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martedì 27 settembre 2011

XXVII Domenica del Tempo Ordinario: I vignaioli omicidi

Il vangelo che la Chiesa ci propone per questa ventisettesima domenica del tempo ordinario è la diretta continuazione del brano di settimana scorsa: durante il duro scontro con i principi dei sacerdoti e gli anziani del popolo, Gesù aveva proposto la parabola dei due figli e ora racconta quella dei vignaioli omicidi (domenica prossima racconterà la terza e ultima della serie: quella del banchetto di nozze – Mt 22,1-14).

Non si tratta più delle miniparabole sul Regno («Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo», Mt 13,44), ma di elaborazioni più complesse, che non a caso hanno uditori diversi (gli anziani, i sacerdoti…), anch’essi più “complessi” rispetto alle folle di semplici che circondavano Gesù all’inizio del suo ministero…

E, esattamente come settimana scorsa, la parabola è costruita con un marchingegno tale da rigirarsi contro gli interlocutori, chiamati a prendere posizione: «“Quando dunque verrà il padrone della vigna che farà a quei vignaioli?” – chiede Gesù. Gli risposero: “Farà morire miseramente quei malvagi e darà la vigna ad altri vignaioli che gli consegneranno i frutti a suo tempo”. E Gesù disse loro: “Non avete mai letto nelle Scritture: ‘La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo; dal Signore è stato fatto questo ed è mirabile agli occhi nostri’? Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare”».

Gesù, cioè, ribalta addosso ad essi, il giudizio che loro stessi avevano espresso… sono loro i vignaioli malvagi a cui sarà tolto il regno di Dio!

Interessante, allora, diventa andare a cercare che cosa ha reso questi “vignaioli”, cioè questi sacerdoti e anziani di Israele, talmente deprecabili da ricevere un giudizio così duro!

Per farlo, è importante andare a guardare anche alla I lettura, tratta da Isaia, dov’anche si racconta di una vigna… che – seppur ben curata dal suo padrone, aveva dato uva selvatica…

Fuor di metafora in Isaia il rimprovero a Israele era quello espresso dal v. 7 del capitolo 5: «La vigna del Signore degli eserciti è la casa di Israele; gli abitanti di Giuda la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi».

Ciò che quindi ha suscitato la delusione del Signore rispetto alla casa di Israele è stato lo spargimento di sangue e le grida degli oppressi, dove si aspettava giustizia e rettitudine!

Io trovo che questo sia un primo elemento fondamentale delle letture di questa domenica: ciò che dal punto di vista di Dio fa da discrimine tra la bontà di una vigna e, invece, una delusione rispetto ad essa è la giustizia fra le creature! Non altro!


Mi piace – a proposito – citare qualche frase di una conferenza del professor Silvano Petrosino sul tema del Regno di Dio, svoltasi all’Eremo del Carmelo di Cassano Valcuvia: «La Scrittura mette sempre in rapporto la santità che è del creatore e la giustizia, che riguarda il rapporto tra le creature. La trascendenza della santità, si manifesterà come trascendenza, nell’immanenza della giustizia. La santità che appare come qualità del creatore, è la stessa che definisce la qualità di quel certo rapporto tra le creature che la Bibbia chiama giustizia. Non c’è biblicamente alcuna possibilità di rapporto diretto con il Creatore che non passi dalle creature. Il rapporto diretto con il Creatore la Bibbia lo definisce una tentazione. Scriveva infatti Beauchamp: “Nessuna affermazione dogmatica, fosse pure la divinità di Cristo o la risurrezione della carne, regge, se rimane fuori dall’esigenza di giustizia. Essa è intrinseca alla verità, piuttosto che derivare dalla verità. Creare a partire dal nulla è dare la giustizia a un nulla di giustizia”. E Levinas: “La giustizia resa all’altro mi dona di Dio una prossimità inoltrepassabile. La preghiera e la liturgia senza la giustizia non sono niente”. Sembra quasi che la Scrittura – riprendeva Petrosino dopo le citazioni – dica a chi vuol difendere la trascendenza di Dio: non ti preoccupare di difendere la trascendenza del Creatore, preoccupati piuttosto della creazione; prenditi cura della creatura e così renderai gloria al Creatore.

Guardate a Dio in modo da non distogliere lo sguardo dall’uomo».

Questo sembra invece la grande dimenticanza – anche nel vangelo – di coloro che “hanno in mano” la vigna del Signore; ecco perché quel duro atto di accusa: «vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare».

