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mercoledì 31 agosto 2011

XXIII Domenica del Tempo Ordinario: La correzione fraterna

Le letture che la Chiesa ci propone per questa ventitreesima Domenica del Tempo Ordinario, sono tutte incentrate su un unico tema: quello dell’amore fraterno, che si esplicita in un’istanza molto chiara: «ciascuno si deve far carico del proprio fratello perché ognuno è la sentinella che deve avvertire il fratello per il pericolo imminente» [P.Pezzoli, La casa sulla roccia: il vangelo secondo Matteo, in G.Facchinetti-P.Pezzoli-P.Rota Scalabrini, Scuola della Parola, LIG, Bergamo 1999, 138].
Abbiamo dunque a che fare con testi il cui oggetto precipuo è la cosiddetta “correzione fraterna”… Non a caso la Liturgia della Parola propone come brano evangelico un testo tratto dal capitolo 18 di Matteo, quel capitolo cioè nel quale è inserito il “Discorso ecclesiale”.
Come abbiamo avuto già modo di dire, infatti, il vangelo di Matteo «obbedisce a due strutture. La prima, più evidente e più tipica, consiste nella successione di grandi discorsi, attorno ai quali si organizza il materiale narrativo. Il c. 18 è il quarto discorso: dopo il discorso programmatico della montagna, il discorso missionario e il discorso in parabole, ecco un discorso ecclesiale, che si occupa di alcuni problemi interni alla comunità.
Ma dietro il succedersi dei discorsi si intravede la struttura del vangelo di Marco, che racconta la vicenda di Gesù iniziando dal battesimo, continua col ministero in Galilea e poi in Giudea e si orienta sempre più chiaramente verso la passione. Secondo questa struttura il discorso del c. 18 si trova nel contesto degli annunci della passione (cf. 16,21; 17,22-23; 20,17-19). La collocazione è significativa. Il nostro discorso offre delle norme di vita comunitaria da leggere nella prospettiva della sequela, intesa come un cammino verso la croce. Possiamo dire che almeno in parte, il c. 18 intende rispondere alla domanda: come deve costruirsi una comunità che intende porsi alla sequela del Crocifisso?
[…] Il discorso si divide in due parti [Mt 18,1-14 e Mt 18,15-35: la Liturgia domenicale della Parola ci propone la II parte, spezzata a sua volta in due domeniche successive: XXIII domenica del TO, Mt 18,15-20; XXIV domenica del TO – domenica prossima –, Mt 18,21-35]. Ciascuna parte si sviluppa attorno a un interrogativo: “Chi è il più grande nel regno dei cieli?” (18,1); “Quante volte devo perdonare al mio fratello che pecca contro di me?” (18,21). Ciascuna parte termina con una parabola: la parabola della pecorella smarrita (vv. 12-14) e la parabola del servo perdonato ma incapace di perdonare (vv. 23-35). Ciascuna parte è costruita attorno a una parola chiave, continuamente ricorrente: la parola “piccolo” la prima, la parola “fratello” la seconda» [B.Maggioni, il racconto di Matteo, Cittadella Editrice, Assisi 2004, 226-227].
Come detto la Liturgia domenicale della Parola tralascia tutta la prima parte del discorso ecclesiale, la cui tematica principale è quella dei piccoli / dei bambini (cui ho fatto comunque cenno perché mi pare importante leggere nella sua interezza questo capitolo 18) e si concentra – in due domeniche successive – sulla seconda, quella del perdono o della correzione fraterna.
Tutta questa lunga premessa, che magari a qualcuno è risultata un po’ troppo scolastica e noiosa, mi è sembrata invece necessaria perché ci permette di rilevare da subito un elemento molto interessante: quando nel vangelo si parla esplicitamente di chiesa (“Discorso ecclesiale”, appunto), gli assi semantici, attorno ai quali tutto ruota, sono il termine piccoli con la tematica della loro custodia e il termine fratelli come chiave di lettura delle relazioni intra-comunitarie.
È come se parlando di Chiesa, il vangelo mettesse lì due grandi binari orientativi:
-          Tra voi i piccoli siano custoditi!
-          Tra di voi siate fratelli!
È all’interno di queste macro linee guida, che poi le indicazioni si fanno più puntuali…

