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martedì 31 gennaio 2012

V Domenica del Tempo Ordinario


«Diceva Anna Magnani al truccatore che prima del ciak stava per coprirle le rughe del volto: “Lasciamele tutte, non me ne togliere neanche una. C’ho messo una vita a farmele tutte».




In questa Quinta Domenica del Tempo Ordinario, la liturgia della Parola ci offre – nel vangelo – il “secondo tempo” di quanto narrato la settimana scorsa. I versetti odierni corrispondono infatti alla seconda parte del racconto della “giornata tipo” di Gesù, che era iniziata con l’insegnamento dato con autorità nella sinagoga e con la liberazione di un uomo posseduto da uno spirito impuro.

Siamo dunque – anche nel testo di questa domenica – a Cafàrnao, in un giorno di sabato, e di Gesù si dice che «uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni».

Di questo “rientro a casa”, che poteva benissimo fare da scenario ad un dialogo tra Gesù e i discepoli su quanto appena accaduto, Marco – col suo stile essenziale – sottolinea invece un nuovo imbattersi di Gesù nell’umano: l’incontro con la suocera di Pietro.

In primo piano perciò non emerge ciò che Gesù e i suoi quattro amici si sono detti, ma un nuovo incontro personale, stavolta con una donna, la prima che compare nel vangelo marciano.

Già questo elemento dovrebbe bastare ad allontanare con forza questa donna dai luoghi comuni o dalle battute sarcastiche, neanche troppo simpatiche, sulle “suocere”, in cui invece ogni tanto viene coinvolta: è la prima donna di cui il vangelo di Marco parla!

In più, se ancora questo non bastasse, a testimonianza del ruolo positivo che questa donna probabilmente rivestiva nella dinamica familiare di Pietro, sta il fatto che di essa «gli parlarono subito»; “subito”, lo stesso avverbio usato per sottolineare la prontezza con cui Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni avevano seguito Gesù!

C’è dunque un’urgenza, che dice di un’apprensione, per qualcuno che è importante… la stessa che avranno tutti quei padri, quelle madri, quegli amici, che andranno da Gesù – lungo la sua vita e quella sera stessa – per chiedere la liberazione dal male per le persone che amavano…

E Gesù… «si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano»…

Non dobbiamo subito – con gli occhi e la mente – scappare in avanti nella lettura del testo («si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni») e registrare solo che questa donna in un batti baleno si è alzata, si è messa a fare la pastasciutta per i ragazzotti e poi è scomparsa dall’orizzonte di significato della loro e nostra coscienza, molto più interessata – quest’ultima – all’evento assai più spettacolare che quella sera (dopo la pastasciutta) si è dato da vedere a casa loro: una gran folla raccoltasi per Gesù e per ottenere i suoi prodigi…

No, non dobbiamo scappare subito in avanti, ma dobbiamo fermarci un attimo su quel «si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano»… perché lì dentro c’è nascosto un modo di essere di Gesù che è troppo importante per lasciarselo sfuggire: di Lui infatti non è importante tanto, o solo, il fatto che guarisse, ma il come lo facesse... E precisamente: avvicinandosi e prendendo una vecchietta per la mano, per aiutarla ad alzarsi.

Qui c’è dentro una tenerezza, un’empatia, un sorriso da giovanotto che porge la mano a una vecchietta, che fanno quasi scappare una lacrima. Commuove il giovanotto Gesù, che si fa prossimo a questa donna anziana…

Questo qua è Gesù!

Se invece scappiamo troppo avanti, perdendoci questa vecchietta, e pensandola nell’ottica della pastasciutta, mi chiedo: “Ma che cavolo di idea ci siamo fatti di Gesù?!?! Ma siamo rimbambiti!?!?”.

E allora – sebbene ci sarebbe ancora molto da dire sul nostro testo, soprattutto su questa giornata che si conclude con la preghiera solitaria di Gesù e con il suo sottrarsi, la mattina dopo, alla morsa della folla che da lui vuole solo miracoli, per andare a dire a tutti la bella notizia che Dio ci è padre – non voglio fare torto a questa vecchietta e mi fermo in contemplazione di questo suo incontro, che mi commuove, con l’affascinante giovanotto Gesù, che tra tutti, si avvicina con delicatezza proprio a lei, scavata da anni di vita (di quella vita! che le donne del suo tempo conducevano in Palestina) e segnata nel volto e nel corpo dal tempo che l’ha attraversata… Proprio a lei Gesù si avvicina e porge la mano!


E allora, infine, vi lascio un testo, che mi è tornato in mente, pensando a questa nonnina. Un testo che – seppur partiva da altrove – dice qualcosa che si avvicina molto a questo scambio d’affetto (che Marco genialmente descrive con meno di 10 parole) tra Gesù e la suocera tenera del suo amico…

Tenera, sì, perché come tutte le nostre mamme, appena può, si alza e si prodiga per i suoi figli e i figli degli altri, che ha imparato a considerare suoi

«L’amore più grande non si trova nell’amore “impossibile”, ma nell’amore possibile, naturale.

[…] Jean Giono lo afferma in una sconvolgente storia d’amore tra un bambino e una vecchia signora.