In particolare nel vangelo, la parabola mostra come la mancanza di giustizia, sia da legare al fatto che i vignaioli si rifiutino di consegnare il raccolto al padrone, prima ammazzandone i servi, poi addirittura il figlio… Il loro scopo è quello di impossessarsi della vigna («quei vignaioli, visto il figlio, dissero tra sé: Costui è l’erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l’eredità»), per diventarne, loro, i padroni, come mirabilmente descrive Dostoevskij ne “Il grande inquisitore”, riferendosi però alla chiesa: «Perché sei venuto a disturbarci? [dice il Grande Inquisitore a Gesù]. Tutto è stato da Te trasmesso al papa, tutto quindi è ora nelle mani del papa, e Tu non venirci a disturbare, quanto meno prima del tempo. [...] Abbiamo corretto l’opera Tua e l’abbiamo fondata sul miracolo, sul mistero e sull’autorità».

Ecco ciò di cui Gesù accusa i capi religiosi di Israele e ciò da cui anche la Chiesa deve sempre guardarsi: sostituirsi al Signore come padroni della vigna (cfr. Mt 23)!

Il meccanismo denunciato da Gesù pare essere infatti proprio questo: coloro a cui è affidata la vigna (Israele, i capi religiosi, la Chiesa) rischiano di dimenticarsi che il loro compito è quello di lodare Dio facendo la giustizia. Cioè dimenticano che al Creatore si arriva prendendosi cura della creatura! Dimenticano che il loro compito di vignaioli era prendersi cura di ogni pezzettino di carne umana su questa terra… Essi – piuttosto – si sentono come investiti della difesa di Dio, dei diritti di Dio (credendo che questo coincida col loro compito di vignaioli!), fin anche contro Dio stesso (il padrone della vigna) e suo Figlio!

La parabola troverà tragicamente conferma, infatti, nella vita di Gesù!

È infatti in nome della difesa dei diritti di Dio che Gesù verrà ucciso…

È infatti in nome della difesa dei diritti di Dio che migliaia di uomini sono stati uccisi lungo la storia… o umiliati, estromessi, scacciati, abbandonati…

Ma proprio questi “scartati” – pare dire Gesù – sono il nuovo popolo di Dio che farà fruttificare la sua vigna, inaugurando un Regno di giustizia, al cui centro ci sia – come unica difesa di Dio – la difesa di ogni uomo.

Il secondo punto di riflessione allora – per noi – è proprio questo: il riconoscimento che «Lui è l’amore innocente rifiutato, ma d’ora in poi chiunque sarà scartato e gettato via dagli uomini (anche per un amore sbagliato) diventa con lui membro di diritto del Regno del Padre. Ma ancor più paradossalmente, gli stessi assassini, una volta “giustamente” buttati fuori anche loro e spossessati della vigna, diventeranno anche loro pietre scartate, pronte per scoprire ed accogliere (finalmente!) l’umile disarmata ma invincibile “potenza” dell’amore (Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno!).

[…] Dunque rimane per noi l’annuncio che il metodo di Dio, quello usato con il Figlio suo, è sempre lo stesso. Usa le pietre scartate da noi (quelle respinte violentemente o subdolamente eliminate dalla nostra convivenza) per costruire anche oggi la sua chiesa e salvare l’umanità. La parabola rinnova per noi (come per gli uditori di Gesù) una specie di ultima ancora di salvezza. Mentre il nostro mondo occidentale implode su se stesso a livello tecnologico, economico e progettuale (cioè politico) ‑ la nostra chiesa è tentata da uno sterile ritorno al passato, e noi consumiamo le energie a difenderci e accusarci secondo la logica devastante delle istituzioni che decadono, rischiamo di perdere la sintonia profetica con il futuro che il vangelo ci insegna. Il futuro si costruisce sempre con le pietre scartate da noi! E il Padre… come ha fatto con il figlio suo, ancora va a raccogliere nei campi di profughi di ogni razza, nelle periferie delle metropoli, nelle schiere di esiliati o diffidati di ogni istituzione civile o ecclesiale, nelle fosse comuni dove sono sepolti i grandi misfatti della storia… i suoi poveri. Loro sono i nuovi fittavoli fidati, magari neanche consapevoli della storia di questa parabola… Ma nella loro carne si ripete il mistero di Cristo Gesù» [Giuliano].

giovedì 22 settembre 2011

XXVI Domenica del Tempo Ordinario: "Che ve ne pare?"

La parabola che costituisce il vangelo di questa ventiseiesima domenica del tempo ordinario, per essere ben compresa, va collocata nel contesto in cui Matteo la inserisce. Il rischio, altrimenti, sarebbe quello di una sua interpretazione riduttiva: qui infatti il senso non è tanto quello di un generico appello alla pronta osservanza della volontà di Dio, o una sottolineatura del primato dell’azione sulla parola, per cui elogiato sarebbe il primo figlio che, nonostante all’invito del padre in prima battuta, avesse detto «Non ne ho voglia, poi si pentì e vi andò»; il senso piuttosto va cercato altrove: in particolare tentando di delineare chi è rappresentato in questi due figli.