Sarebbe interessante soffermarsi su questi due pilastri, verificando magari la vita delle nostre comunità ecclesiali a partire da essi, ma ci porterebbe troppo lontano e, forse, ci lascerebbe anche un po’ troppo l’amaro in bocca (che non va bene all’inizio di un nuovo anno sociale), perciò torniamo ai nostri 6 versetti odierni e alla tematica più circoscritta della correzione fraterna.
Essa è descritta come un percorso a tappe:
1-   «se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello»;
2-   «se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni»;
3-   «se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità»;
4-   «se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano».
La correzione fraterna descritta in questo brano di vangelo riecheggia una prassi ecclesiale presente nella comunità di Matteo… e ciascuno di questi elementi andrebbe spiegato bene, in particolare l’ultimo, quello che noi chiamiamo “s-comunica”… perché forse è quello più frainteso…
Ma mi pare che un criterio ancora più fondamentale per collocare nella giusta prospettiva queste tre tappe, sia quello di risalire al contesto cui pensavano Gesù / Matteo quando dicevano / scrivevano queste parole e vedere in che modo oggi anche per noi esse possano essere vitali.
In questa prospettiva il dato essenziale da mettere in evidenza è il fatto che – quando scrive – Matteo pensa alla sua comunità, che era una comunità piccola!
Anche se quest’osservazione può apparire una banalità e uno può ritrovarsi a dire “Beh, e allora?”, in realtà io credo si tratti di un elemento che scaravolta tutto il senso di questo brano… quello almeno che noi siamo soliti attribuirgli, che è più o meno questo: siccome per una volta su un argomento specifico nel vangelo non ci sono indicazioni generiche, ma una specie di “ricetta”, seguiamola! Con tutti i peccatori nella Chiesa, seguiamo questo iter!
Invece no! Perché l’atteggiamento suggerito da Gesù per affrontare il problema del peccato e dei peccatori, implica il riferimento (vincolante) a comunità numericamente limitate, dove il clima è quello familiare… comunità quindi molto diverse da quelle parrocchiali cui noi siamo abituati a pensare, che spesso contano migliaia di abitanti, centinaia di fedeli che non si conoscono nemmeno tutti per nome…
In una situazione di questo tipo è impensabile applicare il “metodo” proposto in Mt 18 in maniera pedissequa, come se si trattasse – appunto – di una “ricetta magica”…
È infatti solo all’interno di relazioni nelle quali ci si riconosce effettivamente, e non solo nominalmente, fratelli, che è possibile un intervento quale quello suggerito nel vangelo. Senza dimenticare che anch’esso, nella formulazione in cui è giunto a noi, è già “formalizzato” e “schematizzato” per un uso comunitario… Non per niente, all’inizio, dicevamo che esso risente della prassi usata nella comunità di Matteo!
Ciò che allora è da tenere di questo brano non è la pura applicazione acritica della “ricetta”, ma ciò che la “ricetta” implica, cioè:
-       Che bisogna sempre separare peccato (da condannare) e peccatore (da custodire con ogni mezzo, foss’anche quello di un periodo fuori dalla comunità perché possa ritornare: questo – e solo questo! – è il senso della scomunica nella chiesa).
-       Che non si può aziendalizzare il vangelo sulla falsa riga dell’aziendalizzazione della chiesa che ogni tanto sembra comparire in questo III millennio… Essa, infatti – per quanto si estenda in tutto il mondo – è Chiesa quando consente rapporti autenticamente fraterni. È infatti solo fra due o tre (riuniti nel suo nome), che ci si può ammonire. Perché altrimenti va perso il principio guida dell’ammonimento, che è il seguente: «il perdono e l’amore precedono: la correzione nasce dall’amore. Si corregge – altrimenti che diritto avremmo di correggere? – perché si ama» [Ivi, 238]. Ecco perché questo vangelo dovrebbe avere come destinatarie le piccole chiese che sono le famiglie, le comunità di base, le piccole fraternità, i cantieri antropologici dove si prova a vivere il vangelo… e non le macro organizzazioni ecclesiali in cui non ci si conosce (dunque non ci si ama) nemmeno…