Pauline de Thèus è una grande dama di Provenza, senza debolezze né colpe, e domina il mondo con la sua presenza al tempo stesso ieratica e dolce. Angelo, il nipote, la ammira al pari di una dea, è la figura tutelare della sua infanzia. Ma arriva il giorno in cui deve partire: gli studi, il lavoro, la vita lo chiamano lontano dalla casa di famiglia. Al suo ritorno, molto tempo dopo, a sua nonna non è rimasto più niente dell’eleganza che tanto lo affascinava, ormai è debole, dipendente, una vecchia impotente e sorda, che rutta e non si trattiene più, che bisogna lavare, nutrire, seguire nella sua lenta agonia. Ma Angelo impara a lavarle la bocca impiastricciata dai bignè al cioccolato, a tagliarle le unghie dei piedi, a farle un clistere; e scopre il grande amore. L’amore obiettivo, quello che accoglie l’altro per dargli ciò che gli manca realmente alla sua gioia: “Non si trattava più di amarla per ciò che mi dava, ma di amarla per darle. Era necessario vederla in maniera molto obiettiva per poter fare esattamente le cose indispensabili al suo benessere. Era quello, l’amore. Quanto era difficile! […] Ad aiutarmi fu anche quello scheletro ricoperto di pergamena, quei due cotiledoni di ossa iliache, quelle cavità pelviche in cui la pelle si infossava e che dovevo pulire a fondo con piccoli batuffoli di cotone, quel pube scoglioso, quel sesso in rovina coperto di erba bianca”.

Quel corpo scheletrico lo aiuta perché è debole. Il suo sguardo limpido gli permette di non fare alcuno sforzo: Angelo trova quel corpo realmente amabile. Ne percepisce la “qualità” e una “trasfigurazione del suo mistero”.

Nel movimento che lo attira verso la terra, quel corpo attesta già l’ascensione di un’anima per raggiungere uno sposo già salito in cielo.

A paragone, il corpo di una top model non vale niente, è neutro, levigato, standardizzato, mentre il corpo di Pauline è marchiato dalla storia e frantumato dal destino. Angelo lo sente degno dell’eros più elevato, quello dell’autentica carità: “Non era abnegazione, o compassione, o qualunque cosa siamo abituati a considerare, ad esempio, come cristiani. Non avrei potuto lavare gli escrementi di chiunque e far parte di un «ordine di massaggiatori». Era tutto molto particolare”.

Non è tanto abnegazione, compassione professionale dai gesti meccanici, un amore generico applicato indifferentemente a tutti. È un’amicizia particolare, unica, che vuole accompagnare l’altro nella morte e fino all’eternità.

Purtroppo le nostre favole non presentano più come modello un amore di questo tipo. Le circostanze non smettono di proporcelo, ma lo respingiamo come qualcosa che è il contrario dell’amore. Abbiamo la testa piena di caricature di Romeo e Giulietta, e crediamo di vivere la grande passione quando si tratta soltanto dell’effervescenza dei nostri ormoni. Ma gli eventi, nella loro testarda provvidenza, non mancheranno di ripresentare l’occasione di questo amore estremo, in particolare, come è nell’ordine naturale, con il trapasso dei nostri genitori» [da Farcela con la morte, di Fabrice Hajadj, Assisi, Cittadella Editrice, 2009].

martedì 24 gennaio 2012

IV Domenica del Tempo Ordinario

In questa Quarta Domenica del Tempo Ordinario, entriamo nel vivo del racconto di Marco. Infatti dopo il titolo («Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio», Mc 1,1), il trittico sinottico (Battesimo di Giovanni Battista, Battesimo di Gesù e Tentazioni nel deserto, Mc 1,2-13) e il prologo letto e meditato domenica scorsa (Mc 1,14-20), dal v. 21 inizia il vero e proprio racconto della storia di Gesù.

La prima serie di episodi raccontati a partire dal versetto 21, fino a Mc 3,6, hanno «come motivo ricorrente una annotazione geografica: Cafarnao e il suo lago. Anzi la prima parte (1,21-34) costituisce una “giornata” [tipo] di Gesù. […] Ed è una giornata di sabato, come si dice all’inizio e come si lascia capire alla fine (le folle aspettano il tramonto del sole, cioè la fine del riposo sabbatico, per portare a Gesù gli ammalati)» [B. Maggioni, il racconto di Marco, Cittadella Ed., Assisi 199912, 40].

La liturgia della Parola spezza questa “giornata tipo” su due domeniche, la IV e la V del Tempo Ordinario (B). Ciò di cui ci dobbiamo occupare oggi è perciò quello che accade in questa prima parte di questa “giornata tipo”, non dimenticando che essa si completerà nel brano di vangelo di domenica prossima.

Il primo atto di questa vicenda consiste nell’entrare di Gesù – di sabato – nella sinagoga di Cafarnao. Di questa “città” abbiamo già parlato la volta scorsa, perciò non mi dilungo. È interessante piuttosto soffermarsi sulle altre due annotazioni: il giorno di sabato e la sinagoga.


Il sabato è il giorno di riposo per gli ebrei, vissuto con puntuale intransigenza soprattutto dal gruppo dei farisei; è un elemento della religiosità giudaica sul quale – sappiamo – Gesù spesso si scontrerà, tentando di riportare i suoi interlocutori allo spirito autentico del precetto sabbatico, riassumibile nell’espressione: «il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27).

Ma il sabato è anche il giorno in cui gli israeliti convenivano nella sinagoga per la preghiera e per la lettura e la spiegazione della Legge. Essa era un edificio – presente non solo nei grandi centri, ma anche nelle piccole città e villaggi – che durante la settimana fungeva da scuola (per i soli bambini maschi), mentre di sabato accoglieva gli adulti per la preghiera.

Tutti i partecipanti potevano essere invitati dal presidente a insegnare, non solo gli scribi e gli anziani. Inoltre, ogni israelita poteva chiedere la parola e intervenire. Ecco perché il fatto che Gesù prendesse la parola e insegnasse nella sinagoga di Cafarnao (come riporta il nostro brano evangelico) non è un elemento anomalo. Non è per questo che i presenti si stupiscono! Come dice il testo infatti essi non erano stupiti del fatto che Gesù insegnasse, ma della modalità del suo insegnamento: «infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi».