Per non rischiare di fare identificazioni campate per aria, fondamentale è riferirsi al contesto prossimo di questo brano: il capitolo 21 di Matteo in cui il nostro testo è collocato, inizia narrando l’ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme; dopo l’accoglienza osannante della folla, che lo dichiara profeta, Gesù si dirige subito verso il tempio dove scaccia tutti i venditori e i cambiavalute; qui ha un primo confronto duro con i sommi sacerdoti e gli scribi, che si sdegnano nel sentirlo chiamare figlio di Davide dai bambini; confronto che si riaccende la mattina seguente quando «i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo gli dissero: “Con quale autorità fai questo?”»; domanda cui Gesù risponde a sua volta con un altro interrogativo, riguardante il Battista «Il battesimo di Giovanni da dove veniva? Dal cielo o dagli uomini?», interrogativo a cui i capi religiosi ebrei non rispondono per timore della folla; Gesù conclude allora dicendo: «Neanch’io vi dico con quale autorità faccio questo».

È chiaro che il tono è ormai quello del battibecco, di chi non spera più di usare le parole per farsi comprendere, ma semplicemente le affila per mettere in difficoltà l’altro. E infatti è proprio a questo punto che Gesù, rendendosi conto dell’andamento che ha preso il discorso, cambia registro e tenta di coinvolgere i suoi interlocutori (sommi sacerdoti, scribi e anziani del popolo) con una parabola (le parole «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli...» seguono infatti immediatamente le ultime citate: «Neanch’io vi dico con quale autorità faccio questo»).

L’intento di Gesù è infatti quello di portare i suoi interlocutori a sbilanciarsi in un parere, in modo da stanarli dai loro apparati concettuali preconfezionati e poter così far breccia nella loro logica di pensiero: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?».

Quando essi «risposero: “Il primo”», la trappola è ormai scattata e a Gesù il gioco riesce facile; ribalta infatti contro di essi il giudizio da loro stessi formulato: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto».

Incredibilmente, il primo figlio viene così a rappresentare i pubblicani e le prostitute, cioè il così vasto gruppo di uomini e donne per antonomasia lontani dalla religione, (e dunque – direbbero i sommi sacerdoti) da Dio (quelli cioè «che con la loro vita avevano detto tanti ‘no’ al Padre, ma che, di fatto, commossi dal messaggio di Giovanni Battista, avevano finito per accogliere la sua volontà» [Giuliano]); il secondo figlio invece, viene a rappresentare la minuta schiera di intransigenti uomini religiosi («coloro – cioè – che sono l’esempio dell’assenso religioso ufficiale a Dio e sono impegnati a lavorare (… insegnare e comandare) nella vigna del Signore, e che però di fatto dicono di no, quando Giovanni propone loro, a nome di Dio, la conversione dai loro privilegi fallaci alla vera umiltà del cuore» [Giuliano]).




Questa identificazione però, anche a questo punto (dopo cioè la fatica dell’analisi del contesto prossimo), risulta in prima battuta paradossale: delinquenti e prostitute passerebbero davanti, nel regno di Dio, ai pii e devoti uomini religiosi?

Bisogna che andiamo più a fondo, perché questa è una “materia che scotta”…

Cos’è infatti che fa dire a Gesù una frase tanto forte («In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio»)? Che cosa ha visto, nella sua vita di uomo, nei volti e nelle storie di questi personaggi che abitualmente i benpensanti condannano? E che cosa non ha trovato invece in quelli che rappresentavano, per la mentalità comune (di allora e di oggi), il mondo della sacralità, dell’osservanza, della inappuntabilità?

-          Stando alla narrazione dell’intero vangelo ha trovato in questi ultimi la durezza di cuore (di loro dice infatti: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli», Mt 5,20; oppure rivolgendosi direttamente ad essi: «Se aveste compreso che cosa significa: “Misericordia io voglio e non sacrificio”, non avreste condannato individui senza colpa», Mt 12,7; inoltre vengono tratteggiati come pedanti osservatori delle regole, ma dimentichi dell’uomo, tanto che visto Gesù guarire un uomo in giorno di sabato «usciti, tennero consiglio contro di lui per toglierlo di mezzo», Mt 12,14; o addirittura, vedendo Gesù risanare un indemoniato, «presero a dire: “Costui scaccia i demoni in nome di Beelzebul, principe dei demoni», Mt 12,24; sono sempre i farisei insieme agli scribi poi che «vennero da Gesù e gli dissero: “Perché i tuoi discepoli trasgrediscono la tradizione degli antichi? Poiché non si lavano le mani quando prendono cibo!”. Egli rispose loro: […] avete annullato la parola di Dio in nome della vostra tradizione. Ipocriti! Bene ha profetato di voi Isaia dicendo: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”», Mt 15,1-9; di essi dice infine: «Lasciateli! Sono ciechi e guide di ciechi», Mt 15,14; per non citare quanto aggiungerà poi nei capitoli successivi al nostro, cfr. il cap. 23);

