Pagine

ATTENZIONE!


Ci è stato segnalato che alcuni link audio e/o video sono, come si dice in gergo, “morti”. Se insomma cliccate su un file e trovate che non sia più disponibile, vi preghiamo di segnalarcelo nei commenti al post interessato. Capite bene che ripassare tutto il blog per verificarlo, richiederebbe quel (troppo) tempo che non abbiamo… Se ci tenete quindi a riaverli: collaborate! Da parte nostra cercheremo di renderli di nuovo disponibili al più presto. Promesso! Grazie.

martedì 29 novembre 2011

Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso?(Lc 6,39)

Un Audit[1]del debito di Guido Vitale, 29/11/11 su «Il Manifesto».


Agli storici del futuro (se il genere umano sopravviverà alla crisi climatica e la civiltà al disastro economico) il trentennio appena trascorso apparirà finalmente per quello che è stato: un periodo di obnubilamento, di dittatura dell’ignoranza, di egemonia di un pensiero unico liberista sintetizzato dai detti dei due suoi principali esponenti: «La società non esiste. Esistono solo gli individui», cioè i soggetti dello scambio, cioè il mercato (Margaret Thatcher); e «Il governo non è la soluzione ma il problema», cioè, comandi il mercato! (Ronald Reagan). Il liberismo ha di fatto esonerato dall’onere del pensiero e dell’azione la generalità dei suoi adepti, consapevoli o inconsapevoli che siano; perché a governare economia e convivenza, al più con qualche correzione, provvede già il mercato. Anzi, “i mercati”; questo recente slittamento semantico dal singolare al plurale non rispecchia certo un’attenzione per le distinzioni settoriali o geografiche (metti, tra il mercato dell’auto e quello dei cereali; o tra il mercato mondiale del petrolio e quello di frutta e verdura della strada accanto); bensì un’inconscia percezione del fatto che a regolare o sregolare le nostra vite ci sono diversi (pochi) soggetti molto concreti, alcuni con nome e cognome, altri con marchi di banche, fondi e assicurazioni, ma tutti inarrivabili e capricciosi come dèi dell’Olimpo (Marco Bersani); ai quali sono state consegnate le chiavi della vita economica, e non solo economica, del pianeta Terra. Questa delega ai “mercati” ha significato la rinuncia a un’idea, a qualsiasi idea, di governo e, a maggior ragione, di autogoverno: la morte della politica. La crisi della sinistra novecentesca, europea e mondiale, ma anche della destra    quella “vera”, come la vorrebbero quelli di sinistra    è tutta qui.

Ma, dopo la lunga notte seguita al tramonto dei movimenti degli anni sessanta e settanta, il caos in cui ci ha gettato quella delega sta aprendo gli occhi a molti: indignados, gioventù araba in rivolta, e i tanti Occupy. Poco importa che non abbiano ancora “un vero programma” (come gli rinfacciano tanti politici spocchiosi): sanno che cosa vogliono.
Mentre i politici spocchiosi non lo sanno: vogliono solo quello che “i mercati” gli ingiungono di volere. È il mondo, e sono le nostre vite, a dover essere ripensati dalle fondamenta. Negli anni il liberismo    risposta vincente alle lotte, ai movimenti e alle conquiste di quattro decenni fa    ha prodotto un immane trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale: mediamente, si calcola, del 10 per cento dei Pil (il che, per un salario al fondo alla scala dei redditi può voler dire un dimezzamento; come negli Usa, dove il potere di acquisto di una famiglia con due stipendi di oggi equivale a quello di una famiglia monoreddito degli anni sessanta). Questo trasferimento è stato favorito dalle tecnologie informatiche, dalla precarizzazione e dalle delocalizzazioni che quelle tecnologie hanno reso possibili; ma è stato soprattutto il frutto della deregolamentazione della finanza e della libera circolazione dei capitali. Tutto quel denaro passato dal lavoro al capitale non è stato infatti investito, se non in minima parte, in attività produttive; è andato ad alimentare i mercati finanziari, dove si è moltiplicato e ha trovato, grazie alla soppressione di ogni regola, il modo per riprodursi per partenogenesi. Si calcola che i valori finanziari in circolazione siano da dieci a venti volte maggiori del Pil mondiale (cioè di tutte le merci prodotte nel mondo in un anno, che si stima valgano circa 75 mila miliardi di dollari). Ma non sono state certo le banche centrali a creare e mettere in circolazione quella montagna di denaro; e meno che mai è stata la Banca centrale europea (Bce), che per statuto non può farlo (anche se in effetti un po’ lo ha fatto e continua a farlo, per così dire, “di nascosto”). Se la Bceè oggi impotente di fronte alla speculazione sui titoli di stato (i cosiddetti debiti sovrani) è perché lo statuto che le vieta di “creare moneta” è stato adottato per fare da argine in tutto il continente alle rivendicazioni salariali e alle spese per il welfare. Una scelta consapevole quanto miope, che forse oggi, di fronte al disastro imminente, sono in molti a rimpiangere di aver fatto. A creare quella montagna di denaro è stato invece il capitale finanziario che si è autoriprodotto; i “mercati”. E lo hanno fatto perché tutti i governi glielo hanno permesso. Certo, in gran parte si tratta di “denaro virtuale”: se tutto insieme precipitasse dal cielo sulla terra, non troverebbe di fronte a sé una quantità altrettanto grande di merci da comprare. Ciò non toglie che ogni tanto    anzi molto spesso    una parte di quel denaro virtuale abbandoni la sfera celeste e si materializzi nell’acquisto di un’azienda, una banca, un albergo, un’isola; o di ville, tenute, gioielli, auto e vacanze di lusso. A quel punto non è più denaro virtuale, bensì potere reale sulla vita, sul lavoro e sulla sicurezza di migliaia e migliaia di esseri umani: un crimine contro l’umanità.

È un meccanismo complicato, ma facile da capire: in ultima analisi, quel denaro “fittizio”    che fittizio non è    si crea con il debito e si moltiplica pagando il debito con altro debito: in questa spirale sono stati coinvolti famiglie (con i famigerati mutui subprime; ma anche con carte di credito, vendite a rate e “prestiti d’onore”), imprese, banche, assicurazioni, Stati; e, una volta messi in moto, quei debiti rimbalzano dagli uni agli altri: dai mutui alle banche, da queste ai circuiti finanziari, e poi di nuovo alle banche, e poi ai governi accorsi in aiuto delle banche, e dalle banche di nuovo agli Stati. E non se ne esce, se non    probabilmente    con una generale bancarotta.

In termini tecnici, l’idea di pagare il debito con altro debito si chiama “schema Ponzi”, dal nome di un finanziere che l’aveva messa in pratica negli anni ‘30 del secolo scorso (al giorno d’oggi quell’idea l’hanno riportata in vita il finanziere newyorchese Bernard Madoff e, probabilmente, molti altri); ma è una pratica vecchia come il mondo, tanto che in Italia ha anche un santo protettore: si chiama “catena di Sant’Antonio”. In realtà, tutta la bolla finanziaria che ci sovrasta non è che un immane schema Ponzi. E anche i debiti degli Stati lo sono. Il vero problema è sgonfiare quella bolla in modo drastico, prima che esploda tra le mani degli apprendisti stregoni dei governi che ne hanno permesso la creazione. Nell’immediato, un maggiore impegno del fondo salvastati, o del Fmi, o gli eurobond, o il coinvolgimento della Bce nell’acquisto di una parte dei debiti pubblici europei potrebbero allentare le tensioni. Ma sul lungo periodo è l’intera bolla che va in qualche modo sgonfiata.

Prendiamo l’Italia: paghiamo quest’anno 70 miliardi di interessi sul debito pubblico (che è di circa 1900 miliardi). L’anno prossimo saranno di più, perché gli interessi da pagare aumentano con lo spread. Negli anni passati a volte erano meno, ma a volte, in proporzione, anche di più. Quasi mai sono stati pagati con le entrate fiscali dell’anno (il cosiddetto avanzo primario); quasi sempre con un aumento del debito. Basta mettere in fila questi interessi per una trentina di anni    da quando hanno cominciato a correre   e abbiamo una buona metà, e anche più, di quel debito che mette alle corde l’economia del paese e impedisce a tutti noi di decidere come e da chi essere governati. Perché a deciderlo è ormai la Bce. Ma la vera origine del debito italiano è ancora più semplice: l’evasione fiscale. Ogni anno è di 120 miliardi o cifre equivalenti: così, senza neanche scomodare i costi di “politica”, della corruzione o della malavita organizzata, bastano quindici anni di evasione fiscale    e ci stanno    per spiegare i 1900 miliardi del debito italiano. Aggiungi che coloro che hanno evaso le tasse sono in buona parte    non tutti    gli stessi che hanno incassato gli interessi sul debito e il cerchio si chiude. La spesa pubblica in deficit ha la sua utilità se rimette in moto “risorse inutilizzate”: lavoratori disoccupati e impianti fermi. Ma se alimenta evasione fiscale e “risparmi” che vanno solo ad accrescere la bolla finanziaria, è una sciagura.

