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lunedì 28 febbraio 2011

Preoccupati?

Commento alle letture liturgiche della VIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)

Il Vangelo di questa domenica è – in Matteo – la “naturale” continuazione del discorso sulla Felicità immanente alla storia dell’uomo (le Beatitudini) e non come nel nostro schema religioso solo “ultraterrena”. Ci siamo “sopra” da cinque settimane, ma a ben vedere, è un lavoro che dura tutta la vita perché ne è la ragione e il nutrimento.

Questa settimana si chiariscono ulteriormente le implicazione del clamoroso annuncio di Gesù: “Felici i poveri”! E noi che credevamo che per essere (almeno un po’) felici bisognasse – come spesso diciamo – “non proprio essere sfacciatamente ricchi, ma insomma stare economicamente bene per non avere problemi economici”!
Ebbene “oggi” si capisce meglio chi è il “povero” per Gesù e come essere poveri per essere felici.
E come sempre, il Vangelo si rivela spiazzante rispetto alla cultura, “al nostro modo di vedere” sulla e della povertà. E proprio per questo si rivela “da Dio”.

La prima cosa che rompe i nostri schemi sta nella affermazione che “la ricchiezza” è un padrone! Anzi nella logica del testo, l’unico padrone. Siamo letteralmente al capovolgimento delle nostre prospettive. E chi l’avrebbe mai detto? Noi chiamiamo padrone chi possiede dei beni! Per questo aspiriamo a diventare almeno dei “padroncini”. No! ci dice Gesù, sono i beni che la fanno da padrone. E decidono determinandola, della tua vita. Non in sé però, altrimenti non si potrebbe chiedere “dacci oggi il nostro pane quotidiano”! Vediamo allora come!

Il termine che la versione CEI traduce in “ricchezza” ha nel testo originale la parola mammona. Mammona, letteralmente vuol dire “proprietà” da cui per estensione i beni che uno possiede e quindi “mammona” diventa sinonimo di “ricchezza”. Per ben sei volte nel brano evangelico di oggi appare il verbo “preoccupare” nelle sue diverse declinazioni, per invitarci a “non” fare dei beni l’orizzonte della nostra vita. Questa insistenza sta a indicare che qui siamo al centro di ciò che il discorso di Gesù vuole trasmettere: non sono i beni il problema, ma la preoccupazione!

Il problema quindi non sta tanto nel discorso “ricchezza sì! ricchezza no!”. Anche! (I ricchi non si illudano: il discernimento sull’accumulo prima o poi va affrontato! Altrimenti il Regno dei Cieli se lo possono scordare!). Solo che il discorso così impostato oltre ad avere come unica soluzione la riduzione schizofrenica del nostro agire, è banalmente fuorviante rispetto alla profondità di quello che vuole dirci il Vangelo. Perché al centro del discorso di Gesù sta “la preoccupazione”! La preoccupazione per la vita! La preoccupazione per la vita che porta alla ricerca inquieta, angosciata, ossessiva, maniacale, spasmodica – infinite sono le sfumature della paura! – dei beni, del cibo, dei vestiti, dello status sociale, degli amici, dei soldi, di tutto quello insomma che noi consideriamo “vita” e vitale alla vita. Fino – oramai vittime di questa angoscia – a dedicare tutta la propria vita all’accumulo di ciò che riteniamo “bene” per noi. Diventandone schiavi. Il problema anche qui non è ancora sapere se ciò che riteniamo bene è veramente un bene: Il problema qui è centrato sulla preoccupata ricerca di… sostentamento alla vita.

Allargando il concetto di “vita”, per “bene” possiamo ritenere non soltanto i beni primari (che forse qui sarebbe meglio chiamare ancestrali perché fanno in qualche modo riferimento al racconto adamitico sul cibo e sul vestito che Dio stesso si cura di procurare e addirittura confezionare con le sue mani!), come negli esempi di Gesù, ma potremmo includere non solo – come detto – il bisogno di affetto, di amicizia, ma persino i beni che potremmo chiamare per intenderci “spirituali” (cfr seconda lettura).
Ma per non disperderci troppo limitiamoci pure all’esempio del Vangelo anche perché la dinamica del nostro comportamento nelle piccole cose è fondamentalmente identica a quello che abbiamo con le grandi. E fermiamoci un attimo a porci qualche domanda…

Cosa ci preoccupa? Cosa ci dà ansia? Cosa ci angoscia? Cosa ci inquieta? Cosa cioè assorbe in modo preminente i nostri pensieri, i nostri desideri, il nostro lavoro? Nel dialogo con gli altri, di cosa parliamo spesso? E quando ne parliamo, ne parliamo tenendo d’occhio soprattutto quale aspetto? Cosa all’interno di un discorso diventa per noi il principio base su cui ruota ogni altra argomentazione?

In casa, in famiglia, qual è “il problema” su cui spesso ci accapigliamo? Nella stragrande maggioranza dei casi non litighiamo “per i soldi”? E qui non ci sono ricchi e poveri (socialmente intesi) che tengano. Tutti guardiamo principalmente al tornaconto. Di cui quello economico non è secondario… Non parliamo poi quando si tratta di spartirsi il gruzzolo, piccolo o grande che sia, dell’eredità… Non basta dire “Che pena!”. Dobbiamo domandarci perché! Perché “i soldi” hanno un ruolo così importante nella nostra vita? Perché glielo diamo?
Anche l’organizzazione del tempo, ci potrebbe essere da guida per cogliervi gli indizi di una nostra inquietudine esistenziale.

Ancora… Quando parliamo dei problemi politici, sociali, quando affrontiamo il problema dell’immigrazione, o la crisi a cui assistiamo nel Nord Africa… di cosa siamo veramente preoccupati?

Se ci capita in questi giorni di parlare della Libia… siamo preoccupati del prezzo della benzina che aumenta o della sete di libertà e di giustizia per cui lottano e muoiono i libici?

E quando parliamo dell’immigrazione? Nel cuore, c’è l’accoglienza che cerca di riparare alle ingiustizie subite dai migranti o perpetuiamo queste ingiustizie per timore di dover rinunciare alle sicurezze del nostro benessere? Su questo quadruplice crimine[*] si fondano le politiche di alcuni partiti a cominciare – per parlare solo dell’Italia – dalla Lega Nord e del suo boss la cui mentalità evangelicamente criminale come un cancro sociale sta appestando l’anima degli italiani e invadendo – pur di finalmente vincere (come vuole strategicamente D’Alema) – anche uomini di partito o di chiesa che si riempiono la bocca del sociale.

Ci scandalizziamo di Gheddafi che bombarda i suoi cittadini, ma chi è più criminale? Chi spara o chi fornisce la pistola? E chi è peggio, chi fornisce la pistola o chi “gli dà le ragioni” (nb.: non dico che gli dà ragione!) per sparare? Difficile rispondere… certo è che tutti si troveranno in pessima compagnia all’inferno che hanno seminato nella storia. È troppo comodo dare del pazzo a Gheddafi senza rendersi conto che lui è “coerente” fino in fondo alla stessa logica che guida la nostra esistenza e la nostra cultura. In qualche modo ce ne mostra il vero volto perverso che noi mascheriamo dietro il nostro “buon cuore” pronto all’elemosina pur di non cambiare la storia!

Il Vangelo di oggi sbaraglia veramente le carte e butta all’aria il tavolo del nostro perbenismo.
E allora ridomandiamocelo: perché per i soldi siamo disposti a venire a patti col diavolo, a perdere la nostra dignità a volte, ad ammazzarci di lavoro sacrificando le relazioni umane al lavoro e in famiglia? Perché sull’altare della nostra economia, siamo disposti a sacrificare ogni cosa: dio, patria, famiglia… affetti, amici… a volte persino la salute?

Perché il futuro, ci fa paura! Anzi il futuro, il presente e il passato ci fanno paura. Non vogliamo essere – complici i nostri stessi genitori! – come erano i nostri genitori che dovevano “faticare per vivere”… il presente non ci basta mai perché del futuro non abbiamo certezze e non vediamo nel presente i segni di un mondo migliore… quindi “non si sa mai”, meglio mettere da parte qualcosa nel caso che “le cose si mettano male”… E facendo così impediamo al futuro e al presente di essere migliore!

Noi pensiamo che i beni “di nostra proprietà” ci diano sicurezza! Più se ne ha, più ci si sente al sicuro per ogni evenienza futura. Scuola migliore (meglio se gestita da ecclesiastici, ben contenti di arricchirsi sulle paure dei ricchi), medici migliori, avvocati migliori, amici numerosi (anche se peggiori perché difficilmente non interessati)… Case, terreni, ville, macchine… chi più ne ha più ne metta, perché più ne abbiamo più ci sentiamo al sicuro. Ma sarà poi vero? “La ricchezza – si dice – non ti prolunga la vita ma la rende migliore”! Ma ne vale la pena? A quali condizioni? Eppoi è proprio vero che la rende migliore? Migliore in cosa? Se non troviamo neanche più il tempo a pensare a noi stessi!

Eppure noi crediamo che i soldi ci facciano sentire vivi (perché senza ci sentiremmo morire). E se fossero veramente tanti ci fanno sentiremmo “un dio”, perché “adorati” dagli amici e “invidiati” dai nemici… Ma è solo una illusoria sensazione perché in realtà l’angoscia del futuro ci ha resi schiavi del presente. Questa angoscia del futuro è ciò che ci spinge a non vivere di fede ma di magia, consultando oroscopi, maghi, fattucchiere, ecc., alla ricerca di assicurazioni di successo per accumulare ricchezze… e ad assordando Dio e i nostri fratelli con le nostre suicide invocazioni. Sempre alla ricerca di una sicurezza che i beni in sé non possono darci (nemmeno quelli “spirituali” come acutamente osserva san Paolo).

Oggi il problema della sicurezza si impone alla cronaca quotidiana delle nostre città… i partiti si riempiono la bocca sulla questione della “sicurezza” ma in nome di questa sicurezza (politica, economica, sociale, di “ordine pubblico”…) varano leggi che alimentano l’ingiustizia che ha creato l’insicurezza, a cominciare di un tessuto sociale che ha smarrito la dimensione comunitaria del vivere. Al grido di “si salvi chi può” e “ciascuno curi e difenda il proprio orticello”, non si può fare altro che aumentare ulteriormente la vulnerabile solitudine di ognuno. Realizzando, per quanto armata, un di più di insicurezza!
Non si creda che stiamo uscendo fuori tema, perché la riduzione individualista delle nostre società a cui accennavamo, sono emanazione diretta della preoccupazione economica a cui accenna il Vangelo.

“La sicurezza non è né di destra né di sinistra…” dicono tra gli altri Veltroni, Cofferati, Cacciari, Renzi… e chi più ne ha più ne metta, anche qui, purché siano tutti sindaci o ex-sindaci e rigorosamente di sinistra! Per forza! avendo rinunciato a porsi la domanda sulle ragioni vere e non apparenti dell’insicurezza non ci resta che armarsi per imporla a chi la minaccia (sempre l’altro!), magari con qualche rattoppo cosmetico nel sociale pur di indorare la pillola e tacitare la coscienza. Ciò che conta è che non si affronti mai il problema alla radice per non disturbare il sonno ai vari Marchionne e agli uomini forti della finanza internazionale! Ipocriti!
Questa sinistra non vince e non vincerà perché la sua alternativa a Berlusconi è il berlusconismo! E se vincerà questa sinistra è perché ha vinto Berlusconi. Solo che lui non ha saputo mantenere le promesse (per fortuna!) e allora gli italiani daranno il voto alla sinistra che finalmente realizzerà le promesse del berlusconismo senza il Berlusconi che non le ha mantenute! Paradossale vero? Solo apparentemente perché che sia rossa o sia nera, sempre idolatria è: quella del denaro! E il denaro, come mammona, non né di destra né di sinistra!