-          mentre nei primi (“pubblicani e prostitute” e tutti i “senza dio” che queste categorie rappresentano) ha trovato invece sempre una disponibilità a farsi incontrare, quasi un anelito della loro interiorità che accoglie da lui una parola nuova (come sa Matteo stesso, chiamato ad essere discepolo, proprio mentre era al banco dei pubblicani: «Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi”», Mt 9,9; o come ha appreso lo stesso Gesù, «che ha fatto anche lui il faticoso passaggio dal dire di no (un no durissimo: Mt 15,22ss) ad una di queste povere di Dio, per scoprire poi che la sua “presunzione razziale e religiosa”, ereditata dalla cultura corrente, lo chiudeva alla compassione… fino a concludere che la sirofenicia (impura e pagana) “lo precedeva” nella comprensione dei disegni del Padre: “Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri”. Una donna, di religione e razza sbagliata, un cane infedele per i giudei osservanti, gli insegna a dire di sì a un disegno più grande di lui… a riscoprire anche per sé il monito antico di Dio attraverso il profeta: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?» [Giuliano]).

Sono proprio questi “senza dio” infatti che, forse perché privi di un apparato concettuale che gli fa da maschera, ma anzi denudati e svergognati davanti a tutti, hanno la possibilità/capacità di porsi di fronte a Gesù in trasparenza e verità, al di là delle condizioni che vivono.

«Eretici e scismatici o credenti di altre fedi e religioni, schiavi e servi della gleba, prostitute e peccatori pubblici, ‘perfidi’giudei, poveri e ignoranti, laici e laiche, operai, indios e neri, carcerati, omosessuali, aidetici, ubriachi, drogati, divorziati, sacerdoti sposati o infedeli, atei, ragazze madri… cioè tutti coloro che sono emarginati dal consesso religioso e civile, per la loro incapacità o rifiuto a portare sulle spalle pesi superiori alle loro forze o doveri che  sovrastano le loro risorse… morali o psicologiche. Tutti costoro, rispetto a noi che viviamo da buoni cristiani e cittadini per bene, tante volte, hanno affinato un intuito istintivo più attento a percepire il cammino della giustizia» [Giuliano] e dunque ad accogliere il Signore e il suo Regno di misericordia.

Ma questa parabola… oggi a chi si rivolge?

Come allora, a chi è tra «i più vicini a Dio, i più osservanti, i più capaci di dedizione alle forme esplicite di culto e di riti per onorare Dio» [Giuliano]

Il meccanismo è infatti il medesimo che si configurava anche nei vangeli di queste ultime domeniche (la parabola del servo spietato, la parabola dei lavoratori pagati tutti lo stesso salario…), dove il punto di vista era sempre quello di chi si credeva giusto… che è un meccanismo molto presente nel vangelo, basti pensare alla parabola del figliol prodigo, dove – certo – c’è un grande lieto annuncio per chi è tra le fila dei “senza dio” (chi si identifica col figliol prodigo appunto), ma dove al centro resta la figura dell’altro fratello, quello che si ritiene giusto e del quale non si sa, alla fine, se decide di rientrare in casa e unirsi alla festa per il fratello ritrovato o di starsene fuori chiuso nella sua durezza. La parabola ha infatti una “finale aperta”, cioè è il lettore nella sua vita a decidere come va a finire quella storia… L’interlocutore è dunque qualcuno che si può identificare con questo fratello… quello che si sente giusto, appunto…

Siamo allora, di fronte, nuovamente (il vangelo sembra sempre portarci lì) a questo nodo: Come guardiamo a questo mondo e a chi lo abita? Con gli occhi di chi si sente giusto, arrivato, dalla parte giusta, dalla parte dei giusti, con l’inevitabile durezza di cuore che questo punto di vista implica? Oppure stiamo pian piano macerando il nostro perbenismo nel tentativo di avere in noi «gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» che ha guardato ciascuno sentendolo suo?