Altro che pensioni da tagliare (anche se le ingiustizie da correggere in questo campo sono molte)! E altro che scuola, e università, e sanità, e assistenza troppo “generose”! Siamo di fronte a cifre incomparabili: per distruggere scuola e Università è bastato tagliare pochi miliardi di euro all’anno. E da una “riforma” anche molto severa delle pensioni si può ricavare solo qualche miliardo di euro all’anno. Dalla svendita degli immobili dello Stato e dei servizi pubblici locali non si ricava molto di più. Dalla liquidazione di Eni, Enel, Ferrovie, Finmeccanica, Fincantieri e quant’altro, come improvvidamente suggerito nel luglio scorso dai bocconiani Perotti e Zingales (l’economista di riferimento, quest’ultimo, di Matteo Renzi; ma anche di Sarah Palin!), si ricaverebbe non più di qualche decina di miliardi una volta per sempre, trasferendo in mani ignote (ma potrebbero benissimo essere quelle della mafia) le leve dell’economia di un intero paese.

Mentre interessi ed evasione fiscale ammontano a decine di miliardi ogni anno e il debito da “saldare” si conta in migliaia di miliardi. Per questo il rigore promesso dal governopotrà fare male ai molti che non se lo meritano, ma non ha grandi prospettive di successo: affrontare con queste armi il deficit pubblico, o addirittura il debito, è un’impresa votata al fallimento. O una truffa. Per questo è urgente effettuare un audit (un inventario) del debito italiano, perché tutti possano capire come si è formato, chi ne ha beneficiato e chi lo detiene(anche per poter prospettare trattamenti diversi alle diverse categorie di prestatori).

L’altro inganno che domina il delirio pubblico promosso dagli economisti mainstream    e in primis dai bocconiani    è la “crescita”. A consentire il pareggio del bilancio imposto dalla Bce e tra breve “costituzionalizzato”, cioè il pagamento degli interessi sul debito con il solo prelievo fiscale, e addirittura una graduale riduzione, cioè restituzione, del debito dovrebbe essere la “crescita” del Pil messa in moto dalle misure liberiste che i precedenti governi non avrebbero saputo o voluto adottare: liberalizzazioni, privatizzazioni, riforma del mercato del lavoro (alla Marchionne), eliminazioni delle pratiche amministrative inutili (ben vengano, ma bisognerà riparlarne) e le “grandi opere” (in primis il Tav). Ma per raggiungere con l’aumento del Pil obiettivi del genere ci vorrebbero tassi di crescita “cinesi”; in un periodo in cui l’Italia viene ufficialmente dichiarata in recessione, tutta l’Europa sta per entrarci, l’euro traballa, gli Stati Uniti sono fermi e l’economia dei paesi emergenti sta ripiegando. È il mondo intero a essere in balia di una crisi finanziaria che va ad aggiungersi a quella ambientale    di cui nessuno vuole più parlare    e allo sconvolgimento dei mercati delle materie prime (risorse alimentari in primo luogo) su cui si riversano i capitali speculativi che stanno ritirandosi dai titoli di stato (e non solo da quelli italiani). Interrogati in separata sede, sono pochi gli economisti che credono che nei prossimi anni possa esserci una qualche crescita. Molti prevedono esattamente il contrario; ma nessuno osa dirlo. Questa farsa deve finire. È ora di pensare    e progettare seriamente    un mondo capace di soddisfare i bisogni di tutti e di consentire a ciascuno una vita dignitosa anche senza “crescita”. Semplicemente valorizzando le risorse umane, il patrimonio dei saperi, le fonti energetiche e le risorse materiali rinnovabili, gli impianti e le attrezzature che già ci sono; e rinnovandoli e modificandoli solo per fare meglio con meno. Non c’è niente di utopistico in tutto questo; basta    ma non è poco    l’impegno di tutti gli uomini e le donne di buon senso e di buona volontà.

II Domenica di Avvento: Giovanni Battista

La seconda e la terza domenica di Avvento sono incentrate sulla figura di Giovanni Battista.

Oggi ci viene proposta la versione del vangelo di Marco, mentre settimana prossima troveremo quella del vangelo di Giovanni.

Come spiegare questo “doppione”?

Certo, Giovanni Battista è colui che annuncia la venuta di Gesù, perciò è ovvia una sua abbondante presenza nel tempo dell’Avvento (due domeniche su quattro – cioè la metà di quelle a disposizione – parlano di lui!), ma forse l’insistenza sulla sua figura, ha anche altre motivazioni…

Tanto per cominciare va rilevato, come ci ricorda J. A. Pagola in Gesù. Un approccio storico, che «Gesù non ha ammirato nessuno quanto Giovanni Battista; di nessuno ha parlato in termini somiglianti; per Gesù non si tratta soltanto di un profeta: egli è “più di un profeta” (Lc 7,26; Mt 11,9); è persino “il più grande fra i nati di donna” (Lc 7,28; Mt 11,11). […] Si tratta senza dubbio dell’uomo che segnerà come nessun altro il percorso di Gesù».

Vale la pena perciò, forse (e io scelgo di farlo), di dedicare la lectio di questa seconda domenica di Avvento, ad un approfondimento (storico) della figura del Battista, rimandando a settimana prossima una riflessione più teologico-esistenziale.

Lo farò, al seguito del già citato libro di Pagola, che al Capitolo terzo (pagg. 78-97), presenta notevoli spunti in merito.

Iniziamo col dire che «quando incontra il Battista, Gesù […] immediatamente viene conquistato da questo profeta del deserto. […] Anche lui affascinato dall’idea di creare un “popolo rinnovato” per cominciare di nuovo la storia, accogliendo l’intervento salvifico di Dio. […] Che cosa ha potuto conquistare tanto Gesù? Che cosa ha trovato nella persona e nel messaggio di Giovanni?.


La diagnosi radicale di Giovanni. Fra l’autunno dell’anno 27 e la primavera del 28, all’orizzonte religioso della Palestina sorge un profeta originale e indipendente, che ha un forte impatto su tutto il popolo. Il suo nome è Giovanni, ma la gente lo chiama il “Battezzatore”, perché pratica un rito inusitato e sorprendente nelle acque del Giordano.

[…] Giovanni era di famiglia sacerdotale rurale; [ma] in un qualche momento, rompe con il tempio. […] Non sappiamo cosa lo spinga ad abbandonare il suo compito sacerdotale; […] non si appoggia a nessun maestro; non cita semplicemente le sacre Scritture; non invoca alcuna autorità per legittimare la sua opera; abbandona la terra sacra di Israele e si reca nel deserto a gridare il suo messaggio.

Giovanni non soltanto conosce la crisi profonda in cui il popolo si trova, [ma] concentra la forza del suo sguardo profetico alla radice di tutto: il peccato e la ribellione d’Israele.

La sua diagnosi è precisa e sicura: […] la crisi attuale non è una fra le tante; è il punto finale cui si è giunti con una lunga catena di peccati. Il popolo si trova ora di fronte alla reazione definitiva di Dio.

[…] Secondo il Battista, il male corrompe tutto; il popolo intero è contaminato, non soltanto i singoli individui; tutto Israele deve confessare il suo peccato e convertirsi radicalmente a Dio, se non vuole perdersi senza rimedio. Il tempio stesso è corrotto; […] si richiede un nuovo rito di purificazione radicale, non vincolato al culto del tempio. […] Bisogna andare nel deserto, al di fuori della terra promessa, per entrare di nuovo in essa come popolo convertito e perdonato da Dio.

[…] Il “battesimo” che Giovanni offre è appunto il nuovo rito di conversione e perdono radicale di cui Israele ha bisogno.

[…] Gesù rimane conquistato e colpito da tale visione grandiosa. Quest’uomo pone Dio al centro e all’orizzonte di ogni ricerca di salvezza. Il tempio, i sacrifici, le interpretazioni della legge, la stessa appartenenza al popolo eletto: tutto rimane relativizzato; una cosa soltanto è decisiva e urgente: convertirsi a Dio e accogliere il suo perdono.

Il nuovo inizio. Giovanni non intende sprofondare il popolo nella disperazione; al contrario, si sente chiamato a invitare tutti a recarsi nel deserto per vivere una conversione radicale, essere purificati nelle acque del Giordano e, una volta ricevuto il perdono, poter di nuovo entrare nella terra promessa per accogliere l’imminente arrivo di Dio.

Dando l’esempio a tutti, fu il primo a recarsi nel deserto. […] Si dirige verso una regione disabitata del bacino orientale del Giordano. Il luogo rimane nella regione della Perea, alle porte della terra promessa, ma al di fuori di essa.

A quanto sembra, Giovanni aveva scelto attentamente il luogo: […] presso il fiume Giordano, […] per compiere il rito del “battesimo”; [e perché] per quella zona passava un’importante via commerciale, […] per la quale transitava molta gente.

[Inoltre] il “deserto” scelto si trovava davanti a Gerico, nel luogo preciso in cui, secondo la tradizione, il popolo condotto da Giosuè aveva attraversato il fiume Giordano per entrare nella terra promessa (Gs 4,13-19).

