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giovedì 27 ottobre 2011

Come dovrebbe (almeno) parlare un capo di stato

"Siamo passati a due dita dalla catastrofe... di publicsenat dove si trova anche il testo scritto.
Data? giovedì 25 settembre 2008!!
L'analisi è condivisibile anche se si può notare che il problema non è semplicemente (anche!) etico!
Le soluzioni quindi peccano di "ingenuità" e producono false speranze:
non si può guarire di una malattia con ciò che l'ha causata!...
...E hanno un gusto propagandistico! Il che spiega perché in tutto questo tempo la crisi non solo non è stata risolta ma si è anzi  aggravata!

martedì 25 ottobre 2011

XXXI Domenica del Tempo Ordinario

Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa Trentunesima Domenica del Tempo Ordinario, è costituito dai versetti 1-12 del capitolo 23.

Io però suggerisco la lettura dell’intero capitolo 23, perché esso – nel suo insieme – riesce meglio a rendere l’idea di quale sia la posizione di Gesù rispetto agli scribi e ai farisei «di ieri e di oggi»… Una posizione che non va ridotta a questione occasionale, non rilevante, ininfluente (quasi che Gesù abbia risposto con questa alacrità solo perché in quel momento il tono della discussione era acceso… e dunque le sue parole andrebbero prese con le pinze…), ma che – anzi – a mio parere è molto istruttiva (la dice lunga…) per comprendere cosa/come pensa Gesù, dunque chi egli sia!

Non a caso gli studi esegetici confermano che questo discorso di Gesù, non è per niente il resoconto di una sua mera presa di posizione occasionale, che Matteo avrebbe redatto all’indomani di uno scontro coi capi religiosi ebraici, quanto piuttosto «un vero e proprio discorso che l’evangelista ha costruito con la tecnica che gli è abituale: parole del Signore pronunciate in contesti diversi sono radunate insieme per affinità tematiche. Nel nostro caso l’evangelista ha raccolto molte parole polemiche del Signore, quasi a rappresentare il vertice della rottura fra Gesù e i farisei» [B. Maggioni, il racconto di Matteo, 290].

Queste parole sono infatti collocate da Matteo dopo i brani dello scontro con i capi religiosi di Gerusalemme, di cui abbiamo letto nelle scorse settimane: a coronamento dell’innalzarsi della tensione contro Gesù – tensione che lo porterà alla morte –, l’evangelista colloca questa raccolta di parole severe, che hanno di mira un certo modo di vivere la religiosità e in particolare l’autorità religiosa.

Il fatto però che – appunto – si tratti di una raccolta di parole pronunciate (anche) altrove e in diverse occasioni, rende evidente come la posizione di Gesù qui espressa non sia occasionale, ma strutturale: cioè, il nostro brano di vangelo non ci dice semplicemente il pensiero di Gesù rispetto a quei pochi sadducei, farisei e scribi che hanno tentato di coglierlo in fallo nelle varie dispute analizzate nelle settimane scorse; ma ci rivela quale sia stato il pensiero che Gesù ha elaborato nella sua storia (il discorso è infatti composto da frasi che ha pronunciato in momenti diversi della sua storia, che Matteo ha scelto per rendere l’idea di quale fosse il pensiero del suo Maestro) rispetto al potere religioso.

Questo è il nocciolo del discorso…


Insomma… se si dovesse raccogliere ciò che Gesù pensa rispetto al potere religioso, verrebbe fuori questo capitolo 23… Anzi è proprio andata così: Matteo, dovendo raccogliere ciò che Gesù aveva detto/pensato rispetto al potere religioso, ha ottenuto questo lacerante capitolo 23!

Guardiamolo perciò un po’ più da vicino… non tanto per alimentare una polemica con l’attuale potere religioso – cioè guardando il testo come se fossimo noi gli oppositori dei farisei di ieri e di oggi – quanto piuttosto per far sì che le parole di Gesù interpellino il fariseo che c’è in ciascuno di noi… l’anima farisaica delle nostre famiglie, dei nostri gruppi, delle nostre comunità, della nostra Chiesa.

Innanzitutto ciò che emerge è che ad essere messi sotto accusa da Gesù sono essenzialmente due atteggiamenti: l’incoerenza ipocrita e la ricerca di sé.

Non l’incoerenza e basta, ma l’incoerenza ipocrita: quella cioè che maschera la verità di sé. Perché leggendo il vangelo ci si accorge subito che la fragilità dell’uomo (tra cui anche la sua incoerenza!) non sono mai impedimenti veri all’incontro col Signore, anzi… tanti episodi paiono sottolineare come soprattutto chi è immerso nella sua fragilità, chi è trasparenza della miseria umana è come “favorito” nell’accesso al Regno («In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio», Mt 21,31).