E si capisce il fascino che “quella sinistra” hanno per la Lega: “Loro razzisti (anzi forse no direbbe Bersani – sic!), noi (comunque) certamente no! Ma in fondo vogliamo le stesse cose!”. Doppio sic! Cambia la casacca ma non cambia la mentalità! A che pro’ dunque votarli? Meglio l’originale o sperare in una fotocopia sbiadita che diluisca attenuandoli i danni dell’originale? Fate voi! Ma l’alternativa sembra essere tra scegliere di dover morire lentamente di fame o più rapidamente di sete: a ciascuno i suoi gusti di morte.

Perché se affidiamo la nostra sicurezza al nostro benessere, il benessere a cui aspiriamo diventa un padrone che ci succhierà la vita. E si mangerà l’Italia. È il vero patto col diavolo scritto col sangue della nostra vita oltre che con quello dei nostri figli e vicini, nell’illusione di sfuggire se non alla morte, al proprio declino.

Povero allora per il Vangelo è colui che “vive di insicurezza” verso il proprio futuro. Sciogliendo la propria angoscia nella fiducia del rapporto col Padre che si sa non viene mai meno come una madre verso il proprio figlio. Non lasciandosi condizionare nemmeno dai comportamenti ingrati del figlio (prima lettura).
Povero è colui che costruisce il proprio futuro nell’incontro con l’a/Altro. Di cui ci si fida, senza sospetto, nel percorrere insieme una strada, un cammino dove, nella occupazione quotidiana, ciascuno si senta veramente di casa.

Per essere poveri allora non basta passare dalla “proprietà privata” alla “proprietà collettiva” o dal conto in banca personale al conto in banca comunitario. Perché non cambierebbe la logica interna delle ragioni del possedere (insieme o da soli): la paura del futuro. Per questo certe presunte rivoluzioni hanno fallito, perché hanno preteso di “fare la rivoluzione nello stesso bicchier d’acqua” (Balducci). Perché cercare sicurezza al di fuori della giustizia di Dio è il vero modo per creare insicurezza uccidendo in ogni uomo il proprio futuro.

Il Vangelo di oggi ci dice ancora che per essere poveri evangelicamente non basta la fede, non basta l’amore. Ciò che impedisce alla fede di diventare razzista e omicida perché intollerante; ciò che impedisce alla carità di diventare cinica perché con una mano cura le ferite provocate dall’altra mano, eternizzando il dolore e l’ingiustizia, è solo la certezza di un amore a cui affidarci senza pretendere di afferrarlo impossessandocene (contrariamente a quanto noi facciamo anche nei rapporti interpersonali!). Perché questo amore ci promette di precederci nell’accoglienza di ogni nostro vero bisogno. Questa è la speranza cristiana! La sola capace di darci sicurezza perché è l’unica capace di affidarsi a un progetto sicuro. Quello di Dio che ci consegna ogni fratello come luce e sale per la nostra vita.
Ma noi non ci fidiamo di Dio, e preferiamo fidarci di noi stessi. Prego, si accomodi! ma attenti a quello che tra le righe ci avverte anche san Paolo: persino la nostra coscienza (quella vera, non quella che spiattelliamo davanti agli altri), la parte più “nobile” di noi, è più tirannica di un Dio che si rivela premurosa madre.

E allora mi vengono in mente le parole di Gesù: quando il figlio dell’uomo tornerà sulla terra, troverà ancora degli uomini capaci di credere a quest’amore provvidente di Dio, o troverà gente tutta intenta ad affidare la propria speranza al proprio conto in banca o ai beni nascosti nel materasso?

Ecco perché la cosiddetta “preghiera di domanda” non è una banale preghiera semplicemente interessata ma è esattamente il modo con cui l’uomo diventa povero inserendo i propri bisogni vitali all’interno del progetto del Regno di Dio e vi partecipa attivamente. Ed è per questo che ha bisogno di poche parole se vuole restare nella dimensione della speranza. E logicamente a questo brano seguirà la preghiera per eccellenza “il Padre Nostro”, che guarda caso è una “preghiera di domanda” e insegna a domandare senza uscire dall’affidamento a Dio e dalla comunione col fratello!

Come si vede questo è un Vangelo veramente strano: lo si capisce solo se lo si vive. Questo è vero per ogni Parola di Dio, ma forse qui mi appare con più chiarezza: mi sapete dire infatti come si fa a credere di poterci fidare di Dio, se non osiamo mai fidarci di lui? O detto altrimenti: mi sapete dire come si fa a fare esperienza della sicurezza che dà il “camminare sulle acque solide della speranza”, se continuiamo ad affidare le nostre sicurezze alle nostre ricchezze? L’unica esperienza che potremmo fare è accorgerci che i beni, come il serpente biblico, non mantengono ciò che promettono… ed essere abitati dalla disperata disillusione. Questo invece è veramente un Vangelo scritto da dei poveri così, per dei poveri così, che solo dei poveri così possono accogliere gioiosamente per vivere fin d’ora felici abbracciato ai fratelli e sorelle nel grembo della Madre!
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[*] sostenendo o non smantellando un sistema che li riduce in miseria a casa loro fino a costringerli a lasciare il proprio Paese, la propria cultura, i propri figli, gli amici… col cuore dilaniato dagli affetti lacerati, per poter cercare di sopravvivere e  – come se non bastasse – quando arrivano o li cacciamo o li riduciamo a rinunciare ai loro valori e li riduciamo in miseria, al punto da costringerli a ritmi di lavoro e livelli di salario tipici dello schiavo e qualora pretendessero i nostri stessi diritti e peggio qualche legge lungimirante li concedesse, gridiamo all’ingiustizia e li accusiamo di “rubarli” togliendoli ai “nostri poveri” omettendo di porre la domanda su un sistema che ci produce dei poveri in casa.

venerdì 25 febbraio 2011

VIII Domenica del Tempo Ordinario: Nelle mani di chi è la tua vita?

Il brano di vangelo che la Chiesa ci propone per questa ottava domenica del Tempo Ordinario è tratto anch’esso (come i tre precedenti) dal discorso della montagna, anche se – in questo caso – non abbiamo a che fare con la prosecuzione diretta del testo di domenica scorsa, ma con una sezione successiva (il liturgista omette Mt 6,1-23). In questo modo l’incipit del vangelo odierno, risulta la lapidaria espressione di Gesù: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza», dove – nuovamente – si impone con forza alla nostra attenzione il tema della ricchezza…


Ci eravamo già soffermati su questo argomento in chiusura dell’anno liturgico C, quest’autunno, quando – commentando la parabola del povero Lazzaro e del ricco epulone (Lc 16,19-31) – sottolineavamo come la questione là in gioco non sembrasse essere morale: il ricco, nella finzione parabolica, era all’inferno non perché cattivo, ma perché ricco; e il povero era con gli angeli, non perché buono (non si sa, stando al testo!), ma perché povero. Ciò che emergeva come discriminante, pareva allora essere non tanto una o più azioni malvagie, una o più azioni buone, ma l’ingiustizia radicale dell’essere ricco… Che ci portava a concludere che, nella logica di Gesù, la tanto travisata frase «Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti», non andasse interpretata nel suo senso immediato (come se fosse meglio nascere poveri e patire per un po’ – nell’aldiqua – godendo poi però per sempre – nell’aldilà –, piuttosto che nascere ricchi e godere per un po’ – nell’aldiqua – e patire per sempre – nell’aldilà). Dicevamo, infatti, che il contesto rimandava ad un’altra lettura di quella medesima frase, quella per cui bisognerebbe quasi arrivare a dire, semplicemente: meglio nascere povero, che nascere ricco nell’aldiqua; non perché si avrà il contraccambio nell’aldilà, ma perché nella visione di Gesù della storia dell’aldiqua è meglio essere poveri.

Questa era la paradossalità della parabola. Infatti nessuno di noi arriverebbe a dire questa cosa in maniera così nuda e cruda: noi – infatti – diremmo piuttosto “è meglio essere poveri nell’aldiqua, per essere ricchi nell’aldilà”; oppure “il problema ricchi-poveri andrebbe risolto non con l’eliminazione dei ricchi, ma con l’eliminazione dei poveri”, e via discorrendo…

Gesù invece “entra a gamba tesa” su questi nostri giri di parole e dice “meglio essere poveri”, punto e basta!

Come a dire che dentro a questa categoria dell’umano che noi istintivamente rifuggiamo, c’è qualcosa che invece è in sintonia col “mondo come Dio lo pensa”, con l’idea che Lui ha della nostra felicità, della nostra “buona riuscita”, della pienezza della vita. E al di là di tutte le poesie che si possono fare sulla povertà, sulla libertà interiore che essa “regala”, ecc… credo che l’elemento decisivo stia nella restituzione della qualità originaria e autentica della vita dell’uomo cui la povertà fa accedere, a renderla così ben vista agli occhi di Dio.

“Qualità autentica e originaria della vita dell’uomo” che – non a caso – caratterizza le esperienze di santità più grandi della storia della Chiesa. Basti pensare a san Francesco d’Assisi o al tema dell’umiltà tanto caro a santa Teresa d’Avila, che con “umiltà” intendeva – appunto – il far luce sulla verità di sé…

L’essere ricco invece è la grande illusione per l’uomo, è il grande inganno sulla sua vera realtà, su chi è lui veramente: cioè povero e dunque inevitabilmente necessitato da un affidamento…

Come mostra bene il testo (già più volte citato, ma che, mi pare, fa sempre bene rileggere) di Armido Rizzi in Dio in cerca dell’uomo: «L’uomo è povertà. In quanto oggetto e destinatario dell’agape l’uomo è l’essere-di-bisogno; dove bisogno dice a un tempo la relazione a un insieme di beni da fruire e la problematicità del possesso di quei beni. Nella prima faccia il bisogno dice ricchezza, almeno virtuale, potenzialità di espansione e di felicità; nella seconda, dice che ogni bene conquistato non è mai garantito, che ogni ricchezza acquistata è sempre insicura, ogni espansione precaria, ogni felicità fragile. Non siamo mai le cose che abbiamo, neppure le più intime: il nostro modo di essere è l’avere, in un senso più profondo di quanto dica l’abituale distinzione tra essere e avere. Infatti quella distinzione si istituisce sul piano valutativo, come discriminazione tra beni autentici e beni estranianti; ma sia gli uni che gli altri non diventano mai noi stessi al punto da essere inalienabili, rimangono sempre sotto il segno dell’aleatorietà. Qui non siamo più sul piano della valutazione, ma della struttura dell’esistenza umana, di quella che possiamo chiamare povertà radicale dell’uomo. […] Povertà non è sinonimo di finitezza. Un essere finito potrebbe avere tutto ciò che gli compete, e averlo in maniera così salda e sicura da non correre pericoli per la propria realizzazione: […] parlare di povertà in questo caso avrebbe senso soltanto misurando l’uomo su un metro, a lui estrinseco, di infinito. […] Povertà non è limite del proprio essere; è limite dentro il proprio essere. […] Ma abbiamo detto povertà radicale. E con questo intendiamo porre una distinzione tra le situazioni attuali, effettive, di povertà e quella condizione di base, quella fragilità che permane anche nelle situazioni di opulenza e di esteriore sicurezza, e che nessun possesso o potere può superare. […] È questa crepa che chiamo povertà radicale; quella che una famosa immagine biblica chiama i piedi d’argilla che reggono la statua di metalli preziosi. […] Ma: gloria Dei vivens pauper. Quest’espressione di Oscar Romero, che riprende e precisa quella di Ireneo (gloria Dei vivens homo), costituisce la definizione dell’essere umano alla luce dell’agape divina. Dire che Dio ama l’uomo come altro da sé equivale a dire che nell’uomo egli ama il povero: non ciò che l’uomo ha ed è, ma quell’essere-di-bisogno che è bisogno di avere e di essere. […] Ma proprio questa povertà, che in sé non ha né è nulla di amabile, viene amata da Dio e da lui colmata: e in questo gesto Dio si rivela Dio. Dunque, la volontà di colmare il povero – ogni uomo in quanto povero – è la parola originaria che Dio dice su di sé: è la sua gloria. Quando parliamo della predilezione di Dio per i poveri non tracciamo un limite al suo amore – quasi Dio amasse soltanto coloro che sono attualmente poveri – ma indichiamo il luogo privilegiato in cui riconoscere questo amore. Nella preferenza di Dio per i poveri attuali si testimonia la qualità del suo amore per tutti gli uomini nella loro povertà radicale».