Giovanni comincia a vivere lì come un “uomo del deserto”; porta come vestito un mantello di pelo di cammello con una cintura di cuoio, e si ciba di cavallette e miele selvatico. Questa maniera elementare di vestire e nutrirsi non si deve soltanto al suo desiderio di vivere una vita ascetica e penitente; […] Giovanni vuole ricordare al popolo la vita di Israele nel deserto, prima del suo ingresso nella terra che Dio gli avrebbe dato in eredità (contrariamente a quanto in genere si afferma, sembra che la permanenza di Giovanni nel deserto avesse più il carattere simbolico di una “vita al di fuori della terra promessa” che non il tono ascetico di un penitente).

Il battesimo di Giovanni. Quando Giovanni arriva nella regione desertica del Giordano, in tutto l’Oriente sono molto diffusi i bagni sacri e la purificazione con acqua. […] Anche il popolo giudaico ricorreva alle abluzioni e ai bagni per ottenere la purificazione davanti a Dio.

[…] Il desiderio di purificazione generò fra i giudei del I secolo una sorprendente diffusione della pratica di riti purificatori e la comparsa di diversi movimenti battisti. […] La necessità della conversione e la speranza di salvarsi portavano non pochi a cercare la loro purificazione nel deserto; Giovanni non era l’unico.

[…] Tuttavia il battesimo di Giovanni e, soprattutto, il suo significato erano assolutamente nuovi e originali. […] Per cominciare, egli non lo compie in stagni o piscine, […] bensì nel pieno della corrente del fiume Giordano. Non è un fatto casuale. Giovanni vuole purificare il popolo dall’impurità radicale causata dalla sua malvagità e sa che, quando si tratta di impurità molto gravi e contaminanti, la tradizione giudaica esige che non si adoperi acqua stagnante o “acqua morta”, bensì “acqua viva”, l’acqua che fluisce e corre.

[Inoltre] il suo battesimo è un bagno completo del corpo [e] lo si compie una volta soltanto.

[…] Ma vi è qualcosa di più originale ancora. Fino alla comparsa di Giovanni, fra i giudei non esisteva l’abitudine di battezzare altri; […] quanti cercavano di purificarsi lavavano sempre se stessi. Giovanni è il primo ad attribuirsi l’autorità di battezzare altri. Proprio per questo cominciarono a chiamarlo il “battezzatore” o “colui che immerge”. Questo conferisce al suo battesimo un carattere singolare; da un lato crea uno stretto vincolo fra i battezzati e Giovanni; […] d’altra parte, essendo compiuto da Giovanni e non da ciascuno per proprio conto, il battesimo appare come un dono di Dio.

[…] Il battesimo di Giovanni diventa così segno e impegno di una radicale conversione a Dio. Il gesto esprime solennemente l’abbandono del peccato in cui il popolo è immerso e il ritorno all’Alleanza con Dio. Questa conversione si deve verificare nel più profondo della persona, ma deve tradursi in un comportamento degno di un popolo fedele di Dio: il Battista chiede “frutti di conversione”.

[…] Questo perdono concesso da Dio […] commuove molti. I sacerdoti di Gerusalemme , al contrario, ne sono scandalizzati. […] La pretesa di Giovanni è inaudita: Dio offre il suo perdono al popolo, ma lontano da quel tempio corrotto di Gerusalemme!

Le aspettative del Battista. Giovanni non si considerò mai il Messia degli ultimi tempi; egli era soltanto colui che dava inizio alla preparazione. La sua visione era affascinante; Giovanni pensava a un processo dinamico con due tappe ben differenziate. Il primo momento sarebbe stato quello della preparazione, con il Battista come protagonista e il deserto come scenario; tale preparazione ruota intorno al battesimo nel Giordano. […] In seguito sarebbe venuta una seconda tappa che avrebbe avuto luogo già all’interno della terra promessa; suo protagonista non sarebbe stato il Battista, bensì una figura misteriosa che Giovanni designa come “il più forte” (contrariamente a quanto molto spesso si pensa, il Battista non considerava questa seconda tappa come “la fine di questo mondo”, bensì come un rinnovamento radicale di Israele in una terra trasformata).

[…] Probabilmente Giovanni si attendeva un personaggio che doveva ancora arrivare, mediante il quale Dio avrebbe realizzato il suo disegno risolutivo. Non aveva un’idea chiara di chi avrebbe dovuto essere, ma lo attendeva come mediatore definitivo. Non sarebbe venuto a “preparare” le vie di Dio, come Giovanni; sarebbe giunto per trasformare in realtà il suo giudizio e la sua salvezza».

Vedremo settimana prossima come Gesù si introdurrà in questa trama e se e come risponderà a queste aspettative.

Intanto potremmo chiederci quali sono le nostre in attesa che il suo Natale arrivi…

domenica 27 novembre 2011

Dove fu divino l'uomo - LA NATIVITA'

Georges De La Tour, Il neonato, 1645 ca., Rennes, Musée des Beaux-Arts

Maria diede alla luce un figlio e Giuseppe lo chiamò Gesù (Mt 1,25)

Maria diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia (Lc 2,7)


È con queste poche parole di Matteo e Luca che il Nuovo Testamento annuncia l’inizio dell’avventura umana di Gesù. Marco e Giovanni nemmeno lo raccontano: lo presuppongono.

Quando gli eventi sono davvero decisivi, non hanno bisogno di una pubblicità che li faccia credere tali. Semplicemente, essi accadono.

La questione è come porsi di fronte a questi accadimenti… A questo accadimento…

Che pensare di un Dio che nasce? Che nasce bambino? Impastato della carne e del sangue di sua madre? Così fragile che se non ci stavano un po’ attenti potevamo perdercelo in men che non si dica?

E di lui dicono “Dio salva” (= Gesù)… Di lui?

L’incarnazione è qualcosa la cui portata è ben al di là dall’essere integrata… nella nostra idea di Dio.


--------------------------------------------------------------------------------------------------

Questa tela di De la Tour, pittore francese influenzato da Caravaggio, riserva un dubbio a chi la osservi. A prima vista, è una rappresentazione della Natività, con la Vergine che regge il bambino che, come sovente accade nell'iconografia, emana luce. Ma se il nostro sguardo si sofferma un poco, comprendiamo che il chiarore proviene, invece, dalla candela retta dalla donna sulla sinistra. Siamo dunque di fronte ad una scena sacra o ad una “semplice” scena familiare?

Il dubbio è alimentato anche dal titolo con cui il dipinto è noto, Il neonato, che ci fa soffermare su una delle prime raffigurazioni credibili di un bambino da poco venuto al mondo, stretto nelle fasce da cui emerge il visino.

Il dubbio resta tale, e forse sta in questo la profonda verità del dipinto di De la Tour: anche in quella casa di Betlemme c'era un bambino, solo un bambino, per chi non sapeva andare al di là delle apparenze... Per comprendere il disegno di Dio servono anche gli occhi della fede.


martedì 22 novembre 2011

La malattia di Marchionne

 

I Domenica di Avvento: Marco 13,33-37

«Oggi, prima domenica di avvento, il nuovo anno liturgico inizia là dove il vecchio è finito. La stessa pagina finale del Vangelo (di Marco, questa volta!), con l’ultimo avvertimento di Gesù, prima del racconto della passione, come domenica scorsa, nel vangelo di Matteo. Il linguaggio è diverso, ma la preoccupazione è la stessa del racconto del giudizio finale: introdurre il discepolo di Gesù nella consapevolezza ‘cristiana’ del significato della vita in questo mondo e nella storia presente!» [Giuliano].

Certo, il fatto che il vangelo di oggi tratti del medesimo argomento di quelli delle domeniche scorse – seppure nella versione di Marco, invece che in quella di Matteo – dovrebbe agevolarci… Ormai dopo tre domeniche a parlare del “discorso escatologico” nel vangelo di Matteo (capp. 24-25), dovremmo essere degli esperti…

Ma la sensazione non pare molto confermare questo pronostico… Anzi… Di fronte al vangelo odierno di Marco, sembra che tutto sia nuovamente da rispiegare, ricontestualizzare, ricomprendere…

È una fatica che facciamo volentieri, confortati soprattutto da quanto diceva J. Schmidt («quello che viene chiamato il discorso della parusia, l’apocalisse sinottica, figura tra i passi più incomprensibili del Nuovo Testamento e, di conseguenza, tra i più contestati di tutta la tradizione sinottica», J. Schmidt, L’evangelo secondo Marco), ma che – dobbiamo rilevarlo – dice qualcosa degli automatismi con cui leggiamo la Parola di Dio.

Non riusciamo a toglierci dalla testa le precomprensioni paurose su Dio che ci abitano fin da piccoli, perciò sentir parlare di “necessità di vegliare” perché il padrone potrebbe tornare all’improvviso e trovarci addormentati, è un annuncio che suggerisce più sensazioni spiacevoli (angosciose, timorose, inquiete…) che reazioni gioiose, come di fronte ad un lieto annuncio…

E questo dovrebbe darci da pensare…

Perché – leggendo questo testo – ci viene subito in mente la scena di un padrone rabbioso che torna a sgridare o – peggio – malmenare, i servi che trova addormentati?

Perché non ci viene in mente una scena diversa? Per esempio quella di un papà che ha detto al suo bimbo “Guarda che quando torno dal lavoro giochiamo un po’ insieme!”… e il bimbo l’aspetta, l’aspetta… e se anche tarda e lui crolla dal sonno, non vuole andare a dormire…?