Il problema non sta quindi nella nostra impossibilità a costruirci una vita “santa” («“Chi può essere salvato?”. Gesù disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”, Mt 19,25-26), ma nel fingere che questa impossibilità per qualcuno sia meno impossibile che per qualcun altro…

Questo fanno gli scribi e i farisei cui Gesù rivolge questo suo discorso duro; questo è il pericolo sempre insito nel potere religioso: fingere di non essere uomo tra gli uomini, fratello di fratelli, peccatore seduto con tutti gli altri alla tavola dei peccatori… ma di avere i “titoli” morali, sacrali, intellettuali per essere chiamato “maestro”, “padre”, “guida”… È questa falsificazione di fronte agli altri e a se stessi della nostra identità fatta della stessa pasta umana degli altri, che spaventa Gesù…

E lo spaventa perché sa che questo meccanismo di falsificazione di sé (non si pensa più a se stessi come a poveri, figli, bisognosi di misericordia, di cura, di fraternità…), porta inevitabilmente alla discriminazione omicida: se io non sono come gli altri (sottinteso “sono meglio”), il mio sguardo verso di loro non potrà essere che di indifferenza o commiserazione o disprezzo o condanna…

Se tutto questo è vero a livello delle singole persone – e credo che tutti quanti personalmente l’abbiamo un po’ sperimentato sulla nostra pelle, sia come vittime (di qualche sedicente “diverso/migliore di noi”), sia come carnefici – a maggior ragione lo è al livello macroscopico delle istituzioni, dove – appunto – l’apparato istituzionale censura ciò che invece a livello personale ancora ogni tanto ci salva, e cioè lo scrupolo di coscienza nell’“ammazzare” l’altro…

Ma c’è ancora un livello peggiore di incistamento di questo meccanismo… quando esso non solo è istituzionalizzato, ma lo è a livello religioso/sacrale: lì infatti l’alibi del far le cose “perché dio le vuole” chiude ogni possibilità d’appello.

È questa pericolosità che Gesù vede e denuncia… e tenta continuamente di scardinare, ribadendo come Maestro, Padre e Guida debba essere Uno solo, Dio, di cui noi siamo tutti discepoli, figli, in-seguitori. Ribadendo dunque come tra noi il rapporto debba essere unicamente fraterno.

Guardandosi intorno (ma anche dentro) non sembra che questo elemento strutturale del vangelo di Gesù sia stato molto colto… tanto meno assunto…

Report: vedo, pago, voto

martedì 18 ottobre 2011

XXX Domenica del Tempo Ordinario

Il vangelo che la liturgia ci propone per questa Trentesima Domenica del Tempo Ordinario, segue, saltando pochi versetti, quelli delle settimane scorse. Siamo sempre a Gerusalemme e sempre nello stesso contesto di tensione con i capi religiosi ebrei.

Il capitolo 22,34-40, quello odierno, propone infatti nuovamente il tentativo di uno dei gruppi religiosamente più intransigenti di Israele, di mettere alla prova Gesù: dopo i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo che nel Tempio avevano messo in discussione la sua autorità (Mt 21, 23 ss) e dopo i sadducei che lo avevano interrogato sulla risurrezione dei morti a cui non credevano (Mt 22,23-33), ecco ritornare alla carica i farisei, già messi a tacere – come ci raccontava la liturgia di settimana scorsa – in occasione della discussione sul tributo a Cesare (Mt 22,15-22): essi ripropongono ora capziosamente una nuova domanda a Gesù: «Qual è il grande comandamento?».

La domanda non è neutrale, anzi, il Vangelo stesso sottolinea come essa sia stata fatta «per metterlo alla prova»

Eppure essa contiene anche uno sfondo di curiosità sincero: «Nelle scuole teologiche del tempo ci si chiedeva [infatti] quale fosse il comandamento da porre in testa all’elenco.

Uno scriba pone la domanda a Gesù per metterlo alla prova; vuole cioè saggiare la capacità del nuovo maestro e conoscere la sua opinione su un dibattimento alla moda.

Gesù cita anzitutto due testi dell’Antico Testamento.

Un passo del Deuteronomio (6,4-8): “Ascolta Israele, Jahvè è il nostro Dio. Jahvè è uno solo. Ama Jahvè tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze. Le parole che oggi ti ordino siano nel tuo cuore. Le inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti trovi in casa, quando cammini per strada, quando ti corichi e quando ti alzi. Le legherai quale segno sulla tua mano, saranno come pendenti tra i tuoi occhi. Li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte”.

E un testo del Levitico (19,18): “Non vendicarti e non serbare rancore verso i figli del tuo popolo, ma ama il prossimo tuo come te stesso”.

