Pagine

ATTENZIONE!


Ci è stato segnalato che alcuni link audio e/o video sono, come si dice in gergo, “morti”. Se insomma cliccate su un file e trovate che non sia più disponibile, vi preghiamo di segnalarcelo nei commenti al post interessato. Capite bene che ripassare tutto il blog per verificarlo, richiederebbe quel (troppo) tempo che non abbiamo… Se ci tenete quindi a riaverli: collaborate! Da parte nostra cercheremo di renderli di nuovo disponibili al più presto. Promesso! Grazie.

martedì 27 marzo 2012

Domenica delle Palme

Quanto dicevamo settimana scorsa sullo “stare fermo” di Gesù nella sua totale dedizione all’amore, alla fedeltà e alla verità, oggi diventa “guardabile” nelle righe degli ultimi capitoli del vangelo, dove cambia il tempo della narrazione. Se in 13 capitoli Marco ha concentrato tutta la vita pubblica di Gesù, ora in questi capitoli 14 e 15, attua un rallentamento improvviso, in cui gli eventi vengono raccontati come in presa diretta… tanto da poter diventare drammatizzabili, recitabili, “guardabili” appunto, come in scena.

E allora l’invito di oggi è quello di prendersi del tempo per guardare a questo suo “stare fermo” nella totale dedizione all’amore, alla fedeltà e alla verità, dentro al muoversi dei personaggi intorno a lui, al precipitare degli eventi, al vortice che lo risucchia e annienta.

Verrebbe voglia di dire qualcosa… su quella donna che lo unge all’inizio e il cui profumo lo accompagnerà fin sulla croce… su Giuda, che proprio indispettito da questa tenerezza del suo maestro, decide per il tradimento… sul fatto che Marco indica a futura memoria non i gesti dell’ultima cena (non ha l’espressione “Fate questo in memoria di me”), ma il gesto di questa amante (= che ama)… sul quel “Non disse più nulla” di Gesù, che interrompe l’ingorgo di parole, accuse, urla e insulti che gli vorticano intorno… su quel grido inarticolato con cui muore il figlio dell’uomo “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato”… su quel corpo morto, tenuto in mano da un amico, di cui dovremmo imparare una volta per tutte il nome a memoria… Giuseppe d’Arimatea…

Verrebbe voglia… Ma oggi è giusto che lo spazio sia riempito dal testo e non dal commento.

Buona settimana Santa a tutti.



Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Marco (Mc 14,1-15,47)

Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Àzzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturare Gesù con un inganno per farlo morire. Dicevano infatti: «Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo».

Gesù si trovava a Betània, nella casa di Simone il lebbroso. Mentre era a tavola, giunse una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande valore. Ella ruppe il vaso di alabastro e versò il profumo sul suo capo. Ci furono alcuni, fra loro, che si indignarono: «Perché questo spreco di profumo? Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!». Ed erano infuriati contro di lei. Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me. Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura. In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto».

Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai capi dei sacerdoti per consegnare loro Gesù. Quelli, all’udirlo, si rallegrarono e promisero di dargli del denaro. Ed egli cercava come consegnarlo al momento opportuno.

Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.

Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici. Ora, mentre erano a tavola e mangiavano, Gesù disse: «In verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà». Cominciarono a rattristarsi e a dirgli, uno dopo l’altro: «Sono forse io?». Egli disse loro: «Uno dei Dodici, colui che mette con me la mano nel piatto. Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo, dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!». E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».

Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. Gesù disse loro: «Tutti rimarrete scandalizzati, perché sta scritto: “Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse”. Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea». Pietro gli disse: «Anche se tutti si scandalizzeranno, io no!». Gesù gli disse: «In verità io ti dico: proprio tu, oggi, questa notte, prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai». Ma egli, con grande insistenza, diceva: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò». Lo stesso dicevano pure tutti gli altri.

Giunsero a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego». Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate». Poi, andato un po’ innanzi, cadde a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora. E diceva: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu». Poi venne, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare una sola ora? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Si allontanò di nuovo e pregò dicendo le stesse parole. Poi venne di nuovo e li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti, e non sapevano che cosa rispondergli. Venne per la terza volta e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Basta! È venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino». E subito, mentre ancora egli parlava, arrivò Giuda, uno dei Dodici, e con lui una folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani. Il traditore aveva dato loro un segno convenuto, dicendo: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta». Appena giunto, gli si avvicinò e disse: «Rabbì» e lo baciò. Quelli gli misero le mani addosso e lo arrestarono. Uno dei presenti estrasse la spada, percosse il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio. Allora Gesù disse loro: «Come se fossi un brigante siete venuti a prendermi con spade e bastoni. Ogni giorno ero in mezzo a voi nel tempio a insegnare, e non mi avete arrestato. Si compiano dunque le Scritture!». Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono. Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo.

Condussero Gesù dal sommo sacerdote, e là si riunirono tutti i capi dei sacerdoti, gli anziani e gli scribi. Pietro lo aveva seguito da lontano, fin dentro il cortile del palazzo del sommo sacerdote, e se ne stava seduto tra i servi, scaldandosi al fuoco. I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una testimonianza contro Gesù per metterlo a morte, ma non la trovavano. Molti infatti testimoniavano il falso contro di lui e le loro testimonianze non erano concordi. Alcuni si alzarono a testimoniare il falso contro di lui, dicendo: «Lo abbiamo udito mentre diceva: “Io distruggerò questo tempio, fatto da mani d’uomo, e in tre giorni ne costruirò un altro, non fatto da mani d’uomo”». Ma nemmeno così la loro testimonianza era concorde. Il sommo sacerdote, alzatosi in mezzo all’assemblea, interrogò Gesù dicendo: «Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?». Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?». Gesù rispose: «Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo». Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». Tutti sentenziarono che era reo di morte. Alcuni si misero a sputargli addosso, a bendargli il volto, a percuoterlo e a dirgli: «Fa’ il profeta!». E i servi lo schiaffeggiavano. Mentre Pietro era giù nel cortile, venne una delle giovani serve del sommo sacerdote e, vedendo Pietro che stava a scaldarsi, lo guardò in faccia e gli disse: «Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù». Ma egli negò, dicendo: «Non so e non capisco che cosa dici». Poi uscì fuori verso l’ingresso e un gallo cantò. E la serva, vedendolo, ricominciò a dire ai presenti: «Costui è uno di loro». Ma egli di nuovo negava. Poco dopo i presenti dicevano di nuovo a Pietro: «È vero, tu certo sei uno di loro; infatti sei Galileo». Ma egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quest’uomo di cui parlate». E subito, per la seconda volta, un gallo cantò. E Pietro si ricordò della parola che Gesù gli aveva detto: «Prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai». E scoppiò in pianto.

E subito, al mattino, i capi dei sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio, dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù, lo portarono via e lo consegnarono a Pilato. Pilato gli domandò: «Tu sei il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici». I capi dei sacerdoti lo accusavano di molte cose. Pilato lo interrogò di nuovo dicendo: «Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano!». Ma Gesù non rispose più nulla, tanto che Pilato rimase stupito.

A ogni festa, egli era solito rimettere in libertà per loro un carcerato, a loro richiesta. Un tale, chiamato Barabba, si trovava in carcere insieme ai ribelli che nella rivolta avevano commesso un omicidio. La folla, che si era radunata, cominciò a chiedere ciò che egli era solito concedere. Pilato rispose loro: «Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?». Sapeva infatti che i capi dei sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia. Ma i capi dei sacerdoti incitarono la folla perché, piuttosto, egli rimettesse in libertà per loro Barabba. Pilato disse loro di nuovo: «Che cosa volete dunque che io faccia di quello che voi chiamate il re dei Giudei?». Ed essi di nuovo gridarono: «Crocifiggilo!». Pilato diceva loro: «Che male ha fatto?». Ma essi gridarono più forte: «Crocifiggilo!». Pilato, volendo dare soddisfazione alla folla, rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso. Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la truppa. Lo vestirono di porpora, intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo. Poi presero a salutarlo: «Salve, re dei Giudei!». E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano davanti a lui.

Dopo essersi fatti beffe di lui, lo spogliarono della porpora e gli fecero indossare le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo. Costrinsero a portare la sua croce un tale che passava, un certo Simone di Cirene, che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e di Rufo. Condussero Gesù al luogo del Gòlgota, che significa «Luogo del cranio», e gli davano vino mescolato con mirra, ma egli non ne prese. Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse ciò che ognuno avrebbe preso. Erano le nove del mattino quando lo crocifissero. La scritta con il motivo della sua condanna diceva: «Il re dei Giudei». Con lui crocifissero anche due ladroni, uno a destra e uno alla sua sinistra. Quelli che passavano di là lo insultavano, scuotendo il capo e dicendo: «Ehi, tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!». Così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi, fra loro si facevano beffe di lui e dicevano: «Ha salvato altri e non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo!». E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano. Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio.

Alle tre, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Ecco, chiama Elia!». Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere». Ma Gesù, dando un forte grido, spirò. Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo. Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!». Vi erano anche alcune donne, che osservavano da lontano, tra le quali Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, le quali, quando era in Galilea, lo seguivano e lo servivano, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme.

Venuta ormai la sera, poiché era la Parascève, cioè la vigilia del sabato, Giuseppe d’Arimatèa, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anch’egli il regno di Dio, con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù. Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, gli domandò se era morto da tempo. Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe. Egli allora, comprato un lenzuolo, lo depose dalla croce, lo avvolse con il lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare una pietra all’entrata del sepolcro. Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano a osservare dove veniva posto.

martedì 20 marzo 2012

V Domenica di Quaresima

Siamo di nuovo a Gerusalemme.

Come dicevamo settimana scorsa, Gesù vi si reca in occasione delle feste ebraiche.

In questo caso «Era vicina la Pasqua dei Giudei» (Gv 11,55).

Questa, sarà l’ultima volta di Gesù a Gerusalemme, quella fatale; infatti, pochi versetti dopo quelli riportati dal vangelo di questa Quinta Domenica di Quaresima, inizierà il racconto della passione, morte e risurrezione di Gesù, che nel vangelo di Giovanni occupa i capitoli dal 13 al 21.