L’immaginario che ci abita rispetto ai testi evangelici è molto indicativo dell’idea di Dio che abbiamo in testa…

E credo che questo sia già un buono spunto di riflessione, per cominciare l’Avvento… l’attesa del Dio-con-noi…


Ad ogni modo… tornando al testo… Esso – come dicevamo – consiste negli ultimi versetti del discorso escatologico (quello sulla fine / sul fine della vita / della storia) di Marco, che occupa tutto il capitolo 13. E – ovviamente – per essere compreso va collocato all’interno di questo suo alveo. È perciò di tutto il capitolo 13 che è necessario occuparsi.

«Il discorso, a una lettura appena un po’ attenta, si rivela composito, formato da parole del Signore diverse per genere e per origine: detti alla seconda e terza persona, annunci profetici, esortazioni morali, parabole, immagini apocalittiche. In un certo senso si potrebbe dire che autore del discorso è l’evangelista stesso: a lui si deve, infatti, il quadro introduttivo (vv. 1-4: «Mentre usciva dal tempio, uno dei suoi discepoli gli disse: “Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!”. Gesù gli rispose: “Vedi queste grandi costruzioni? Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non venga distrutta”. Mentre stava sul monte degli Ulivi, seduto di fronte al tempio, Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea lo interrogavano in disparte: “Di’ a noi: quando accadranno queste cose e quale sarà il segno quando tutte queste cose staranno per compiersi?”») e sua è la composizione, che organizza in un modo assai significativo il materiale sparso che giunge dalla tradizione e che affonda le sue radici nelle parole del Signore. E così si può dire, per un altro verso, che il discorso risale a Gesù, quasi un testamento lasciato alla comunità: il Signore prevede tempi difficili, disorientanti, e richiama alla fedeltà e al coraggio» [B. Maggioni, il racconto di Marco, Cittadella Editrice, Assisi 199912, 180].

Esattamente questo è il primo punto del discorso escatologico: il fatto cioè che nella vita di Gesù, poi nella vita della Chiesa e infine nella vita di ciascuno siano da prevedere (mettere in conto) tempi difficili.

Una constatazione rispetto alla quale ovviamente sorgono spontanee alcune domande: Quando accadrà questo? E soprattutto: Che fare?

La prima domanda è pressoché lasciata cadere: Marco sembra anzi, addirittura, prenderne consapevolmente le distanze («Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre», Mc 13,32). Il fulcro del discorso non è la curiosità sul futuro, sul come e sul quando, ma sulla decisività del presente, che prepara quel futuro!

Anche perché – dentro al discorso più ampio della fine della storia universale – nel discorso escatologico è contenuto il ben più impellente riferimento alla fine della storia di ciascuno. Come a dire che se anche a noi sembra molto lontano un discorso sulla fine della storia (un discorso talmente più grande di noi che credo ci lasci sostanzialmente indifferenti: “Speriamo solo non accada proprio ora che ci siamo noi”…), molto più interpellante è invece un discorso che fa riferimento alla fine di ciascuna storia, alla fine della storia di ciascuno. Perché questa decisività ce l’abbiamo scritta dentro tutti: tutti sappiamo che nessuno di noi scamperà alla morte!

Ecco, di fronte a tutto questo la prospettiva di Marco e credo anche la nostra, non è una curiosità morbosa sul come e sul quando, ma un’attenzione al: “Allora che fare? Come vivere questa vita visto che c’è una fine?”.

La domanda è perciò sul presente; è la seconda che ricordavamo: “Che fare?”.

E le indicazioni sono sostanzialmente tre, collegate tra loro:

-          «Badate che nessuno v’inganni! Molti verranno nel mio nome, dicendo: “Sono io”. […] Se qualcuno vi dirà: “Ecco, il Cristo è qui; ecco, è là”, voi non credeteci; perché sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno segni e prodigi per ingannare gli eletti»;

-          «Non allarmatevi»; «Non preoccupatevi»;

-          «Fate attenzione»; «Vegliate».

Dunque: non perdere di vista il vero volto del Signore, (e quindi) non temere, (e quindi) vegliare/aspettarlo.

Questo è l’annuncio del brano odierno… in mezzo alle difficoltà della vita, alle difficoltà della storia che ci potrebbero far temere un’orfanità («il discepolo pare scoprirsi come abbandonato e lasciato solo due volte: dal Padre che l’ha creato e poi abbandonato nei pasticci di questo mondo inospitale; poi dal Figlio, che il Padre stesso ci aveva mandato per salvarci» [Giuliano]), il Signore pone la sua Parola: non confondete il mio volto (emblematicamente fissato nel dono d’amore della croce, anticipatamente spiegato nell’ultima cena), rivelazione ultima dell’amore paterno di Dio. Perciò, non temete e vegliate perché «quando vedrete accadere queste cose, egli è vicino, è alle porte».

L’annuncio escatologico del nostro brano è perciò quello di una vicinanza, di un esser-ci del Signore, di un suo essere “alle porte”… proprio quando sembra che il mondo e/o la nostra vita siano in preda ad una catastrofe!

Ecco perché la Chiesa ha scelto proprio questo brano per l’inizio dell’Avvento: perché la disposizione con cui ci mettiamo ad aspettare questo bambino che nasce, non sia abitata dall’infantilismo fiabesco (con cui spesso rinarriamo quell’evento), che ci porterebbe a trattare Gesù come Babbo Natale: una consolante invenzione… E nemmeno da quell’ansia timorosa di chi ha paura dell’arrivo di Dio, perché chissà come se lo immagina… Ma sia colma dello sguardo di quel bimbo che aspetta il ritorno del papà dopo il lavoro, per stare un po’ insieme… Un attesa dolce – dunque – non certo timorosa… e vigile… di quella vigilanza e “occhio attento” con cui i bambini che aspettano i loro genitori, li riconoscono tra mille, senza confondere il loro volto con quello di altri!

domenica 20 novembre 2011

"Quel segreto che si svela quando lievita il ventre..." - LA VISITAZIONE

Dirk Bouts, Visitazione, dal Trittico della vita della Vergine, 1445 ca. Madrid, Museo del Prado

Perché Maria va da Elisabetta?

Per vedere se l’angelo aveva ragione!

Egli le aveva infatti annunciato:

«Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio»…

Il fatto che Elisabetta sia incinta è dunque l’unica traccia che Maria ha per vedere se a quell’angelo (e a quel Dio di cui era messaggero) bisognava dar credito…

Ecco perché va da Elisabetta! Perché ella è la sua traccia.

Da lei scopre che il Dio annunciatole da Gabriele è davvero un Dio affidabile!


Il tema della visitazione ricorre frequentemente nella pittura toscana e in quella fiamminga, ma se in Italia è sottolineato maggiormente l’aspetto dell’omaggio di Elisabetta alla cugina, gli artisti fiamminghi sembrano valorizzare la dimensione emotiva dell’episodio. Malgrado le parole del Vangelo di Luca, Dirk Bouts ambienta la scena all’esterno: come se le due donne attendessero con impazienza quell’incontro, non potessero aspettare di raggiungere casa. Maria, raffigurata con i capelli sciolti, ad indicare la sua condizione virginale, finalmente può vedere la cugina Elisabetta, constatare che il messaggero che l’ha visitata non ha mentito. L’autore ci restituisce, con grande realismo ed umanità, il gesto delle due donne, che si toccano il ventre e si riconoscono madri; insieme, tuttavia, allude al muto dialogo tra i due bambini narrato da Luca. Il miracolo di una vita che nasce si colora di un senso irripetibile: Dio sta facendosi uomo. E’ ben comprensibile che Maria, di lì a poco, intoni il Magnificat!

venerdì 11 novembre 2011

Quel sì che cambia la storia


Antonello da Messina, L'Annunciata, 1476, Palermo, Galleria di Palazzo Abatellis

Finalmente alla donna si chiede un assenso.

Si sa qual era la condizione della donna nella società antica (e non solo). L’uno, il maschio, “è per natura superiore, l’altra inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata”, aveva scritto Aristotele (Politica, 1, 1254b); e la prima obbedienza era quella della procreazione. Le donne erano oggetto e strumento della decisione procreativa dell’uomo.

Non si era mai visto qualcuno che chiedesse alla madre il suo consenso per nascere.

Con il concepimento di Gesù la scena cambia improvvisamente. Anche se è Dio a dover nascere come uomo, è alla donna che spetta la decisione. Senza il suo non se ne sarebbe parlato nemmeno. Certo, non sarebbero mancate altre fanciulle in Galilea o altrove, in quel tempo o in un altro tempo, per partorire il Signore, ma intanto se Maria non diceva sì, quella volta Dio non nasceva».


[R. La Valle, Se questo è un Dio, Ponte delle Grazie, Milano 2008, 112-114]


Con gli occhi di un angelo

Con quest'opera, Antonello compie un doppio ardito esperimento: riesce a rendere figurativamente l'evento dell'Annunciazione abolendo almeno due dei personaggi abituali: l'Angelo, la presenza divina - e a concentrare in un'immagine indimenticabile il susseguirsi degli eventi narrati dai Vangeli. Scorrendo il dipinto dal basso verso l'alto, cogliamo infatti il momento precedente all'apparizione angelica, la lettura del libro; il momento umanissimo del dubbio, espresso dalla mano destra, che si protende in avanti, come a fermare l'angelo, a chiedere spiegazioni e dalla mano sinistra, che chiude i lembi del velo. Si arriva così, aiutati anche dalla composizione piramidale del dipinto, al culmine di quest'opera, allo stupendo volto della Vergine, da fanciulla siciliana, che lascia trasparire un velo di preoccupazione, ma si compone a serenità e consapevolezza.