I due passi erano al centro della spiritualità di Israele, soprattutto il primo, che veniva recitato mattina e sera, ricamato sulle maniche delle vesti, scritto sugli stipiti delle porte.

Ma pur citando nella sua risposta testi noti e preesistenti, Gesù si mostra – nei confronti delle opinioni correnti – nuovo e originale. Per lui il comandamento dell’amore di Dio e del prossimo non è semplicemente il comandamento da mettere in testa all’elenco, neppure soltanto il comandamento più importante: è il centro da cui tutto deriva [cui tutta la legge e i profeti sono sospesi dice il testo greco!], e che tutto informa e permea: ogni altra legge, se vuole presentarsi come volontà divina, deve essere espressione di questo duplice amore» [B. Maggioni, il racconto di Matteo, Cittadella Editrice, Assisi 20044, 282-283].


Ancora una volta, allora, Gesù, sottoposto ad una domanda-tranello dai suoi oppositori – domanda dalla quale avrebbe dovuto uscire screditato – assume l’interrogativo tendenzioso che gli viene proposto, ribaltandolo come un calzino… e smarcandosi dalla malizia di chi glielo propone!

Per loro infatti si tratta solo di un “assalto alla sua credibilità”: è un tentativo di “metterlo alla prova su un argomento alla moda”, sperando che risponda qualcosa che lo faccia entrare nella polemica con gli altri maestri… quindi che lo “tiri dentro” al mucchio e lo disperda tra i tanti! Dunque che annulli la sua pretesa di avere una parola inaudita…

Per lui invece la questione è serissima; le loro “chiacchiere leggere” sono occasione per porre una parola pesante: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

Quindi: tutta la Legge e i profeti (cioè tutta la Parola di Dio nella/sulla storia) va “fatta dipendere da”, “è sospesa a”, “è appesa a”, “va intesa a partire da” la relazione d’amore con Dio e con il prossimo.

Questa è la “parola pesante” che Gesù pone e che fa ammutolire (come sempre più spesso accade) i suoi oppositori. Un silenzio sul quale poi Gesù porrà una contro domanda (vv. 41-45, che la liturgia non propone) che chiuderà la polemica verbale (per aprire poi quella omicida dell’arresto e della croce) perché: «Nessuno era in grado di rispondergli e, da quel giorno, nessuno osò più interrogarlo» (Mt 22,46).

A noi oggi, lontani da quel contesto di discussione mortale in cui Matteo inserisce le parole di Gesù, resta in mano soprattutto la domanda sul loro significato: Cosa intende dire/fare Gesù, appendendo la Legge e i profeti al duplice comandamento dell’amore a Dio e al prossimo?

Io credo istituire il criterio orientativo della vita: a noi continuamente incerti sui passi da porre, ad ogni livello, continuamente arrabattati nella ricerca di risposte, di certezze, di “manuali delle istruzioni” per questa vita che ci si propone sempre più come complessa… a noi continuamente preoccupati di far bene o almeno di cercare il modo per far bene e così frastornati dalle migliaia di chiacchiere su cosa sia questo “far bene”… a noi, il Signore sopraggiunge con una parola pesante: il criterio è l’amore.

È vero che ci sarebbe da discutere cosa si intende per amore, che spesso nel concreto chiamiamo amore qualcosa che invece che far bene all’altro, lo uccide, che ci sarebbe da pensare bene a cosa ciascuno di noi intende per “tenere insieme amore per Dio e per il prossimo”, ecc… ecc… ecc…

Sono tutti argomenti su cui ci sarebbe da pensare e da dire molto… e sui quali è bene che ciascuno pensi e dica molto…

Ma io credo che prima di tutto questo, il vangelo di oggi ci inviti a deciderci per un’opzione vitale per l’amore: un’opzione rispetto alla quale invece mi pare rischiamo sempre di stare un po’ come sulla soglia… autogiustificati da tante altre considerazioni di buon senso, di imprescindibile calcolo, di inevitabile equilibrismo tra le tante istanze della nostra vita… salvo poi ritrovarci smarriti nel moltiplicarsi delle considerazioni, dei calcoli e delle istanze, senza saperci più raccapezzare nell’individuazione di una via che orienti la sensatezza della nostra vita.

È la situazione in cui spesso mi ritrovo io… è la situazione in cui a volte mi pare di ritrovarmi con la gente con cui vivo… è la situazione in cui a volte mi pare annaspi la Chiesa e la società tutta…

Forse è allora il caso di ripartire da qui… da quello cui tutto il resto è appeso, che dunque sta o cade in base alla sua capacità di essere espressione d’amore.

giovedì 13 ottobre 2011

Guai a voi!