giovedì 25 agosto 2011

XXII Domenica del Tempo Ordinario: Tale Padre… Tale Figlio…

Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa ventiduesima domenica del Tempo Ordinario è la diretta continuazione di quello di settimana scorsa. Come abbiamo visto, «è Gesù stesso che prende l’iniziativa di interrogare i discepoli intorno alla propria persona: che cosa pensa la gente del Figlio dell’uomo? E voi chi dite che io sia? La domanda cade sul punto centrale attorno al quale gravita tutta la catechesi dell’evangelista Matteo. Per rispondere all’interrogativo […] la gente ricorre a note figure del passato: Giovanni Battista, Elia, Geremia, un profeta. Con questo la gente coglie in qualche modo la grandezza di Gesù, ma non ne coglie affatto l’originalità. Non si può esprimere il significato di Cristo ricorrendo a schemi interpretativi già conosciuti. Il discepolo va oltre la folla, ed esprime con assoluta chiarezza la messianicità e la filiazione divina di Cristo. […] Ma anche questa piena affermazione della messianicità di Gesù e della sua filiazione divina non è sufficiente. Il discepolo può correre il rischio di ricadere nella logica degli uomini; può ancora una volta leggere il mistero di Gesù alla luce di un sapere già dato, privandolo così della sua originalità. Se non vigila, il discepolo rischia di attribuire a Gesù la divinità che viene dalla “carne e dal sangue”: una divinità secondo gli uomini, conforme a quello schema di grandezza che gli uomini sognano. Invece la divinità di Gesù obbedisce ad altri schemi. Ma allora occorre una profonda conversione: non solo rinunciare a esprimere Gesù ricorrendo alle figure degli antichi profeti, ma anche rinunciare ad esprimerlo ricorrendo alla comune nozione di Dio. [Infatti] la tentazione che fu di Gesù [«Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane», Mt 4,3ss], e che ora è dei discepoli [«Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai»], è la tentazione di sempre: rifiutare – in nome del Messia glorioso – il Servo di Dio» [B. Maggioni, il racconto di Matteo, Cittadella Editrice, Assisi 2004, 209-212].

La cosa interessante sarebbe provare a rintracciare in noi dove risiede tale “tentazione di sempre”. Cioè andare a ripercorrere il nostro modo di pensare a Lui, di pregare Lui, di vivere di Lui e vedere dove a istruirci sulla sua identità è il vangelo e dove invece è “uno schema interpretativo già conosciuto”, “una comune nozione di Dio”…


A me pare, infatti, che troppo spesso in noi rispunti quel “già conoscere”, “già sapere” tutto di Dio, di Gesù, della morale, che invece che favorire il nostro relazionarci a Lui, fa come da cortina, impedendoci di incontrarlo veramente per ciò che è stato (dunque, che è!)… impedendogli in qualche modo di essere sé… Esattamente come con le persone sulle quali abbiamo un pre-giudizio, che non incontriamo mai per quello che sono o provano ad essere, ma sempre nell’immagine distorta che le lenti della nostra pre-comprensione ci fan vedere…

Mi si dirà che è impossibile incontrare qualcuno in maniera totalmente neutrale, senza averne in qualche modo un pre-giudizio: già il come una persona ci viene incontro, il come è vestita, ecc… anche senza che noi lo vogliamo, fa scattare in noi un giudizio (non necessariamente negativo), cioè un tentativo di definire ciò che mi sta davanti, di organizzarlo all’interno delle “cose” già note… in qualche modo etichettandolo.

Questo è vero: noi – in prima battuta – possiamo conoscere solo definendo le cose, cioè nominandole (quindi dandogli un nome, un’etichetta, appunto), ma anche confinandole (cioè dandogli dei confini, un riquadro entro cui stare: “Tu sei quella cosa lì per me”)!

E anche con Dio “funziona” così: l’imbattersi in Lui, per noi, segue la stessa dinamica dell’imbattersi nelle cose, nel mondo, negli altri... Anche Lui emerge nella nostra coscienza per distinzione (“Dio non è questa cosa”), per nominazione (“Dio è quest’altra”), dandogli un confine / un’etichetta (“Dio è questa cosa e non è quest’altra”)…

Fin qui c’è davvero poco spazio per la libertà umana… questo processo del conoscere è innato… fa parte del come siamo fatti… è fuori dal nostro spazio di manovra. È uno dei confini del nostro essere finiti: l’uomo quando conosce razionalmente, lo fa così.

E però il processo conoscitivo non finisce qui! In seconda battuta, infatti, entra in gioco la nostra libertà: il nostro deciderci di fronte a quell’oggetto di conoscenza in cui ci siamo imbattuti e cui, nella nostra testa, abbiamo iniziato a dare una forma.

E il decidersi consiste essenzialmente nel decidere di entrare o meno in una relazione con quell’oggetto di conoscenza: è qualcosa / qualcuno per cui “vale la pena” sbilanciarsi oppure no?

È a questo punto che si formula in noi tutta quella serie di considerazioni (più o meno consce), del tipo: mi è utile / non mi è utile; è bello / non è bello; è giusto / non è giusto; ecc… entrare in relazione con questa cosa / con questa persona?

Spesso rispondiamo “No”, troppo spesso… purtroppo. Ci fermiamo infatti a quella che comunemente chiamiamo “la prima impressione”, che spesso è negativa (ci identifichiamo e identifichiamo ciò che non siamo noi, per distinzione, appunto) e scegliamo di non entrare in una relazione. (C’è anche da dire che il dire molti più no che sì è anche dovuto ad un limite spazio-temporale: nessuno potrebbe mai dire sì a tutte le relazioni che gli si propongono in vita).