Mettendoci nella stessa posizione dell'Angelo, Antonello ci invita a contemplare questa figura di donna, delicata e insieme maestosa, umana, ma già madre di Dio




Sei quadri per l'avvento

Meditare attraverso l’arte il mistero dell’Incarnazione

La Chiesa ha voluto segnare con due tempi forti la preparazione alle due festività principali cristiane, il Natale e la Pasqua. Si possono scandire i giorni che ci conducono alla festa in molti modi: coltivando un sentimento di attesa, con la purificazione, con la preghiera o lo studio. Abbiamo deciso di proporre, settimana dopo settimana, sei dipinti, che vogliono da un lato aiutarci a ripercorrere figurativamente il mistero dell'Incarnazione, dall'altro aiutarci a meditare, a tenere lo sguardo e il cuore vigili su ciò che sta avvenendo.
Ogni dipinto sarà accompagnato da due riflessioni: una storico-artistica ed una teologica.
A chi “incapperà” in queste immagini e queste parole, l'augurio di saper vivere in pienezza questo tempo.

Il progetto “Sei quadri per l’Avvento” è curato da Marco Fazio, storico dell'arte e insegnante di storia dell'arte presso l'Istituto Rosetum di Besozzo, e da Chiara Giuliani, licenziata in Teologia sistematica presso la Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale, insegnante di religione cattolica e sarà pubblicato sui siti http://www.istitutorosetum.it e http://carmelooggi.blogspot.com

Leggi la prima rifilessione, a partire dall'Annunciata di Antonello da Messina: "Quel sì che cambia la storia"

martedì 8 novembre 2011

XXXIII Domenica del Tempo Ordinario: La parabola dei talenti

Il vangelo che la liturgia ci propone per questa trentatreesima domenica del tempo ordinario (Mt 25,14-30) è costituito interamente da una parabola: quella famosa dei talenti. «Credo che non ci sia una parabola più famosa di questa, accanto a quella del ‘figliol prodigo’ o della ‘pecorella smarrita’: sono parabole che hanno plasmato la nostra cultura e forgiato il nostro linguaggio.

La parola “talenti” è addirittura diventata sinonimo di “capacità”, il che testimonia come questa pagina abbia parlato molto nel nostro mondo e credo che non sia retorico dire che la si è sentita fin dai banchi di scuola; sono infatti discorsi usati anche a livello di insegnamento scolastico e familiare per ricordare l’importanza della messa in opera dei talenti.

Tuttavia credo che spiegare la parabola in questi termini faccia perdere il meglio del suo contenuto» [P. Pezzoli in Scuola della Parola 1999 – Diocesi di Bargamo, 151-152].

Annotavo anch’io tre anni fa che: in effetti non appena si legge questo brano, immediatamente e simultaneamente giungono alla memoria le parole che usualmente lo interpretano (prediche, commenti...), quasi che il testo ormai sia confuso con la sua spiegazione, che solitamente suona più o meno in questi termini: l’uomo che parte è Dio e i suoi servi sono gli uomini; i talenti che affida loro sono le doti che ognuno ha, le sue capacità, o anche le sue responsabilità e possibilità (c’è chi ne ha di più e chi di meno...) e il succo dell’insegnamento sarebbe che ognuno deve far fruttificare le sue potenzialità; non importa da che punto si parte: ciò che conta è dare il meglio di sé. Questo porta infatti alla buona riuscita di una vita o al suo fallimento (che generalmente noi associamo al paradiso e all’inferno). Ma è davvero tutto qui?


«Intanto precisiamo che questa parabola non è semplice come sembra, poiché come minimo a tutti sarà capitato a volte di soffermarsi sulle parole finali e di giudicarle a dir poco dure (vv. 27-30). Ci è probabilmente capitato di giudicare esageratamente severo il padrone verso quel servo, che in fin dei conti, non ha poi fatto niente di tanto grave: non ha operato, ma non ha fatto del male…

In effetti tale obiezione ha la sua rilevanza, proprio perché noi leggiamo la parabola come legata alla capacità di far fruttare le qualità personali; ma, appunto, questo non è l’unico significato del testo. Per confermare comunque quanto la nostra impressione circa la eccessiva severità del “castigo” sia stata condivisa da molti, ricordiamo che fin dall’antichità la parabola veniva raccontata in altre versioni, come quella di Eusebio di Cesarea (IV sec.), secondo la quale il padrone si trova di fronte a tre servi: uno di loro ha dilapidato il denaro con le prostitute, l’altro lo ha gestito bene e un terzo l’ha tenuto nascosto; al suo ritorno, il padrone punisce duramente il primo, dà un premio al secondo e rimprovera il terzo: sembra una reazione più accettabile: è giusto che chi ha fatto male venga castigato, chi ha fatto bene venga lodato e chi non si è mosso venga rimproverato (ma solo rimproverato, e poi… chiudiamo un occhio…).

È un modo significativo che abbiamo di raccontare la parabola, che riflette le nostre difficoltà di fronte al testo evangelico, ma è anche il modo migliore per farle perdere il mordente, trasformandola in una sorta di parabola del buon senso comune, vanificando la profonda dimensione di ‘vangelo’, di ‘buona notizia’ contenuta in essa. Non dimentichiamo che è Gesù stesso a raccontarla, ed egli non è un semplice maestro di buon senso che ci vuole insegnare a usare bene le nostre doti. […] Forse bisogna andare un po’ più in là, e notare che fra i tre servi, quello che riceve maggiore attenzione è il terzo» [Ivi].

Infatti «Nell’economia della parabola i primi due servitori hanno semplicemente la funzione di mettere in risalto, per contrasto, il comportamento del terzo: a differenza dei primi due, l’ultimo nasconde il tesoro in una buca. Anche i primi due rendiconti hanno lo scopo di attirare l’attenzione sul terzo. È perciò chiaro che occorre concentrare l’attenzione sul comportamento del servo cattivo, e che la chiave dell’intera parabola è il dialogo fra il servo malvagio e il padrone.

Il servo ha una sua idea del padrone, e cioè quella di un uomo duro, che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso (v. 24). In una simile concezione di Dio c’è posto soltanto per la paura e la scrupolosa osservanza della legge (tutto ciò che è prescritto e nulla più!). Il servo non intende correre rischi, e mette al sicuro il denaro, credendosi giusto allorché può ridare al padrone quanto ha ricevuto. Si ritiene sdebitato: “Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo” (v. 25).

Anche l’ascoltatore è tentato di ritenere giusto il ragionamento del servo, e ingiusta invece la pretesa del padrone. […] La reazione dell’ascoltatore – reazione che la parabola suscita intenzionalmente – è quella degli scribi, dei farisei, degli zelanti e scrupolosi osservanti della legge. Tutti costoro non comprendono la condotta di Dio che si manifesta nel comportamento di Gesù. La ritengono ingiusta. Essi concepiscono la giustizia come un rapporto di parità: tanto-quanto. Gesù invece si muove nella prospettiva dell’amore, che è senza calcoli, ma anche senza paura. […] La parabola dunque, fondamentalmente, ha lo scopo di far comprendere la vera natura del rapporto che corre tra Dio e l’uomo» [B. Maggioni, il racconto di Matteo, Cittadella Ed., Assisi 20048, 317-319.

Il modo in cui la parabola vuol raggiungere questo scopo è quello dello shock! Come accennava Maggioni, infatti, chi ascolta questa parabola, istintivamente, ritiene ingiusto il comportamento del padrone, al suo ritorno. Perché non gli basta che gli venga restituito il suo?

Qua sta lo scandalo (l’inciampo) per gli ascoltatori di Gesù: perché in una mentalità retributiva del tanto-quanto, il “restituire il suo” è la regola di base. Cosa vuole di più questo padrone? Cosa vuole di più questo Dio?

Ecco il punto! In gioco c’è l’idea del rapporto che l’uomo (ciascuno di noi) ha con Dio. Gesù dice: se è quello del tanto-quanto, non avete capito un tubo… Il Padre mio è di un’altra qualità… Il tanto-quanto non fa parte del suo modo di agire/pensare (basti vedere la parabola del figliol prodigo o quella in cui gli operai vengono tutti pagati lo stesso salario indipendentemente da quanto hanno lavorato…).

Noi invece tendiamo sempre a ricascare in questa concezione “retributiva” del volto di dio: «la figura di dio, che più o meno inconsciamente tutti abbiamo introiettato, come un interlocutore interiore… da incubo (“sei un duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso”). Talora diventa un’ossessione che finisce per rovinarci la vita (“per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra”). La radice profonda di ogni religione storica è il tentativo di rimettersi in contatto con il “padrone”, che è “emigrato” in un paese lontano (così suggerisce il testo greco!), per contrattare “magicamente” con lui una salvezza in proprio» [Giuliano].