Dal vangelo di oggi (Lc 11,47-54): «Guai a voi, dottori della Legge, che avete portato via la chiave della conoscenza; voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare voi l’avete impedito».

Il peccato più grave che la chiesa ha commesso durante la storia, non sono state le pur gravissime violazioni dei diritti dell’uomo, con crociate, inquisizioni, stupri di adulti e minori, omertà, messa al rogo di eretici e donne accusate di stregoneria, senza contare il continuo malaffare politico ed economico… Di questo la chiesa ha riconosciuto, ed è (abbastanza) pronta, a riconoscere le sue colpe (sebbene solo dopo che è stata smascherata pubblicamente!).

Una colpa non ha mai ammesso neppure oggi – ed è a mio avviso la più grave, perché tutte le comprende – anzi continua a giustificarla “teologicamente”: quella di aver tenuto e di tenere da secoli, intere generazioni, miliardi di uomini e donne, nella più completa ignoranza biblica e teologica. Impedendo loro, come laici, l’accesso alle fonti del sapere teologico, estromettendoli dall’apprendimento e dall’insegnamento della fede e della teologia dai seminari e dalle facoltà teologiche, soprattutto se donne. E il “crimine contro l’umanità” continua imperterrito ancora oggi!

Praticamente l’unica fonte di conoscenza dottrinale a cui un laico può aspirare sono le “cose” che il prete dice in omelia (spesso baggianate!) o le infarinature teologiche parziali e controllate, dispensate dai superficiali “Istituti Superiori (sic!) di Scienze Religiose” o peggio dalle “Scuole di teologia per laici”: peggio dell’ignoranza è la conoscenza incompleta, perché – assolutizzando quel poco che si sa – crea integralismi (cfr Teresa d’Avila, Cammino di Perfezione 8,4)!… Quest’ultime poi, già nel nome – accentuando, come se ce ne fosse bisogno la separazione tra “conoscenza” laicale e “conoscenza” clericale! – gridano vendetta al cospetto di Dio!

martedì 11 ottobre 2011

XXIX Domenica del Tempo Ordinario: “Date a Cesare…”

Il brano del vangelo di Matteo proposto dalla Chiesa in questa Ventinovesima Domenica del Tempo Ordinario, è molto famoso… spessissimo, infatti, soprattutto negli ultimi anni, è stato da più parti ripreso, in particolare nella citazione celebre che esso contiene: «Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». La si è usata per esempio come richiamo alla chiesa, quando la si percepiva troppo ingerente negli affari dello Stato (per esempio sugli innumerevoli dibattimenti etici e bioetici dell’ultimo decennio: legislazione sul fine vita, sulla regolazione delle coppie di fatto anche omosessuali, sulla fecondazione artificiale, ecc…); la si è usata come richiamo al fatto che anche la chiesa dovrebbe dare la sua parte a Cesare (per esempio con la discussione rispetto al pagamento dell’ICI); ma la si è usata anche come monito della chiesa ai cristiani-cittadini perché pagassero le tasse; o come rivendicazione della chiesa stessa per la sua autonomia dalle ingerenze politiche; addirittura la si usa come “proverbio” da citare indipendentemente dal fatto che la chiesa sia o meno implicata nella discussione.

Dico tutto questo in apertura, perché – leggendo il testo evangelico – il rischio è di essere trascinati immediatamente ed inesorabilmente in queste questioni… Io invece vorrei stare un passo indietro…


Non perché non ritenga questi temi importanti o perché voglia rifuggire una necessaria presa di posizione, ma perché:

1-      sono questioni articolate troppo spesso sulla chiacchiera (spesso incompetente, ripetitiva e distraente) piuttosto che sulla serietà riflessiva; e dunque non voglio aggiungere chiacchiere a chiacchiere, data la mancanza di professionalità adatta ad una analisi riflessivamente alta su questi temi;

2-      non è il compito immediato di una riflessione sul vangelo, che – certo – sfocia anche in una presa di posizione sul reale, ma di cui si deve far carico il singolo lettore; la lectio, piuttosto, prepara come il terreno perché il brano sia capito per quello che vuol dire e non per quello che vogliamo fargli dire; solo a quel punto ciascuno è chiamato a “farlo suo”, innanzitutto – mai scordarlo! – sul piano personale e poi – anche – sul piano socio-politico;

3-      infine, tutte queste questioni del nostro tempo non possono essere così automaticamente sovrapposte ad un testo scritto quasi due millenni fa!

Dunque un passo indietro rispetto a tutto quanto ricordato in apertura… per restare ancorati all’alveo che ha partorito quel testo e non scivolare immediatamente nei problemi di oggi che tirano di qua e di là queste parole.