Siamo perciò sulla soglia (il testo odierno è infatti tratto dal capitolo 12) e la scelta non è casuale: Domenica prossima infatti è già la domenica delle Palme, in cui entreremo nel vivo del racconto degli ultimi giorni di vita di Gesù; e poi sarà Pasqua.

Oggi è perciò l’ultima domenica “normale” di Quaresima, l’ultimo passo di avvicinamento agli eventi finali della drammatica storica del Signore.

E la Chiesa, per farci fare questo “ultimo passo di avvicinamento” ha scelto questo testo giovanneo del capitolo 12, i versetti dal 20 al 33.

Ci sarebbero tante cose da dire – troppe onestamente – per addentrarsi nelle parole che Gesù rivolge in questo discorso ai Greci che volevano vederlo: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome».

Scelgo perciò di concentrarmi sulla prospettiva che suggerivo prima: guardiamo questa scena come all’ultima di Gesù prima del crocevia definitivo della sua storia.

Come si pone di fronte ad esso? Cosa dice di sé? Come si determina? Quale relazione col Padre suo traspare? Quale verità su sé e su di Lui? Chi decide di essere?



«La sua “carne terrena” era dello stesso impasto della nostra, rifiutava istintivamente, con grida e lacrime, lo stritolamento del meccanismo perverso del potere che lo voleva eliminare. Anche lui, come ogni uomo schiacciato dalla prepotenza del male (proprio e altrui!), si rivolge al Dio che può liberarlo… Ma il Dio dell’onnipotenza è un idolo costruito dal “bisogno dell’uomo”, è la personalizzazione del gemito della creatura oppressa! La quale, invece, ‑ l’abbiamo visto troppe volte! ‑ si sente proprio abbandonata … alla sua sorte sulla terra! Anche Gesù, “pur essendo figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì”! Ha dovuto sperimentare l’abbandono del Padre, che non l’ha ascoltato nella sua implorazione di evitargli la morte. Pur pregando e sperando, con disperata speranza, come noi, ha dovuto “passare attraverso” il non senso della totale solitudine, del rifiuto, del dolore e della morte, senza che nessuno intervenisse, ad alleviarlo e curarsi di lui! Se non ci fosse passato dentro (cioè senza la passione della pasqua!) non l’avrebbe imparato – osa dire la lettera agli Ebrei! Perché l’adesione umana alla volontà del Padre è storica non virtuale, cioè si avvera e si rinnova nelle drammatiche vicende della vita! Il nuovo testo che dice: fu esaudito” per il pieno abbandono” al Padre, spiega bene, rispetto alla traduzione precedente cui eravamo abituati: per la sua pietà! Ma letteralmente si potrebbe dire: per aver “preso bene” (dolcemente) la sua dolorosa vicenda – come volontà del Padre! Ovviamente non era la volontà del Padre che Gesù fosse ucciso dalla malvagità, vigliaccheria e gelosia dei rappresentanti del potere del tempo! Anche se da questi mali non l’ha liberato. Dio non ha mai avuto bisogno di questi sacrifici di sofferenza per soddisfare o compensare l’offesa della malvagità degli uomini. Sarebbe bestemmia pensarlo! Ma Gesù “fu esaudito”, per il fatto che, perseguitato dalla coalizione del male contro di lui, innocente e inerme, rimase fermo nella sua totale dedizione all’amore, alla verità, alla fedeltà… su cui si fonda la nuova Alleanza (il legame di amore indistruttibile con Dio e con gli uomini, anche suoi uccisori). A questo suo amore totale va il “compiacimento” di cui il Padre ha detto al battesimo e alla trasfigurazione e che qui rinnova. Per questo l’ha mandato nel mondo, a portare a compimento, con il suo sangue, l’antica Alleanza!» [Giuliano].



Ecco… Questo è ciò su cui vorrei che ci fermassimo oggi, o almeno ciò su cui vorrei fermarmi io. Il sopraggiungere per Gesù di un momento nella sua vita, che è decisivo per capire chi Lui sia, in cosa creda veramente, in quale faccia di Dio. Per Gesù, quel momento, arriva a Gerusalemme, arriva quella volta… è il crocevia definitivo: da come si porrà di fronte ad esso, ne andrà di Lui, del suo messaggio, della sua identità, della sua verità.

Come accennavamo settimana scorsa, non gira al largo, non torna indietro, ma passa (pasqua!) attraverso. Il “chicco di grano” che deve decidere se morire, di cui aveva predicato per le strade della Galilea, ora è lui. Chi deve credere che conservare la propria vita vuol dire perderla e consegnarla vuol dire ritrovarla, è ora lui.

E dentro a questo “ora lì – a quel crocevia – c’è lui”, c’è dentro tutta una drammatica umana reale, che troppo spesso dimentichiamo. Troppo in fretta saltiamo alla decisione che poi Gesù prenderà (si consegnerà) e al ritrovamento della Vita che questo comporterà (risorgerà). Troppo in fretta risolviamo il dramma, nella sua felice riuscita.

E facendolo, facciamo un doppio torto: a lui, che in quel crocevia “con forti grida e lacrime” c’è stato davvero; e a noi, che siamo esattamente allo suo stesso crocevia… e tendiamo a voler scivolare via, far finta di niente, scansarlo… sperando che il lieto fine arrivi presto e comunque.

E invece… C’è da diventare uomini.

Lui lo è diventato, passando attraverso: scegliendo di essere il chicco che muore, scegliendo di credere che perdere la vita vuol dire ritrovarla, scegliendo di rimanere fermo nella sua totale dedizione all’amore.

Fare qualsiasi altra cosa rispetto a ciò che ha fatto in quei tre giorni, voleva dire, per lui, non essere se stesso, smentire la sua verità (la verità di sé, che coincideva con quella del Padre suo), e cioè che solo l’amore ha senso.

E allora la lettura di queste sue vicende di Figlio dell’uomo e di Figlio di Dio, non possono che ricollocarci nei nostri crocevia, dove confluiscono tante cose, tanti canali, tanti sentimenti, tanti bisogni, paure, desideri, voglie, ferite… tutto mescolato insieme… insieme anche a un briciolo di gratuità e amore… perché anche noi possiamo scegliere di diventare uomini, di essere noi stessi, di essere veri (e lo siamo realmente quando diventiamo anche noi quel chicco…): perché dove veramente la nostra verità si mostra… è quando l’egocentrismo si scioglie… in quei tempi e in quei momenti di solitudine e paura, quando i cani famelici si risvegliano dentro di noi, e ci spingono ad una voracità disperata e disperante. È allora che c’è il vero crocevia: l’occasione di guadagnare un centimetro di gratuità, perdendo un pezzo di vita.
Senza però dimenticare – qualora ci riuscissimo – che abitiamo la stessa pasta di carne dei nostri fratelli e sorelle che magari non ci riusciranno mai (Moscatelli a Natale ci diceva: Basta solo desiderare di amare così… anzi basta solo desiderare di desiderare di amare così…). Altrimenti trasformiamo inconsapevolmente «l’attitudine interiore di “poveri beneficati” a “padroncini esigenti e presuntuosi”, duri e sprezzanti con quelli che … non ce l’hanno fatta o sono arrivati tardi e male!» [Giuliano].

lunedì 19 marzo 2012

L'ultimo profeta


Beppe Grillo

La storia di Beppe Grillo la conosciamo, seppur spesso a spanne: non proprio quella di un uomo qualunque…
Il “tipo” pure: comico, sarcastico, satirico, cafone, politicamente scorretto, anticlericale, a volte persino dissacrante e “bestemmiatore”, in alcune sue “visioni” altrettanto ingenuo e bambinesco, ultimamente additato anche come “autoritario” eppur “anarchico”… L’antipolitico che fa politica, anche se per interposta persona. Insomma tutto e il contrario di tutto.
È un personaggio che “seguo” – insieme a molti altri – prima per ridere, ora per piangere. Non che qualcuno possa mai votarlo, perché mai lui si presenterà (se ben l’ho capito).

Cosa mi spinge allora a scrivere un post tutto su di lui? Il disagio.
Il disagio che provo leggendo articoli, analisi, commenti (anche sul suo blog) di quelli che lo criticano e di quelli che lo lodano: non riesco mai a ritrovarmi. L’impressione è che ai più manchi la chiave di lettura del “fenomeno” Beppe Grillo e della sua non-creatura il “Movimento 5 stelle”. La cosa che mi lascia allibito è che persino i suoi più convinti sostenitori non sembrano cogliere il “nodo” centrale della sua proposta (al di là delle declinazioni contingenti: TAV, economia, ecc.). E mi chiedo a volte se lo stesso Grillo ne sia pienamente consapevole. Pienamente forse no!
Ci provo (non-umilmente) io.

Se guardiamo alle qualità (o difetti scegliete voi) sopra descritti, senza troppa fatica troveremmo che calzano a pennello con alcune caratteristiche fondamentali di un personaggio biblico chiave: il profeta.
Come su un aereo guardo il panorama biblico e lo sorvolo dall’alto, fermando lo sguardo ora qua, ora là, senza un ordine preciso, confidando sulla vostra conoscenza generale della bibbia. In fondo è solo un post, ma potrebbe suggerire un lavoro di dottorato in… teologia.