La ricchezza è allora mancanza di umiltà (in senso teresiano), cioè mancanza di verità su di sé, rinnegamento di questa qualità originariamente povera, di ciascun uomo…

La ricchezza è la grande illusione, di riuscire a bastare a se stessi, di salvarsi da soli, di “farcela” da soli…

Ecco perché – nel testo odierno – è messa radicalmente in antitesi col Dio del vangelo: «Non potete servire Dio e la ricchezza»! Perché l’essere ricchi, cioè l’illudersi di non essere poveri, fa dimenticare di essere figli… fa dimenticare di aver bisogno di stare nelle braccia di qualcun altro che tiene in mano la nostra vita… fa dimenticare la necessità di un affidamento…

Ecco perché Gesù, dopo la lapidaria frase iniziale, prosegue dicendo: «Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita»… Perché la domanda fondamentale a cui vuol spingere l’uomo è precisamente questa: “Nelle mani di chi / di che cosa hai posto la tua vita?”; a cui fa eco la sua simmetrica: “Per chi / per che cosa ti affanni, ti preoccupi mentre vivi?”…

Per il Regno di Dio (cioè per il mondo come Dio lo vuole, e cioè fatto di fratelli che si amano e si prendono cura – si liberano dal male – gli uni gli altri) o per la tua auto-salvezza (denaro, cibo, vestiti, relazioni che ti riempiano la vita…)?

Perché solo una vita affidata nelle mani di un altro, può essere vissuta per… qualcuno che non siamo noi…

Se infatti essa è solo in mano nostra, passeremo tutto il tempo preoccupati (affannati) a cercare di conquistare o mantenere l’abilitazione a stare al mondo (grazie ai nostri averi, ai nostri saperi, ai nostri meriti…), per scoprire poi che essi non servono a un tubo per salvarci la vita, come chiosa bene Paolo nella seconda lettura: «io non giudico neppure me stesso, perché, anche se non sono consapevole di alcuna colpa, non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore »…

Se, invece, diamo credito alla rivelazione di Dio che ci si fa incontro in Gesù e che Isaia sintetizza in quella insuperabile frase della prima lettura messa in bocca a Dio stesso («non ti dimenticherò mai»), e per questo ci decidiamo per un affidamento, cioè ci sbilanciamo a pensarci (a pensare noi stessi) nelle mani di un Altro, allora avremo la vita abilitata da lui e per questo libera da affanni… libera di dedicarsi a qualcun altro… che non sia sempre e solo il nostro io.

VII Domenica del Tempo Ordinario: Amate i vostri nemici!

In questa settima Domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa – nel vangelo – ci invita a proseguire la lettura del discorso della montagna iniziata ormai qualche settimana fa e che, proprio oggi, raggiunge uno dei suoi vertici più alti (ma anche più difficilmente comprensibili e assimilabili)… l’amore per i nemici...


Gesù invita precisamente a questo… a non opporsi al malvagio (cioè a chi ci fa delle malvagità), anzi, ad offrire l’altra guancia a chi ci ha colpito la prima; a lasciare anche il mantello a chi ci vuole togliere la tunica; ad accompagnare per due miglia, chi ci costringe a farlo per un miglio; a dare a chi chiede e a non voltare le spalle a chi desidera da noi un prestito; ad amare i nostri nemici e a pregare per chi ci perseguita…

Dove, la paradossalità del discorso, sta nel fatto che in nessuno di questi inviti è possibile rintracciare un qualcosa che ne attenui la portata… Non si dice di non opporsi a chi ci ha fatto una malvagità (magari occasionalmente, magari subito pentendosene, magari perché cresciuto dentro ad una condizione di disagio…), ma di non opporsi ai malvagi (senza nessuna specifica che attenui la portata di questa “malvagità”); non si dice di porgere l’altra guancia – cioè di tornare ad arrischiare la propria vita con qualcuno che l’ha già tradita – ad un amico, a qualcuno di caro, che – nonostante la sofferenza procurataci – non vogliamo perdere… ma si dice di porgere l’altra guancia e basta, nuovamente senza un elenco di casi o una specificazione di situazioni “accettabili”; non si dice di dare tunica e mantello (magari) a chi ha freddo o a chi ne ha bisogno… ma di dare il mantello a chi ci ha rubato la tunica, magari lasciando noi al freddo e nel bisogno; non si dice di accompagnare per due miglia un amico che ci aveva chiesto di farne uno con lui… ma di farne due con chi ci ha costretto a farne uno; fino ad arrivare alla paradossalità estrema dell’amore ai nemici e della preghiera per i persecutori…

Una “paradossalità” l’abbiamo chiamata… Una paradossalità perché è un modo di atteggiarsi che non rispetta nessuno dei canoni abituali con cui solitamente è organizzato il nostro vivere sociale… non è rispettata l’inviolabilità della persona, il diritto di proprietà, l’istinto di sopravvivenza, la giusta retribuzione, il diritto di combattere contro le ingiustizie subite, ecc… Dentro a questo “pacchetto” di diritti sta tutto il nostro vivere sociale (necessarissimo e figlio di una lunga storia di battaglie per i diritti che vanno assolutamente onorate!)… però… c’è un però… che nasce proprio dalla lettura di questo vangelo…

Perché dentro ad uno stare al mondo pensato secondo quei criteri (quei diritti personali) la proposta di Gesù non ci sta, appare, appunto, paradossale, fuori dallo schema, “inincastrabile”…

Infatti non si possono vivere gli inviti di Gesù, se ciò che urla nel nostro cuore è la rivendicazione (per noi) di quei diritti: non posso porgere l’altra guancia, dopo che mi hanno ingiustamente percosso la prima, se ciò che emerge come prioritario nel mio cuore, nella mia mente, nelle mie reazioni (cioè nel mio modo d’essere) è la rivendicazione del diritto all’inviolabilità della mia persona… o quello alla lotta per le ingiustizie subite. Non posso dare anche il mantello a chi mi ha rubato la tunica se ciò che emerge in me è essenzialmente la necessità di una giustizia retributiva, la rivendicazione del mio diritto alla proprietà privata, ecc… non posso fare due miglia con chi mi ha costretto a farne uno con lui, se mi esplode dentro la pretesa di veder riconosciuto il mio diritto alla libertà, alla libera determinazione, alla libera circolazione…

Non posso…

Ma allora? Com’è possibile entrare nella mentalità di Gesù (una mentalità per la quale queste proposte – visto che lui le fa e le vive! – non sono affatto paradossali ma pronunciate con realismo)? Perché per lui sono “normali”, “possibili”, “percorribili” mentre a noi risultano “fuori dal normale” (paradossali, appunto), “impossibili”, “improponibili” e “irricevibili”?

Forse perché – appunto – in quelle situazioni, ciò che in Lui emerge come prioritario non è la rivendicazione di alcuni diritti (per sé) – pure giusti – ma qualcosa d’altro… Per Lui ciò che preme dal di dentro e va a determinare il suo pensare, sentire e reagire è la custodia dell’altro, sentito sempre come suo. Anche quando è malvagio, sconosciuto, straniero, ladro, peccatore, ecc...

È qui che giunge dunque il suo invito… non tanto (o non solo) a cambiare alcuni nostri atteggiamenti, a correggere alcune nostre reazioni, a seguire una serie di prescrizioni per dei casi concreti, ma a cambiare il nostro modo di stare al mondo… Infatti potremo vivere tutti quei suoi inviti, solo se dentro ci nascerà un’istanza diversa, che diventa prioritaria su tutte le altre: quella per cui l’altro è l’unica mia preoccupazione, è il senso della mia vita, colui che gli dà la giusta misura!

Vivere così, con questa istanza interiore, riscrive tutti i nostri modi di pensare, di pensarci, di organizzare, di organizzarci, di stare insieme, di stare al mondo…

Ma come si impara questo nuovo modo di stare al mondo?!?!?

Diceva un caro amico martedì sera in una conferenza: «Come si impara questa dinamica qui? Con la fedeltà fondamentale alla nostra vita, che è così: che io posso essere ogni tanto peccatore, posso aver sbagliato, posso aver detto anche una parola fuori posto, oppure aver fatto il gesto più maldestro della mia esistenza… e però c’è sempre una possibilità di recuperare, perché sono storicamente connotato. Lo dico sempre quando confesso qualche ragazzino che dice parolacce alla mamma… Gli dico sempre: “Guarda la prima cosa che devi fare quando hai detto una parolaccia alla mamma, è dirle ‘Ti voglio bene!’…”. La santa ipocrisia cattolica – direbbe qualcuno – che cerca di rimediare ai propri peccati con la falsa dichiarazione di bene… No, non è la santa ipocrisia cattolica, è la santa pedagogia cattolica, per la quale le azioni buone ti rendono buono alla fine della fiera… Invece la santa ipocrisia pedagogica di chi si crede illuminato ci fa fare le azioni buone dopo che siamo diventati buoni… infatti: più nessuno fa le azioni buone… Perché ci insegnano così, no!??! Prima di amare devi fare dei corsi, devi sistemare tutto, devi aver risolto tutte le turbe psicologiche di bambino, devi aver trovato la serenità perfetta, poi finalmente sei pronto… Infatti uno non è mai pronto… Invece, nella crisi si ama! Nell’inciampare, nel tirarsi su… Come dice la bellissima frase di Oscar Wilde: “Siamo tutti nel fango”! Tutti! Ma qualcuno – dal fango – guarda le stelle e da lì (magari) trova il coraggio»… per provare l’impossibile: tentare di diventare pian piano (e non pretendere di essere) “perfetto come il Padre nostro che è nei cieli”… Uno del quale Gesù dice che «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti»…

Solo un Dio paradossale così infatti può essere il Dio di quelli che paradossalmente amano i nemici…

Ma forse ci sembra tutto così paradossale – nonostante siano 2000 anni che tutto è già scritto nel vangelo – perché non abbiamo accettato un Dio così (che fa sorgere il sole sui buoni e suoi cattivi…)… Un Dio così infatti non serve a niente nella rivendicazione dei nostri diritti… cosa ce ne facciamo di un Dio così, che sa solo proporci di amare i nemici e quindi, non solo di non guadagnarci niente, ma anche di perderci… e non qualcosa, ma noi stessi?

Non serve a niente, ecco perché – pur essendo una definizione di Dio che ha dato Gesù stesso – è forse la meno conosciuta e citata nella storia del Cristianesimo… storia, segnata troppo spesso dalla ricerca di un dio che “serviva” a qualcosa, che serviva a noi (contro gli altri), a me (contro l’altro)… dimentica del Dio della gratuità, non della necessità; dell’amore, non del dovere; dell’inclusione, non dell’esclusione; del per te, non del per me; della tua misura, non della mia misura…

Forse è allora davvero giunto il tempo che anche noi – dal fango e senza esserne pronti – proviamo a fare qualche “azione buona” che ci renda “buoni”… cioè qualche azione gratis, che ci renda gratuiti… qualche azione in cui l’orizzonte è segnato dalla preoccupazione per l’altro e non per la rivendicazione dei miei giusti diritti… chissà che “alla fine della fiera” non diventiamo anche noi perfetti come il Padre nostro celeste… e anche noi facciamo piovere il nostro bene sui giusti e sugli ingiusti…?!?

mercoledì 23 febbraio 2011

La Chiesa di Giuda


Pubblico qui un articolo di Barbara Spinelli apparso oggi su Repubblica. Ditemi voi se c'è qualcosa seppur piccola che un cristiano non possa condividere...