Veniamo dunque al testo: esso fa parte del grande scontro, avvenuto a Gerusalemme, che abbiamo avuto sotto gli occhi nelle scorse domeniche tra Gesù a i capi religiosi ebraici. Esso infatti segue i brani della cacciata dei venditori dal tempio (Mt 21,12-17) e della conseguente animata discussione di Gesù con i sommi sacerdoti e gli anziani (Mt 21,23-22-14), con le parabole dei due figli, dei vignaioli omicidi e del banchetto nuziale.

Ora, dopo i sommi sacerdoti e gli anziani, sono i farisei e gli erodiani che si avvicinano a Gesù per coglierlo in fallo. Essi, come gli altri, sono infatti infastiditi dalle pretese (sulla sua persona e sulla sua missione) con cui quest’uomo è giunto a Gerusalemme.

Il quesito che gli pongono (anzi che mandano a porgli tramite i loro discepoli), riguarda la sfera delle relazioni tra mondo religioso e mondo politico: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?».

Per comprendere fino in fondo questo interrogativo e soprattutto la malizia che vi sta sotto è utile una piccola digressione sulla situazione storica di Israele: nella primavera del 63 a.C. le truppe romane guidate dal generale Pompeo avevano conquistato Gerusalemme, rendendo la Palestina una provincia dell’Impero.

Quando nacque Gesù, imperatore era Ottaviano Augusto; ma la maggior parte della sua vita Egli la passò sotto la dominazione di Tiberio. «Gesù non ebbe occasione di conoscerli da vicino. […] Tuttavia sapeva assai bene che essi dominavano il mondo ed erano padroni della Galilea; poté comprovarlo ancor meglio quando aveva circa ventiquattro anni. [Erode] Antìpa [figlio di Erode il Grande], tetrarca della Galilea, vassallo di Roma, edificò una nuova città sulle sponde del lago di Genèsaret e ne fece la nuova capitale della Galilea. Il nome diceva tutto; Antìpa la chiamò “Tiberiade” in onore di Tiberio. I Galilei dovevano sapere chi fosse il loro supremo signore. Per oltre sessant’anni nessuno poté opporsi all’Impero di Roma. Ottaviano e Tiberio dominarono la scena politica senza grandi incidenti. Una trentina di legioni, di oltre cinquemila uomini ciascuna, oltre ad altre truppe ausiliarie, assicuravano il controllo assoluto di un territorio immenso che si estendeva dalla Spagna e dalle Gallie fino alla Mesopotamia; dalle frontiere del Reno, dal Danubio e dal mar Morto sino all’Egitto e all’Africa del nord. […] Per facilitare l’amministrazione e il controllo di un territorio così immenso, Roma aveva diviso l’Impero in province, rette da un governatore incaricato di mantenere l’ordine, vigilare sulla riscossione delle imposte e amministrare la giustizia. Per questo Pompeo, quando intervenne in Palestina approfittando delle lotte interne sorte fra i governanti giudei, come prima cosa riorganizzò la regione e la mise sotto il controllo dell’Impero. […] I popoli soggiogati non dovevano dimenticare di trovarsi sotto l’Impero di Roma. La statua dell’imperatore, eretta accanto a quella degli dei tradizionali, lo ricordava a tutti. La sua presenza in templi e luoghi pubblici delle città invitava i popoli a renderle culto come al loro autentico “signore”. Ma il mezzo più efficace per mantenerli sottomessi era indubbiamente l’uso del castigo e del terrore. Roma non si permetteva il minimo segno di debolezza davanti alle sommosse o alla ribellione. Le legioni potevano tardare più o meno a lungo, ma arrivavano sempre. La pratica della crocifissione, le decapitazioni di massa, la cattura di schiavi, gli incendi dei villaggi e i massacri nelle città non avevano altro intento che di terrorizzare la gente. Era il modo migliore per ottenere la fides e la lealtà dei popoli» [J.A.Pagola, Gesù. Un approccio storico, Borla, Roma 20102, 24-26].

Questa è la situazione che in Israele aveva creato grande malcontento verso i dominatori romani e aveva alimentato l’attesa di un Messia che avrebbe liberato dalla dominazione straniera. Ecco perché la domanda che i farisei e gli erodiani rivolgono a Gesù è doppiamente tagliente:

-          da un lato perché lo mettono di fronte ad una situazione senza via d’uscita: se risponde che le tasse all’oppressore non vanno pagate, si espone come “nemico di Cesare”; se risponde che esse vanno pagate, si espone come “amico di Cesare”. Nell’un caso sfidando l’autorità romana, nell’altro scontentando le folle;

-          dall’altro lato perché gli chiedono conto della sua “pretesa” messianicità: non può essere il liberatore politico atteso, se non libera dall’oppressione romana.