A questo punto del vangelo «a Marco non interessa dirci che cosa [Gesù] ha insegnato», ma il fatto che il suo modo di presentarsi, «diventi un problema per i presenti: che è mai questo? Ecco l’interrogativo centrale» [Maggioni].

E il punto su cui si attesta questo stupore è l’autorità con cui Gesù insegna. Autorità (in greco εξουσία, exusìa) «si potrebbe anche tradurre autorevolezza, potenza. Insomma è un po’ difficile tradurre il senso che ha in quel versetto proprio perché autorevolezza è troppo debole, potenza è fin troppo trucido, perché non è una questione di muscoli. Questo termine è usato qui per indicare l’incomparabilità del modo con cui Gesù afferma e si afferma» [P.A. Sequeri durante il Corso di Teologia Fondamentale, 2002-2003]. Un’incomparabilità che si può riconoscere citando alcuni elementi del suo affermare e affermarsi:

-          per esempio quando “si permette” di dire «vi fu detto, ma io vi dico», dove quel “vi fu detto” fa riferimento a quanto è scritto nella Bibbia. È cioè un’espressione forte, traducibile così: “Nella Bibbia c’è scritto… ma io vi dico”…

-          oppure quando in Giovanni sia autodefinisce “Io sono”, che a noi dice poco… ma che non è altro che il nome di Dio; e ad un orecchio ebraico, di certo, questo non sfuggiva;

-          oppure quando si attribuisce prerogative prettamente divine, per esempio quella di rimettere i peccati: «il Figlio dell’uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra», (Mc 2,10);

-          infine quando con gesti e parole ordina agli eventi, al male, agli stessi capi religiosi del popolo, ai demoni...

Proprio come nel nostro brano, dove – sempre nella sinagoga – Gesù libera un uomo posseduto da uno spirito impuro.

«Non è facile per noi ricostruire la realtà dell’accaduto. […] Non dobbiamo pretendere da questi racconti diagnosi mediche né dichiarazioni speculative sulla natura dei demoni. Essi riflettono piuttosto la lettura “teologica” del tempo» [Maggioni]. Ma «chi sono questi ammalati? Come possiamo cogliere in base alla nostra cultura quella peculiare esperienza [di liberazione dai demoni] che si viveva intorno a Gesù? In genere gli esegeti tendono a vedere nella “possessione diabolica” una malattia; si tratterebbe di casi di epilessia, isteria, schizofrenia o “stati alterati di coscienza” in cui l’individuo proietta in maniera drammatica su di un personaggio maligno le repressioni e conflitti che lacerano il suo mondo interiore. Oggi è indubbiamente legittimo pensare così, ma ciò che vivevano quei contadini della Galilea ha poco a che vedere con questo modello di “proiezione” di conflitti su un altro personaggio. Avviene esattamente il contrario. Secondo quella mentalità, sono loro a sentirsi invasi e posseduti da qualcuno di quegli esseri maligni che infestano il mondo; questa è la loro tragedia; il male che soffrono non è una malattia fra le altre: significa vivere assoggettati a un potere sconosciuto e irrazionale che li tormenta senza che essi possano difendersene. […] Gesù si avvicinò a quel mondo sinistro e liberò quanti vivevano tormentati dal male. Gesù somigliava ad altri esorcisti del suo tempo, ma era diverso. Probabilmente i suoi combattimenti con gli spiriti maligni non risultavano del tutto strani nei villaggi della Galilea [gli esorcismi erano di moda e la letteratura rabbinica ne parla – Maggioni], ma nel suo operato c’era qualcosa che, indubbiamente sorprendeva quanti lo osservavano da vicino. Gesù si avvicina al linguaggio e ai gesti degli esorcisti del suo tempo, ma, a quanto sembra, stabilisce con gli indemoniati una relazione assai peculiare. Non usa i mezzi utilizzati dagli esorcisti: anelli, cerchietti, amuleti, incenso, latte umano, capelli. La sua forza è lui stesso. Bastano la sua potenza e il potere della sua parola [la sua εξουσία] per imporsi. D’altra parte, a differenza della pratica generale degli esorcisti, che scongiurano i demoni in nome di qualche divinità o personaggio sacro, Gesù non prova alcuna necessità di rivelare l’origine del suo potere: non spiega in nome di chi scaccia i demoni, non pronuncia il nome magico di nessuno, né invoca alcuna forza segreta. Non ricorre nemmeno a suo Padre. Gesù affronta i demoni con la forza della sua parola: “Esci da lui”; “taci”; “non rientrare più in lui”. Tutto fa pensare che, mentre combatte i demoni, Gesù sia convinto di operare con la forza stessa di Dio» [J.A. Pagola, Gesù. Un approccio storico, Borla, Roma 20102, 190-195].

«Il concetto di exusia è [quindi] il concetto di potere, sovranità, signoria, esibita da Gesù, in quella forma che fa la differenza per i suoi interlocutori, sia popolari che dotti, perché anche immaginandosi al meglio la figura di un profeta, fosse anche degli ultimi tempi, il protagonismo con il quale Gesù interviene nella sfera della Rivelazione è sorprendente, sconcertante e i vangeli lo registrano, registrando anche la conferma da parte di Gesù della percezione di questa scandalosità. Dice: “Beati quelli che non si scandalizzeranno” e “scandalizzeranno” qui vuol dire questo» [Sequeri]. Non scandalizzarsi del suo modo di affermare e affermarsi.