Il profeta dunque. Anarchico, ma non senza un principio guida: la giustizia. Apparentemente antipolitico quindi, ma in realtà altamente politico, purché sia una politica veramente nuova. Accusato di essere contro il sistema, in realtà è contro il sistema di chi (“la volpe”!) lo accusa di essere contro il sistema… Perché è contro “il sistema di ingiustizia dei furbi”, propugna un sistema nuovo, fondato sulla catena di relazioni umane rinnovate (Ah! Se ai tempi di Isaia ci fosse stato internet!). Per questo non guarda in faccia a nessuno, re o sacerdote che sia. Diventando non raramente antimonarchico, anticlericale e “blasfemo” verso la religione ridotta a “ragion di stato” è da questa continuamente perseguitato. Sempre “ateo” del dio “mistico” e quindi innocuo dei potenti, propugna la fede in una giustizia sociale in cui sia riconoscibile il “Dio degli schiavi”. Visionario quindi, fino a risultare ingenuo nel sognare un mondo dove l’uomo non sia più divoratore di uomini e distruttore del suo mondo (habitat). Per questo il profeta è sempre politicamente scorretto in obbedienza al proprio Arché. Celebrato da morto per essere meglio ignorato dal sistema, è irriso o peggio falsamente lodato da vivo. Assolutamente incompreso in ogni caso, spesso dai suoi stessi seguaci.
Persecuzione, calunnia, diffamazione, adulazione e infine commemorazione, sono le diverse fasi di un processo di rigetto del potere politico, religioso, economico coalizzatisi per difendere la propria sopravvivenza storica.
Tutto questo fa del profeta un uomo generalmente solo e solitario.
A volte sarcastico, non senza una vena di sana ironia spesso persino comica. Irremovibile nelle sue invettive, al punto da apparire più despota del dispotismo che stigmatizza.

Il suo ruolo fondamentale è la critica radicale al sistema non in quanto sistema ma in quanto sistema di poteri. Per questo alla sua critica, non regge nessun sistema. Né quello comunista, né quello capitalista. Né quelli di ieri, né quelli di domani.
Temuto e blandito quindi.
Ed è qui che si ricongiungono fortemente attuali i punti nodali tra l’intuizione di Grillo e la Profezia. Che li porta a scontrarsi con i suoi stessi seguaci. Che “ovviamente” non capiscono! Perché non sono loro i profeti. Non lo sono non perché non potrebbero, ma perché non vogliono essere “veggenti”. Al massimo guardano il deserto, non l’oasi a cui conduce. Non che non gli venga additata… ma per arrivarci dovrebbero attraversare il deserto della solitudine, dello scherno, degli stenti. Chiamali fessi!
Fessi!
Fessi perché comunque vada moriranno nel deserto. Senza mai nemmeno esser riusciti a sognare l’oasi.
E qual è questo nodo? L’errore che facciamo tutti: Proporre al profeta di condurre il sistema per cambiarlo dal didentro!
Ma se la profezia si fa sistema chi lo potrà mai più criticare? La profezia cessa di esistere (è già accaduto! E più volte). Ci vorrà un altro fuori dal sistema che critichi il sistema degli (ex)profeti. E allora sarà lui il profeta non quelli che stanno cambiandolo facendo “sistema”.

Ritornando a bomba. Se il movimento “profetico” si fa “partito”, cessa di essere movimento profetico. E avrà in sé tutte quelle dinamiche proprie di un sistema di poteri. Anche se non andasse eticamente alla deriva (impossibile!), chi potrà essergli di pungolo se cessa il movimento profetico?

E si capisce come a questo livello di critica e autocritica, la “rete”, il web diventi lo strumento chiave di controllo profetico dell’agire politico ed economico (come si capisce perché abbiamo conosciuto l’e-mail di Giovanni Paolo II solo dopo che è morto)!...
E se siete arrivati a leggermi fin qui potete cominciare a intuire perché proprio un comico cacciato dal sistema abbia potuto elaborare certe intuizioni… La nostra storia non è mai sganciata dal nostro pensare.

Ecco perché Grillo qui ha ragione da vendere nel cacciare, dal suo movimento, chi si costituisce come “partito”. O di dichiarare altrimenti “morto” il suo movimento.
Fallirà (come tutti i profeti), ma vincerà. Perché il “suo sogno” – che non è suo ma del “Dio degli schiavi” – ci sarà sempre qualcuno a riproporlo. Perché l’umanità non morirà cessando di crederci: finirebbe la storia.

Fattevi ora un excursus sulla storia della profezia anche all’interno della chiesa: tutte le volte che la profezia è stata istituzionalizzata, è arrivata un profezia che ha mandato in crisi istituzione e profezia istituzionalizzata. Ecco perché nascono e nasceranno sempre nuovi ordini e nuovi movimenti. Ecco perché sbaglia chi dice, che nuovi movimenti non servono a niente perché prima o poi tutti ricadono negli stessi errori di coloro che li hanno preceduti. Questo è accaduto perché si è ceduto alla tentazione dell’istituzionalizzazione. Perché si è temuto di essere storicamente irrilevanti (la più subdola tentazione del sistema!). Perché si è temuto di essere lievito che sparisce nella pasta, sale che si scioglie nel tutto… Perché si è cessato di camminare, considerando finito il cammino attuato dai fondatori. È accaduto e accadrà perché il controllo dell’istituzione istituzionalizza sempre la profezia. E l’istituzione cesserà solo al compimento della storia.

Chi non comprende questa struttura della storia, non capirà mai le dinamiche dell’oggi, del “suo presente” e le scambierà o per una perdita di valori, o per una fuga verso il futuro a cui risponderà con una fuga verso il passato o in un irrigidimento del presente o in una proclamazione sulla fine della storia. Roba da disperati che avranno sempre la sensazione di trovarsi altrove (alienati appunto)!

Ecco perché ciò che i giornali e i politici trattano con la superficialità del gossip in realtà appartiene più che mai ai destini decisivi della storia di liberazione – cioè di salvezza – dell’uomo.

Ecco perché l’intuizione di Grillo fa paura. Anche ai “suoi”. Forse persino a se stesso, ma anche e soprattutto a chi, per convenienza, non vuol capire.

Camillo Maccise: il discorso Ultimo


ocdmx on livestream.com. Broadcast Live Free

martedì 13 marzo 2012

IV Domenica di Quaresima


Antony Armstrong, Giacobbe lotta con l’angelo



Le letture che la Chiesa ci propone per questa Quarta Domenica di Quaresima sono davvero impegnative, direi quasi scomode…

Risulta faticoso infatti trovare tra di esse un nesso e, anche scegliendo di concentrarsi solo sul vangelo, il compito non pare semplificato.

Questo perché i versetti di Giovanni, proposti dalla liturgia, sono solo una sezione del ben più lungo discorso tra Gesù e Nicodemo, che inizia addirittura 10 versetti prima, e presi così risultano un po’ estemporanei… inoltre il brano scelto consiste in una sorta di approfondimento teologico su quanto precede: una specie di commento a mo’ di monologo, in cui si concentra quasi una sintesi di tutto il messaggio di Gesù nel Quarto Vangelo. Un monologo – non a caso – dal finale aperto (Nicodemo non risponde nulla!)… Ma essendo un discorso che approfondisce quanto precede, per comprenderlo è inevitabile fare un passo indietro e capire cosa lo precede?

Vediamo innanzitutto ciò che l’evangelista ha finora raccontato.


Se prendiamo il vangelo di Giovanni al primo capitolo, primo versetto, e iniziamo a sfoglialo fino al versetto 1 del capitolo 3, ci accorgiamo che, dopo il PROLOGO POETICO (Gv 1,1-18), troviamo un PROLOGO STORICO (1,19-2,12), che narra alcuni eventi organizzandoli in un tempo (simbolico ed evocativo) di una settimana:

I GIORNO: 1,19-28 ® Giovanni Battista;

II GIORNO: 1,29-34 ® compare Gesù;

III GIORNO: 1,35-42 ® i primi discepoli;

IV GIORNO: 1,43-51 ® Natanaele;

V GIORNO – VI GIORNO: x

VII GIORNO: 2,1-12 ® le nozze di Cana.



Dopo le nozze di Cana, leggiamo in Gv 2,13: «Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme».

Il vangelo di Giovanni, infatti, a differenza dei sinottici, è organizzato in base alle festività ebraiche, che diventano occasioni per Gesù per andare più volte a Gerusalemme:

I VOLTA: 12,13 ® Pasqua ebraica;

4,3: «lasciò la Giudea e si diresse di nuovo verso la Galilea»

II VOLTA: 5,1 ® «Ricorreva una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme»;

6,1: «Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea»

III VOLTA: 7,2.10 ® Festa delle Capanne.

Non è narrato il rientro in Galilea, ma sono citate altre feste ebraiche che collocano Gesù a Gerusalemme (La festa della dedicazione del Tempio, 10,22 e quella finale di Pasqua).



La salita a Gerusalemme che interessa a noi, oggi, è la prima.

Gesù sale a Gerusalemme, va al Tempio e compie il gesto della cacciata dei venditori e dei cambiavalute che abbiamo letto settimana scorsa.

I Giudei intervengono: «“Quale segno ci mostri per fare queste cose?”. Rispose loro Gesù: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. Gli dissero allora i Giudei: “Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?”. Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo».



È a questo punto che compare il nostro Nicodemo, che fa parte dei giudei “ortodossi”; quelli però favorevoli a Gesù perché entusiasti dei segni da lui operati.

Il primo versetto del nostro capitolo 3 introduce il personaggio. Il suo obiettivo è rispondere alla domanda “Chi è?”, in quattro modi:

-          Con una formula di generica introduzione narrativa «Vi era un uomo…»;

-          Con una formula di appartenenza: «tra i farisei»;

-          Con il suo nome proprio: «Nicodemo» (= colui che vince nel popolo / colui che prevale nel consiglio; che è un nome un po’ ironico riferito al nostro personaggio…);

-          Con la sua carica religiosa: «uno dei capi dei Giudei» – quindi probabilmente membro del Sinedrio (dove la maggioranza è di sadducei, non di farisei – e dove quindi Nicodemo appartiene ad una minoranza).

Va aggiunto che è una figura sconosciuta ai sinottici; che di lui, Gesù al versetto 10 dirà che è «un maestro d’Israele»; che probabilmente è ricco (cfr. la quantità di aromi che porta in Gv 19,39).



Il secondo versetto risponde invece alla domanda”Cosa fa?”:

-          «Andò da Gesù di notte», dove la sottolineatura cade – appunto – su quel di notte. Nicodemo viene di notte per non compromettersi di fronte al proprio gruppo di appartenenza. La sua posizione è fin dall’inizio contrastata tra il “venire a Gesù” e il farlo “di notte”, che esprime una situazione ambigua e inadeguata, che attende un salto di qualità.