C’è qualcosa, nel successo strappato a Sanremo dalla canzone di Vecchioni, che intrecciandosi con altri episodi recenti ci consente di vedere con una certa chiarezza lo stato d’animo di tanti italiani: qualcosa che rivela una stanchezza diffusa nei confronti del regime che Berlusconi ha instaurato 17 anni fa, quando pretese di rappresentare la parte ottimista, fiduciosa del Paese.

Una stanchezza che somiglia a un disgusto, una saturazione. Se immaginiamo i documentari futuri che riprodurranno l’oggi che viviamo, vedremo tutti questi episodi come inanellati in una collana: le manifestazioni che hanno difeso la dignità delle donne; la potenza che emana dalle recite di Benigni; il televoto che s’è riversato su una canzone non anodina, come non anodine erano le canzoni di Biermann nella Germania Est o di Lounes Matoub ucciso nel ‘98 in Algeria. Può darsi che nei Palazzi politici tutto sia fermo, che il tema dell’etica pubblica non smuova né loro né la Chiesa. Ma fra i cittadini lo scuotimento sfocia in quest’ansia, esasperata, di mutamento.

A quest’Italia piace Benigni quando narra Fratelli d’Italia. Piace Vecchioni quando canta la «memoria gettata al vento da questi signori del dolore», e «tutti i ragazzi e le ragazze che difendono un libro, un libro vero, così belli a gridare nelle piazze perché stanno uccidendo il pensiero». Quando conclude: «Questa maledetta notte dovrà pur finire». Poiché si estende, il senso di abitare una notte: d’inganni, cattiveria, sfruttamento sessuale di minorenni. C’è voglia che inizi un risveglio. Che la politica e anche la Chiesa, cruciale nella nostra storia, vedano la realtà dei fatti dietro quella pubblicitaria.

Massimo Bucchi aveva anticipato, in una vignetta del 19 gennaio 2010, questa rivolta contro il falso futuro promesso dai signori del dolore: «Ha da passà ‘o futuro!». Erano i giorni in cui il governo non s’occupava che di legittimo impedimento, di lodo Alfano costituzionale, di processo breve. Immobile, il tempo ci restituisce senza fine l’identico. Quel 19 gennaio, il Senato si riunì per commemorare Craxi. Colpito poco prima a Milano dalla famosa statuetta, Berlusconi annunciava «l’anno dell’amore».

Forse ricorderemo gli anni presenti per questa collana di eventi, che pian piano travolse giochi parlamentari, patti con un potere imperioso e tassativo con gli altri, mai con se stesso. Ricorderemo questa domanda di politica vera. Ricorderemo, infine, i tanti che non hanno visto montare la marea della nausea, che hanno consentito al peggio per noia, o rassegnazione, o calcolo di lobby. Cerchiamo di non dimenticarlo: ben 315 parlamentari hanno votato un testo, il 4 febbraio, in cui si sostiene che Berlusconi liberò Ruby perché, ritenendola nipote di Mubarak, voleva «evitare un incidente diplomatico».

Ma soprattutto, colpirà nei documentari futuri l’inerte ignavia dei vertici della Chiesa, l’orecchio aperto solo ai potenti, il rifiuto – così poco cristiano – di dire male del male solo perché da questo male sgorgano favori; perché i governanti concedono alla Chiesa il monopolio sui cosiddetti valori non negoziali (il dominio sulla vita e la morte, essenzialmente) purché siano lasciati in pace quando violano la Costituzione, fanno leggi per sottrarsi alla giustizia, mostrano di non sapere neppur lontanamente cosa sia la decenza pubblica. La canzone di Vecchioni, la recita di Benigni, sono punti di luce in una chiusa camera oscura; sono una forza che sta di fronte alla formidabile forza del regime. Una forza cocciuta, insistente, cui l’opposizione è estranea e ancor più la Chiesa.

L’insurrezione interiore avviene anche dentro il mondo cattolico: si parla di un 30 per cento di refrattari, tra frequentatori della messa e presbiteri. Basta scorrere le innumerevoli lettere che parroci e preti scrivono contro i dirigenti in Vaticano, per rendersene conto. Sono lettere d’ira, contro la loro acquiescenza. Micromega dà ai dissidenti il nome di altra Chiesa e sul proprio sito li rende visibili. Le pagine dei lettori sulla rivista di attualità pastorale Settimana sono fitte di denunce del berlusconismo.

Quest’altra chiesa non ne può più dei compromessi ecclesiastici con una destra che nulla ha ereditato dalla destra storica che fece l’unità d’Italia. Ha riscoperto anch’essa il Risorgimento, la Costituzione del ‘48. Condivide il dover-essere dei cattolici che Alberto Melloni riassume così: «Una dedizione alla grande disciplina spirituale, un primato vissuto del silenzio orante, un abito di umiltà, un’adesione alla democrazia costituzionale come ascesi politica» (Corriere della Sera 19-12-10).

Tra i criticati il cardinale Bagnasco, che critica il Premier ma per non sbilanciarsi vitupera non meno impetuosamente i magistrati. O che denuncia un disastro antropologico contro il quale però non pronuncia anatemi, preferendo alla chiarezza il torbido di alleanze tra Pdl e Casini che mettano fuori gioco Fini e le sinistre, troppo laici. Contro questo insorgono tanti preti: «Vedete quanto è pericoloso tacere?», chiedono citando Agostino. L’empio pecca, ma è la sentinella che ha mancato: «Chi ha trascurato di ammonirlo sarà giustamente condannato».

Nei paesi nordafricani vigeva simile spartizione di compiti: ai despoti il dominio politico, alle moschee la libertà di modellare l’intimo delle coscienze. L’accordo di scambio sta saltando ovunque, tanto che si parla di fallimento colossale di quella che gli Occidentali chiamavano stabilità. È in nome della stabilità che Berlusconi ha chiamato Mubarak un saggio, e ha detto non voler «disturbare» Gheddafi poco prima che questi bombardasse i libici facendo centinaia di morti. È la stabilità il valore che anima tanti responsabili in Vaticano, perché essa garantisce prebende varie, sconti fiscali per le case-albergo dei religiosi, finanziamenti per scuole.

In cambio si elargiscono indulgenze. Berlusconi dice parole blasfeme, e mons. Fisichella invita a «contestualizzare» la bestemmia. Il Premier è accusato di concussione e prostituzione minorile, e la Chiesa giudica «abnorme» la sua condotta come quella dei magistrati. Afferma Nogaro, vescovo emerito di Caserta: «Noi rimaniamo nello sgomento più doloroso vedendo i gesti farisaici delle autorità civili e religiose, che riescono ad approdare a tutti i giochi del male, dichiarando di usare una pratica delle virtù più moderna e liberatoria.» (Micromega 1/11).

Altri presbiteri ammoniscono contro leggi liberticide sul testamento biologico. Don Mario Piantelli, parroco di San Michele Arcangelo, si associa «alle richieste che da molte parti d’Italia sono indirizzate ai vertici ecclesiastici di alzare forte la voce e di compiere azioni profetiche nei confronti del governo Berlusconi. È necessario un supplemento di libertà evangelica per sganciarsi decisamente da un sistema di governo che, attraverso benefici e privilegi, sembra avvantaggiare il «mondo ecclesiastico», e in realtà aliena e impoverisce i credenti».

La Chiesa ebbe comportamenti non diversi nel fascismo. Sta macchiandosi di colpe simili, e nessuno sguardo profetico l’aiuta a vedere gli umori d’un paese che cambia, che magari non vota opposizione ma è stufo di quel che succede. Che comincia a guardare se stesso, oltre che l’avversario. Il cartello più nuovo, nella manifestazione delle donne, diceva: «Bastava non votarlo». Bastava la virtù dei primordi cristiani: la parresia, il parlar chiaro.

Nel filmato futuro che dirà il nostro oggi saranno convocati gli storici. Potranno imitare Benedetto Croce, quando nei Diari, il 2-12-’43, si mise nei panni di Mussolini e scrisse: «Chiamato a rispondere del danno e dell’onta in cui ha gettato l’Italia, con le sue parole e la sua azione e con tutte le sue arti di sopraffazione e di corruzione, potrebbe rispondere agli italiani come quello sciagurato capopopolo di Firenze (...) rispose ai suoi compagni di esilio che gli rinfacciavano di averli condotti al disastro di Montaperti: “E voi, perché mi avete creduto?”». (23 febbraio 2011)

lunedì 14 febbraio 2011

La Strada

Commento alle letture liturgiche della VI Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)


Ci vorrebbe un dizionario speciale.
Sapete quei dizionari che traducono i termini da una lingua in un’altra… Ebbene ci vorrebbe un dizionario speciale dei termini Io-Tu.
Noi usiamo delle parole per parlare, ma ben spesso ci rendiamo conto che davanti a certe parole, ciascuno gli dà un “contenuto” proprio…
Se io per esempio dicessi “amore”, “giustizia”, “bellezza”… e chiedessi a ciascuno di scrivermi su un foglio che cosa “per lui significano”, beh son convinto che ne leggeremmo delle belle…

Sì, ciascuno dovrebbe scriversi questo dizionario con nel frontespizio il suo nome e quello della persona con la quale vorrebbe entrare in comunicazione. Ce ne vorrebbe per ogni amico/a che conta.
Ce ne vorrebbe uno anche per le parole che la tradizione religiosa ci ha trasmesso, e che noi abbiamo interiorizzato ed elaborato all’interno dei nostri orizzonti esistenziali: delle parole della Bibbia, del Vangelo, di Gesù. Se non facciamo questo “lavoro” potremmo passare la vita sulla Bibbia senza mai riuscire a coglierne l’originalità. Credo che sia per questo che la bibbia annoia i più…

Prendiamo la parola “legge”. Questa parola evoca a ciascuno di noi molte immagini che dipendono anche dal proprio ruolo sociale: un conto è il significato che gli dà un avvocato, un conto un cittadino “comune”, un altro ancora un… condannato. Immaginatevi che cosa ne pensa della legge chi attende il giorno della sua esecuzione nel braccio della morte… Eppoi perché Legge e non legge? La “grafica” qui ha la sua importanza, perché?

Lo stesso dicasi per “giustizia”: chiedetelo a (o immaginatelo di) uno che subisce l’ingiustizia, e poi a/di uno che vive di soprusi…

Che “gatta ci cova”, si vede anche nella traduzione del Vangelo di oggi: secondo l’attuale traduzione Gesù direbbe: “non crediate che io sia venuto ad abolire la le Legge e i Profeti…” e ancora: “se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei…”. Solo che Gesù non dice così.
La prima (a parte il fatto che dovrebbero spiegarmi come si fa ad abolire un profeta, seppur nei suoi scritti!) andrebbe tradotta meglio così: “non crediate che io sia venuto a demolire la Legge e i Profeti…”. Così però la frase appare assurda: si demolisce una casa, mica un codice giuridico, se non in senso raffigurato, più propriamente per la norma giuridica si dice appunto abolire… Resta ancora la difficoltà dell’espressione riguardo “ai profeti”… Ma proprio qui casca l’asino che rivela la differenza di “mentalità” tra un ebreo (Gesù, Matteo, gli ascoltatori…) e il lettore “occidentale”.