Intanto il vangelo testimonia che le reazioni intorno a lui sono di stupore e timore. Solo i demoni paiono cogliere davvero chi lui sia. Ma egli impone loro il silenzio. Egli infatti sa che questo suo modo di presentarsi sulla scena con autorità (con εξουσία) può essere ambiguo: le sue parole e i suoi gesti, che altro non vogliono che annunciare l’arrivo del regnare di Dio (e dunque la buona notizia per l’uomo della liberazione dal male), potrebbero invece essere fraintesi e considerati espressioni di forza cieca, che può agire tanto per il male che per il bene.

È su questo crinale che si gioca l’incontro col Signore. Ancora oggi.

martedì 17 gennaio 2012

III Domenica del Tempo Ordinario (B)

In questa terza domenica del tempo ordinario, il testo del vangelo di Marco ci annuncia l’inizio dell’attività pubblica di Gesù. Dopo il cosiddetto trittico sinottico infatti – costituito dagli episodi del battesimo di Giovanni Battista (Mc 1,2-8), del battesimo di Gesù (Mc 1,9-11) e delle tentazioni nel deserto (Mc 1,12-13) – Gesù torna nella regione in cui è cresciuto, la Galilea, e qui inizia a predicare e a chiamare i primi discepoli.

I versetti del vangelo in cui tutto questo è narrato, i versetti cioè dal 14 al 20 del primo capitolo di Marco (coincidenti con il testo proposto per questa domenica dalla liturgia), non devono stupire per la loro estrema essenzialità. Il loro scopo infatti non è tanto quello di narrare i primi episodi della vita pubblica di Gesù, quanto quello di fungere da prologo: la loro finalità è dunque quella di indicare la prospettiva generale in cui leggere tutta la storia di Gesù.

Interessante è anzitutto l’annotazione dell’evangelista, confermata da tutti i sinottici: Gesù iniziò la sua attività pubblica «dopo che Giovanni [Battista] fu arrestato». C’è come un avvicendarsi tra i due: quasi che questo arresto, questa messa a tacere di Giovanni, imponesse a Lui di prendere la parola, di dare voce all’annuncio del Regno, che pure farà in maniera così diversa dal “cugino”.

Ma proviamo a fare un passo indietro, ricostruendo – per quanto possibile – il contesto di questo avvicendarsi. Raccogliamo le informazioni da J.A. Pagola, Gesù. Un approccio storico, Borla, Roma 20102, 89 ss; testo che fa parte della collana Ricerche teologiche diretta da Carlo Molari: «In un dato momento, Gesù si avvicinò al Battista, ascoltò la sua chiamata alla conversione e si fece battezzare da lui nelle acque del fiume Giordano; il fatto avvenne intorno all’anno 28.


[…] Gesù ha assunto il battesimo come segno e impegno di un cambiamento radicale. […] Si svincola dalla famiglia e si dedica al suo popolo; dimentica anche il proprio lavoro; lo attrae solo l’idea di collaborare a quel meraviglioso movimento di conversione iniziato da Giovanni.

[…] Gesù [infatti, dopo il battesimo] non torna immediatamente in Galilea, ma si trattiene per qualche tempo nel deserto accanto al Battista. Ignoriamo come poteva essere la vita di quanti di muovevano nell’entourage di Giovanni; non è azzardato ritenere che avesse due tipi di seguaci. La maggioranza di loro, una volta battezzata, tornava alle proprie case, pur mantenendo viva la consapevolezza di far parte del popolo rinnovato che si stava creando attorno al Battista; alcuni invece restavano con lui nel deserto, approfondendo ulteriormente il suo messaggio e aiutandolo da vicino nel suo lavoro.

[…] Gesù […] aderì a questo gruppo di discepoli e collaboratori.

[…] Lì conobbe due fratelli, chiamati Andrea e Simone, e un loro amico, Filippo, tutti oriundi dello stesso paese di Betsàida; i tre appartenevano in quel periodo al circolo del Battista, anche se più tardi avrebbero dato la loro adesione a Gesù».

Ad un certo punto interviene però un fatto nuovo: «Il movimento iniziato dal Battista cominciava a venir notato in tutto Israele; anche i gruppi tacciati di essere indegni e peccatori, come gli esattori di imposte e le prostitute, accolgono il suo messaggio; soltanto le élite religiose e gli erodiani dell’entourage di Antìpa oppongono resistenza. […] Giovanni diventa un profeta pericoloso soprattutto quando Erode ripudia sua moglie per sposare Erodìade, moglie del suo fratellastro Filippo, che aveva conosciuta a Roma durante gli anni della giovinezza. […] Prima che la situazione peggiori, Antìpa ordina di incarcerare il Battista nella fortezza di Macheronte, e, più tardi, ne ordina l’esecuzione».

È a questo punto che avviene l’avvicendamento: «Gesù reagisce in maniera sorprendente. Non abbandona la speranza che animava il Battista, bensì la radicalizza fino ad estremi insospettati. Non continua a battezzare, come fanno altri discepoli di Giovanni, che proseguirono la sua attività dopo la sua morte; dà per conclusa la preparazione che il Battista ha promosso fino ad allora e trasforma il suo progetto in un altro nuovo.

[…] Lascia il deserto, attraversa il fiume Giordano ed entra nuovamente nella terra che Dio aveva donato al suo popolo. Siamo intorno all’anno 28 e Gesù ha circa trentadue anni. Non si dirige a Gerusalemme e non rimane in Giudea; si reca direttamente in Galilea.