Tutti noi siamo Nicodemo, sempre un po’ a mezza via tra l’andare da Gesù e l’andarci di notte.



-          «Gli disse: “Rabbì, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro; nessuno infatti può compiere questi segni che tu compi, se Dio non è con lui”».

Nicodemo apre il suo discorso con una captatio benevolentiae in netto contrasto con la contestazione di quei Giudei che poco prima nel Tempio avevano chiesto a Gesù una legittimazione del suo agire. Per lui Gesù non ha bisogno di esibire “prove” della propria autorevolezza, se può fare i segni che fa è evidente che “Dio è con lui”. Cioè, è un po’ come se Nicodemo dicesse a Gesù “Altri non ti hanno capito, noi invece sì! Con noi puoi parlare, ti puoi fidare…”. Nicodemo tenta una sorta di complicità, chiama Gesù “maestro” anche se senza articolo… cioè, non “il maestro”, ma “un maestro”.

Gesù smaschera questo suo atteggiamento (non senza ironia, cfr. v. 10-11: «Tu sei maestro d’Israele e non conosci queste cose? In verità, in verità io ti dico: noi parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza») e sposta il discorso dalla “possibilità di Gesù di fare segni”, alla “possibilità di accedere al regno di Dio”.

C’era infatti un’implicita problematica che turbava questo fariseo, capo dei giudei e maestro in Israele, che suonava più o meno in questi termini: Che cos’è necessario alla salvezza? Come si entra nel Regno? O più precisamente – dato che stiamo parlando di un rabbino fariseo – quali opere bisogna compiere per entrare nel Regno?

In sostanza, è la stessa problematica del capo giudeo di cui parla Luca nel capitolo 18 al versetto 18: «Che cosa devo fare per ottenere la vita eterna?» o del giovane ricco in Matteo: è cioè il problema dei problemi, il campo su cui il contrasto con Gesù diventerà forte, radicale, fonte di incomprensioni… tanto da risultargli fatale.

Infatti nei versetti che seguono («In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito. Non ti meravigliare se t’ho detto: dovete rinascere dall’alto», Gv 13,5-7) emerge con chiarezza la prospettiva di Gesù contrapposta a quella farisaica di Nicodemo: «Non sono le opere dell’uomo a inaugurare i tempi messianici e il Regno, ma le opere di Dio! […] È quest’opera di Dio, non la buona volontà dell’uomo, o le sue azioni, o anche la sua conversione, che gli permettono di entrare “nel Regno di Dio”. La “carne”, cioè l’umanità nella sua povera nudità, abbandonata a se stessa, non può che offrire risultati di “carne”, cioè di umanità mortale e fragile. “Non può” arrivare a compiere opere di tipo superiore e divino, come l’ingresso nel regno, partecipazione alla vita di Dio nel mondo stesso di Dio. Solo Dio, mediante il suo Spirito, lo può realizzare. […] Siamo così nel cuore stesso del vangelo: la divina iniziativa per la salvezza dell’uomo e la sconfitta di tutte le (farisaiche) presunzioni umane» [M. Laconi, in il racconto di Giovanni, pp. 76-78].



Nel versetto 3 c’è infatti la risposta e la replica di Gesù.

Come dicevamo egli sposta la questione dalle condizioni di possibilità dei propri segni a quelle della partecipazione al regno di Dio. Il problema su cui deve misurarsi Nicodemo non è anzitutto “Cosa ci sta dietro ai segni di Gesù?”, ma “Cosa ha da fare l’uomo per entrare nel regno?”.



Questo credo sia istruttivo anche per noi: le nostre domande vanno collocate nella giusta prospettiva. Il nostro interrogare la vita, la fede, la parola di Dio, Dio stesso non può avvenire a monte di una decisione di fiducia. Decido di entrare in relazione con te/Te e perciò pongo domande per conoscerti. E NON: Pongo domande per vedere se poi decidere di entrare in relazione con te…



La risposta di Gesù è di quelle autorevolissime («In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio»). All’uomo spetta la consapevolezza di dover rinascere dall’alto.



Versetto 4: Nicodemo non capisce e formula infatti quella domanda che ci fa sorridere («Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?»), che è un escamotage dell’evangelista Giovanni per approfondire il discorso.



Versetti 5-8: Gesù riprende infatti la parola e dice: «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito. Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito».



Ma, versetto 9, Nicodemo non capisce ancora: «Come può accadere questo?»; e Gesù prosegue a parlare per altri 12 versetti (10-21), con un monologo dal finale aperto: Nicodemo non risponde.



Questi ultimi versetti sono i nostri…

Ho voluto però dilungarmi maggiormente nella prima parte, perché – dicevamo – contiene la premessa per capire quanto segue, in particolare nella tematica del rinascere dall’alto



Annotazione previa: vorrei che non chiudessimo subito il discorso sul “rinascere dall’alto” nel sacramento del battesimo! Perché se diciamo “Certo, rinascere dall’alto è ricevere il battesimo”, abbiam già perso la partita e buonanotte. Infatti noi, che siamo tutti battezzati, il problema ce l’abbiamo tale e quale agli altri.

Il percorso da fare è al contrario. Arrivare a capire il senso del battesimo a partire dal problema dell’uomo di sempre e cioè che C’È BISOGNO DI UNA SECONDA NASCITA (non a caso il battesimo in origine si faceva da adulti!).

Per tentare di spiegare cosa è in questione nel nostro brano, mi rifaccio ad una conferenza del prof. Silvano Petrosino, docente di Semiotica e Filosofia Teoretica all’Università Cattolica di Milano e Piacenza, dal titolo “Si diventa uomini. Tra gettatezza e cura”.

«La prima cosa che dico è una cosa che mi sembra banale; ma mi sembra importante ridircela. E cioè che non si nasce uomini.

Questa è una cosa presente in tutte le favole ad esempio. Tutte le favole non fanno che ridire questo: che si nasce una prima volta, si nasce come nascono i gatti, i castori e i topi e poi si deve rinascere una seconda volta. Bisogna diventare uomini.

Noi abbiamo nella nostra tradizione una cosa enorme, che è Pinocchio. Perché Pinocchio è una grande favola sull’uomo e riguarda proprio il fatto del diventare uomo.

“Diventare uomo” che non riguarda solo Pinocchio, che da burattino deve diventare bambino, ma riguarda Geppetto: che deve diventare padre.

Non si è padri perché si genera. E non si è madri perché si genera!

Anche l’idea che circola spesso in ambienti cattolici “Siamo tutti figli”, mio nonno in cariola! Dobbiamo diventare figli!

Anzi noi dovremmo essere particolarmente lucidi su questo perché tutta la vicenda di Gesù è lì a dircelo! Gesù è l’uomo che vive totalmente l’idea di figlio.

Ma non è che tu sei figlio, perché sei nato. Tu sei nato e sei nato. Sei un generato, non sei figlio.

Fra l’altro è una cosa che noi sappiamo (però bisognerebbe rifletterci): è col tempo che uno capisce che cos’è una mamma o cos’è un padre.

L’umano infatti è il dramma della libertà. Se tu togli il dramma, togli l’umano.

E quindi uno diventa padre, deve decidere di diventare padre, deve scegliere di diventare padre; deve decidere di diventare figlio.

Ci si scandalizza quando qualcuno tratta male i genitori e invece è normale, quello è naturale. È meraviglioso quando ciò non avviene. Bisognerebbe cambiare la prospettiva!

È naturale che tu dopo qualche anno di matrimonio ti scocci. Ma dai, diciamocelo! Ma dov’è lo scandalo, ti stufi!

È quando ciò non avviene (ma questo richiede una decisione, una scelta, un dramma, una rinuncia) che è enorme, cioè umano.

Quindi non si è uomini, si diventa uomini.

Non a caso tutta la narrazione biblica è sempre ritmata in un doppio tempo, c’è sempre un due, mai un uno.

Basti vedere, per esempio il fatto sorprendente che Dio fa una cosa e poi vede che è buona.

C’è sempre un due. Ma perché?

Il due è il superamento dell’uno, cioè del magico. La magia è l’uno. La magia è “Io voglio che lei si innamori di me”. Dò la pozione e lei si innamora di me! Tac! Questa è la magia.

L’amore è il due. L’amore implica una decisione, un tempo, una scelta, un dramma, il dipanarsi di una storia.

Per questo la magia è strepitosa e però perversa, perché bypassa la libertà. Tutto il dramma dell’innamoramento: che implica l’attesa, la paura e aspetto che tu mi chiami e non mi chiami… il timore del tradimento… l’amore.

La magia dice uno. E Dio, invece, Dio stesso, dice due. Si deve nascere una seconda volta. Già questo per me è pazzesco, perché vuol dire molti di noi non diventeranno uomini.

Forse il tempo che ci è dato, la storia, ci è data proprio per diventare uomini. Per poter scegliere e poter contribuire a diventare uomini.

Come in Pinocchio…

Cosa accade a Pinocchio?

Pinocchio incontra Lucignolo, Lucifero. E Lucignolo chiede a Pinocchio: “Dove stai andando?”. E Pinocchio gli risponde: “A scuola”. E Lucignolo dice: “Ma perché vai a scuola? C’è una paese, il paese dei balocchi, dove non si studia, non si lavora e ci si diverte tutto il giorno. Andiamo” [è la magia]. Pinocchio va.

E cosa succede?

Quello che dice Lucignolo è vero! Non è finto. È vero: ci si diverte, si mangia e non si va a scuola. È vero!

Se non si capisce questo, si fa subito la critica a Lucignolo. Ma se fosse così sarebbe banale.

Perché si deve andare a scuola? Perché devi andare a scuola? C’è un paese dei balocchi!

Il paese dei balocchi è il nostro, eh! I computer, la roba… Il paese dei balocchi è “hai il naso storto lo facciamo dritto”, “hai il seno piccolo lo facciamo grosso”, “vuoi un figlio vai alla banca del seme”, senza il dramma del rapporto umano con l’altro...