Forse anche a noi  ‑ cosiddetti credenti impegnati e osservanti ‑ «tocca imparare, secondo il detto di Gesù, da chi, del tutto inconsapevolmente, ci sta “avanti” nel cammino del Regno dei cieli… Affiancarci a chi attorno a noi, appartiene ai nuovi elenchi di quelli che nell’opinione civile ed ecclesiastica corrente sono, con la loro vita, dalla parte sbagliata. Capita infatti che costoro “ci precedono”, perché sono più disponibili al vangelo, di noi che, analogamente agli antichi Ebrei, abbiamo l’appartenenza ecclesiale, i sacramenti, il culto, le devozioni e la giusta formazione morale…», [Giuliano] ma il cuore duro!

domenica 11 settembre 2011

Il perdono possibile


Perdonare settanta volte sette, è la risposta di Dio antitetica ed esponenziale (sette di Caino e settanta di Lamech moltiplicate tra loro!) alla voglia di vendetta dell’uomo.
Ma come è possibile perdonare “oltre” il “sempre” (sette!)?
Occorre forse dapprima studiare le dinamiche del nostro odio…
Aveva ragione quel professore di esegesi nel dire che la bibbia, se la si vuole veramente comprendere, “va guardata”. Solo guardando con gli occhi il testo si possono scoprire cose che nell’ascolto facilmente sfuggirebbero.
Come quel vuoto, incredibile, assurdo tra la fine del versetto 27 (gli condonò il debito) e l’inizio del 28 (Appena uscito). Un capitolo che non c’è e che invece avrebbe dovuto esserci… Uno spazio, un vuoto immenso che dice tutta la differenza, ad esempio, tra la parabola del figliol prodigo e questa. Tra la gioiosa baraonda di una festa in un abbraccio ritrovato e l’assordante silenzio di un cambio di scena vissuto come una fuga da uno scampato pericolo. Neanche un “grazie!” neanche una stretta di mano… l’importante era “farla franca”.

Però c’erano le premesse che qualcosa in quel dialogo non andava, anzi che dialogo proprio non era. Gesù mentre racconta sottolinea come “costui non era in grado di restituire” il debito iperbolico, eppure si ostina a chiedere (letteralmente) “magnanimità” (macrothimia) con lui (sic! Come dire “non fare come con gli altri”?) “…e ti restituirò ogni cosa”!

Mente sapendo di mentire! Forse mentiva anche a se stesso: l’orgia del denaro si sa, è per sua natura alienante, perché rende ubriachi nella menzogna di un mondo che non c’è. Comunque sia, non gliene fregava niente di riconciliarsi, a lui bastava salvarsi. Certo non si aspettava che gli rimettesse il debito, gli bastava che fosse dilazionato. Fino alla prossima volta, poi si vedrà, qualcosa si escogiterà… Così esce dall’incontro convinto d’aver fregato il creditore! “Che fesso!” si sarà detto… Il suo cinismo (microthimia?) è già tutto qui. Con un rancore in più verso quella “carogna di re” (si rodeva dentro) che – dal suo punto di vista – l’aveva costretto a umiliarsi… gettarsi per terra, supplicare, come fosse un pezzente…
Al che mi veniva da pensare alla povera moglie e ai poveri figli… Chissà che inferno di vita con un uomo così. Forse avrebbero preferito essere schiavi di un re magnanimo piuttosto che familiari di uno del genere…
Quello che segue è semplice conseguenza di quanto descritto: Inevitabile che sul primo che trova sulla soglia (letteralmente: uscendo) scarica tutto il suo rancore.

Non potrebbe esserci ricostruzione più plastica del vero problema che ci assilla: Noi non crediamo veramente di essere stati perdonati! In fondo siamo vittime dell’idea di Dio che ci siamo fatti! Con quel che ne consegue. Così gli attribuiamo una giustizia che è semplicemente la proiezione della nostra idea di giustizia. L’inferno forse è proprio questo.

Come uscirne?
Se ricordo bene, è il Concilio di Trento che afferma che nessuno, senza una grazia speciale, può essere certo di essere salvato! Certo se uno pensa che la salvezza non sia “una grazie speciale”… Ma dico io, come si fa a vivere con la paura di non essere perdonati! Solo quelli di radioMaria possono predicarlo, consegnando se stessi e chi li alscolta, alla dannazione di quella paura da cui non credono di essere stati liberati… Ma non sono i soli, e non vengono dal nulla! C’è una malsana tradizione in proposito… E alcuni vi hanno fondato pure la propria spiritualità!
Sono secoli che la chiesa orientale e occidentale considera preziosa – e la propone pure come modello! – la cosiddetta “preghiera di Gesù” detta anche “preghiera del cuore” o “preghiera esicasta”, in cui si ottiene la quiete (esychia) interiore ripetendo continuamente le parole “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me!”… che è come dire ripetere all’infinito il gesto di questo servo cinico… Avete contato quante volte domandiamo “pietà” al Signore durante la messa? Ma non è “eucaristia”? cioè ringraziamento? E quando lo manifestiamo? Persino la comunione la facciamo come se stessimo ingoiando un tizzone ardente! Eppure è un “ringraziamento di una salvezza che si compie”. È – dovrebbe essere – il capitolo che manca alla parabola… della nostra vita.