Ma è proprio questa “contrattualità da banchieri” che la parabola vuole scardinare (anzi, tutta la vita di Gesù va in questo senso, perché questa è la buona notizia, l’eu-angelion): che «la paternità di Dio, come si è rivelata in Cristo, è la distruzione del ricatto interno a qualsiasi religione (e interno a noi stessi, come componente tossica del nostro super io e della nostra morale), che finisce per farci vivere una vita disaffezionata e spenta, da servi! Finché, infatti, non ci consegniamo ‘armi e bagagli’ al Padre di Gesù Cristo, nutriti della sua parola e del suo pane, siamo preda dei nostri tormenti e delle nostre angosce interiori, che poi inevitabilmente proiettiamo e ritorciamo sugli altri (“io non sono come gli altri, omicidi, adulteri…”, Lc 18,11). Mentre oramai, in Gesù, la fede o è questione di amicizia o ridiventa idolatrica: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” [Gv 15,15]. Esser amici, però, vuol dire sbilanciarsi rischiosamente e senza riserve verso un nuovo tipo di dinamica interna all’esperienza umana di Gesù, che si fonda sull’amore gratuito, pulito, totalizzante» [Giuliano].

Ecco perché non basta più restituire il suo!

Perché chi ha colto che la proposta del Dio di Gesù è quella di un rapporto d’amicizia, avventura la vita in questa relazione, senza più badare ai calcoli! Esattamente come succede in tutte le nostre altre relazioni intra-umane, dove chi ama, non calcola, non restituisce semplicemente il “suo”, ecc…

Chi invece non coglie questa proposta e torna a guardare a Dio come allo spauracchio a cui qualche cosa bisognerà pur rendere, entra in un circuito di terrore e rattrappimento… della vita. Cosa vuole / Quanto vuole da me?

Ma… a scanso di equivoci: il dire che “non basta più restituire il suo” o l’ascoltare frasi evangeliche che dicono “a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”, non equivale a dire che il giudizio di Gesù su eventuali persone che avranno solo “restituito il suo” (o nemmeno quello) è l’inferno! Far questo slittamento è improprio: qui infatti non siamo in presenza di una cronaca, in cui ci raccontano cosa Gesù ha sentenziato, rispetto ad un caso reale (!), siamo all’interno di una dinamica pedagogica del racconto, e il fatto che essa comporti che chi non si assume le sue responsabilità sia punito, non ha l’intento «di terrorizzarci con la minaccia del castigo futuro, ma di convincerci che il presente, affrontato con intelligenza ed amore, dà senso e gioia alla nostra fede» [Giuliano].

Anche perché l’idea di un dio così è del tutto in linea con quello che la parabola vuole scardinare dai nostri cuori (quello che fa paura, appunto)… Perciò, il grido finale è come se suggerisse: “Voi non pensatemi così!”.

mercoledì 2 novembre 2011

L'olocausto economico



È veramente allucinante quello che sta accadendo nel mondo occidentale, di qua e di là dell’Atlantico. E cioè il definitivo strangolamento del potere politico da parte del potere economico. Con la conseguente fine di ogni forma di vera democrazia, cioè del potere (politico, economico, sociale) gestito dal popolo.
Il potere vero appare sempre di più nelle mani degli gnomi della finanza, e i vari Sarkozy, Merkel  (“diabolici” li ha definiti Prodi.) e Obama, si rivelano sempre di più come burattini guidati dalla mentalità di burattinai che stanno altrove e ben nascosti. Altro che teatrino della politica, qui siamo al circo dei mangiafuoco!

Non che ciò non sia accaduto anche in passato, anche non troppo lontano, in forme più o meno velate e persino occulte (P2 e P4), ma che sia fatto in modo così spudoratamente palese come ora, forse non si era mai visto prima.

Significativa a questo proposito è la “reazione” dei più all’annuncio del premier greco George Papandreou di indire un referendum popolare sulle condizioni poste dall’Europa per il “salvataggio” della Grecia da un fallimento… La Greciadecide di ridare il potere al popolo sovrano? E che fa l’Europa? Insieme ai “mercati”, va in panico!
Ora che vadano in panico i barracuda (li chiamano “mercati”: “cose” – notare il plurale – senza volto e senza nome, ma evidentemente con più “teste”!) abituati ad arricchirsi alle spalle delle dittature di ogni colore e grado (dalle dittature fasciste dell’America Latina, alla dittatura comunista cinese passando per quelle personalistiche alla Putin e Castro…) può essere logico anche se aberrante, ma che siano anche le istituzioni europee e le cancellerie democratiche ad essere shockate dalla decisione greca e cerchino di ostacolarla è preoccupante.

Con tutta evidenza la Grecia, non è l’Africa! E questo coloro che hanno dissanguato l’Africa fino ad oggi grazie a governi compiacenti, proprio non se lo aspettavano… Ma forse ancora una volta la Grecia può diventare la culla di una nuova vera democrazia… Al di là delle furbizie che hanno spinto il leader greco a tale scelta, c’è mi sembra una verità da trarre: solo ridando il potere a chi legittimamente lo detiene si può sperare di combattere il mostro di un’economia impazzita! È necessaria infatti la nascita di una nuova Europa, magari sulle ceneri di quella che si sta sfaldando. Non per restaurare quella che si sta divorando la coda e noi con lei, come propone anche il presidente francese nel discorso qui sotto, ma un’Europa dove finalmente al centro non ci siano gli speculatori ma la gente che le dà forma costituendone il tessuto sociale e culturale. L’Europa dei popoli, democratica, più che (di queste) nazioni succube dei diktat degli speculatori.

Per questo non mi ha fatto una bella impressione leggere quanto scrive il nostro Presidente della Repubblica: “Nell'attuale, così critico momento il paese può contare su un ampio arco di forze sociali e politiche consapevoli della necessità di una nuova prospettiva di larga condivisione delle scelte che l'Europa, l’opinione internazionale e gli operatori economici e finanziari si attendono con urgenza dall'Italia. Il capo dello Stato ritiene suo dovere verificare le condizioni per il concretizzarsi di tale prospettiva”. Napolitano parla di “nuova prospettiva”. E quale sarebbe questa nuova prospettiva? Quella che porterebbe a una condivisione “delle scelte che l’Europa, l’opinione internazionale e gli operatori economici e finanziari si attendono con urgenza dall’Italia”! Solo che l’Europa, l’opinione internazionale e gli operatori economici e finanziari, di fatto sono la stessa unica mostruosa entità: quella di un capitalismo cannibale che sta mettendo a ferro e fuoco nazioni intere pur di poter portare a casa il proprio rendiconto speculativo. E condividere queste scelte non è per niente una “nuova prospettiva”.

Bene fa quindi la Grecia ad opporsi a tale saccheggio, e bene faranno i greci a bocciare queste proposte europee che di fatto non sono europee ma anti-europee: come può essere europea un’Europa che riduce alla fame e porta al suicidio collettivo un intero popolo europeo?… e meglio farebbero i partiti italiani a dire un chiaro e netto “no!” a questo diffuso sciacallaggio dei risparmi (e quindi di una vita passata e futura!) di tanti milioni e onesti cittadini.

Le conseguenze di questo “no!” saranno forse catastrofiche per questa Europa, forse seguiranno dei default a catena… ma non per quella nuova Europa che ne potrebbe rinascere. E che porrà finalmente a proprio fondamento la solida roccia di una giustizia sociale ed economica per tutti.

Che la “destra” liberista – in Italia come altrove – questo non lo possa capire mi sembra ovvio, come certo non possono capirlo i semiliberisti del cosiddetto centro, ma che non lo comprendano quelli che di questo liberismo si dichiarano avversari ponendosi a sinistra – tra cui non pochi cattolici – mi sconcerta non poco: come è possibile che la sinistra sia così lesta a correre al capezzale di un capitalismo cinico ancorché moribondo che per curarsi divora i propri figli? Evidentemente c’è una deficit culturale (e non solo tra i politici) da colmare  prima di poter superare quello economico.

Abbiamo bisogno di “nuove prospettive”, su questo ha ragione Napolitano, solo che evidentemente noi intendiamo ben altra cosa: non il prolungamento del vecchio ma la nascita di qualcosa di veramente nuovo. Vorremmo poter scorgere all’orizzonte un nuovo giorno che dia speranza a chi da tempo vive nella notte di un lavoro disumanizzante.
C’è bisogno di più di Europa, ma non di più di questa Europa- Perché non sarà certo questa Europa dei banchieri che ci aiuterà a costruire una maggiore giustizia: funzionari e operatori economici che esultano davanti alla prospettiva di licenziamenti facili, a turni di lavoro schiavizzanti, a salari sempre più bassi, a diritti sempre più ridotti, non possono essere la soluzione dei nostri problemi. Non saranno certo i “mercati” in mano a speculatori, evasori fiscali, lobbie antidemocratiche e spesso “mafiose” che potranno accrescere le sorti del nostro futuro.

Si dirà che non sono tutti così… Io penso che se anche in passato qualcuno avesse agito in buona fede e se anche avesse cercato di essere fondamentalmente onesto e persino caritatevole… dico che se anche fosse esistito o esistesse ancora qualcuno così, questi oggi sarebbe doppiamente colpevole, perché sta reggendo un gioco che si sta rivelando sempre più omicida. Se proprio questo qualcuno si ritiene onesto, usi la propria onestà e il proprio ingegno per scardinare un sistema che oramai è criminale. Altrimenti non si illuda sulla propria onestà perché il suo ruolo non sarebbe molto diverso da quello dei kapò.