È il paese dei balocchi.

E cosa succede poi?

Una cosa terrificante: si sveglia il giorno dopo e parla, ma gli viene fuori il raglio. Non è umano.

E poi ha le orecchie. Ti trasformi nel fisico, non sei umano. Hai goduto e non sei umano.

E ad un certo momento uno dei ciuchini dice l’unica cosa che si può dire: “Mamma”; cioè l’aggancio all’umano, alla possibilità dell’umano. Ma il padrone che li vuole vendere dice: “No, non c’è più la mamma. È passato. È finito”.

È finita, non sei diventato un uomo!

Il diventare uomo è allora la questione.

Ma non si diventa uomini gratuitamente.

Diventare uomo ti modifica, ti cambia. Perché l’umano invecchia e poi muore.

E io penso che tutta la questione religiosa sia questa: la vera questione religiosa è la questione antropologica.

Figuriamoci se la Bibbia è un testo in cui Dio parla di sé! Scusate… Ma Dio non è Narciso.

Dio continua a dire all’uomo “Sii uomo, stai in piedi da uomo. Non perderti come uomo”.

E poi lo dettaglia nella Bibbia. Non puoi diventare uomo al di fuori del rapporto con me e al di fuori del rapporto coi fratelli.

Non parla di eccellenza, non parla di successo. Infatti è una storia di uomini che non hanno successo.

Pensate a Giacobbe (Gen 32,23-33), che arriva al fiume Yabbok; passan tutti (si chiama esperienza, passare un limite, fango, viaggio, l’attraversamento di un limite, fare esperienza, diventare uomini, non si nasce uomini, c’è bisogno di un’esperienza. E non c’è esperienza umana senza l’accettazione del limite e del dolore e del fallimento. È l’opposto di quello che dicono).

Passa anche lui, per ultimo…

Passa e bang… un ostacolo… Già questo la dice lunga, non è un trionfo, è un impatto. La vita è un ostacolo: nasci col sedere grosso. Per esempio c’è un bambino nella scuola dove lavora mia moglie che non è tanto eccelnte, perché, non parla, non studia tanto… Però – dicono – ha avuto un piccolo problemino: lui è entrato in casa e ha trovato il papà impiccato. Una robina, no? E lui non sa le tabelline… Ma guardate che è strano, eh!?!?!?

Io già mi chiedo come mai non prenda un mitra e inizi a sparare… La mia ipotesi sarebbe questa. E lui, figuriamoci che impatto nella sua vita… Bang… sta camminando nella sua vita e il papà si suicida… o il papà che muore… o i papà che si separano… o il mio amico che ha l’amante dell’età della figlia… Pensate per la figlia, no? Per la figlia: “Bang”… C’era il papà e la mamma e adesso il papà va con una che ha la sua stessa età. Enorme, no?

Bang… E Giacobbe incontra questo qui e si mettono a lottare, tutta una sera. Tutta una giornata, cioè tutta la vita.

Adesso viene il bello: alla fine questo qua dice: “Uff, devo andare”. È bellissimo. Il personaggio misterioso dice “Enti è tardi, devo andare”. “Come ‘È tardi devo andare’? Dimmi chi sei!”. “No! Però ti devo dire la verità: tu hai vinto”. Vinto che cosa? È sempre lì in mezzo, il fiume non l’ha passato. Quegli altri chissà dove sono. Lui è in ritardo… Però gli dice: “Tu hai combattuto con Dio e hai vinto”. Cioè sei rimasto uomo. Hai combattuto. La vita. Hai combattuto. Non hai fatto il giro, non hai detto: “Lascio perdere”. Hai combattuto!

E qui viene il colpo di cabaret. Dice: “Guarda, già che ci sono ti faccio un dono”. Quell’altro dice: “Orca, menomale”. Uno pensa i cioccolatini, una coppa, lo scudetto…

Non gli ha dato il nome, l’ha tenuto tutta la notte e gli dice: “Già che ci sono ti slogo l’anca”.

Fa morir dal ridere! È meraviglioso.

E questo tutta la vita si porterà dietro l’anca slegata. Altro che eccellenza!

Non mi fai il seno sodo? O il sedere tirato su? No! Bellissimo!

Perché è meglio entrare nel Regno dei cieli senza un occhio che perdersi. Ma è vero, eh! È vero. Non è un pillola di saggezza di Gesù: è vero!

Dobbiamo diventare uomini, il che non vuol dire eccellenti. Vuol dire uomini. Questa è l’eccellenza.».



Ecco… Dobbiamo diventare uomini. Questo mi pare il senso di quella necessità di rinascere di cui Gesù parla a Nicodemo.



E allora la domanda per noi può essere: Nei miei incontri notturni con Gesù, negli impatti che la storia mi ha riservato come Giacobbe al fiume Yabbok, come ho deciso di me? Come sto decidendo di me? Sto decidendo di accettare la sfida di diventare uomo o cerco il paese dei balocchi? Magari un paese dei balocchi molto religioso… ma poco umano.



E, infine, giunti a questo punto… Che senso hanno i versetti di questa Quarta Domenica di Quaresima? Che senso hanno le altre parole che Gesù dice a Nicodemo?



Essi rischiano, ad una prima lettura, di apparire come bruscamente discostanti rispetto al discorso finora portato avanti, ma in realtà sono semplicemente un suo approfondimento.

La prospettiva proposta da Gesù a Nicodemo infatti attende ancora di essere chiarita: Cosa significa nascere dallo Spirito? O rinascere dall’alto? Di che tipo di uomo nuovo sta parlando Gesù? E in che senso è una condizione non da conquistare, ma da accogliere?

Ecco dunque questa sorta di digressione teologica che spazza definitivamente ogni rigurgito farisaico (quali opere devo adempiere per salvarmi?) e fa risplendere l’annuncio evangelico: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui».

Ecco il lieto annuncio: l’entrare nel Regno (che tradotto nel nostro linguaggio potrebbe suonare come il diventare uomini) è insieme frutto dell’iniziativa di Dio e suo desiderio sull’uomo; la buona notizia è perciò questa: che chi ha in mano la storia (Dio) ci aspetta nelle nostre notti, ci aspetta ai nostri Yabbok… nella persona del Figlio suo, che nella sua notte, nel suo Yabbok, non ha lasciato perdere, ma ha combattuto: è diventato uomo e tiene ancora i segni di quella lotta nelle sue mani e nei suoi piedi di risorto.

Infatti, «per la sua totale estraneità al male e all’oppressione, per la sua appassionata dedizione all’amore, si sono coalizzati contro di lui i poteri del male, per eliminarlo, perché da lui, inerme ma indomabile, si sentivano minacciati, quasi avesse condensato in sé, come l’antico serpente, tutto il veleno dell’umanità. Stritolato dai meccanismi del potere politico, religioso, economico, Gesù ha vinto il male ed è divenuto così sacramento e modulo di salvezza, per tutti quelli che credono in lui. Che non solo ha salvato, donando la vita per loro e per tutti noi, ma ci ha insegnato il modulo di salvezza, la possibilità cioè di guardare a lui e rinnovare anche in noi, e attorno a noi, la sua salvezza [di diventare anche noi uomini e far diventare altri uomini!]: Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. L’innalzamento del Figlio dell’uomo è l’anticipo della sua morte e risurrezione. Lasciarsi innalzare è lasciarsi crocifiggere dagli uomini. Ma lasciarsi innalzare è anche essere glorificato dal Padre! E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me. Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire (12,32). Inizia una salvezza per attrazione! La vita eterna è questa commistione di terra “glorificata”, di passione “salvatrice”, di peccato “santificato” – perché, impregnate dello Spirito, le “nostre cose” diventano evento di salvezza e durano in eterno!» [Giuliano].



Allora, forse è davvero ora di piantarla con tutta la coreografia del sacro e del religioso, con un ordine simbolico che non sa più far esperire il reale, e tornare, noi a riscoprire e incarnare l’autentica proposta evangelica.

Ma per persuadere gli altri che il Dio di Gesù è Dio così e che si diventa uomini così, per fargli intuire che c’è una conversione da fare nella loro idea di Dio e dunque di uomo e dunque di vita e dunque di morte, e dunque di felicità e dunque di amore e dunque di volto dell’altro, ecc… le parole sembrano non servire più…

Forse è il tempo di creare spazi nuovi, dove il vangelo passi attraverso il bene di persone che insieme scelgono di legare il destino tra di loro e a un uomo (che era anche il Figlio di Dio) morto per amore… chissà che questi piccoli nuclei amanti, irraggiando un po’ di bene intorno non riescano a sanare almeno un po’ le ferite di questa nostra umanità disillusa, impaurita, senza speranza… poco umana.

domenica 11 marzo 2012

Uscire dal Tempio


altri video sempre su Youtube

Ci scommetto che molti leggendo il Vangelo di oggi (Gv 2,13-25) si lancerebbero in considerazioni sulla commistione tra religione e denaro. Verrebbero alla mente il caso Ior, Marcinkus e quant’altro… Tutte considerazioni giuste e vere probabilmente, ma che in fondo anche un pagano o un ateo saprebbe fare. E Gesù non è venuto per dirci cose che con un minimo di buon senso e di onestà chiunque può sapere… Gesù è venuto a dirci qualcosa di veramente inaudito e impensato dagli uomini. Per riuscire a cogliere questo però è necessario, come sempre, collocarsi ai tempi di Gesù per cercare di vedere, come sottolineo sempre, e non solo leggere, ciò che l’evangelista Giovanni ci vuole mostrare. Occorre “vedere” il Tempio di Gerusalemme al tempo di Gesù e capire “cosa” ha “mandato in bestia” il Signore… Senza questo studio non potremmo veramente capire quale capovolgimento di prospettiva gli apostoli ci sollecitano a compiere. Perché non dimentichiamolo sono gli apostoli che ci stanno trasmettendo quello che loro, alla luce della Resurrezione, hanno colto di essenziale in Gesù. I Vangeli sono la loro pedagogia alla fede.