Che ci sia gente che è diventata e diventa santa con questa pseudo-spiritualità, lo si deve all’infinita magnanimità di Dio, non certo alla preghiera o al “metodo” usato. Avrebbero potuto diventarlo con qualunque altro mantra! Ma ve la immaginate una persona che passa tutto il tempo a chiedervi scusa per quello che ha fatto o peggio sta facendo? O ci crede al perdono o smetta di fare quello che sta facendo, altrimenti vada al diavolo! Tediamo pure Dio, citando – come fa satana nel deserto – la sua stessa Parola!

Molto più fine la polacca suor Faustina che dice che la più grande offesa fatta al Signore è dubitare della sua misericordia, cioè del suo costante perdono! E allora uno non passa il tempo a chiedere perdono a Dio e al fratello, ma cerca di vivere con Dio e il fratello del perdono avvenuto! Cioè passa dal perdono alla riconciliazione! Dal “lutto” alla “festa”! Dalla morte alla vita, come dice appunto il padre della parabola al figlio maggiore che non vuol festeggiare (evidentemente ascoltava radioMaria)… E questo non può non generare “rapporti nuovi”: come constatano, con tristezza, gli altri servi… La giustizia nasce sempre dalla pienezza di un perdono sperimentato, accolto, creduto, testimoniato…

E così arriviamo al cuore stesso dell’avvenimento cristiano: il cristiano è colui che si sa salvato, non ha bisogno di rivelazioni particolari per saperlo, perché si sa perdonato! Questa è la condizione “normale” del cristiano! E vive di questo e in questo perdono! Questo è il cuore della fede! Cioè di ogni avvenimento della vita che prende origine dal perdono pasquale di Cristo! Questo è quello che ci ricordano e comunicano tutti i sacramenti (memoriali). E ci ricordano continuamente gli apostoli. Per questo apparteniamo – persino nella morte – alla gioia (Paolo, nella seconda lettura) e non alla paura. Questa appartiene al passato, al futuro del presente appartiene la consapevolezza della vittoria donata. Come sa ogni buon sportivo e tifoso! Ecco perché il perdono ricevuto non può non manifestarsi nella gioiosa responsabilità di manifestare l’avvenuta riconciliazione: è il perdono da noi offerto sempre e a tutti che ci fa sacramento vivente di questo perdono ricevuto: c’è forse altro da testimoniare? Altrimenti ha ragione l’apostolo Giacomo… sono solo parole e la rimessa del debito, non può che trasformarsi in strumento ulteriore di oppressione (Lo prese per il collo e lo soffocava).

Il fallimento delle nostre confessioni, in fondo sta tutto qui: andiamo per scaricare il nostro senso di colpa, consolandoci delle parole e dei gesti benedicenti del sacerdote (a questo livello inutili), non per riconciliarci con Dio e con i fratelli, unico modo per eliminare il peso che ci opprime. Abbiamo trasformato il sacramento della penitenza come il luogo luttuoso dove Dio ci perdona e non come il “luogo di festa” in cui noi prendiamo coscienza del suo perdono che ci precede. Il sacramento della penitenza non è il luogo dove noi “ci gettiamo a terra” supplicando una dilazione dalla meritata punizione (sperando di scamparla poi al momento della morte e del giudizio finale!), ma il luogo nuziale dove noi, riconosciutici perdonati prima ancora di pentircene, vogliamo ristabilire un rapporto nuovo con la vita e il suo autore. Solo incamminandoci in questa via, possiamo uscirne veramente rinnovati nel cuore: magnanimi e non meschini.

E scopriremmo infine che se c’è una “verità” nella vendetta (costringere l’altro a cambiare, riparare il torto subito, togliere il male che ci opprime, ridare vita a una morte subita, “fargliela pagare”…) solo la forza del perdono così vissuto è in grado di ottenerla. Ma questa è l’affascinante scoperta di ogni drammatico giorno…

giovedì 8 settembre 2011

XXIV Domenica del Tempo Ordinario: Il perdono

Come preannunciato domenica scorsa, in questa ventiquattresima settimana del Tempo Ordinario, la Chiesa ci propone la seconda parte della seconda parte (scusate il gioco di parole) del Discorso ecclesiale di Matteo, quello coincidente cioè col capitolo 18 del suo vangelo.