Si tratta come si vede di un superamento della mentalità che ci ha guidati fin qui e questo non può non coinvolgere anche l’ambito religioso di qualunque religione. È fuorviante ad esempio la proposta fatta da Vaticano di un direttorio economico mondiale. Evidentemente la proposta, seppur in buona fede, rivela una incapacità di comprendere che il problema non è tanto morale ma strutturale e con questa economia che sforna questi economisti, saremo definitivamente schiavi!

A questa nuova dittatura mondiale dobbiamo opporci con tutte le forze del nostro ingegno ridisegnando dalle fondamenta una nuova economia che non si fondi sull’accumulo di capitale e sui caprici delle borse.

Questa è la vera fretta che Napolitano dovrebbe metterci (e Berlusconi o chi per lui, attuare) e non quella di consegnarci anima e corpo ai nostri aguzzini…
Storicamente non abbiamo alternative vivibili. Se non metteremo mano allo smantellamento di questo capitalismo si apriranno scenari veramente apocalittici, che non sono i tanto temuti default di una nazione, ma quelli che – o per evitarli o per sormontarli – si apriranno con i diktat degli speculatori e che porteranno alla definitiva distruzione di quella civiltà che con tanta fatica abbiamo costruito in duemila anni di storia.

Noi che abbiamo vissuto per anni con la memoria di un probabile olocausto nucleare, ci rendiamo conto che in fin dei conti anche quella possibilità non era altro che una delle tante ipotetiche concretizzazioni di variabili economiche… A furia di aver così paura della “fine nucleare”, ci eravamo dimenticati che alla sua origine c’erano ben più tragici fini economici.
Certo quando col martello ci pestiamo il dito diciamo che abbiamo preso una “martellata” a nessuno viene in mente di dire che abbiamo preso una “manata”, prendendosela con la mano che lo impugnava… ma è ovvio che se scrivevamo “olocausto nucleare” avremmo dovuto leggere “olocausto economico”!

Sparito o quasi il rischio dell’olocausto nucleare propriamente detto, riamane infatti ancora viva e vegeta la matrice che l’aveva ipotizzato. Ed è questa matrice che sta ora imperversando sui mercati finanziari mondiali. Abbiamo (quasi) smantellato l’atomica, ma non basta né basterà, occorre ora smantellare i mercati che l’hanno finanziata e che continuano ad agire con ben maggiore potenza distruttiva! Loro, ieri come oggi, sono la vera minaccia di distruzione di massa.

P.S. Leggo stamattina l’articolo di Barbara Spinelli su repubblica, condivisibile, solo che anche lei credo che pecchi di ingenuità su un’Europa che sembra sempre più succube di una logica economica che non ha veramente a cuore i destini dei suoi popoli e dare più poteri a questa Europa, non è la soluzione della crisi, ma estenderla a tutto il continente. Insomma il problema non è solo come intitola l’articolo “…dare più poteri all’Europa” ma semmai: “A quale Europa dare più poteri?”!

martedì 1 novembre 2011

XXXII Domenica del Tempo Ordinario

La liturgia della Parola di questa Trentaduesima Domenica del Tempo Ordinario ci presenta i primi versetti del capitolo 25 di Matteo. Il salto, rispetto a settimana scorsa, è di un intero capitolo: là infatti abbiamo letto il capitolo 23, mentre oggi ci viene presentato l’incipit del 25. Tutto il 24° capitolo è perciò “saltato”.

Per comprendere però la parabola di questa domenica è utile – anche solo rapidamente – andare a guardare cosa contiene questo 24° capitolo, per evitare di far della parabola delle dieci vergini, una lettura estemporanea.

Ebbene nel capitolo 24 inizia il V e ultimo discorso che Matteo inserisce nel suo vangelo (dopo il Discorso della montagna, il Discorso missionario, il Discorso delle parabole, il Discorso ecclesiale), il cosiddetto “Discorso escatologico”, cioè “parola sugli eskata”; dove eskata sta per “cose ultime, finali, che riguardano la fine / il fine della storia”.

Siamo perciò all’interno di un contesto letterario in cui Matteo, dovendo narrare l’approssimarsi della fine della vita di Gesù (al cap. 26 inizierà il racconto della sua passione), raccoglie e organizza le parole del suo Maestro intorno – appunto – al tema della fine / del fine delle cose.

È un discorso che inizia in Mt 24,1 e termina in Mt 25,46 (le prossime domeniche prima che inizi l’Avvento, dunque quelle conclusive di questo anno liturgico, saranno tutte impegnate in testi tratti da questo discorso. Anche per questo pare utile spendere oggi qualche parola in più sulla sua contestualizzazione). Nell’organizzazione matteana, è un discorso che si svolge a Gerusalemme: Gesù è appena uscito dal tempio (Mt 24,1), dove aveva avuto duri scontri con i venditori (Mt 21,12-13), con i sommi sacerdoti e gli scribi (Mt 21,14), con gli anziani del popolo (Mt 21,23 ss), con i farisei (Mt 22,15 ss; Mt 22,34-24,39) e con i sadducei (Mt 22,23 ss) ed è interpellato dai suoi discepoli: «Mentre Gesù, uscito dal tempio, se ne andava, gli si avvicinarono i suoi discepoli per fargli osservare le costruzioni del tempio» (Mt 24,1). Questo invito diventa per Gesù (e letterariamente per Matteo) l’occasione per introdurre una riflessione dal tenore – appunto – escatologico (finale): Gesù infatti avverte che di tutte quelle cose «non resterà pietra su pietra che non venga diroccata» e, allargando il discorso, nuovamente sollecitato dai discepoli («Dicci quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo» Mt 24,3) inizia a parlare di guerre, carestie, terremoti, supplizi, uccisioni, falsi profeti... che anticiperanno, ma non saranno la fine. Il discorso si sposta allora sull’atteggiamento che i discepoli dovranno tenere in questa attesa del ritorno del Figlio dell’uomo: quello dell’essere vigilanti, sottolineato dall’inserzione di ben tre parabole: quella del maggiordomo (Mt 24,45-51), quella delle dieci vergini (Mt 25,1-13) e quella dei talenti (Mt 25,14-30).

La seconda di queste parabole è la nostra; la terza, quella di settimana prossima.

Per comprendere bene questi brani, non va dunque dimenticato questo “contesto escatologico” che abbiamo provato a descrivere: il problema che vi soggiace è quello della vigilanza nel tempo dell’attesa del ritorno di Gesù, cioè nel tempo della storia. Come se il problema fosse: Come vivere la storia? Con quale atteggiamento attraversarla? Come pensare al rapporto col Signore, dunque con se stessi, dunque con gli altri, in un tempo in cui Gesù non è più incontrabile come prima per le strade della Galilea? Sapendo che a queste domande in positivo, nel nostro cuore soggiacciono quelle ben più angosciose del tipo: Che senso ha la storia? Ha un senso? Da dove veniamo e verso cosa andiamo? Dal caso al niente? E di me, che ne sarà? Di ciò che ho amato, vissuto, sofferto, accarezzato, gioito? Di ciò che mi si è scritto nella carne? Che cosa devo fare in questa storia che – a volte – si teme non abbia senso, data la lontananza del suo creduto fondamento e l’incertezza della sua destinazione?


La nostra parabola è la prima risposta, che i vangeli di questa settimana offriranno, a queste domande: “Vegliate”!.

Vediamo meglio di che si tratta facendoci aiutare dalle parole di Paolo Curtaz: «Siamo ormai a qualche settimana dalla fine dell’anno liturgico, che vuol dire che saluteremo Matteo, incontreremo Marco, e inizieremo il tempo di Avvento, Natale e via discorrendo. Matteo ci ha accompagnato in queste ultime domeniche con vangeli piuttosto impegnativi, quello di domenica scorsa in particolare: questo vangelo di questa lunga sequenza in cui Gesù contesta duramente quella che era la classe dei devoti (i farisei, i sommi sacerdoti, gli scribi) del suo tempo.

Ma il vangelo di oggi non è da meno, anche se bisogna, prima di interpretarlo bene, capire alcune cose.

Perché? Perché è un vangelo zeppo di contraddizioni. La storia è molto bella e ovviamente ricalca quella che era la cerimonia, la tradizione, la cultura dei matrimoni al tempo di Gesù, in Israele.

La festa durava diversi giorni e il primo giorno era lo sposo che andava a casa del suocero a prendere la sposa. E veniva accolto dalle damigelle, cioè dalle amiche della sposa, che facevano un lungo corteo di accoglienza. Se questo matrimonio avveniva quando ormai era calata la luce, cioè dopo le cinque della sera, c’erano delle lampade, delle fiaccole per accompagnare lo sposo incontro alla sposa, visto che non c’era l’illuminazione pubblica.

Una seconda cosa da capire, da sapere e che aiuta a correttamente interpretare quello che probabilmente Gesù ha detto, è il fatto che più di una volta nell’AT, Israele è chiamata come la sposa. E anche il numero delle cinque vergini, in questo caso dieci, cinque più cinque, ha a che fare con Israele.