Planimetria del Tempio
Il Tempio di Gerusalemme al tempo di Gesù era il centro della vita religiosa e spirituale di Israele. E Israele ne andava orgoglioso, come anche gli apostoli ci testimoniano rivolgendosi a Gesù (cfr Mt 24,1s). Sennonché Gesù li raggelò rispondendo secco: “Non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta”! Perché una tale risposta?

Il Tempio cosiddetto di Erode, detto anche secondo Tempio di Salomone rispetto al primo andato anche lui distrutto, fu iniziato nel 19 a.C. Anche se dopo un anno e mezzo era di già operativo, fu veramente finito solo dopo 83 anni, nel 64 d.C. Appena in tempo per essere definitivamente distrutto 6 anni dopo nel 70 d.C. dalle legioni romane come ritorsione all’insurrezione del popolo. Tutto questo lavoro e questa fatica (vi lavorarono 11 mila operai) andò così perduto per sempre.
A oriente del Tempio c’era il Portico di Salomone: dove i rabbini si trovavano per spiegare la Torah e dove Maria e Giuseppe trovarono Gesù quando lo avevano smarrito…
A sud c’era il Portico Regio o Regale lungo 185 metri e largo 4 file di colonne alte 12 metri.
Sotto il Portico Regio (visibile nel secondo video), si vendevano agnelli, colombe, buoi, era lì che si faceva commercio necessario al funzionamento del Tempio: una macchina sacrificale dove si ammazzavano animali per offrirli in olocausto al Signore in cambio della sua benevolenza… Da qui venivano introdotti nel Tempio in alto per essere uccisi.
Anche l’ingresso sud-occidentale al Portico Regio aveva una gradinata monumentale che introduceva nel Tempio. Era alta 17 metri e larga 15. Questa scalinata usciva verso occidente e poi piegava verso sud, parallela alle mura esterne del Tempio in direzione della piscina di Siloe. Proprio qui all’inizio della gradinata, in basso dove inizia a salire, c’erano 4 stanze (anche queste visibili nel secondo video) in cui stavano i cambiavalute. Anche i cambiavalute erano necessari al funzionamento del Tempio perché chi voleva fare offerte o comperare animali per il sacrificio (come hanno fatto anche Giuseppe e Maria) dovevano adoperare delle monete che non avessero l’effige dell’imperatore. Erano chiamate anche mine (cfr Lc 15,8-9.19,13-26).

Dinamica dei fatti descritti
Ora immaginiamo la dinamica della scena descritta dal Vangelo: dapprima Gesù sale nel Portico Reggio fa una sferza con delle cordicelle (probabilmente le stesse che servivano a legare gli animali), e comincia a cacciare fuori tutti, persone e animali (cfr Gv 10,3 dove Gesù, pastore, spinge fuori le sue pecore dal recinto!). Immaginate anche il volto adirato, l’opposizione che ha trovato e la forza che ha dovuto usare per cacciarli fuori: una immagine ben diversa da quella a cui ci ha assuefatti una certa iconografia. Salva così gli animali (nella simbologia giovannea, gli uomini!) da morte sicura. Poi scende da quella gradinata presumibilmente di corsa (difficile immaginarlo passeggiare!), e sempre col volto adirato, va in quelle quattro stanze e butta all’aria i tavoli dei cambiavalute dicendo “non fate della casa del Padre mio, un mercato”.

Le ragioni del comportamento di Gesù: una logica da ribaltare
Cerchiamo ora di capire meglio il senso dell’agire di Gesù e per farlo dobbiamo capire ora la logica che presiede al Tempio. Perché in realtà è questa “logica” che Gesù vuole “ribaltare”…

Nei Vangeli per indicare il “Tempio” si usano due termini: hyeros e naòs. Con hyeros si intende propriamente il Tempio nella sua complessità fatta di edifici, portici, cortili, suppellettili. Da hyeros derivano l’italiano “ieratico”, “geroglifico” e anche “gerarchia”.

Il cuore del Tempio era il naòs, il Santuario (detto anche “il Santo”). Quindi in realtà i Vangeli distinguono il Tempio dal Santuario. Un po’ come noi quando distinguiamo la chiesa e il presbiterio (dove si trova l’altare)… La chiesa è un luogo sacro ma il presbiterio che è il centro di ogni chiesa è ancor più sacro e non tutti possono accedervi…

Ora, in questo Tempio non è che potessero entrare tutti liberamente, in realtà il Tempio era un susseguirsi di barriere. Più ci si avvicinava al Santuario e più si veniva selezionati.
Se escludiamo la cinta esterna del Tempio che lo separava dal resto della città (impuro e profano), al suo interno, nel Tempio, c’erano vari livelli di separazione.

1. Nella spianata grande potevano entrare tutti i fedeli anche i non-ebrei (ovviamente a certe condizioni che dovevano rispettare tutti come vedremo) e infatti era chiamato l’“Atrio dei Gentili” cioè delle “genti” (un termine che potremmo tradurre con “stranieri” ma aveva un senso dispregiativo in bocca agli ebrei). Subito però, anche al suo interno, cominciavano i muri di separazione. I primi erano quelli che bloccavano i non-israeliti, era una balaustra alta un metro e mezzo su cui c’erano 13 incisioni con parole di minaccia di morte per chi, non ebreo, osasse oltrepassarla. Quindi oltre questa balaustra potevano procedere solo gli ebrei, donne comprese.
2. Procedendo però verso l’interno del Tempio c’era un altro muro balaustrato che bloccava le donne, pena la lapidazione. Solo i maschi ebrei circoncisi potevano inoltrarsi: nella logica giudaica era ovvio in quanto le donne non potendo essere circoncise non portavano il “segno dell’Alleanza”.
3. Ma anche gli uomini (quindi anche Giuseppe e Gesù!) venivano fermati da un portale che introduceva al Santuario : solo i sacerdoti potevano varcarlo quando si trattava di entrare nel Santuario. Il Santuario o Santo era quindi la costruzione più importante di tutta la spianata.
4. A sua volta all’interno del Santuario oltre all’altare dove si offriva l’incenso, accessibile a turno ad ogni sacerdote (cfr Zaccaria in Lc 1,9), circoscritto da una tenda (la Shekinah) c’era un luogo “segreto” detto del “Santo dei Santi” (letteralmente [luogo del] “Santissimo”: cioè Dio) detto anche Tabernacolo. Il Tabernacolo era il luogo dove si riteneva fosse realmente presente YHWH. E lì nella stanza del “Santo dei Santi” all’interno del Santuario – altra selezione – poteva entrare soltanto il Sommo Sacerdote e solo una volta all’anno nel giorno liturgico dello Yom Kippur (“giorno di timore reverenziale”). Giorno di penitenza e digiuno totale in cui si chiedeva perdono a Dio dei propri peccati e festa più solenne del calendario ebraico (quest’anno 2012, cadrà al tramonto del 25 settembre fino all’apparire delle stelle del 26). E solo in quell’occasione il Sommo Sacerdote in carica, nella preghiera pronunciava il nome di Dio, il sacro Tetragramma (YHWH) di cui solo i Sommi Sacerdoti si tramandavano la vocalizzazione. [Che normalmente viene vocalizzato in YaHWeH – più probabile – o YeHoWaH meno probabile ma legittimo: quindi non perdete tempo a discutere su questo con i Testimoni di Geova, per noi cristiani il nome di Dio è “Gesù Cristo”!]. Ovvio che il Tabernacolo era considerato il punto più sacro non solo del Santuario e quindi del Tempio ma anche del mondo. Così sacro che se qualcuno doveva entrare per delle riparazioni questi veniva calato dall’alto perché non poteva toccare il suolo sacro coi piedi (cfr Gv 13,3-5 dove si capisce perché nella logica simbolica di Giovanni, Gesù deve lavare i piedi degli apostoli/discepoli: Non solo per significare che ora sono/siamo tutti puri ma anche per annunciare che la Passione in cui entreranno/entreremo è il luogo della presenza definitiva di Dio nella storia). Il Santuario stesso fu costruito solo dai sacerdoti appositamente istruiti nell’arte della costruzione.
5. Nel Santo dei Santi – praticamente vuoto – a sua volta c’era una barriera invalicabile: un velo di colore porpora che copriva (andata oramai perduta l’Arca dell’Alleanza per la deportazione babilonese) una roccia sulla quale si riteneva che Dio sedesse in trono. Secondo la tradizione ebraica questa roccia si trovava proprio al centro del mondo e fu la base sulla quale Dio creò e regge il mondo (cfr Lc 6,48 in riferimento alla roccia!). Quindi anche il Sommo Sacerdote si trovava davanti a un velo e quindi anche a lui era “nascosto” il “volto di Dio”.