L’argomento centrale, come si evince immediatamente dalla domanda di Pietro del versetto 21 («Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?»), è quello del perdono… affrontato quasi per intero attraverso la parabola del cosiddetto “servo spietato”…

Dico «cosiddetto servo spietato», perché in realtà a me è sempre stato super simpatico… forse perché mi assomiglia un po’ (come potrebbero testimoniare quelli che vivono con me, descrivendo quasi plasticamente le durezze del mio cuore)… perciò definire lui spietato per me è come tirarmi la zappa sui piedi… ecco perché preferisco definirlo il “cosiddetto servo spietato”…

Perché mi sta simpatico? Beh innanzitutto per il motivo per cui dovrebbe star simpatico a tutti… cioè il fatto che – come direbbero a Bergamo – l’è ‘n pör marter (= è un povero martire). Anzi, la parabola stessa, nella sua prima parte, è costruita perché il lettore si schieri dalla parte di questo servo: «Fu presentato al re un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”». Insomma, una situazione così disastrosa, che chiunque si muove a pietà… Certo ha dei debiti, ma, se è addirittura nella situazione che gli portan via moglie e figli, non può non suscitare compassione! E difatti anche il suo creditore, cede: «Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito».

A me – però – continua a star simpatico anche dopo… quando invece tutti lo dileggiano e anzi va a finir male, quando cioè incontra un altro servo, che gli doveva dei soldi, e non vuole aver compassione di lui… e addirittura lo fa mettere in galera…

A me continua a star simpatico perché ho sempre pensato: “Ma hai presente che spavento questo s’è appena preso!?!? Per forza poi cerca di racimolare tutti gli spiccioli che ha in giro come creditore e di non risultare più insolvente! Perché – ok che stavolta gli è andata bene con questo padrone – ma queste son fortune che non si ripetono…”.

Ed ecco la questione: troppo facilmente, invece, a questo punto della parabola la nostra simpatia per questo servo slitta sull’altro e si trasforma in antipatia… troppo facilmente diamo ragione al padrone – che cambia idea! – e difendiamo le sue scelte (probabilmente perché troppo facilmente lo identifichiamo con Dio e dunque ci sentiamo di ergerci a suoi baluardi…).

Perché mi veniva da chiedermi: se Gesù ha appena risposto a Pietro che non bisogna perdonare 7 volte, ma 70 volte 7 (cioè sempre, non 490, che seppur è un numero alto, si esaurirebbe in meno di un anno… dovendoci perdonare l’un l’altro di esistere almeno una volta al giorno, tanto siamo gli uni un problema per gli altri…), com’è possibile che adesso presenti il volto di un Dio che ti perdona una volta e poi – perché tu non fai come Lui – ci ripensa e ti punisce così terribilmente («Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto»)!?!

Forse c’è qualcosa di questa parabola che ci sta sfuggendo…


Riprendiamola perciò con ordine.

La prima scena – dicevamo – presenta il nostro pör marter che ci suscita simpatia: si tratta di un servo, con un debito grossissimo. Credo che provare a quantificarlo, possa aiutarci in maniera significativa per capire quanto invece finora c’è sfuggito… Il suo debito ammonta infatti a diecimila talenti… è «una somma straordinaria, impensabile; diecimila talenti: noi sappiamo che il reddito annuale del re Erode era di novecento talenti; un denaro d’argento era il compenso di una giornata di lavoro; dunque: un talento = diecimila giornate di lavoro; diecimila talenti = cento milioni di monete d’argento: somme fantastiche e leggendarie, soprattutto se si calcola che a quel tempo circolava molto meno denaro; è una cifra inimmaginabile in quel tempo» [P.Pezzoli, La casa sulla roccia: il vangelo secondo Matteo, in G.Facchinetti-P.Pezzoli-P.Rota Scalabrini, Scuola della Parola, LIG, Bergamo 1999, 142]. Facendo un paragone coi nostri giorni sarebbe come 5 miliardi di euro…

Quell’altro servo invece gli deve l’equivalente di 5000 euro… Queste sono le proporzioni…

Ora, l’intrigo della parabola non è quello per cui noi siamo giudici esterni alla scena… né è quello per cui la nostra identificazione dev’essere fatta col secondo servo o col padrone… La simpatia iniziale per il primo servo è il segnale che quello lì siamo noi! La finzione della parabola ci porta lì: ecco perché la simpatia (cioè patire con lui / avere il suo punto di vista) non deve cambiare a metà della storia… Il punto è che noi siamo quel primo servo!