[…] Non si stabilisce nella sua casa di Nàzaret, ma si dirige verso la regione del lago di Galilea e va a vivere a Cafàrnao in casa di Simone e Andrea, [i] due fratelli che ha conosciuto nell’ambiente del Battista. Cafàrnao era un paese tra i 600 e i 1500 abitanti, che si estendeva sulla riva del lago, all’estremo nord della Galilea.
[…] Cafàrnao è un villaggio importante, paragonato con Nàzaret, ma [i suoi abitanti] sono gente modesta. Parecchi di loro sono contadini [e] pescatori. […] A quanto sembra, Gesù simpatizza subito con queste famiglie di pescatori. […] Sono i suoi migliori amici: Simone e Andrea, originari del porto di Betsàida, ma che hanno casa a Cafàrnao; Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo e di Salome, una delle donne che lo accompagneranno fino alla fine; Maria, originaria del porto di Màgdala, guarita da Gesù e per sempre catturata dal suo amore.

Tuttavia, Gesù non si stabilisce a Cafàrnao. Vuole diffondere ovunque la notizia del Regno di Dio. [Egli infatti] cominciò a vedere tutto in un orizzonte nuovo. È finito ormai il tempo della preparazione nel deserto; comincia l’irruzione definitiva di Dio.

[…] Quel che Gesù contemplava non era soltanto un cambiamento di prospettiva temporale; la sua intuizione credente e la sua totale fiducia nella misericordia di Dio lo portano a trasformare radicalmente quanto Giovanni si attendeva.

[Egli] comincia presto a parlare un linguaggio nuovo: sta giungendo il “regno di Dio”. Non bisogna continuare ancora ad aspettare, bisogna accoglierlo. Quel che a Giovanni sembrava qualcosa di tuttora lontano, sta già facendo irruzione; presto estenderà la sua forza salvifica. Bisogna proclamare a tutti questa “Buona Notizia”; il popolo deve convertirsi, ma la conversione non consisterà nel prepararsi a un giudizio, come pensava Giovanni, bensì nell’“entrare” nel “regno di Dio” e nell’accogliere il suo perdono salvifico. Gesù lo offre a tutti». Anche a noi, oggi.

martedì 10 gennaio 2012

II Domenica del Tempo Ordinario

Domenica scorsa abbiamo celebrato la festa del Battesimo del Signore: essa concludeva il Tempo di Natale e inaugurava il Tempo Ordinario; non a caso il vangelo faceva riferimento al primo atto della vita pubblica di Gesù, il Battesimo al Giordano, appunto.

Si è trattato dunque di una “domenica ponte”.

Questa settimana, invece, a tutti gli effetti inizia il Tempo Ordinario. In questa prospettiva mi sembra interessante che tutte e tre le letture narrino l’“inizio” di qualche storia: quella di Samuele, quella della comunità cristiana di Corinto, quella di Gesù e dei suoi discepoli.

Come a dire che ciò su cui è ora necessario sintonizzarsi è l’inizio, gli inizi: quelli originari della nostra vita, della nostra fede, delle nostre relazioni, delle nostre scelte, ma anche quelli congiunturali, quotidiani… i nuovi inizi a cui siamo sempre in qualche modo chiamati dalla storia, perché le situazioni cambiano, gli amici partono, i fratelli muoiono…

In questo senso la coincidenza con il ricominciamento dell’anno sociale, la riapertura delle scuole, la prima settimana del 2012 senza nessun giorno festivo a parte la domenica, è un’ulteriore convergenza verso questo invito a soffermarsi sull’iniziare o il ri-iniziare.