Già da questa esposizione – necessariamente sommaria, ma nella quale possiamo riconoscere la struttura delle nostre vecchie chiese – deduciamo che la prima caratteristica di questo Tempio era la “separazione”, la discriminazione delle persone. La sua logica religiosa era una logica pagana di esclusione rendendo impossibile ai più di accostarsi al Signore. Non c’era solo un concetto ieratico di Dio che concettualmente lo separava dalla gente, ma c’era un profondo disprezzo di ogni occupazione umana che non fosse quella liturgico-sacrale (ricordo che solo i sacerdoti potevano presentarsi alla presenza del Signore nel Santuario). Inoltre neppure tutti (israeliti e non) potevano essere ammessi nel Tempio: gli storpi, i paralitici, i lebbrosi… coloro che facevano dei lavori considerati impuri come i pastori e pubblicani… erano tutte persone impure, cioè vivevano in una condizione di fatto peccaminosa e quindi non potevano nemmeno mettere piede nel Tempio.
Questo barriere impedivano alle persone (diremmo oggi, laici e laiche!) di sentire Dio vicino a loro e impediva a loro di avvicinarsi a Dio. Non che Dio fosse impedito da questo, quando ha voluto non ha esitato abitare nella casa “impura” di una ragazza di Nazareth facendone il suo santuario… ma la stragrande maggioranza del popolo, anche israelita, aveva una visione “dannata” della propria esistenza a causa di un Dio percepito (così veniva loro insegnato dai sacerdoti, dai farisei, dai dottori della legge, ecc.) come una “realtà” non solo lontana ma anche ostile al loro stile di vita…

Questo era il Tempio con l’apparato dottrinale che lo giustificava, che Gesù ha incontrato! Appare ovvio che il Figlio di Dio venuto per mostrare un volto di Dio finalmente Padre, finalmente prossimo, vicino ai suoi figli fino a condividerne il vissuto, non potesse tollerare tutto questo. Ecco perché nella sua vita Gesù ha abbattuto definitivamente tutte le barriere. Quelle del Tempio e quelle che noi costruiamo per difendere la “santità” di Dio o la nostra “dignità” cristiana di “popolo sacerdotale” (cfr seconda lettura 1Cor 1,22-25 sulla stoltezza della Croce: dov’è lì la presunta “intangibilità” di Dio?...).
Nella Lettera agli Efesini (2,14s) quando Paolo dice che in Gesù Cristo è stato definitivamente abbattuto il muro di separazione tra i due popoli – giudei e greci – non parlava in metafora, ma da israelita osservante aveva davanti agli occhi proprio i muri di separazione del Tempio di Gerusalemme… Paolo ci ricorda quanto aveva profetizzato Gesù: Di ogni barriera che noi poniamo tra l’uomo – qualunque uomo – e Dio, prima o poi non resterà pietra su pietra! Perché è Dio stesso che si preoccupa di abbatterla!
Appare evidente che c’era e c’è quindi una radicale incompatibilità tra la proposta di Gesù dell’autentico volto del Padre (che fa piovere e sorgere il sole sui buoni e sui cattivi) e il concetto “sacrale”, ieratico appunto, di ogni religione.
Per questo alla morte di Gesù come ci ricordano gli evangelisti, persino il velo che costituiva il cuore del Santuario, il “Santo dei Santi”, “si squarciò in due da cima a fondo” (Mc 15,38) cioè senza possibilità alcuna di ricomposizione (L. Moscatelli). E Matteo (27,51) che parla ai cristiani convertiti dal giudaismo, rincara la dose coinvolgendo nello squarcio anche la roccia su cui, secondo la tradizione ebraica, il mondo si regge.
Devono squarciarsi! se si vuole indicare la definitiva impossibilità a qualunque “ostacolo” di impedire all’uomo di incontrarsi con Dio. Con la caduta dell’ultima barriera del velo e la rottura della roccia, non ci sono più condizioni preliminari né a Dio né all’uomo per incontrarsi. Non c’è più bisogno di alcun sacrificio né di “mercanteggiare” (D. Petrini) la benevolenza di Dio: Questo è il significato originario quindi dell’espressione “non fate della casa del Padre mio un mercato”.
Giusti e peccatori; sacro e profano; il “Santo dei Santi” e il peccatore… sono definitivamente uniti, accumunati dal comune abbraccio misericordioso del Padre. È in questa “commistione” che Dio rivela la propria santità: nel suo chinarsi sui suoi figli! Questa è la “stoltezza” della Croce!

Arrivati a questo punto, ciascuno faccia le sue “attualizzazioni”, io non voglio influenzare nessuno, ma certamente ora anch’io mi pongo alcune domande…
Quando noi cattolici, in base a profonde motivazioni liturgiche, costruiamo balaustre intorno agli altari; quando grazie a profonde motivazioni teologiche e dottrinali, impediamo alla gente di fare comunione con Dio perché è in peccato mortale; quando noi escludiamo sistematicamente certe categorie di persone che come i pastori e pubblicani vivono una condizione di peccato; quando noi permettiamo che solo coloro che appartengono alla Gerarchia possono toccare le cose sacre (alcuni contestano ancora oggi la comunione nella mano); quando impediamo nella messa alle donne di fare cose perché possono farle solo i maschi (e questo non vuol dire “ordinare le donne” ma semmai spogliare della dimensione di potere ieratico e autarchico gli uomini: vedi nota in basso)… noi a quale Tempio apparteniamo? A quello che moltiplica continuamente i muri di separazione? o a quello il cui velo si è definitivamente squarciato? Noi a quale Esodo apparteniamo, a quello di Mosè che libera dalla schiavitù e costruisce itinerari di liberazione (decalogo) o a quello dell’imperatore Nabucodonosor che ha portato tutti schiavi in Babilonia?
Attenzione però non basta allargare i “confini” del Tempio, spostando le barriere per accogliere il più grande numero di persone (C. Giuliani) perché in tal caso resta sempre qualcuno “fuori”. Qui la logica di fondo è proprio la distruzione definitiva di ogni Tempio, di ogni recinto, perché tutti e tutte nel vero Santuario che è il Cristo (traduzione più corretta e comprensibile delle parole di Gesù: “Distruggete questo Santuario – perché è lì secondo la fede ebraica che abita la pienezza della divinità – e in tre giorni lo farò risorgere”): hanno ora immediato accesso al Padre in qualunque situazione si trovino…
Semplificando: quando pensiamo che la nostra vita è – qualunque sia la ragione – “un fallimento” e ci chiediamo “se Dio ci vorrà ancora bene, se potrà ancora accoglierci…”, dobbiamo risponderci guardandolo in croce: “certo che continua ad accoglierci e a volerci bene, perché ci vuole bene più di quanto ne voglia a se stesso!”…

Chi è veramente cristiano allora? chi è veramente cattolico? Me lo chiedo e lo chiedo…
Ah! Se leggessimo con più attenzione la bibbia… Nel libro di Isaia, ad un certo punto (Is 44,28-45,5) il profeta parla dell’imperatore Ciro, definendolo oltre che pastore, Messia del Signore (così nel testo ebraico e che in greco si traduce Cristo) cioè “eletto” dal Signore! Sono gli stessi “titoli” che i Vangeli riservano a Gesù, al Figlio di Dio, al Verbo incarnato, al Salvatore del mondo…! Ora però c’è un problema. Ciro, era pagano, idolatra, che è rimasto idolatra, con le sue concubine e la sua logica di conquista e che probabilmente ha liberato gli israeliti più per calcolo politico che per amore della giustizia… Ebbene, come è possibile che la bibbia, che noi sappiamo libro ispirato da Dio, definisca un uomo del genere “Messia”? Agli occhi di un cristiano oggi, come di un buon israelita sano di mente sembrerebbe più una bestemmia che una “parola di Dio”!
La risposta l’abbiamo nelle letture di oggi: Chi – chiunque egli sia (Lc 9,49s e Lc 18,16) – vive, lavora, si mette in gioco, per abbattere le barriere, qualunque barriera, che separa gli uomini tra di loro e da Dio… costui e soltanto costui si può legittimamente chiamare Cristo e Messia: cristo nel Cristo, messia nel Messia, figlio di Dio nel Figlio di Dio…
Solo una religione che al suo interno (e non solo al di fuori) abbia come “progetto culturale” l’abbattimento di ogni barriera, è un religione degna del nome cristiano. Costi quel che costi, questa è l’unica strada possibile alla santità! Quando questo accadrà la storia potrà finalmente dirsi compiuta.

Nota: L’episodio evangelico ci rivela anche un “metodo” da seguire valido in ogni ambito: occorre fare attenzione che nel voler abbattere delle discriminazioni non si alimenti, facendola propria, la mentalità che le crea! Provo a esplicitare. Gesù poteva reagire alle discriminazioni sopra descritte in vari modi: dandosi fuoco nella spianata del Tempio; forzare la porta che dà accesso al Santuario; organizzare una ribellione; rivendicare il diritto per tutti di accedere non solo al Santuario ma anche al Tabernacolo, ecc… ma in ognuno di questi casi avrebbe di fatto riconosciuto la legittimità del Tempio e la logica che lo presiede. Infatti anche se le donne e gli uomini – con le buone o con le cattive – avessero avuto accesso al “Santo dei Santi”… restava il fatto che per incontrare Dio, bisognava non solo recarsi fisicamente al Tempio, con l’automatica esclusione di chi non poteva permetterselo per ragioni economiche o altro, ma comportava anche accettare la logica del “mercanteggiamento” sacrificale per conquistare la benevolenza di Dio. Ecco allora che il gesto di Gesù acquista valore “profetico” nel senso che annunciando la nascita del vero Santuario – la sua persona risorta – in cui in qualunque luogo e qualunque situazione ognuno può incontrare il Padre, dichiara definitivamente “vuoto” ogni pellegrinaggio che non serva a far scoprire l’incontro con Dio a casa propria.
Ora c’è da chiedersi se la rivendicazione in ambito cattolico dell’ordinazione femminile, facendola propria, non accentui di fatto la discriminazione del binomio tempio/sacerdozio. Mentre come cerco di dimostrare nell’articolo, il cambiamento che Gesù ha provocato è ben più radicale…


(Con i contributi di fratelli e sorelle della lectio del venerdì sera e di F. Armellini per gli spunti esegetici)

Ultimo aggiornamento: lunedì 12 marzo 2012, ore 19

martedì 6 marzo 2012

III Domenica di Quaresima

La prima lettura che la liturgia ci propone per questa Terza Domenica di Quaresima, è tratta dal libro dell’Esodo e propone il cosiddetto Decalogo, ossia i dieci comandamenti che Mosè ricevette da Dio sul Sinai.

È un testo molto noto e i cui commenti si sprecano, anche se ancora troppo diffusamente nella mentalità comune – rispetto a questo testo – si ha l’istintiva sensazione di trovarsi di fronte ad un elenco vuoto, dal suono sordo… che davvero poco ha da dirci…

Un po’ come la famosa battuta di un calciatore dell’Italia, durante la polemica sull’Inno nazionale che non veniva cantato a inizio gara dagli atleti… perché non lo conoscevano… Disse: “Sì, ma questo è un testo difficile, che non si capisce nemmeno bene che cosa voglia dire… Per esempio ‘Dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa’ che vor dì?”…

Già… “Che vor dì?”…

Che vor dì “Non avrai altri dei all’infuori di me”?

