla sua completa risurrezione non ci è dato sapere, certamente però non può essere più soggetto alla logica “corruttibile” della chimica e della fisica, della fame e della sete…
Vorrei però ancora una volta soffermarmi sul fatto della “paura” dei discepoli testimoniata da Luca (tra l’altro anche qui come abbiamo visto in Giovanni, sebbene divisi in tre gruppi – discepoli di Emmaus, gli Undici, e gli altri – tutto il discorso si riferisce alla totalità della comunità credente e non solo agli Undici).
Credo infatti che per noi uomini dell’oggi, non abbiamo considerato a sufficienza il dramma e la vergogna dei discepoli davanti non tanto alla morte di Gesù, ma a quel tipo di morte!
Infatti non basta dire che Gesù è morto per i nostri peccati, perché Gesù non è semplicemente stato torturato e ucciso.
Spesso nelle nostre meditazioni sulla Passione ci soffermiamo sull’ingiustizia subita da Gesù e sulla sua sofferenza. Questo è certamente vero, buono e giusto… Forse però sarebbe più proficuo soffermarci di più sul tipo di morte che Gesù ha accettato di subire. Anche perché si potrebbe obiettare che un ragionamento del genere rischia di pensare che quel tipo di morte sarebbe stato giusto se Gesù fosse stato colpevole. Come rischia ancora una volta di far comprendere Lc 23,41: in realtà l’ingiustizia di una tale morte non la subisce solo Gesù ma anche i cosiddetti ladroni. Di ieri e di sempre.

Infatti il problema per i romani, per i giudei, per i greci e per i… giapponesi e per noi non è tanto morire, ma morire dignitosamente! Ci sono molti casi nella storia in cui un giusto si dà la morte pur di non sottomettersi ai voleri di un tiranno. I monaci buddisti pur di salvaguardare la loro dignità non esitano a darsi pubblicamente fuoco! Sono immolazioni a cui va tutto il nostro deferente rispetto, solidarietà e orante silenzio.
Ma per Gesù siamo davanti a un altro tipo di morte: Gesù non fa harakiri! Non beve la cicuta come Socrate, o come qualche nobile senatore romano, non muore martire come i Maccabei… Gesù muore peggio di un lapidato: neanche per mano giudea, ma per mano pagana, crocifisso!

La sua morte in croce, è la più disumana morte possibile per quell’epoca. E per quel che rappresentava, di ogni epoca! Non è un caso che una delle prime testimonianze del simbolo della croce in ambito cristiano sia proprio un graffito blasfemo: indica veramente il senso di profonda ripulsa per quel tipo di morte, persino considerato indegno dagli schivi (cfr immagine).
Noi oggi non abbiamo la minima possibilità di capire il ribrezzo e il dramma davanti a quella morte. Noi ci soffermiamo sull’atrocità delle sofferenze inflitte. Ma a quei tempi quella morte era la morte di un non-uomo, la morte di un “maledetto da Dio”. Era la punizione estrema riservata agli schiavi. Nessun uomo libero – gli unici considerati “uomini” – poteva essere crocifisso. Nemmeno gli animali venivano crocifissi. Sgozzati, ma non crocifissi!

«Reietto!» Lo pronunciamo e ne conosciamo il significato, ma in realtà non riusciamo a capire la profondità del disprezzo che questa parola esprime in un crocifisso. Gesù è morto veramente della morte tipica di un uomo “dannato”, ripudiato da Dio e dagli uomini!
Se così è, come è, perché questo rappresentava la croce, dobbiamo ora porci la domanda che certamente i primi discepoli si sono posti: “Come è possibile che ora Dio lo risusciti?”.
C’è da diventar pazzi… altro che fantasma!
La resurrezione di Gesù da parte di Dio, fa saltare tutti gli schemi di giusto/ingiusto, benedetto/maledetto, del puro/impuro, valore/disvalore…
Che Dio è un Dio che resuscita un maledetto, un dannato, un reietto? Ma Gesù non è stato condannato secondo la Legge, secondo i precetti del Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe e Mosè?… Risuscitandolo Dio rimette tutto in discussione: fin dalle fondamenta.

I segni della croce che Gesù mostra sono i segni della maledizione storica non solo degli uomini ma anche di Dio! E ora Vive?!
Vive perché era giusto noi subito diciamo, perché era innocente…
Non ne sono così sicuro! In ogni caso questo esige una riflessione ulteriore se vogliamo prendere seriamente la Croce! La nostra risposta (apparentemente identica a quella degli apostoli che erano semmai interessati a mostrare la “continuità” di Gesù col Dio di Israele) censura il fatto che Gesù nel suo morire così è veramente morto “assumendosi i peccati di tutta l’umanità! È veramente morto da “dannato” Gesù. Anche per Dio Padre, il cui silenzio deve farci pensare…
Gesù è in quella morte, identificato a ogni peccatore, a ogni possibili inimmaginabile peccato. Gesù non è morto da giusto è morto da ingiusto, assumendosi colpe da lui mai commesse. Questa è la sua giustizia! E quella di Dio.

Noi tendiamo a separare troppo Gesù in croce, dalle dannazioni quotidiane in cui il nostro e altrui peccato ci inchioda!
Ebbene il problema che fa saltare i nostri schemi di giustizia è che proprio questo “mostro di peccato” che è Gesù in croce, riceve nella risurrezione il perdono del Padre.
Ecco perché è così importante il mostrare “i segni della vergogna”: mani e piedi crocifissi!
Ed ecco perché nell’assoluzione che Dio dà al Cristo risuscitandolo (H. U. von Balthasar) c’è l’assoluzione di ogni peccatore e la liberazione da ogni dannazione umana o presunta divina! La cancellazione definitiva di ogni possibile debito. Producendo nel cuore di ognuno la Pace del perdono pasquale!

Tutte e tre le letture hanno proprio questo punto centrale: l’uomo non può più utilizzare la maledizione di Dio come scusante della propria e altrui inanità. L’uomo ora è un uomo libero da ogni possibile senso di colpa; schiodato da ogni permanente rimorso; assolto da ogni immaginabile pena…

Ecco perché è così importante – ce lo mostrano sempre i testi – ricominciare a rileggere proprio a partire da questa “assoluzione generale” che è la risurrezione di Cristo, la propria storia anche di peccato attraverso questo definitivo abbraccio del Padre: per riscoprirla sacra!

Come gli apostoli, sentono l’esigenza di rileggersi a partire dalla storia di Cristo, tutta la propria storia fin dalle origini, così ogni uomo e donna deve imparare a specchiare la propria storia in quella che il Padre ha realizzato in Cristo come compimento di quella del popolo ebraico.
Perché la Pasqua diventi anche “nostra pasqua” c’è bisogno di rielaborare il racconto della propria storia personale, familiare e comunitaria, ad imitazione quel processo narrativo che gli apostoli fanno sulla loro storia: Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture.

Lasciamoci aprire la mente perché attraverso la comprensione della storia scritta da Dio col popolo di Israele fino a Gesù, noi possiamo cominciare a comprendere la storia scritta da Dio insieme a noi in Gesù.

1 commento:

Mario ha detto...

Come volevasi dimostrare. Leggete qui:

http://it.notizie.yahoo.com/morto-si-risveglia-funerale-egitto-si-trasforma-festa-143004786.html

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