Come annota l’evangelista – dunque – è chiaro che la domanda di farisei ed erodiani ha il solo scopo di cogliere in fallo Gesù. Il problema del rapporto coi Romani è solo occasionale: è l’argomento del momento, adoperato per screditarlo. Loro non sono interessati al contenuto della sua risposta, non sono interessati alla sua posizione e alle sue eventuali argomentazioni, non vogliono sapere davvero cosa ne pensa di questa questione… A loro interessa solo che – rispondendo – si tradisca: è un tranello. L’oggetto del tranello è irrilevante, sostituibile, indifferente (non a caso, infatti, immediatamente dopo arriveranno i sadducei con una “domanda tranello” sulla risurrezione, Mt 22,23-33). Ritengono infatti che il problema della dominazione romana sia irrisolvibile (non a caso ciascun gruppo della società ebraica si regolava un po’ da sé: tutti erano scontenti della dominazione, ma qualcuno – come gli zeloti – pensava ad una suicida rivolta armata; qualcuno – come i farisei – pagava le tasse per evitare problemi anche se disprezzava gli oppressori; qualcuno – come i sadducei –, data la situazione, cercava di trarre il proprio interesse dalla collaborazione coi Romani).

Gli parlano, quindi, del problema politico del momento nella forma della “chiacchiera”: senza proporre né aspettarsi un impegno riflessivo alto.

Ma è qui che Gesù fa uno dei suoi tipici “slittamenti di piano”: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare ma a Dio quello che è di Dio»! Egli cioè prende la loro chiacchiera sul serio, molto più sul serio di loro: infatti, davvero il problema della dominazione straniera o del governo che scontenta è un problema grave, che tocca la vita della gente ogni attimo della vita. Non se ne può fare chiacchiera, non se ne può usare con malizia! In gioco vi è il senso della vita, che pare minacciato dalla presenza di questi oppressori pagani.

E infatti Gesù, nella sua risposta, si smarca dal tranello, si smarca dalla malizia, si smarca dalla chiacchiera e fa “slittare” il discorso sul nucleo del problema: il senso della vita – che sembra minacciato dall’esterno (in questo caso dalla dominazione straniera) – in realtà non dipende che da una cosa: «dare a Dio quello che è di Dio».

La struttura dell’uomo è, infatti, fondata sul suo rapporto con Dio (sempre possibile in qualsiasi condizione), non certo sul potente di turno che lo governa. Indipendentemente dunque da un giudizio di merito sul potere politico, quello che Gesù vuole ribadire è che niente condiziona (tanto da renderlo impossibile), il rapportarsi dell’uomo al suo Dio, dunque la sensatezza del vivere: neanche la dominazione straniera, neanche la perdita del tempio («viene un' ora, ed è adesso, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità», Gv 4,23), neanche la perdita della libertà (Etty Hillesum scrive da dentro un campo di concentramento: «tutto quello che ci è possibile salvare in quest'epoca, ed è anche la sola cosa che conta: un po’ di te in noi, mio Dio»), neanche la perdita della vita («Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito». Detto questo, spirò», Lc 23,46).

Ma: il porre il sempre possibile rapporto con Dio – in qualsiasi condizione – come punto zero della vita umana, non vuol dire che tutto il resto è inutile: le parole di Gesù non sono un invito al disimpegno socio-politico, anzi! Il fondante rapporto con Dio è piuttosto ciò che fa verità sulla condizione in cui si vive e perciò orienta il conseguente e necessario impegno socio-politico.

venerdì 7 ottobre 2011

Controcorrente...



Più leggo di Jobs e più mi preoccupo. Ha fatto nella vita quello che più gli è piaciuto. E credo che questo possa essere un bene. Ha dato a molti quello che più piaceva loro, e forse questo potrebbe anche essere un bene. Ma è proprio quello di cui avevano (abbiamo) veramente bisogno? L’umanità può veramente dire “Grazie Jobs!”? L’umanità dico, tutta! Non quella parte che può permettersi spensierata e sulle spalle dell’altra, l’oggetto dei propri (indotti?) desideri. Ne dubito! Oh sì! fortemente ne dubito…

mercoledì 5 ottobre 2011

Dire "Padre"

Alcune volte capita così che per capire qualcosa bisogna leggerla al contrario…
Prendiamo il “Padre Nostro”. Oggi la liturgia ce lo presenta nella versione lucana in forma short:
«Padre,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno;
dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,
e perdona a noi i nostri peccati,
anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore,
e non abbandonarci alla tentazione»