E perché lì c’è scritto: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile: Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti»?

Perché, cioè, a noi è arrivata una versione stringata e svuotata del testo biblico, in cui i 10 comandamenti sono diventati solo un elenco da imparare a memoria? Un po’ come i doni dello Spirito Santo, che vanno imparati, perché se no poi il vescovo quando viene a farti la Cresima te li chiede e se non li sai, niente sacramento?

Che vor dì? Perché?

Quante domande…


Sono le domande!

Quelle che chi vuole uscire dalla condizione di “uomo/donna di cultura cristiana” (in cui la storia ci ha relegato) per accedere a quella di discepolo/discepola del Signore, deve porsi... le medesime a cui bisogna anche tentare di rispondere…

Non voglio certo farlo io, ora: è un itinerario non esauribile in un foglio… Ma bisogna che iniziamo a pensare a come vogliamo stare sulla scena di questo mondo: se come cattolici per cultura (che sanno a memoria i 10 comandamenti allo stesso modo di come sanno a memoria l’Inno di Mameli) o se come figli del Dio dell’alleanza…

Perché è proprio di questo che si tratta nel Decalogo: del Dio dell’alleanza.

Il testo infatti inizia con un’ annotazione storica: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile». Essa non è un’annotazione stilistica o marginale; anzi, racchiude il senso stesso di tutto quanto segue: proprio perché c’è una storia di salvezza, una vicenda di liberazione, una relazione di custodia, Dio è il Dio del popolo.

Solo per questo hanno senso una legge e un culto, da non intendere come mere pratiche vuote, ripetizioni di gesti o parole magiche – che funzionano senza adesione del cuore; non si tratta di un tentativo di ingraziarsi o imbonirsi la divinità.

Molto di più: la legge è il consiglio che Dio (che ama il popolo e lo ha mostrato fattivamente nella storia liberandolo) dà perché il popolo sia felice (non per soggiogarlo! Che è l’eterna tentazione, come ci rivela il mito di Genesi 3, quello del peccato originale); e il culto è l’esplicitazione gestuale, vocale e rituale di quella relazione originaria che fonda la vita: proprio perché Dio è Colui che ha condotto fuori dall’Egitto il popolo, proprio perché cioè Dio è Colui col quale c’è una storia di reciproco disvelamento e affidamento, sono necessarie le mediazioni simboliche (culto) che permettono la relazione.

Ecco perché l’idolatria è considerata il peccato più grave del popolo: essa non è, come a volte capita di pensare a noi occidentali, una forma scaramantica nei confronti di statuette di poco conto, ma la scelta di fondare la propria vita su ciò che fondatezza non ha, su ciò che – anche linguisticamente – evoca l’inconsistenza, l’evanescenza, l’insignificanza («Gli idoli delle genti sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Le loro mani non palpano, i loro piedi non camminano; dalla loro gola non escono suoni! Diventi come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida!», Sal 115).

Il libro dell’Esodo ribadisce dunque l’unicità della relazione d’alleanza («io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo», Ger 7,23; 11,4; 30,22; Ez 36,28) e la necessità di un’autentica mediazione simbolica che la custodisca e la alimenti.

Anche il vangelo focalizza la sua attenzione in questo senso: «Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”».

In esso la questione sembra allargarsi, o meglio approfondirsi: la problematica infatti non è più solo quella della necessità di un’autentica relazione con il Dio dell’alleanza, ma quella di una legge e di un culto codificati, eppure essi stessi idolatrici. La religione ufficiale non è più uno strumento che facilita l’accesso al vero volto di Dio, ma diventa un ostacolo: propone un volto di Dio, che non è il suo; è idolatrico, appunto.

Non si tratta certo di una tematica sconosciuta al Primo Testamento (basti pensare a cosa diceva Isaia di sacerdoti e profeti al capitolo 28,7: «Sacerdoti e profeti barcollano per la bevanda inebriante, sono annebbiati dal vino; vacillano per le bevande inebrianti, s’ingannano mentre hanno visioni, traballano quando fanno da giudici»; o al capitolo 30,9-11: «Questo è un popolo ribelle. Sono figli bugiardi, figli che non vogliono ascoltare la legge del Signore. Essi dicono ai veggenti: “Non abbiate visioni” e ai profeti: “Non fateci profezie sincere, diteci cose piacevoli, profetateci illusioni! Scostatevi dalla retta via, uscite dal sentiero, toglieteci dalla vista il Santo d’Israele”»; o Geremia, al capitolo 2,7-8: «Io vi ho condotti in una terra che è un giardino, perché ne mangiaste i frutti e i prodotti, ma voi, appena entrati, avete contaminato la mia terra e avete reso una vergogna la mia eredità. Neppure i sacerdoti si domandarono: “Dov’è il Signore?”. Gli esperti nella legge non mi hanno conosciuto, i pastori si sono ribellati contro di me, i profeti hanno profetato in nome di Baal e hanno seguito idoli che non aiutano»), ma che certamente nella risposta di Gesù trova un’evoluzione sorprendente e scandalosa.

Gesù infatti compie un gesto fortissimo («Fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”»), ma in modo più radicale ancora usa parole di spiegazione sconcertanti.

Infatti, alla richiesta di spiegazione dei Giudei – che in questo versetto 18 del capitolo 2 si oppongono per la prima volta a Gesù, ma d’ora in poi diventeranno i suoi oppositori abituali e che qui indicano sicuramente i custodi del tempio – («Quale segno ci mostri per fare queste cose?»), risponde: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere».

Alla domanda, cioè, sulla sua εξουσία (exusìa), sull’autorità con cui compie il gesto simbolico della purificazione del tempio, Gesù risponde rimandando al suo corpo («egli parlava del tempio del suo corpo»):



«C’è una autorevolezza che viene dalla verità interiore di una persona, il fascino dell’autenticità, che tutti attorno sentono, alcuni accogliendola come un dono e uno stimolo, altri rifiutandola come un  rimprovero o una sfida. Uomo compiuto, uno lo può essere soltanto diventando progressivamente quello che è, perché si è costruito così fin dall’inizio, orientando i suoi sentimenti, i suoi gesti, le sue parole nella costante, faticosa e gioiosa, fedeltà del processo della vita, a partire dall’istintualità infantile congenita in noi, in ascolto della “voce” che lo chiama da dentro – nella sua piccola nicchia socioculturale che lo permea da fuori.

Se lo sdegno della passione talora esplode, è sempre per la difesa dei diritti altrui violati o vilipesi, non per sé, perché non ha bisogno di difendere se stesso, confortato interiormente dalla testimonianza viva della verità. Allora il suo corpo, luogo, strumento e materia del crearsi dell’identità personale, da minuscolo germoglio di carne a uomo compiuto, è diventato la creta dove l’antica immagine di Dio ha trovato espressione, dove il progetto va compiendosi, la casa dove il Padre è venuto ad abitare, ormai indistruttibile, perché impregnata dal suo amore.

Gesù, erede della millenaria storia di Israele, è l’ebreo compiuto che ne incarna l’anelito ininterrotto di cercatori e ascoltatori della parola di Dio. Finché questo cammino non è terminato, e morte e risurrezione non hanno ancora sigillato l’alleanza nuova nel suo corpo, l’antica casa di Dio, il tempio, doveva servire solo alla preghiera incessante, che implora nell’attesa dell’“eletto”, nel quale Dio potesse finalmente compiacersi. Gli idoli non devono assolutamente profanare la casa del Padre, tanto meno il dio alternativo, che è mammona, il denaro, il mercato – la svendita dell’amore!

[…] Gesù rifiuta apparentemente la provocazione dei giudei (e dei credenti di ogni tempo) che chiedono segni, ma di fatto la esaudisce, prevedendo e lasciando che la logica perversa del rifiuto dell’amore distrugga il suo corpo: Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra (Mt 12,40). Questa forza interiore di fedeltà assoluta all’amore è la sua vera “autorità”, contro la quale ogni potere spezza le sue armi, pur sicure di poterlo vincere! e dimostrando proprio con questo, che l’amore, che sembra inerme e disarmato, di fatto è invincibile… nella sua impotenza! Ed è proprio per questo che il corpo di Gesù umiliato, torturato e ucciso, diventa la nuova vera abitazione, il vero tempio di Dio, che è amore! E qui, in questo luogo sacro, il Padre scende a compiacersi di trovare chi ha ascoltato la sua parola fino a diventare, come Dio, amore. Un corpo di carne che diventa amore è il luogo di Dio, è divino!
… il nuovo tempio del culto di Dio è dunque il corpo dell’uomo, attraverso un passaggio, una pasqua, che proprio per renderci capaci di questo amore abissale, passa attraverso il dono “fisico” della vita, e scende come ogni corpo nel ventre della terra. L’osservanza radicale e compiuta della legge, pallida immagine del progetto di Dio sulla natura e sulla storia, porta fino a questa soglia, non può andare oltre. È esterna all’uomo, scritta su lastre di pietra, non ancora incisa sul cuore degli uomini. Giudei, che si fidano solo di segni divini, e greci, alla ricerca di una superiore sapienza umana, sono parimenti bloccati di fronte a questa soglia. Noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani. La maturità cristiana è il lungo cammino, alla sequela di Cristo, per fare del proprio “corpo di carne” il tempio, il luogo di “riconoscenza” del Padre, dove la legge e la giustizia sperimentano la propria impotenza, per l’invincibile tentazione contrattuale di cui sono intrise, che fa di ogni rapporto con Dio un consapevole o inconsapevole mercato, dove non il volere, ma il potere di Dio è la merce più ricercata. Ma Dio è stoltezza, scandalo e debolezza… in questo mercato! e la religiosità del credente, come la sapienza dell’ateo, giustamente aborrono un tale scambio!» [Giuliano].
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...

I più letti in assoluto

Relax con Bubble Shooter

Altri? qui

Countries

Flag Counter