Cominciamo allora a fare il viaggio tra i diversi mondi semantici.

Noi traduciamo Legge, ciò che nel testo originale è Torà (o più comunemente Torah) . Ma Torah propriamente parlando non è una “legge”. Anche se la sua forma è tipica dei codici legislativi… Propriamente e più correttamente la sua traduzione sarebbe “Via”, “Cammino”, “Strada”.
Si può tradurre Legge, tenendo conto anche della traduzione in greco del termine ebraico che gli stessi ebrei ne hanno fatto (ad es. nella cosiddetta Settanta). Ma la legge per un ebreo non è tanto una norma giuridica, quanto piuttosto una strada, una “via che conduce a”…
Ora appunto la strada si costruisce, anche se non come un palazzo in verticale, ma in orizzontale. E smantellare una strada esige che essa sia “demolita”. Una strada infatti non la si abolisce, la si demolisce! Al massimo si può “non percorrerla” e prendere altre strade…

Ora una strada, ha la sua importanza non in sé, ma per il “dove conduce”, ciò che conta in una strada è “il ‘dove’ porta”, ciò a cui destina: la meta, la direzione verso la quale si “distende”. La sua capacità di essere strada consiste proprio nel fatto che conduca effettivamente là per cui è stata costruita. È quindi importante che la strada “spiani i monti e colmi le valli” (cfr Isaia 40,2-5) e sul suo “selciato” non ci siano ostacoli che ne interrompano l’itinerario ostacolando il cammino dei viandanti. Se un “macigno” la ostruisse, per andare oltre dovremmo uscire di strada o tornare indietro. E se un altro “macigno” ci impedisse di tornare indietro? Sarebbe la morte sicura, bloccati su quella strada interrotta o, che è lo stesso, cercare errabondi di percorrere sentieri sconosciuti e pieni di pericoli…

A questo punto credo che le idee comincino a chiarirsi e a trovare il nesso tra Torah e Profeti: entrambi indicano la via, la strada, il cammino che conduce al Signore. Anche i profeti cioè tentano di “costruire” una strada o meglio “sgomberare” ogni ostacolo che l’umana ingiustizia pone in essa: il termine “demolire”, usato da Matteo quindi li concerne benissimo entrambi.

Anche la “Strada” (Torah) che Dio ha dato porta in una certa direzione: la Vita. Quindi Dio stesso, “il Vivente”… Che Gesù non può che confermare: Non verrebbe da Dio, non sarebbe (Figlio) di Dio! Anzi, proprio questo Gesù è venuto a fare: a togliere definitivamente ogni ostacolo, i limiti, che ci impediscono di percorrerla fino in fondo, fino alla meta. E proprio questo vuol dire quando dice che è venuto per “dare pieno compimento”!

E da qui si comprende meglio l’altra più corretta traduzione in rapporto alla giustizia: In realtà Gesù afferma: “Se la vostra giustizia non andrà oltre i limiti, i confini posti dagli scribi e dai farisei” che con la loro interpretazione fissista e legalistica dei testi sacri impedivano alla Torah (e ai profeti che con la loro testimonianza cercavano di rivitalizzarla), di essere “strada”, dinamico cammino (cfr Gv 1,1: pros), ed espletare così il compito a cui erano destinati: condurre a Dio (cfr in Gv 1,1 il pros) attuando la sua giustizia nella storia.

Ecco allora che fatto questo “viaggio culturale” per appropriarci della mentalità biblica, tutti i brani della liturgia di oggi si illuminano di un significato “nuovo”.

Se Gesù si pone come strada altra, cammino altro, senza ostacoli verso la meta (che non cambia!), ogni altra strada acquista o perde di valore a seconda che corrisponda alla strada maestra che Gesù nella sua persona è venuto a realizzare. E che da sempre era presente nel piano di Dio e che le “tradizioni umane” (Mc 7,6; Mt 15,9) hanno offuscato. Anzi è da sempre la stessa struttura del Figlio e quindi di ogni figlio/a! In Gv 1,1 questo è chiaramente espresso, ove si dice che il Verbo/Logos è dinamicamente rivolto a [pros] Dio/Padre. E non, come tradotto, banalmente presso Dio: con Dio e in Dio, non c’è vicinanza fisica, ma di orientamento esistenziale. Quindi nel momento in cui ti decidi di percorrere la “strada”, di prendere quella direzione, “sei in Lui” (cfr ad es. Gv 14,17-23!; 15,4-17).

I comandamenti quindi non sono nient’altro che “pezzi di strada”, tratte del cammino proposti verso una meta fatta di luce e di vita che è la comunione con Dio e con i figli suoi. Valgono se e perché mantengono “in strada”, conducono nella strada, alla meta.

Il progetto di Dio, la strada che si getta verso Dio stesso, costituisce proprio quel “mistero” di cui parla san Paolo: è noto, perché si conosce la meta e già il camminarci è esserci, appartenervi, ma non siamo ancora arrivati alla meta finale che non è ancora sperimentata e per questo “ignota”. Noi occidentali nel nostro linguaggio, della parola “mistero” abbiamo sottolineato esclusivamente l’aspetto “non noto” del compimento finale e abbiamo trascurato invece l’aspetto noto, progettuale, della strada spianata davanti a noi. Perdendo così tutta la ricchezza del significato a cui Paolo attribuisce alla parola mistero. Ed è chiaro che percorrendo la strada, esso si rivela sempre di più. E per questo c’è un “tempo” in cui si chiarisce, si notifica… di “tempo” in “tempo”, di cammino in cammino.

Gli esempi successivi che Matteo giustamente riunisce qui dei detti di Gesù, vanno ovviamente in questa direzione. I “ma io vi dico” non stanno ad indicare una alternativa alla strada, ma indicano un lavoro di sgombero della medesima. Perché la meta, la giustizia di Dio in mezzo agli uomini, sia raggiunta senza alcun ostacolo anzi altrove dirà “senza fatica”.

Ecco allora che il quadro del Vangelo si chiarisce. Dopo aver annunciato le Beatitudini ecco che Gesù dà, come dire, le istruzioni per l’uso. E nello stesso tempo le chiarisce: beato (felice) non è il povero o chi piange: c’è una povertà triste, c’è un pianto disperato… Felice (beato) è colui che pone al centro della sua esistenza il rapporto con l’altro. Anche a costo di pagare di persona. Tutti gli esempi riportati sottolineando il “modo” di vivere il rapporto con l’altro/a (anche nel tradimento e nel conflitto) vanno in questa direzione, bisognerebbe rileggerli ancora una volta per meglio annotarseli.
Ciò che dà vita, luce, gusto alla vita è la capacità di ogni persona, di essere persona appunto. Disposti a tutto perdere pur di vivere la relazione con l’altro: anche il denaro, anche la propria materiale comodità, anche la propria spensierata allegrezza, anche il proprio concetto di giustizia, anche il proprio occhio… se scandalizzano, se cioè sono causa di rottura della relazione con l’altro… L’alternativa sarebbe il deserto della propria solitudine. Benestante mortificazione dell’Io. Lussuosa tomba della vita.

Ecco perché la Croce diventa il mistero (ora definitivamente noto in Cristo ma non ancora compiuto nel proprio vissuto storico) che ciascuno deve percorrere fino in fondo per poter vivere.
La morte non nasce come punizione di Dio, ma come conseguenza della rottura col “tu”.

Sottolineo una ulteriore conseguenza pratica che mi coinvolge più direttamente: All’interno di questa prospettiva biblica (l’unica fondante ogni altra prospettiva!), crolla come inconsistente tutta quella dimensione esistenzialmente schizofrenica, molto presente in ambito praticante che rende spesso il cuore del fedele “duro” verso ogni altra forma di fragilità umana… L’uomo religioso si trova spesso come strattonato tra la falsa antinomia dell’obbedienza alla legge in tutte le sue forme (Codice di Diritto Canonico, Regola religiosa, Costituzioni, Norme applicative, Ordinazioni capitolari) da una parte e le “esigenze della Carità” dall’altra: a questa, quelle sono finalizzate e condizionate. Con il conseguente obbligo da parte del cristiano di eliminare quanto in esse è di ostacolo alla realizzazione del fine per il quale esse esistono e, positivamente, andare oltre una loro “osservanza” materiale. Questo si intende quando si parla dello “spirito della legge”…

Il “vincolo” delle leggi sta solo in quanto (e per quel tanto che…) riescono ad espletare il loro compito di accrescere la comunione, la fraternità, la carità, la bellezza… della vita comunitaria (in tutte le sue numerose forme storiche di “convivenza sociale”: ad es. famiglia, convento, parrocchia, società nazionale…). In una parola l’Amore del Regno di Dio. Per questo ogni figlio dell’uomo è signore del sabato (cfr Mt 12,8).

sabato 12 febbraio 2011

Ti amo...



Ci ho messo un po' a decidere se sopprimere definitivamente il post o mantenerlo. Poi ho deciso di mantenerlo per due ragioni: primo perché le riflessioni fatte e la bellezza del testo non vengono meno. Poi perché è una bella lezione di umiltà... Di cosa sto parlando? Semplice ho preso una "bufala" nel senso che il vero autore del testo è Fabio Volo. Precisamente la lettera è tratta dal suo romanzo E' una vita che ti aspetto, (2003). Il brano in questione si trova proprio alla fine del romanzo. A.M., da cui io l'ho preso col suo esplicito permesso (!) lo ha semplicemente reso al femminile e indirizzato al suo ragazzo. Io ho riportato adesso la versione "originale".

Tutto il male però non vien per nuocere. Dubito che avrei prestato tanta attenzione ad un testo tratto da un romanzo... Il "merito" di A.M. sta nell'avermelo calato nella realtà rendendo il testo, nell'immaginario personale ancor più suggestivo e pregnante. D'altronde è questo il vero modo di leggere un romanzo: "funziona" solo se si fa finta che sia vero...

Ti dico queste parole nel periodo migliore della mia vita, nel periodo in cui sto bene, in cui ho capito tante cose. Nel periodo in cui mi sono finalmente ricongiunto con la mia gioia.

In questo periodo la mia vita è piena, ho tante cose intorno a me che mi piacciono, che mi affascinano. Sto molto bene da solo, e la mia vita senza di te è meravigliosa.

Lo so che detto così suona male, ma non fraintendermi, intendo dire che ti chiedo di stare con me non perché senza di te io sia infelice: sarei egoista, bisognoso e interessato alla mia sola felicità, e così tu saresti la mia salvezza. Io ti chiedo di stare con me perché la mia vita in questo momento è veramente meravigliosa, ma con te lo sarebbe ancora di più. Se senza di te vivessi una vita squallida, vuota, misera non avrebbe alcun valore rinunciarci per te. Che valore avresti se tu fossi l'alternativa al nulla, al vuoto, alla tristezza? Più una persona sta bene da sola, e più acquista valore la persona con cui decide di stare. Spero tu possa capire quello che cerco di dirti.

Io sto bene da solo ma quando ti ho incontrato è come se in ogni parola che dico nella mia vita ci fosse una lettera del tuo nome, perché alla fine di ogni discorso compari sempre tu. Ho imparato ad amarmi. E visto che stando insieme a te ti donerò me stesso, cercherò di rendere il mio regalo più bello possibile ogni giorno. Mi costringerai ad essere attento. Degno dell'amore che provo per te. [...]

Da questo momento mi tolgo ogni armatura, ogni protezione [...] non sono solo innamorato di te [...], io ti amo. Per questo sono sicuro. Nell'amare ci può essere anche una fase di innamoramento, ma non sempre nell'innamoramento c'è vero amore. Io ti amo. Come non ho mai amato nessuno prima...