Ora conosciamo anche le proporzioni dei debiti… Noi siamo quelli che devono 5 miliardi di euro! Allora non dobbiamo fare l’errore di slittare subito sull’insegnamento morale (Cosa dobbiamo fare? Come dobbiamo comportarci? Perdonare), ma fermarci un attimo sul punto zero: questa parabola rivela la nostra identità. Io sono quello che ha un debito grandissimo…

Se ci pensiamo… è vero… Se ci pensiamo soprattutto in relazione alla posizione che Dio in Gesù ha assunto nei nostri confronti: «Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8).

La posizione di Dio in Gesù nei nostri confronti è esattamente questa: Egli è Colui che ha dato la sua vita per noi, prima, anzi al di là di ogni nostro merito, anzi nonostante non lo meritassimo per niente, né mai saremmo in grado di meritarlo… Non a caso ciò che anche liturgicamente è diventato normativo («Fate questo in memoria di me») è esattamente la ripresentazione della donazione per noi della sua vita («Questo è il mio corpo / sangue offerti in sacrificio[1] per voi»).

Allora, forse, il nucleo centrale della parabola più che morale è teologico e – dunque – antropologico; cioè, più che tentare di rispondere alla domanda sul “dà farsi”, risponde a quella su “chi è Dio” e – dunque – “chi è l’uomo”…

Ecco perché l’identificazione tra Dio e il padrone va bene fino ad un certo punto… perché quando del padrone sentiamo dire «Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto», dovrebbero scattarci gli “anticorpi” e riconoscere quest’affermazione estranea al volto di Dio che Gesù ci ha rivelato. Quasi come un tranello dell’evangelista… La verifica finale per vedere se hai capito la parabola o no… Se non l’hai capita, vai avanti fino alla fine con l’identificazione padrone-Dio, se l’hai capita ti stoppi…

Ti stoppi e ti fermi sull’identità dell’uomo che esce da quel volto di Dio, che è quello che – a prescindere – ha deciso di dare la vita per te, di condonarti un debito spropositato, impensabile, inaccumulabile in una vita, fossi anche il più perfido dei perfidi…

Ecco, è a partire dal riconoscersi uomini così che si può procedere… Infatti «il perdono fraterno è [non causa del perdono divino, ma] piuttosto conseguenza del perdono di Dio, ne è risposta. […] Il contrasto fra i due quadri della parabola, infatti, non ha come scopo principale quello di far vedere la diversità del comportamento divino nei confronti di un uomo che sa perdonare e nei confronti di un uomo incapace di perdonare» [B.Maggioni, Il racconto di Matteo, Cittadella Editrice, Assisi 2004, 237], ma è quello di mostrare la giusta collocazione di ciascun uomo di fronte a Dio: ognuno di noi è l’immeritatamente perdonato.

Questa “ricollocazione” – ed ecco la seconda parte della parabola – dovrebbe aprire anche a nuove relazioni fra gli uomini, fra “immeritatamente perdonati”…

Ma – appunto – o si è guadagnato il “punto zero” della ricollocazione di ciascuno di fronte al Signore, o ogni discorso sui rapporti coi fratelli risulterà infondato, opprimente, moralistico, incatenante, ingiusto.

Si parla infatti un po’ troppo superficialmente e con inescusabile nonchalance di “perdono” (come nei casi estremi di quando gli intervistatori dei TG vanno a chiedere alla mamma o al papà di qualche ragazzo/a appena morta se perdonano gli assassini… o come nei casi – meno estremi, ma non meno drammatici – in cui senza fare i conti con la storicità della nostra carne, dei nostri sentimenti, dei nostri passettini interiori, ci imponiamo di perdonare / amare qualcuno)…

Il perdono è invece una cosa seria, che ha a che vedere con il dolore, con la sofferenza, con le ferite nella carne dello spirito… Implica una rielaborazione viscerale, cioè letteralmente un riordinamento / ricollocazione delle viscere…

Di tutto questo la parabola non parla: in proposito è molto più esplicito il dramma di Gesù durante la sua passione, quando il suo dubbio è esattamente questo: “Ma io devo morire / dare la vita per questi qui che non hanno capito un tubo? Che mi amano così poco da avermi lasciato qui solo?” (che è la domanda della vita di ciascuno: “Ma io devo dare la vita per questi qui?!?!??”). La risposta definitiva di Dio in Gesù è stata “Sì”. E a sottolineare quanto forte sia il legame tra questa risposta (l’amore come risposta al non amore) e il perdono come determinazione definitiva di Dio, c’è la celebre frase che Luca mette in bocca a Gesù morente: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).

«La parabola spiega invece il perché anche al cristiano sia ormai possibile perdonare» [P.Pezzoli, La casa sulla roccia: il vangelo secondo Matteo, 142].



[1] Cfr. il senso che dà a questa parola F. Hadjdj in Farcela con la morte, Cittadella Editrice, Assisi 2009.
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