Il “Padre” è la meta! Ma come arrivarci? Ecco l’itinerario:
  1. Fidarsi di Dio nella fatica di credere e non pensare che la nostra violenza possa essere più efficace della sua dolcezza (non abbandonarci alla tentazione);
  2. Creare con l’altro una solidarietà senza limiti: (anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore);
  3. Questo e non altro ci fa fare vera esperienza del perdono anche di Dio (e perdona a noi i nostripeccati);
  4. Condividere col fratello ciò che costruisce la reciproca dignità come attuazione di questa comunione: (dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano);
  5. Questo e non altro è rendere operativo il regno di Dio (venga il tuo regno);
  6. Questo e non altro restituisce gloria a Dio (sia santificato il tuo nome),
  7. Questo e non altro è fare esperienza di un Dio finalmente Padre (Padre).
Dire “Padre” è ingaggiarsi in questo cammino di attuazione del suo regno. Partendo dal fondo.

martedì 4 ottobre 2011

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario: La festa di nozze

Come nelle domeniche precedenti, anche in questa (ventottesima del tempo ordinario) ci troviamo nel contesto della polemica di Gesù (appena entrato a Gerusalemme) con i capi dei sacerdoti e i farisei. Il testo di Matteo che la liturgia ci propone è costituito nuovamente da una parabola: l’ultima di questa serie, dopo quella dei due fratelli (Mt 21,28-32) e quella dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-45): si tratta della parabola della grande cena.

La trama è nota, anche se l’abitudine ad ascoltarla non deve farci perdere di vista la capacità di cogliere le numerose sorprese e i colpi di scena che la caratterizzano: si parla di un re che manda i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze del figlio. L’invito è presentato a due riprese, con insistenza, ma entrambe le volte, nonostante le aspettative, esso viene rifiutato: questa è la prima sorpresa.

Ciò che colpisce è che si tratta di un diniego senza motivo: per alcuni infatti l’invito non è importante («non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari»); per altri è addirittura irritante e fonte di una reazione omicida («altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero»). Il rifiuto degli invitati suscita così la rabbia del re, che reagisce duramente («il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città»), ma egli – e questa è la seconda sorpresa – non desiste dalla sua iniziativa. Manda così di nuovo i suoi servi con l’ordine, questa volta, di invitare «tutti quelli che trovano, cattivi e buoni». «E la sala delle nozze si riempì di commensali».

La storia potrebbe finire qui... Invece prosegue con un’ultima scena. Anch’essa immancabilmente contenente una sorpresa (la terza del brano): il re infatti, entrato nella sala, vede un uomo senza abito nuziale e decide di ordinare ai servi: «Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti».

Questa la parabola. Ma come va intesa questa narrazione? Chi rappresentano questi personaggi? E che senso hanno i colpi di scena che l’autore continuamente inserisce?


Per rispondere a queste domande non bisogna dimenticare il contesto in cui è inserita la parabola, né quello in cui è stata scritta.

1)      Matteo inserisce questa parabola come III di una serie che Gesù avrebbe raccontato ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo a Gerusalemme, quando ormai il conflitto con loro aveva raggiunto livelli incandescenti che sfoceranno nella sua uccisione. È dunque inevitabile – in questo primo “strato” – rilevare come i destinatari della parabola siano propri questi capi religiosi: sono loro gli invitati (indegni) al banchetto di nozze del figlio (Gesù stesso) che si rifiutano di partecipare, diventando addirittura omicidi e inaugurando – con il loro rifiuto – l’allargamento dell’invito a nozze a chiunque si trovi nei crocicchi delle strade.

Riguardo a questo primo strato interpretativo, è interessante notare come questa lettura parabolica che Gesù fa del suo rapporto conflittuale con i capi religiosi ebrei, si discosti poi però rispetto al “come sono andate le cose” nella realtà. Nella parabola infatti «il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città»; nella realtà Gesù morirà con «l’inumano amore di chi rantola senza rancore» [De Andrè] («Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno», Lc 23,34).

A dire che la durezza delle parole con cui nella parabola si esprime la reazione del padrone, hanno più il valore dell’ammonimento preventivo (affinché ciò non accada!), che della minaccia di un castigo che si realizzerà.

2)      Il secondo strato interpretativo è, invece, quello che fa riferimento al momento in cui la paraola è scritta. Il primo faceva riferimento a Gesù che la racconta; il secondo a Matteo che la inserisce nel suo vangelo (decenni dopo la morte e risurrezione di Gesù). Indubbiamente per la comunità cristiana di Matteo (fatta di ebrei convertiti al cristianesimo), il grande problema era il fatto che la maggior parte degli ebrei (soprattutto i capi religiosi) avevano rifiutato Gesù, non lo avevano cioè riconosciuto come Messia, anzi avevano considerato il cristianesimo come un’eresia dell’ebraismo. In questo contesto – allora – è evidente che Matteo usa le parole di Gesù per riferirsi non più solo all’episodio contingente dello scontro a Gerusalemme coi capi religiosi ebraici, ma a tutto il popolo ebraico che aveva rifiutato “l’invito al banchetto di nozze”. In quel contesto – di scontro, anche duro, tra ebrei convertiti al cristianesimo ed ebrei rimasti tali – la parabola identifica gli invitati indegni col popolo di Israele e quelli dei crocicchi delle strade con le genti a cui l’invito si è allargato.