Non ho letto (ancora) il romanzo di F. Volo, ma trovo questo brano bellissimo.
Una dichiarazione d'amore che inizia in modo spiazzante con quel «…la mia vita senza di te è meravigliosa»: Che razza di dichiarazione d’amore può mai essere una frase del genere? Sembrerebbe più un voler prendere le distanze, un premunirsi da fallimenti futuri, quasi un insulto… L'autore se ne rende conto e, con un guizzo di genio non indifferente, apre a orizzonti nuovi: «… Se senza di te vivessi una vita squallida, vuota, misera non avrebbe alcun valore rinunciarci per te», e ancora – spostando lo sguardo su di lui – «… Che valore avresti se tu fossi l'alternativa al nulla, al vuoto, alla tristezza? ». Cioè – sembra voler dire – proprio perché anche senza di te io sono felice, io voglio condividere questa felicità con te…

Non so voi, ma a me sembra che il discorso – che esistenzialmente nasce dal tentativo di sciogliere il nodo gordiano del comprendersi tra l’essere-con-sé e l’essere-con-te – è a dir poco sublime. E nelle poche parole dello slancio del cuore, fa una sintesi magistrale della ragione stessa, non solo dell’atto Creativo di Dio – il perché dell’esistente – ma di tutta la storia della Salvezza, dalla prima all’ultima pagina della Bibbia.

E facendo questo, come se non bastasse, spazza letteralmente via duemila anni di quella spiritualità cristiana (che davanti a questa scritto appare piuttosto un simulacro di spiritualità e per niente cristiana) che ha fondato la fede in Cristo e l’appartenenza a lui, sulla ricerca di “senso” alla propria esistenza: Buona parte dell’annuncio cristiano si basa ancora oggi su questo principio, che qui si mostra come inconsistente e per lo meno ambiguo. Perché riduce Cristo, la fede, la religione, la preghiera, l’amore stesso, ecc., a “compensazioni” di mancanze esistenziali che hanno come esito la fuga dal “reale”: «sarei egoista, bisognoso e interessato alla mia sola felicità, e così tu saresti la mia salvezza», scrive!

Da qui si possono trarre degli spunti ulterioni sempre in ambito cristiano...

Dobbiamo avere il coraggio di dircelo chiaramente, senza Gesù Cristo, ci sono miliardi di persone che vivono bene e alcune benissimo. Lo ripeto, senza fede, senza Gesù Cristo, si può vivere bene, eccome. Forse, in quanto credenti, fa male dirselo, ma è la verità che constatiamo ogni giorno, anche in noi stessi.
Verità dolorosa, ma meravigliosa però, perché ci permette di scoprire che solo colui che vive in pienezza la propria vita può, senza piegare la fede ai propri bisogni, vivere un rapporto di fede e di affidamento a Gesù Cristo in tutta autenticità: le letture strumentali del Vangelo nella storia sono lì a ricordarcelo…
Solo allora ci si può decidere per “complicarsi la vita” in un rapporto con l’altro… Con tutto quel che comporta nella vita pratica, la fatica di dare storia al proprio reciproco amore.

Ci possiamo domandare allora se Gesù Cristo “oggi”, è “ancora” un “di più”. Anche a questo credo che possa rispondere il brano «Io ti chiedo di stare con me perché la mia vita in questo momento è veramente meravigliosa, ma con te lo sarebbe ancora di più».

Solo se si arriva a dire questo, l’amore è veramente amore. Perché gratuito, cioè “di Dio”. E solo questo amore, rende ancor più meraviglioso, il meraviglioso che già viviamo: Qualunque sia il punto di partenza con cui iniziamo (con Dio, con le persone, con le cose), questa è per tutti la direzione in cui incamminarsi.

Altre considerazioni potrebbero essere fatte, ma non vorrei allungare eccessivamente il post.
Accenno solo a due aspetti non marginali, presenti nella struttura del testo.
L’imparare a stare bene con sé: ove la “necessaria solitudine” diventa il “luogo” in cui si impara a costruire l’incontro con l’altro.
L’osservazione, indicata solo indirettamente, che l’amore è sempre un incontro tra maturi e non tra immaturità. A qualunque livello questa si situi…

Sinceramente è un brano che consiglierei caldamente a ogni coppia che intendesse intrapprendere (o continuare) un cammino di relazione che non si fondi sul "completamento, da parte dell'altro, di ciò che ci manca".

In ogni caso, grazie ad A.M. che mi ha fatto conoscere questo brano!

Nota: Quando avrò letto il romanzo, vedrò se sarà il caso di commentare ulteriormente il brano... Ho eliminato i commenti che non sono più "attinenti" al post. Mi scuso ancora con le lettrici e lettori del blog.

La banalità del male leghista e il rifiuto di rendere omaggio a quattro bimbi morti - AgoraVox Italia

La banalità del male leghista e il rifiuto di rendere omaggio a quattro bimbi morti

Alla richiesta di alzarsi in piedi e osservare un minuto di silenzio in memoria dei bambini Rom arsi vivi nell’incendio delle loro baracche, il consigliere regionale lombardo della Lega Nord Cesare Bossetti, amministatore di Radio Padania, se n’è rimasto seduto. Dice che doveva finire di leggere il giornale.
Bisogna capire, una volta per tutte, che leghismo e berlusconismo sono il volto nuovo del peggior populismo europeo: di quello che è già divampato sul continente con il nome di  nazi-fascismo.

Quel trattino, che collega due termini non certo omogenei per farne uno nuovo, indica che comunque vi furono tra quei due movimenti, nazismo e fascismo, abbastanza similitudini da poterli trattare, per molti versi, come uno solo.

La fede nel Capo, carismatico e visionario, era comune a nazisti e fascisti esattamente come lo è tra berlusconiani e leghisti.
Le stesse similitudini si possono tracciare per gli altri caratteri che collegano belusconiani e leghisti tra di loro ed ai loro maledetti progenitori.
In comune, innanzitutto, vi è la stessa insofferenza per la democrazia, le sue regole, e per qualunque potere che non sia quello dell'esecutivo incarnato dal capo. Un esecutivo tanto dil.atato da prendere il posto del legislativo - le parole del fhuerer hanno valore di legge - e da ergersi sopra al potere giudiziario; da crearne uno parallelo - i tribunali speciali - asservito ai propri scopi.
Vanno contestualizzate, per usare un verbo di moda, queste osservazioni: è evidente che nell'Europa di oggi, per essere considerato legittimo, un governo debba salvaguardare le forme democratiche, ma a questo e solo a questo, a una questione di forma, si riduce il valore che berlusconiani e leghisti attribuiscono alla democrazia liberale.

Di più ancora: sia Berlusconi che Bossi hanno cercato di far passare l'idea che esista una "costituzione reale", patto di coesione del popolo "reale" che in loro si riconosce, diversa da quella lasciataci dai Padri della Repubblica, dipinta come un'artificosa costruzione intellettuale, per di più influenzata dalle potenze vincitrici; una Costituzione avente puro valore formale, per l'appunto, e di cui non si dovrebbe tener troppo conto in attesa, quanto prima, di cambiarla fino a renderla irriconoscibile.
Il rapporto con l'estero dei moderni populismi è, poi, assolutamente identico a quello dei vecchi.
L’estero, inteso come esterno, è il palcoscenico, soprattutto per Berlusconi, delle relazioni internazionali, dei congressi e dei trattati, in cui ottenere riconoscimenti e successi - reali o meno - ad uso della propaganda domestica nel più mussolinia.no dei modi.

L’estero, inteso come differente, diverso, è, invece, ora modello da seguire sulla strada della modernizzazione - pensate a Bossi e alle sue idee sul federalismo, ma anche ai continui esempi americani, francesi e tedeschi che Berlusconi ed i suoi usa.no per sostenere le proprie tesi - e ora, sempre più spesso, ambiente ostile dove le virtù del Capo non sono comprese o, addirittura, proprio perché sono capite, vengono sminuite dagli stranieri nemici ed invidiosi.
Stranieri, diversi, asociali, specie quelli presenti dentro i confini nazionali: nemici dei Capi di allora, e dei loro sostenitori, quanto dei capi di oggi.

Non c’è nulla di più gratificante per un popolo che sentirsi indicare come depositario di tutte le virtù, come fa Bossi con i “padani”, e niente di più assolutorio che vedersi indicare negli altri i responsabili dei propri problemi.
Zingari ed extracomunitari in genere sono per il leghisti quel che erano i non ariani per i nazisti: mali da sradicare dal - o da limitare nello sviluppo nel - corpo della società; comunità che riconoscono altri valori, altri poteri, oltre a quelli del regime. Il cinese di oggi come l’ebreo di ieri è visto e descritto come un profittatore, un parassita; la causa prima di tutti, o quasi, i problemi che la vita d’ogni giorno ci presenta.
Una Padania senza immigrati, zingari e meridionali, insomma, sarebbe un paradiso.
Questo discorso, quasi punto per punto, lo si potrebbe ripetere per Berlusconi e il suo rapporto con gli oppositori politici, tutti indistintamente raccolti sotto l’etichetta di comunisti. Sono i comunisti che non gli permettono di trasformare il paese come vorrebbe; che non gli consentono di fare dell’italia un nuovo eldorado. Sono antropologicamente diversi - lo dice dei magistrati, a dire il vero; gli oppositori si limita definirli cog.lioni - mossi solo dall’invidia oltre che dall’odio ideologico e, si torna a quanto detto poco sopra, in combutta con le potenze straniere nemiche dell’Italia.

Berlusconiani e leghisti, insomma, esattamente come i nazi-fascisti, operano una riduzione al minimo del dibattito politico; dividono la società e più in generale il mondo in un noi ed un loro. Al noi, di cui il capo, prima d’ogni altra cosa, è elemento identitario, totem, tutto è dovuto; al loro, che in un modo o nell’altro nel capo non si riconosce, invece non spetta proprio nulla. A partire dal rispetto.
Non c’è quindi nulla di sorprendente nel rifiuto del parlamentare regionali leghista di alzarsi per rendere omaggio a dei bambini zingari morti; è un comportamento perfettamente in linea con quello che i dirigenti di quel partito vanno predicando, da decenni, a chi li voglia stare ad ascoltare.
E’ l’ennesima dimostrazione che il leghismo, come il berlusconismo, non è un normale movimento politico; non è un normale avversario da combattere con gli schemi mentali della vecchia politica.
Berlusconismo e leghismo sono due cancri della democrazia e come tali vanno curati.
Sbagliatissimo, come è stato fatto in passato, cercare di metabolizzarli; altrettanto sbagliato scendere al loro livello, o ancor più in basso, ricorrendo ad armi diverse da quelle previste dalla costituzione per combatterli.
Sono loro stessi, nel loro definirci tutti assieme altro, a suggerirci che fare.
Oggi e per il prossimo futuro dobbiamo considerarci, tutti noi che non ci riconosciamo nei capi e nei loro deliri, parte di uno stesso fronte comune.

L’essere contro, quando si hanno di fronte simili avversari, è ora, esattamente come lo fu per i nostri padri fino alla sconfitta definitiva del nazi-fascismo, sufficiente a darci un’identità; a qualificarci prima d’ogni altra considerazione.
Chiunque non la pensi in questo modo ritiene il berlusconismo ed il leghismo normali, potabili, accettabili.
 E’ stolto, complice o tutte e due le cose.

In: La banalità del male leghista e il rifiuto di rendere omaggio a quattro bimbi morti - AgoraVox Italia

venerdì 11 febbraio 2011

Rivoluzione

dal sito... (clicca sul titolo)

VI Domenica del Tempo Ordinario: Avete inteso che fu detto… Ma io vi dico

Il vangelo che la Chiesa ci propone per questa sesta domenica del Tempo Ordinario è il proseguimento del discorso della montagna iniziato ormai due domeniche fa con il testo delle beatitudini.