Capita poi –a volte, invece – di dire di sì: è a quel punto che parte un nuovo percorso.

Io credo che con il Signore il nostro itinerario sia stato più o meno come quello appena descritto: ci si è imbattuti in Lui (per molti di noi quando ancora eravamo in fasce), ci si è formati una “prima impressione” – una prima etichetta, mutuata soprattutto dall’ambiente familiare e sociale in cui siamo cresciuti –, si è deciso che “valeva la pena” entrare in questa relazione… come dicevamo per i più svariati motivi: perché avevamo paura che facendo altrimenti saremmo andati all’inferno; perché così facevan tutti; perché il gruppo di amici / amiche del quartiere frequentavano l’oratorio; perché abbiamo intuito che lì dentro c’era una verità di senso sulla vita; ecc…

Come dicevamo, la scelta di entrare in quella relazione è stata frutto di tutta una serie di considerazioni – a noi più o meno note (cioè più o meno consapevolizzate) – che arrivavano da tante parti diverse, dentro e fuori di noi: alcune considerazioni oggi ci appaiono più nobili, altre più grette, ma in noi ce n’erano di tutti i tipi… Non esistono infatti decisioni pure… Tutto il nostro agire è spurio… frutto di nobiltà e grettezza, grandezza d’animo e bassezze, coraggio e paure, amore e odio, libertà e gelosia, ecc… ecc… ecc…

Anche il nostro decidere di seguire il Signore! Che per altro lo sapeva… Scrive infatti san Paolo in proposito: «mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8)… Cosa di cui ci dimentichiamo quando si tratta degli altri… Infatti continuiamo a propugnare la teoria che il Signore ama i peccatori che si convertono! Mentre stando al vangelo, la buona notizia era che il Signore ama i peccatori (punto!). Non che li ama solo se si convertono… Anche perché se no che buona notizia è per i peccatori? Se si convertono, infatti, già di loro non sono più peccatori… Va beh… ma questa è un’altra storia…

Tornando a noi… Io credo che il vangelo di oggi si rivolga proprio a persone come noi che hanno già fatto il percorso descritto: imbattersi nel Signore, dargli un’etichetta, decidere di “collocarlo” fra le relazioni “da tenere”…

La questione ora diventa… come “tenere” questa relazione…

Ci sono infatti relazioni nella nostra vita che noi continuiamo a “tenere”, ma che non si evolvono dallo stadio dell’“etichetta”: l’altro è sempre letto a partire da come io l’ho inteso, l’ho inquadrato, l’ho confinato…

Ecco io penso che il vangelo di questa domenica con la citazione di don Bruno Maggioni che ho messo all’inizio, vadano a toccare esattamente questo punto: Non ci staremo forme mica relazionando anche col Signore in questo modo? Non è che forse continuiamo a darGli quel nome (quell’etichetta) che nasce dalla “comune nozione di Dio”? Cioè: non è che abbiamo compresso la storia di Gesù (sentita chissà quante volte) all’interno di uno schema comprensivo che gli era estraneo? Come se l’avessimo confinato (dato una definizione) in cui Lui non sta? In cui Lui non si riconoscerebbe?

Mi pare infatti che troppo spesso in noi rispunti quell’immagine di Dio – nota a tutti e già conosciuta da tutti, atei compresi – scritta a prescindere da Gesù. La sua storia, poi, appunto, è un’altra storia…

Esattamente quello che facciamo anche nelle relazioni tra di noi, quando presumiamo di sapere già tutto dell’altro, senza mai stare ad ascoltare la sua storia, guardare il suo volto, conoscere le sue ferite, ecc…

Ciò di cui allora forse urge che prendiamo coscienza – a partire dal vangelo che la liturgia ci propone – è il fatto che noi dovremmo dire chi è Gesù a partire dalla sua storia… e dire chi è Dio a partire dalla storia di Gesù. Questo è ciò che anche nell’ultimo Concilio ha ribadito la Chiesa! È la storia di Gesù a istruirci rispetto a quale sia il volto di Dio!

Se alcuni tratti del volto di Dio che abbiamo in testa noi e che magari abbiamo mutuato dalla “comune nozione di Dio” non collimano con quelli che emergono dalla storia di Gesù, ebbene, vanno abbandonati… Non solo: vanno abbattuti! Sono infatti idoli, cioè false immagini… Spesso ben mascherate!