E allora veniamo alle tre storie che ci raccontano le letture, non tanto o non solo mettendoci alla ricerca di suggerimenti e indicazioni che possano orientare i nostri inizi, ma provando ad immedesimarci in esse, come suggerisce in un bellissimo testo uno dei teologi più importanti del XX secolo, H.U. Von Balthasar:
«Noi siamo assillati dalla vita e stanchi e ci guardiamo introno se c’è un luogo di tranquillità, di autenticità, di ristoro. Vorremmo riposarci in Dio, lasciarci cadere in lui, per avere da lui forze nuove ad andare avanti. Ma non lo cerchiamo là dove ci aspetta, dove è da noi raggiungibile: nel Figlio suo che è il suo Verbo. Oppure noi cerchiamo Dio perché avremmo mille cose da chiedergli senza di cui ci sembra di non poter più continuare a vivere, lo aggrediamo con problemi, vorremmo poter sapere, chiarire, alleggerire, e dimentichiamo, in tutto ciò, che egli ci ha risolto nella sua Parola ogni questione, ci ha fornito ogni informazione per noi comprensibile in questa vita. Noi non tendiamo l’orecchio verso il punto dove Dio parla: dove la sua Parola ha risuonato nel mondo in modo così unico e definitivo che vale per tutti i tempi e tutti i tempi non saranno in grado di esaurirla. Oppure noi pensiamo che la parola di Dio ha cessato ormai da tanto tempo di echeggiare sulla terra da essere già quasi logora; una parola nuova dovrebbe essere in arrivo, ne avremmo bene il diritto. E non badiamo che siamo noi, noi soli, i logori, gli alienati, mentre la Parola è viva e sorgiva come prima e a noi vicina come sempre: “Vicina a te è la parola, nella tua bocca e nel tuo cuore” (Rm 10,8). Non comprendiamo che, quando la parola di Dio risuona per una volta nel centro del mondo, nella pienezza dei tempi, si impone con tanta forza che tutti essa intende e interpella, e tutti in modo egualmente immediato, e nessuno è svantaggiato da distanze di spazio o di tempo. Vero è che certuni sono stati partner del dialogo terreno di Gesù, e noi abbiamo invidia di questa loro fortuna, ma essi si sono comportati in questo dialogo con la stessa goffaggine maldestra con cui ci saremmo comportati noi e chiunque altro; come uditori e interlocutori di ciò che Gesù realmente intendeva, essi non hanno inteso nulla in anticipo rispetto a noi, al contrario, la vista dell’apparenza esterna della Parola nascose ad essi per gran parte il suo lato interiore, divino. “Beati quelli che non vedono e tuttavia credono”, e che credono più facilmente perché non vedono. Anche i discepoli compresero la Parola in ciò che davvero intendeva soltanto dopo la risurrezione ed anche allora molti dubitarono e si mostrarono ottusi: veramente essi capirono solo dopo l’ascensione, nella pentecoste, quando lo Spirito penetrato in essi spiegò loro ciò che il Figlio aveva lasciato inciso nella memoria. Questi partner terreni di Gesù non erano decisamente delle persone speciali. Casualmente si sono trovati ad essere dove anche altri avrebbero potuto stare, o meglio, dove ogni altro realmente sta. Nella samaritana alla fontana Gesù si rivolge certo a questa singola donna, ma anche al tempo stesso a ogni peccatrice, a ogni peccatore. Non per una persona sola Gesù si è seduto stanco all’orlo della fontana: quaerens me sedisti lassus! Non è dunque soltanto un “esercizio pio” se io mi metto al posto di questa donna e recito la sua parte: non solo la posso recitare, la devo recitare questa parte, anzi io sono da lungo tempo coinvolto in questo dialogo senza che me ne sia stato chiesto il permesso. Sono io questa anima sconvolta che esce ogni giorno ad attingere l’acqua terrena perché non sa più nulla dell’acqua celeste che ella va in realtà cercando. […] È dunque troppo poco vedere negli incontri e colloqui del Vangelo soltanto “esempi”, allo stesso modo che, poniamo, un’opera epica presenta esempi di coraggio, ad imitare i quali si sente incitato il ragazzo che legge. Giacché la Parola, che là si è fatta carne per poter parlare con noi, intende in ogni singola volta ogni reale singola volta, intende in ogni peccatore che si converte ogni peccatore, in ogni ascoltatore che è seduto ai suoi piedi ogni ascoltatore» [H.U. Von Balthasar, Nella preghiera di Dio, Jaka Book, Milano 1983, 13-14].

In questi due primi discepoli che vedono Giovanni Battista fissare gli occhi su Gesù e dire “Ecco l’agnello di Dio”, c’è dunque ognuno di noi.

La scelta di questi due – a fronte di questa indicazione, dell’indicazione del loro maestro, così libero da farli andare dietro ad un altro – è quella di seguire Gesù e sentirsi chiedere “Che cosa cercate?”.

Sono le prime parole che l’evangelista Giovanni mette in bocca a Gesù nel suo vangelo: “Che cosa cercate?”.

Noi che cosa cerchiamo? Perché se è vero quanto diceva Balthasar, questa domanda di Gesù non è solo per quei due, ma è rivolta a ciascuno di noi.

Certo, è una domanda che ci siamo indubbiamente già posti chissà quante altre volte in vita… e che tuttavia è sempre necessario far riemergere: Che cosa cercate? Chi cerchiamo di più nella vita? E perché?

«Gli risposero: “Rabbì – che, tradotto, significa maestro –, dove dimori?”. Disse loro: “Venite e vedrete”. Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio». L’ora decima.

E noi? Siamo andati a vedere? E cosa abbiamo visto? Anche noi ci ricordiamo le nostre “ore decime”, le pietre miliari che hanno segnato il nostro itinerario fino a qui?

Io credo che all’alba di un nuovo inizio sia indispensabile fare memoria della nostra ora decima; ri-accedere a quello squarcio del cuore che il Signore, passando, ci ha lasciato, incandescente – come quello di Isaia, quando il serafino gli mise un carbone ardente sulle labbra –, e che ancora ci fa fremere quando lo guardiamo; credo sia indispensabile tornare a guardare a quell’entusiasmo tenero e ingenuo (eppure così “più vero” dei nostri cervellotici e sterili e tristi ragionamenti prudenti e compromissori) che l’inizio della storia di Samuele nella prima lettura dipinge così bene…

Per tornare anche noi ad andare e a vedere e a rimanere con Lui e a raccontare con le lacrime agli occhi «Abbiamo trovato il Messia».



E poi c’è la seconda lettura, che se si riuscisse a leggere senza una pre-comprensione moralista o sessuofoba (che ce lo renderebbe antipatico), svela tutta la sua grandezza e bellezza: a una comunità al suo inizio, Paolo ricorda che ciò che avviene nel nostro corpo si scrive dentro al nostro cuore (come le terribili storie di violenza sulle donne e sui bambini o sui deboli in generale troppo spesso ci hanno testimoniato, vedendo quanto li hanno segnati in profondità). E allora Paolo dice “Cercate di non fare pasticci”, perché l’amore nel corpo, che è la cosa più bella in vita ed è la più bella perché è quella che raggiunge di più la profondità di ciò che siamo (addirittura è il luogo privilegiato dell’incontro col Signore: «il Signore è per il corpo» / «Chi si unisce al Signore [nel corpo = chi fa l’amore con lui – non a caso appena prima, nella parte di versetto omesso, si cita il fare l’amore con la prostituta] forma con lui un solo spirito»), proprio per la sua potenzialità inarrivabile da qualunque altro esercizio umano, se usata male (per il male) fa male più di qualsiasi altro esercizio umano. Ecco cosa intendeva giustamente la Chiesa quando suggeriva che qui dentro c’era una materia grave, cioè pesante, seria, a rischio di dolorosità potente.