Il versetto 17, quello che inaugura il brano odierno, e il discorso che a partire da esso Gesù pronuncia, suscita però, rispetto ai toni dei vangeli delle ultime due domeniche, qualche istintiva perplessità: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli». Una perplessità, dovuta al fatto che non siamo più molto abituati ad avere a che fare con un Gesù “intransigente”, soprattutto sui cavilli della Legge (che infatti lui stesso trasgredirà nella sua vita, basti pensare al vespaio che suscitano i suoi miracoli in giorno di sabato…). Perché dunque – proprio nel momento in cui fa un discorso programmatico sulla sua vita e sulla vita della Chiesa (in questo infatti consiste il discorso della montagna) – introduce questa “intransigenza”? Come va interpretata?

Mi pare che, innanzitutto, per non farsi trascinare in letture non conformi al più ampio contesto evangelico, sia utile chiedersi quale sia, dal punto di vista di Dio (e di Gesù), il senso della Legge… Perché se diamo troppo per scontato che la Legge sia quella “cosa” che abbiamo in testa noi, cadere in cortocircuiti ermeneutici è molto facile… Se invece proviamo ad andare ad indagare il significato profondo che il dono della Legge ha nel testo biblico (interessante la locuzione “dono della Legge”… perché noi, che istintivamente la sentiamo come un qualcosa di ostico e opprimente, facciamo fatica a considerarla un dono… e già questo dovrebbe farci spuntare un campanellino d’allarme… perché, forse, quello che istintivamente pensiamo, non è esattamente il pensiero di Dio – e di Gesù – in proposito…), forse riusciremo anche a capire meglio il senso dell’“intransigenza” che Gesù propone nella sua osservazione…
Dunque cimentiamoci in un piccolo excursus… Innanzitutto una curiosità: la parola latina testamentum deriva da quella greca diatheke, che, a sua volta, è la traduzione di una parola ebraica (berit), che vuol dire “alleanza”. Perciò i nostri “Antico” e “Nuovo Testamento” non vogliono dire altro che “antica” e “nuova alleanza”… Essi cioè sono la storia di come Dio liberamente e gratuitamente decide di stringere con l’uomo un rapporto di amicizia.

L’amicizia che però Dio propone, la sua alleanza, ha contorni diversi da quelli delle nostre “amicizie/alleanze” umane: noi – solitamente – per “alleanza” (anche per quelle non sancite giuridicamente, come le amicizie) intendiamo un accordo tra due o più persone all’interno del quale avviene come uno scambio, fatto di reciprocità nell’offerta e nei benefici messi in campo. Esempio evidente è un contratto d’affitto (ma in genere tutte le alleanze economiche, fondate sul do ut des): uno mette a disposizione la casa e ci guadagna i soldi; l’altro mette a disposizione dei soldi e ci guadagna la possibilità di abitare in una casa.

Dicevo, anche nelle alleanze non sancite giuridicamente noi “funzioniamo” un po’ così: in un’amicizia ti offro il mio bene, la mia confidenza, la mia vicinanza, ma in cambio mi aspetto altrettanto bene, altrettanta confidenza, altrettanta vicinanza…

Bene, l’alleanza proposta da Dio funziona altrimenti: innanzitutto – se si segue un po’ il testo biblico – ci si accorge che l’iniziativa è sua e consiste in una gratuita disposizione ad essere amico/alleato del popolo. Per esempio Dio non chiede nulla in cambio della cessazione del diluvio universale: fa un patto unilaterale, in cui si offre come “il Dio del popolo di Israele”.

Inoltre – e veniamo a ciò che più direttamente ci interessa – anche quando sembra faccia un patto bilaterale (proponendosi come “il Dio del popolo”, quindi proponendosi come guida, protettore, custode, ecc… e chiedendo “in cambio” che “Israele sia il popolo di Dio” osservando le tavole della Legge del Sinai) in realtà, nuovamente, segue criteri diversi da quelli del do ut des. Sarebbe infatti interessante chiedersi perché Dio dà una Legge al suo popolo… a che pro? Cosa ci guadagna?

Lui non è che diventa “più Dio” se l’uomo osserva la sua Legge… anzi… proprio il contrario: è l’uomo che diventa “più uomo” se osserva la Legge… Cioè, forse, il modo giusto per guardare ai comandamenti di Dio non è tanto quello che ci ha introiettato una certa morale del contrappasso (devi osservare la Legge, altrimenti Dio ti punisce), quanto piuttosto quello di intendere la Legge come quei consigli che – dentro alla confidenza di un’amicizia – Dio si permette di dare all’uomo per suggerirgli un modo bello per essere uomo. Dei “consigli” dunque, non un’imposizione sotto minaccia di repressione! E con il fine, non di guadagnarci Lui (Dio), ma di consegnare all’uomo qualche suggerimento per arrivare alla fine della vita e – guardandosi indietro – essere contenti di ciò che si è diventati. Una Legge per l’uomo dunque, per la sua felicità, per la sua umanizzazione! Dei consigli che – certo – l’uomo può non seguire (senza per questo incorrere nella punizione di Dio), ma – sembra suggerire il testo biblico – col rischio di immischiarsi col male, che la prima persona che abbruttisce (dis-umanizza) è esattamente chi lo fa!

Ma, se dunque è questo il senso vero della Legge (e Gesù lo ribadirà continuamente, tant’è che a chi lo accusava di trasgredire l’osservanza del riposo sabbatico, risponderà: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!», Mc 2,27), allora, forse, si inquadra meglio l’invito di Gesù ad un’intransigenza. Come a dire: quei “consigli” che Dio ha dato ad Israele per vivere una vita buona (che in greco coincide con “bella”), io non li invalido, anzi li voglio portare a compimento!

E infatti ecco l’elenco dei suoi “Avete inteso che fu detto / ma io vi dico”, dove ciò che è importante non è tanto – almeno a mio parere – la casuistica che Egli propone (son solo esempi, lascia fuori molte cose, dunque non ha certo qui una pretesa catalogativa esaustiva), quanto piuttosto l’evincere un criterio che possa farci capire cosa Gesù, con così tanta forza, voglia sostenere: e cioè, che il problema non è (l’ipocrisia del) l’osservanza legalistica della Legge (che appunto rimanda ad un’interpretazione errata di cosa sia la Legge, dal punto di vista di Dio e dunque di Gesù), ma la disposizione interiore del cuore dell’uomo verso il suo prossimo, l’intenzione del suo cuore, il modo di sentirlo, pensarlo, mettirglisi di fronte… Questo è il punto: se in una logica che rende bella la vita (una logica di Vita appunto, di donazione della vita, cioè di amore: l’unica cosa che – a dar retta a Dio e a Gesù – fa bella la vita), o una logica di sopraffazione e morte (che disumanizza l’uomo, soprattutto quello che la attua, più ancora di quello che la subisce)…

In questo senso allora torna interessante l’osservazione che fa il libro del Siracide nella prima lettura: «Se tu vuoi, puoi osservare i comandamenti; l’essere fedele [felice, nel senso di Dio, cioè amante e perciò contento di ciò che sei diventato] dipende dalla tua buona volontà. Egli ti ha posto davanti fuoco e acqua: là dove vuoi tendi la tua mano. Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà».

A noi non piace questo discorso sulla “buona volontà”. Troppo immediatamente infatti ci risuonano nelle orecchie dinamiche di volontarismo che ci hanno introiettato da piccoli (devi essere bravo, se no… devi riuscire, se no… devi essere adeguato sempre, se no…). Ma qui – se proviamo a staccarci dal senso che noi diamo a queste parole e riusciamo a prenderle nel senso che hanno in loro stesse – vediamo che l’accento è del tutto diverso: qui si parla di quell’educazione interiore di sé che pian piano cura l’istinto di sopraffazione, di violenza, di omicidio che abbiamo nei confronti degli altri, per abituarci (gli antichi non a caso parlavano di habitus, una virtù talmente sedimentata da aver plasmato ormai la mia interiorità, cosicché non devo neanche più sforzarmi per essere quella cosa lì, perché ormai la sono diventata) a guardarli, sentirli, pensarli e mettersi di fronte a loro con lo sguardo della custodia, come per una cosa preziosissima che ho… Tutti gli “ma io vi dico” vanno infatti in questa direzione…

Per questo c’è bisogno di una “recisione” («se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te», «se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te»)… altro termine che a noi non piace… perché l’abbiamo sempre inteso come una recisione di qualcosa di nostro, che ci fa, ci costituisce, per cui “reciderlo” sarebbe una castrazione… Invece qui si intende recidere una logica… impedirsi proprio di attuarla, e poi – pian piano – anche pensarla; e poi – pian piano – anche sentirla… per lasciar sempre più spazio ad un altro modo di porci di fronte agli altri, di pensarli, di sentirli…

E a chi dice che tutto questo è impossibile, Paolo risponde: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti conosce bene ogni cosa, anche le profondità di Dio».

E io vi dico: io non sono capace, ma ho visto chi – pian piano – in vita, si è trasfigurato in questo modo! E perciò ci credo. E ci provo.

L'ultimo Antipapa

Penso che dopo questa ultima sortita di Berlusconi, il Magistero della chiesa, Papa in testa, debba cominciare a preoccuparsi seriamente.

Il movimento capeggiato da Giuliano Ferrara (che con tutta evidenza si sta rivelando “più ateo che devoto”) fonda la “difesa” di Berlusconi su una presunta campagna giacobina e moralista del mondo puritano italiano: proprio lui che ha fondato un movimento puritano contro la legge dell’aborto, riconosciuta da tempo “il miglior compromesso possibile” persino da Ruini!

Solo che Berlusconi infilandosi a testa bassa in questo pertugio difensivo non si accorge che così facendo peggiora ancor di più la propria situazione “morale” proprio in quegli ambienti cattolici a cui in primis sembra intendere rivolgersi per recuperare quel consenso che sta visibilmente perdendo.

Infatti il suo discorso, impostato sulla falsariga di quello di Ferrara (che ha già dimostrato quanta poca comprensione ha del cattolico elettorato) e supportato a spada tratta dai suoi politici, diciamo così, “riconoscenti” e per questo legati a filo doppio al suo destino politico, si configura come una vera e propria eresia propinata a quell’elettorato che allo stesso tempo costituisce di fatto il “gregge” affidato ai Pastori della Chiesa.

Ma in questo modo Berlusconi, (che continua legittimamente a professarsi cattolico, e fino a “scomunica comminata” è un suo diritto), facendo da contraltare alla vera dottrina cattolica sul peccato, e quindi auto-costituendosi come “fonte normativa magisteriale” della dottrina morale cattolica, comincia a configurarsi come un autentico antipapa scismatico, all’interno del mondo cattolico: soprattutto se c’è come sembra, qualche pio fedele che – ignorando quello del Papa – comincia a credere al suo discorso.

Di fatto, definendosi “peccatore” e chiedendo per questo “al popolo sovrano” una assoluzione generale sui peccati di cui è indagato in quanto reati, Berlusconi fa volutamente una grave confusione dottrinale tra legge e peccato, tra giustizia di Dio e giustizia umana, tra assoluzione e immunità, tra pena e colpa, tra foro interno ed foro esterno… Contrariamente alla dottrina cattolica che afferma, distinguendo, che ci sono peccati e reati e non sempre le due cose coincidono.