Come dire: probabilmente Gesù quando dice questa parabola si sta rivolgendo alle persone che lo stanno ascoltando, alla sposa che è Israele.

E sta dicendo che cosa? Un po’ sulla falsa riga di quello che ha detto domenica scorsa: ci sono persone che accolgono (le vergini sagge) e delle vergini che non accolgono (che sono quelli che rifiutano il suo messaggio).

E da questo punto di vista allora, sicuramente, sta tutto in piedi: capiamo il discorso di Gesù, capiamo la sua ammonizione, cioè lui sta dicendo al suo uditorio: “Cercate di fare come le vergini sagge che accolgono e non come quelle sciocche che non accolgono”.

Cos’è successo allora? Perché Matteo quando prende questa parabola la infarcisce di elementi che provengono sicuramente dalla bocca di Gesù, ma non in quel contesto?

Il clima è molto più teso, è quasi terroristico; e poi, soprattutto, stupisce questa strana conclusione per cui Gesù dice di vegliare, ma, in realtà, anche le vergini sagge si sono addormentate.

Poi cos’è questa storia che nel cuore della notte bisogna andare a cercare olio per le lampade? Una cosa assolutamente assurda; nessuno nel cuore della notte vende dell’olio per le lampade.

E poi che sposo è mai questo, che non arriva all’imbrunire e neanche all’inizio della notte, ma nel cuore della notte?

Allora dobbiamo stare un po’ attenti a interpretare bene quello che Matteo fa: Matteo fa un’opera che a volte facciamo anche noi: prende cioè una parola di Gesù e cerca di adattarla, di attualizzarla per il suo uditorio, per la sua parrocchia, per la sua comunità.

[…] Cioè, questa parabola che fila via liscia nella bocca di Gesù, Matteo poi la rielabora un pochettino: non più rivolta, quindi, a Israele, che è diviso in vergini sagge e vergini folli (vergini pigre, vergini distratte), ma rivolta alla comunità cristiana. Comunità cristiana invitata a vegliare.

Perché? Perché c’era un grande fermento all’interno delle comunità: si pensava che Gesù dovesse tornare da un momento all’altro. Tutti erano convinti di questo.

C’è sempre la sensazione che tutto finisca, c’è sempre la sensazione che debba, da un momento all’altro, capitare di queste cose. Ebbene al tempo di Gesù, nelle primissime comunità, nei primi decenni dopo la risurrezione di Gesù, c’era questo clima un po’ euforico, che faceva sì che alcuni, addirittura, tirassero i remi in barca, cioè che non facessero più nulla. Paolo stesso, scrivendo alla comunità di Tessalonica, dice: “Chi non vuol lavorare neppure mangi”, cioè uno diceva “Beh, tiro i remi in barca, perché tanto arriva la fine del mondo”.

Solo che quando poi si vedeva che non arrivava la fine del mondo, ecco che qualcuno tornava alle abitudini di prima: cioè diceva “Tutto quello che abbiamo saputo, creduto erano tutte delle emerite baggianate”.

[…] Matteo si sta rivolgendo alla sua comunità, dicendo: “State attenti, perché anche se il Signore non è ancora arrivato, non è il caso di abbandonarsi alla logica del mondo, ma dobbiamo avere l’umiltà e il coraggio di aspettare, di vegliare operativamente, cioè non lasciandoci andare, non impigrendoci, addormentandoci. Perché il grosso rischio – e nella storia è successo più di una volta – è che i cristiani stessero seduti ad aspettare la venuta del Messia, pensando al paradiso, e intanto lasciavano tutto il mondo andare a rotoli”» [http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/23804.html].

Ora questa parabola è rivolta anche a noi (è il suo III livello, dopo quello di Gesù e quello dell’evangelista): anche a noi è rivolto l’invito (pressante) a vegliare; a vegliare per non essere come le vergini distratte che perdono l’incontro con lo sposo, cioè che non accolgono Gesù; a vegliare per non dividerci tra l’estremo di chi tira i remi in barca (tanto prima o poi arriva il Signore) e quello di chi – dato che Egli non è ancora sopraggiunto – declassano il suo vangelo a “baggianata”, “illusione”, “fantasia”…

Fuor di metafora, la parola del vangelo che la Chiesa ci consegna in questa Trentaduesima domenica del Tempo Ordinario ci invita a vivere, nella storia che ci è data, come coloro che hanno l’olio; come coloro, cioè, che attraversano la storia costruendosi interiormente in quel particolare e personale modo (non prestabile ad altri, non sostituibile con quello altrui), che li rende “pronti” al rapporto col Signore, riconosciuto nei luoghi e volti ove si fa presente nella storia (i piccoli).

A conclusione, qualche appunto di Giuliano su questo vangelo… dato che la lectio vera e propria di 3 anni fa sulla XXXII Domenica del Tempo Ordinario non esiste. Tale Domenica era, infatti, “saltata” nella Liturgia della Chiesa, in occasione della Celebrazione dei Defunti.



Mt 25 , 1-13

1 Il regno dei cieli è (sarà!) simile a dieci vergini che, prese le loro lampade, uscirono incontro allo sposo. 2 Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; 3 le stolte presero le lampade, ma non presero con sé olio; 4 le sagge invece, insieme alle lampade, presero anche dell'olio in piccoli vasi. 5 Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e dormirono. 6 A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro (uscite per l’incontro!) 7 Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. 8 E le stolte dissero alle sagge: Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono. 9 Ma le sagge risposero: No, che non abbia a mancare per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene. 10 Ora, mentre quelle andavano per comprare l'olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. 11 Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: Signore, signore, aprici! 12 Ma egli rispose: In verità vi dico: non vi conosco. 13 Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora.



La vita è uscire verso lo sposo… vista in questa parabola alla luce dell’esodo … finale ! o determinante, che è il risultato di tutto il cammino!

Di quanti esodi ( con relativi sbandamenti verso gli idoli fallaci) abbiamo bisogno per capire che uno solo (lo sposo – il Signore) è quello che cerchiamo… Ma non riusciamo a capacitarcene se non svendendoci varie volte… e sperimentando di restare senza olio…   e solo attraverso il fallimento, ( delusione, esilio distruzione del tempio…)  maturare la convinzione di chi è il Signore… e dov’è…  e cercarne e trovarne la strada – visto che ne abbiamo la possibilità e la libertà (metà saggi e metà stolti! È la storia di Israele, della Chiesa… di ciascuno )



L’olio è la maturità cristiana del discepolo di Gesù! È la ri/conoscenza interiorizzata – cioè verificata pian piano nel cammino… che l’unico che ci salva è lui – nello Spirito.

E’ un’esperienza delicata di cui Gesù parla continuamente (il vino di Cana, l’acqua zampillante dal di dentro della Samaritana, il fermento che lievita la pasta, il seme che germoglia dentro con la sua forza autonoma… il gemito dello Spirito in noi …) come di una realtà / dono che innesca un circolo interiore vitale.  Esperienza di essere amati/salvati e trepidante tentativo di risposta, di coinvolgimento sempre più vero, che innesca un flusso  di /riconoscenza della presenza efficace del Signore  nella nostra vita. E dunque una forza interiore (dallo Spirito, perché noi non siamo capaci) benefica e dolce, sanante e balsamica… che ci convince dal di dentro che questa è la strada giusta. E così la morale diventa amore – la Parola diventa esperienza di luce: olio e fiaccola. E camminando tra tanti dubbi e incertezze si fa sempre più forte e radicata la convinzione di una conoscenza nuova di lui, di una frequentazione dello sposo/amico…di un incontro (ri/conoscenza!) pur nelle difficoltà e fragilità della vita… con relativa gratitudine che risana le inadempienze…



L’olio non si può scambiare né comprare… la parabola chiude la strada ad ogni possibile interpretazione contrattuale

 Non sta parlando della salvezza eterna… ma dell’apprendimento dell’attesa cristiana (vegliate!)… Ogni strumento religioso (fiaccole… servi incaricati di svegliare al mento opportuno…  solidarietà … è inadeguato… si tratta di imparare una relazione di amore che coinvolge la vita… non è scambiabile, si può dar aiuti e consigli, ma non saranno mai al livello adeguato, ( ricascano nella inutile religione contrattuale!)  perché non è comprensibile da chi non entra nel bisogno/esperienza che la fede è un affidamento di amore, che se non matura un rapporto personale, rimane sterile e nana…



Le pronte entrarono… alle altre: non vi conosco!

Si tratta dell’esito del percorso di fede di una vita: che sboccia in ri/conoscenza o disconoscenza… La vita eterna è vista come continuazione e esplosione, senza più limiti storici, dell’amore Gesù/discepolo… nel grande convito celeste: ci entra chi è ri/conosciuto dal Signore, per la lunga frequentazione che ne ha avuto nelle varie ricerche e notti (esodi) della vita… Non è riconosciuto (anche se crede d’aver comprato la conoscenza) chi non ha mai riconosciuto e  amato il Signore nei luoghi e volti ove si fa presente nella storia…

… datevi dunque da fare, dice il Signore!


Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...

I più letti in assoluto

Relax con Bubble Shooter

Altri? qui

Countries

Flag Counter