Io credo che su questo si dovrebbe fondare il tentativo degli adulti di “educare” i piccoli: il corpo è il massimo della possibilità d’amore agli altri e a Dio, e infatti solo quando la mano di un altro / di un’altra (che non siano nostro padre o nostra madre) ci tocca nel corpo sperimentiamo e impariamo cos’è l’amore (il medesimo cui facciamo riferimento quando lo associamo a Dio e ai fratelli)… ed è proprio per questo che il nostro corpo (e quello degli altri) va custodito e amato. Credo infatti che tanti facendo memoria delle loro “ore decime” le ricorderanno come eventi che li hanno toccati nel corpo.

martedì 3 gennaio 2012

Battesimo del Signore

In questa terza domenica dopo Natale, la Chiesa ci invita a celebrare la festa del Battesimo di Gesù. Il suo ministero pubblico infatti, come narrano tutti e quattro gli evangelisti, inizia proprio con questo mettersi in fila con i peccatori, per vivere, attraverso Giovanni, un gesto di espiazione dei peccati.

Il problema che da sempre ha creato tanto scompiglio all’interno della riflessione cristiana è stato: Perché Gesù sceglie di farsi battezzare?

Forse le nostre orecchie ormai avvezze a sentire raccontare questa situazione, fanno più fatica a cogliere la drammaticità di questo evento, ma esso ha fatto sobbalzare non pochi schemi teologici... La questione consiste proprio in questo: come rendere ragione di questa scelta di Gesù?

Impossibile infatti scartare come ipotetico o falso questo dato evangelico: la sua veridicità ha infatti troppi elementi a sostegno. Innanzi tutto – come già detto – è attestata da tutti e quattro gli evangelisti; il che è già un grande elemento di forza per provare la storicità di un fatto narrato. In più si tratta di uno di quei fatti che – proprio per la difficoltà di renderne ragione – i cristiani avrebbero veramente preferito espungere dai loro testi: come infatti convincere i popoli che Gesù era Figlio di Dio e contemporaneamente annunciargli che si è messo in fila coi peccatori per un battesimo di espiazione?

Il fatto non può dunque essere inventato: nessuno infatti – fra coloro che scrivevano e leggevano il vangelo – aveva alcun interesse o vantaggio – anzi tutto il contrario – a ideare un tale episodio. Sostanzialmente, dalle analisi storiografiche, bisogna concludere che, se tutti gli evangelisti hanno inserito questo episodio, è perché proprio non potevano farne a meno; non potevano cioè nascondere quello che era un fatto reale, conosciuto da tutti: che Gesù era stato battezzato da Giovanni.

Ma, chiarito il dato storiografico, dunque la realtà del fatto, resta il problema di renderne ragione. Come dicevamo, la domanda che rimane è: perché Gesù si è fatto battezzare?


Questa domanda non è banale, né è una vana curiosità del lettore di oggi: non basta saltare il problema pensando che è esagerazione del teologo andare a cercare un perché a tutto... Infatti dietro al gesto del battesimo entrano in campo problematiche serie sull’identità di Gesù e dunque sulla nostra fede in lui. Tali questioni, potremmo delinearle in questo modo: Se Gesù è Figlio di Dio, Dio lui stesso, perché si fa rimettere i peccati? Gesù è senza peccato («Cristo non commise alcun peccato e non fu trovato alcun inganno nella sua bocca», 1 Pt 2,22) si legge nelle Scritture... Allora, forse – ecco la questione scottante – non era Dio, ma solo un uomo, bisognoso come tutti del perdono di Dio, appunto. O forse – altra questione problematica – era sì Dio, ma non lo sapeva: aveva bisogno cioè, come tutti, di prendere coscienza della sua identità, della sua missione, della sua figliolanza... Ma anche in questo caso: com’è possibile che il Figlio di Dio non sapesse di essere il Figlio di Dio? Che Dio è allora?

Ovviamente entrambe le soluzioni non sono accettabili per il credente che vuole tentare di rendere ragione di questo fatto: non si può ammettere che Gesù non sapesse di essere il Figlio di Dio (lui stesso infatti nel Vangelo rivendicherà con autorità questa sua identità: tanto che per questo verrà messo a morte, «egli deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio» – Gv 19,7), né tanto meno che non lo fosse e dunque avesse bisogno del perdono dei peccati (di se stesso infatti dice: «il Figlio dell' uomo ha autorità in terra di perdonare i peccati», Mt 9,6)!

Ma allora come porsi – da credenti – di fronte a questa situazione? Perché Gesù, pur essendo Figlio di Dio e senza peccato, si fa battezzare da Giovanni?

Qualcuno (già all’epoca neotestamentaria) cerca di risolvere la cosa, chiamando in causa una non meglio definita giustizia, quasi un piano preordinato indisponibile a Gesù stesso, che determina questa situazione. Matteo infatti – a differenza di Marco – orchestra la vicenda in modo tale che Giovanni inizialmente si rifiuti di battezzare Gesù, dicendo «Io ho bisogno di esser battezzato da te e tu vieni da me?» e accetti solo quando Gesù gli ribatte «Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia».