Inoltre la dottrina morale cattolica dichiara espressamente che se non ci sono ragioni “proporzionate di coscienza”, alla legge è dovuta obbedienza (anche se ritenuta personalmente ingiusta!) e la sua violazione costituisce formalmente “peccato”. Per cui: è peccato passare col rosso; è peccato parcheggiare fregandosene degli altri; è peccato non pagare le tasse; è peccato non andare a votare; è peccato saltare la coda; è peccato non rispettare la raccolta differenziata; è peccato inquinare… Molti qui arricceranno il naso anche in ambito cattolico, ma io ho citato espressamente questi casi perché col tempo alcuni di questi comportamenti sono stati declassati dal sentire comune a semplice “cattiva educazione”, ma la dottrina cattolica che vede l’individuo sempre inserito all’interno di una comunità umana più ampia, li ha da sempre configurati come peccati. Certo, c’è peccato e peccato, ma pur sempre di peccato si tratta, in quanto figlio di un menefreghismo egoista che disprezza il “prossimo”…

Tornando al tema della “dottrina berlusconiana del peccato”, ripeto, la esplicita confusione tra peccato e reato, con tutta evidenza finalizzata alla propria incolumità non solo politica, costituisce un vulnus nella dottrina cattolica e, siccome è propinata alla gente come “verità morale”, si configura come un tentativo di formulare una dottrina contraria agli insegnamenti della chiesa e quindi formalmente eretica e fautrice di movimenti scismatici.

Visto che non posso dilungarmi in un corso di morale, sintetizzo: Ci sono reati che non sono peccato; ci sono peccati che non sono reati; ci sono peccati che sono reati! In ogni caso da sempre nella dottrina morale cattolica, anche qualora un cristiano per obbligo di coscienza viola la legge, sempre in coscienza se ne deve assumere la responsabilità civile e penale; sociale e politica ed economica… Se questo vale persino per dei fatti che riguardano la coscienza, questo vale ancor di più per fatti come la concussione e l’incitamento alla prostituzione minorile, dove l’obiezione di coscienza non può, con tutta evidenza, essere usata come giustificazione di tali comportamenti.

In ogni caso nella dottrina cattolica mai l’assoluzione del peccato costituisce assoluzione del reato! A questo invece punta Berlusconi col suo eretico discorso, ma facendo questo incorre in un peccato (non reato!) questo sì imperdonabili.

E sia detto per inciso, qualora un peccato si configura come reato, esso esce necessariamente dalla sfera del privato e si configura come atto pubblico. Sempre! Anche quando si consuma all’interno della sfera privata della propria intimità personale. Quindi è falso che ci sia violazione della privacy da parte dei giudici, semmai è il contrario: è la privacy che viene usata per fare violenza al suo contrario, alla collettività…

Quindi si rassicurino Berlusconi e Ferrara, il fratello Berlusconi è già formalmente “perdonato” dall’elettorato devoto… e proprio questo perdono esige che lui (smettendo di dire eresie) dei suoi peccati se ne assuma la piena responsabilità civile, penale, politica, economica, sociale oltre che ecclesiale… in una parola storica. E proprio a questo mira quella “penitenza” che il prete formula durante il sacramento della confessione: solo qui l’assoluzione diventa effettiva! Solo con la esplicita assunzione delle proprie responsabilità storiche del proprio peccato nella forma di un tentativo di avviare un cammino di conversione nei comportamenti concreti del proprio vissuto (a cui ben poco servono le classiche “tre avemarie”). Perché lo ribadisco, l’assoluzione del peccato non assolve mai dal reato (e viceversa)! O per usare un linguaggio più classico: l’assoluzione della colpa non toglie la pena!

Ci fa piacere che Berlusconi quindi si consideri peccatore (e Ferrara con lui), ma propri l’essere peccatore esige che si assuma le conseguenze storiche del proprio peccato, andando dai giudici di Milano (che gli contestano il reato non il peccato!) e non ponendo mille ostacoli per sottrarsi alle proprie responsabilità come sta invece facendo. Così facendo però accentua ulteriormente quella deriva etica che (oltre a rendere il peccato imperdonabile, finché persiste tale comportamento) diffonde il proprio peccato all’intera collettività proponendosi non solo come modello da imitare (che dovrebbero invece imitare il Cristo), ma anche colui che dà giustificazione dottrinale del proprio peccato accentuando ulteriormente il degrado morale della collettività e ampliando ulteriormente il “disastro antropologico”.

Non so se siamo di fronte a una apologia del reato, ma certamente siamo davanti a una apologia del peccato che dovrebbe non poco impensierire quelle alte sfere del magistero che avrebbero dovuto vegliare sul gregge a loro affidato e che invece interessi di basso mercato ha portato dapprima a chiudere un occhio, poi a turarsi il naso, quindi anche le orecchie ed ora entrambi gli occhi: se continuano così resterà loro ben poco di scoperto per potersi rendere ancora riconoscibili dagli agnelli del gregge di Dio.

sabato 5 febbraio 2011

V Domenica del Tempo Ordinario: Insaporiremo e illumineremo la storia con l'amore che sapremo far circolare

In questa quinta domenica del Tempo Ordinario (e nelle prossime tre) torniamo a guardare parole evangeliche che da tanto tempo non sentivamo… tre anni fa, infatti, in questo stesso periodo dell’anno, eravamo già in Quaresima e i brani di questo mese di febbraio erano sostituiti con i testi specifici di quel periodo – cosiddetto – “forte”.


Quest’anno invece, con una Pasqua così lontana, facciamo in tempo ad ascoltarci gran parte del “Discorso della montagna” (Mt 5,1-7,29) – e per fortuna (!) perché è una delle sezioni più significative del vangelo – cosicché dopo le beatitudini di settimana scorsa, ci ritroviamo oggi fra le mani il proseguimento di quel medesimo discorso che Gesù fa alle folle e in particolare ai suoi. Sono loro quel “voi” a cui fa appello al termine dell’elenco delle beatitudini: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli».

Se è vero – come dicevamo settimana scorsa – che l’idea di felicità che emerge dall’elenco dei beati che Gesù fa, è quella di chi nella vita si dà come unico e assoluto scopo quello di alzare il tasso d’amore nel mondo, anche l’essere “sale” e l’essere “luce” non può che andare in questo senso. Per Gesù il sapore da dare a questa nostra storia umana (personale e universale) e la luce sotto cui metterla è quella del bene dell’altro…

E questo per rendere «gloria al Padre vostro che è nei cieli».

È su questo punto che vorrei soffermarmi oggi… Su questa curiosa espressione “rendere gloria a Dio” (che Gesù chiama sempre Padre). Perché mi chiedevo… Cosa vorrà dire questo “rendere gloria”? Istintivamente mi saltano alla mente le teofanie dell’Antico Testamento, o gli incensi dei nostri riti religiosi, o momenti di particolare devozione…

Eppure le parole “stroncanti” di Gesù nel vangelo di Giovanni («Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. […] Viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità», Gv 4,22-23) giungono come un monito a frenare questo sviluppo semantico della locuzione “rendere gloria a Dio”.

Allora, forse, è meglio scendere un po’ più “terra terra” e provare a dire con parole nostre cosa potrebbe significare questa espressione… che a me, per esempio, diviene chiara se provo a sostituirla con quest’altra: “far contento il Padre”… che è molto diverso dall’accontentarlo!

So che forse letteralmente non è proprio la stessa cosa e che gli studiosi del greco biblico e della filologia avrebbero qualcosa (di più preciso) da dire… Però, mi pare che tradurre “rendere gloria a Dio” con “farlo contento” renda bene l’idea di quello che voleva dire Gesù…

Soprattutto perché, se stiamo a vedere, ciò che invera questo invito sono – curiosamente – le «vostre opere buone» sulla terra! Esse fanno contento il Padre «che è nei cieli».

E in cosa consistano queste “opere buone” sulla terra, è lì a ricordarcelo in maniera inequivocabile la prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia: «Non consiste forse [il digiuno che voglio] nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà. Allora invocherai e il Signore ti risponderà, implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”. Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio».

Dove la cosa curiosa è lo strano modo che il Padre ha di chiedere una corrispondenza al suo amore: “Io ti amo” – dice il Padre (e questo è indubbio, è la buona notizia del vangelo per tutti, anche per i più peccatoracci di tutti! È ciò che è ‘fuori discussione’ per Gesù, che ha speso tutta la sua vita solo per dirci questo, senza arretrare mai di un passettino, neanche quando lo scontro s’è fatto duro e per testimoniare fino alla fine solo l’amore, ha deciso di farsi male solo lui – nessun altro si fa male durante la sua passione, perché anche il servo a cui viene tagliato l’orecchio, lui lo guarisce! Nessuno viene nemmeno maledetto: Gesù muore perdonando i suoi carnefici: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno», Lc 23,34… Solo lui muore della morte dei maledetti: «l’appeso è una maledizione di Dio», Dt 21,23. È la vittoria dell’inappellabilità del suo amore: non lo ha smentito mai, nemmeno quando – umanamente parlando – avrebbe avuto il diritto di dire “adesso basta”… e invece no… il basta non arriva mai…). “Io ti amo – dice dunque il Padre – se vuoi accogliere il mio bene e ricambiarlo, beh, fallo ricircolare su un altro, ama tuo fratello, il tuo prossimo, chi ti si pone sul cammino…”.

Ecco l’inedito! Come se io avessi un moroso e gli dicessi: “Sì però ricambia il mio bene amando un’altra…”… Ma come!!?!? È un po’ strano… Ma è così perché per Lui ogni “altro”, ogni “altra” è suo/sua! Cosa che a noi, invece, risulta una logica inconcepibile, o perlomeno molto difficile da accettare e incarnare… per questo ci facciamo continuamente la guerra (e non solo quella con le armi… ma quella dell’affermazione dell’io…).

Invece Lui che è nei cieli, ma è molto più “terra terra” di noi, ci invita a sostenere lo sguardo di fronte a questo inaudito modo di stare al mondo, perché è quello vero, è quello che porta alla beatitudine di cui parlavamo domenica scorsa… È l’invito a non perderci in tante parole e cerimonie, incensi e devozioni, ma a far vedere che accogliamo e ricambiamo il suo amore, amando i nostri fratelli, suoi figli: «Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20). Non a caso, quando Gesù invia i suoi ad annunciare il vangelo (cioè la buona notizia che Dio è un Padre che ama i suoi figli), li manda a due a due, convinto com’è che renderanno testimonianza non per le grandi parole che diranno o per le grandi opere che faranno, ma per l’amore con cui si ameranno: questo persuaderà le genti: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).

Ma è evidente che per fare tutto questo è necessaria una conversione… perché noi ancora non siamo persuasi che Dio sia sempre e solo un Padre da cui viene sempre e solo il bene per l’uomo (anche peccatore, come me!). È per questo che Gesù vi insiste tanto e non fa nient’altro – praticamente – nella vita che ribadire, nelle parole e nei gesti, nelle scelte e nelle reazioni, nelle relazioni e nei modi di porsi, che il Dio vero è il Papà (l’Abbà) degli uomini, Colui che li abilita a vivere e dal quale non hanno niente da temere. Vi insiste tanto, soprattutto coi suoi, perché sa che «Si è immagine per gli altri solo di quel Dio che si ha dentro» [Giuliano] e se si vuole arrivare fino ai confini del mondo col vangelo, è per dare l’annuncio lieto di un Dio così, non di un altro, fatto a nostra immagine…

Uno che indubbiamente c’è riuscito è san Francesco, che non a caso, in una lettera ad un superiore, scrive:

«In questo modo intendo conoscere se tu ami il Signore e me servo suo e tuo, se farai questo, cioè che non vi sia alcun frate nel mondo, che avrà peccato quanto poté peccare, che dopo aver visto i tuoi occhi, non si allontani senza aver avuto il tuo perdono, se chiede il tuo perdono. E se non chiede perdono, chiedigli tu se vuole essere perdonato. E se poi peccasse migliaia di volte davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo, per trarlo al Signore; e abbi sempre misericordia di questi frati…».
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