Ciò che, a questo secondo livello, è interessante notare è la terza ed ultima sorpresa che la parabola riserva: quella dell’uomo senza abito nuziale che – dopo essere ammutolito – viene legato mani e piedi e gettato nelle tenebre.

Lungo la storia sono stati moltissimi i tentativi di identificare cosa si celasse dietro a questo abito... ma io credo che il punto nodale sia un altro: non tanto capire quale identificazione associare a questo simbolo della parabola, ma piuttosto – seguendo la narrazione – concludere che non è perché si è parte di “tutti gli altri” – di quelli raccolti ai crocicchi delle strade – che automaticamente si è parte del banchetto di nozze. Come a dire che il far parte del Regno di Dio non ha confini razziali né in un verso, né nell’altro: con Gesù, cioè, è chiaro che il Regno non è più solo per gli ebrei (già prima di Gesù, peraltro i profeti – come testimonia la prima lettura – lo avevano ribadito); ma è anche chiaro che non basta essere non-ebrei per farne parte. La discriminazione cioè non deve andare né in un senso, né nell’altro: non è lì (non è sull’appartenenza o la non appartenenza ad un popolo) che si gioca l’appartenenza al Regno, e nemmeno sulla moralità degli invitati («Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali»), ma su altro… che la parabola chiama “abito nuziale”, cioè la consapevolezza di esser lì per quello e non per altro…

Infine ci siamo noi… I lettori contemporanei della parabola… Noi che non abbiamo il medesimo contesto immediato di Gesù (il conflitto coi capi religiosi ebraici), né quello della comunità di Matteo (il problema dei rapporti tra ebrei convertiti al cristianesimo e ebrei rimasti tali). Cosa ha da dire a noi, allora, questa parabola (che non sarebbe nel Nuovo Testamento se non riguardasse anche la chiesa [von Balthasar])?

Mah… Io credo:

-          Innanzitutto che c’è un invito! Che la storia è abitata da un invito di Dio ad un banchetto di nozze (un invito per l’aldiqua, che si eternizzerà nell’aldilà; non un invito per l’aldilà che tralascia l’aldiqua!). E dunque che la storia (sia personale che dell’umanità) andrebbe guardata, pensata e decisa così, come l’invito di Dio ad una festa, ad una gioia, ad una bellezza, ad una pienezza, ad una convivialità. L’immaginare lo sguardo di Dio sulla storia in altro modo è l’anti-vangelo;

-          In secondo luogo, che questo invito di Dio è per tutti, non per alcuni a danno di altri: la vita deve essere una festa per tutti! E ogni qual volta questa realtà è tradita (e quante volte è stata ed è tradita ogni giorno che passa!!!), si tradisce la volontà di Dio sulla storia!

-          Infine, che è un invito che non va perso, né fatto perdere! La parabola, infatti, «è diventata per noi un drammatico manifesto di istruzioni per “contrasto”. Come dire: ecco come si fa, dall’inizio della storia della salvezza fino ad oggi … a perdere il treno del Regno di Dio!» [Giuliano]… Cioè, come ammonimento, per non perderlo più:

o  Perché si vede bene come si fa a perderlo:

§ Rimanendo indifferenti all’invito al banchetto, cioè increduli a quel volto di Dio annunciato da Gesù, che guarda alla storia come l’invito ad una festa;

§ Rimanendo indispettiti dal fatto che l’invito al banchetto è per tutti;

§ Presentandosi al banchetto con altri scopi rispetto a quelli della festa.

o  E perché si vede bene cosa vuol dire perderlo:

§  non, come troppo spesso si pensa, ricevere i castighi di Dio sotto forma di «fulmini di collera o vendetta», ma permettere che nella storia si annidino «processi provocati dai nostri “rifiuti”. Non appena l’egoismo e la paura, la competizione e il dio mammona ci fanno deragliare dal progetto del Regno (la festa per tutti!), un velo di accecamento ci cala sugli occhi, una barriera ci intontisce il cuore, balbettiamo ammutoliti e ci troviamo impossibilitati a trovare soluzioni, legati mani e piedi, precipitati nel buio politico e progettuale più profondo… come si può vedere in questi giorni. E il Regno di Dio rallenta i suoi passi, perché i nostri egoismi e tradimenti li pagano i più poveri» [Giuliano].
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