Ma questa soluzione, ben al di là dall’essere tale, è in realtà solo uno spostamento del dilemma: in queste parole che Matteo mette in bocca a Gesù infatti, emerge solo il fatto che anche l’evangelista aveva lo stesso nostro problema: rendere ragione di questo fatto... Non potendolo proporre nella sua esplosività (Matteo scrive infatti ai cristiani provenienti dall’ebraismo) – come fa invece Marco – tenta di attutirne la portata, rimandandolo a un progetto anteriore e sconosciuto a Gesù stesso. Ma – come detto – questa risposta risulta una non-risposta, un semplice spostamento del problema, che – pur suonando diversamente (Perché Dio nel suo piano anteriore e indisponibile al Figlio, ritiene giusto farlo battezzare tra i peccatori?) – rimane.

Altri tentativi di soluzione sono stati posti invece nella linea della pedagogia divina: Gesù cioè qui agirebbe col solo intento di insegnare qualcosa (l’umiltà, per esempio), o di aspettare tempi più maturi per rivelarsi (farebbe dunque finta – per il momento – di essere un uomo qualsiasi, uno tra i tanti)...

Ma anche in questi casi le risposte non reggono: la finta assunzione dell’umanità da parte del Figlio di Dio infatti è addirittura scartata come eresia dalla Chiesa cattolica (docetismo); ma anche la prospettiva pedagogistica di Gesù è sempre più vista come una riduzione della sua identità: sarebbe cioè sbagliato porsi di fronte alla storia di Gesù, cercando di estrarne insegnamenti, codici morali, itinerari spirituali, prescindendo dal suo porsi nel mondo. Non bisogna infatti pensare che ci sia da una parte la vita umana di Gesù e dall’altra i vari insegnamenti per il buon vivere oggi che da essa si possono estrarre! È piuttosto il decidersi storico dell’uomo Gesù la rivelazione di Dio: è la storia concreta di Gesù – che di volta in volta ha deciso di sé, ha deciso chi essere – il volto di Dio e il volto dell’uomo rivelati definitivamente nel tempo!

Allora forse anche di fronte al fatto del battesimo di Gesù – al suo decidersi cioè di mettersi in fila per la remissione dei peccati – è necessario porsi con questo atteggiamento. Non tanto domandarsi quindi “Cosa ci vuole insegnare Gesù, facendo così?”, quanto piuttosto “Chi sta decidendo di essere, in quella scelta?”.

Stando ai testi neotestamentari e alla riflessione della Chiesa in proposito, le risposte potrebbero essere diverse (sta decidendosi per una solidarietà con l’uomo peccatore; per un’adesione alla domanda di salvezza del suo popolo; per un andare a vedere le risposte che il momento storico offriva), ma tutte riconducibili a una: Gesù sta decidendo di essere uomo; azzardando un po’ i termini: sta imparando a essere l’uomo che – da sempre – ha deciso di essere.

E non a caso, proprio nel momento in cui Gesù è uomo al 100%, arriva la voce dal cielo – che in Marco sente solo lui (è alla II persona e non alla III come per esempio in Matteo) – voce quasi di conferma, di approvazione, di compiacimento: Gesù è Dio così e Dio conferma “un” Gesù così: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».

Questa frase, tra l’altro, non è una semplice esclamazione di consenso, ma – per le esperte orecchie ebree – rimanda inequivocabilmente a Isaia 42: dove dell’eletto di cui Dio si compiace si dice che «porterà la giustizia alle nazioni. Non griderà, non alzerà il tono, non farà udire la sua voce per le strade. Non spezzerà la canna rotta e non spegnerà il lucignolo dalla fiamma smorta; presenterà la giustizia secondo verità. Non verrà meno e non si scoraggerà, finché non avrà stabilito la giustizia sulla terra» (Is 42,1 ss); e anche che sarà preso per mano e custodito «per aprire gli occhi dei ciechi, per fare uscire dal carcere i prigionieri e dalla prigione quelli che giacciono nelle tenebre» (Is 42,7).

Questo sta dunque decidendo di essere Gesù nella sua intima relazione col Padre: l’uomo – rivelazione di Dio – capace di giustizia senza violenza; di verità senza sopraffazione; di fiducia e stabilità; di liberazione per gli oppressi della terra... Con tutto quello che questa sua scelta comporterà: perché Egli sa benissimo, che l’amore è ciò che di più feribile esiste, tra le cose che esistono, e che dunque la sua scelta di umanità sarà una scelta per la morte. Sempre Isaia, descrivendo il Servo d’Israele, dice infatti: «Disprezzato e rigettato dagli uomini, uomo dei dolori, conoscitore della sofferenza, simile a uno davanti al quale ci si nasconde la faccia, era disprezzato, e noi non ne facemmo stima alcuna. Eppure egli portava le nostre malattie e si era caricato dei nostri dolori; noi però lo ritenemmo colpito, percosso da Dio ed umiliato. Maltrattato e umiliato, non aprì bocca. Come un agnello condotto al macello, come pecora muta davanti ai suoi tosatori» (Is 53,3-7).
E in questo scegliere di Gesù di essere uomo – e dunque Dio – così, non c’è niente di pedagogico, nessun insegnamento da trarre! Non sta invitando anche noi a essere capaci di giustizia senza violenza; di verità senza sopraffazione; di fiducia e stabilità; di liberazione per gli oppressi della terra. Molto di più, sta abilitando la carne umana a percorrere quella strada impossibile: perché nello sconforto di una vita che – a differenza dell’annuncio di Natale – sembra essere fatta di tenebre senza nessuna luce che ci brilli dentro (di violenza senza giustizia, di sopraffazione senza verità, di canne spezzate e braci incenerite, di scoraggiamenti, e di impossibilità di salvezza), sia detto a tutti, che se è stato possibile una volta in un uomo, essere Uomo così, allora è possibile per tutti sempre, e dunque per noi, oggi!
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