Per esempio, l’immagine di “Dio super-io”…

Quest’operazione di “abbattimento degli idoli” è ancor più necessaria per il fatto che “distorcere il volto di Dio” è un’operazione che ha delle conseguenze assai rilevanti sulla nostra vita… Se infatti ci pensiamo come discepoli, non possiamo non vedere quanto sia pericoloso per noi (e per chi ci sta intorno) seguire la falsa immagine del volto di Dio!

Saremmo discepoli di un dio falso, di un dio che non esiste!

Ecco perché Gesù, nel vangelo di Matteo, ogni volta che fa un annuncio della sua passione (ne farà tre, il nostro è il primo della serie) unisce sempre anche un’indicazione su chi è il discepolo. È come se dicesse: “Io sono questa cosa qui, sono Dio in questo senso qui («Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno»), quindi voi siete questa cosa qui, siete miei discepoli, se fate così («Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua…»)”.
La domanda allora che dobbiamo continuamente riproporci è questa: Il Signore della mia vita è quello coi tratti di uno che muore in croce per amore, pur di non rinnegare l’amore? E io sono suo discepolo?

giovedì 18 agosto 2011

XXI Domenica del Tempo Ordinario: Sciogliamo tutti!

Il testo del vangelo che la liturgia ci propone per questa ventunesima domenica del tempo ordinario è tratto dal capitolo 16 di Matteo.

Dopo l’episodio della cananea di settimana scorsa (Mt 15,21-28) e dopo alcuni episodi che la liturgia domenicale non ha lo spazio di presentare (le guarigioni di Gesù presso il lago – Mt 15,29-31; la seconda moltiplicazione dei pani, Mt 15,32-39; la discussione coi farisei e i sadducei e l’istruzione ai discepoli sul loro lievito, Mt 16,1-12), al v.13 si dice che Gesù giunse nella regione di Cesarea di Filippo.

È questo un posto diventato famoso, perché qui – come raccontano Matteo e Marco – Gesù pose ai suoi discepoli la decisiva duplice domanda su cosa la gente e poi i discepoli stessi avessero percepito della sua identità: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?», «Voi, chi dite che io sia?».

Sono domande che giungono – sia per i discepoli, sia per i lettori del vangelo – quando ormai la vita pubblica di Gesù è già ben delineata (per questo ciascuno dovrebbe dare la sua risposta!)… a questo punto del vangelo infatti Egli ha già detto molte cose (Matteo, per esempio, nei capitoli precedenti ha riportato il discorso della montagna, il discorso missionario, il discorso in parabole)… ne ha anche già fatte molte (a partire dai racconti sulla sua infanzia, l’inizio della sua vita pubblica, fino ai miracoli e alle controversie coi farisei)…

Proprio a questo punto, quindi, Gesù sembra voler fermare un attimo il flusso degli eventi e fare il punto della situazione: Cosa ha capito di me la gente? Cosa han capito di me i miei?

Ed ecco che arriva la risposta di Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»!


Una risposta forte! Una risposta grande! Soprattutto in bocca ad un ebreo! Dunque, possiamo immaginare che – certo Pietro l’avrà detta con convinzione ed entusiasmo (sull’onda dell’affetto e dell’ammirazione smisurati che aveva per il suo amico e maestro Gesù) – ma anche con una punta di trepidazione (“Non starò mica esagerando!?!?”).

E invece… nella reazione di Gesù (cui paiono sussultare di gioia le viscere), ecco la conferma di essere nel giusto: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli»!

Gesù stava tastando il terreno: voleva capire in che misura ciò che aveva detto e fatto, avesse mostrato effettivamente alla coscienza della gente chi Lui fosse (questa, infatti, pare essere la sua preoccupazione fondamentale: che la sua vita, il dipanarsi della sua singolarità, la sua libertà storica, sia incontrata nella sua verità dai singoli uomini e donne che incontra. E tutto ciò è così importante perché Egli sa che nello svolgersi della sua storia, si rivela Dio! E… dall’idea di Dio che uno ha in testa dipende tutto l’orizzonte di senso su cui impostare la vita, l’idea di uomo, di amore, di relazioni, di morte...).

Ecco perché la risposta di Pietro è così importante per Lui: perché è il riconoscimento! Pietro ha capito che in quell’uomo lì si dà qualcosa che non è contenibile nelle categorie solite della religiosità ebraica: Gesù non è Giovanni Battista redivivo o Elia o Geremia; la sua persona non è esauribile nella categoria di profeta. Egli – dice Pietro – è il Messia, colui che deve venire a salvare gli uomini, e il Figlio di Dio, qualcuno che ha a che vedere direttamente con Dio (la Chiesa poi dirà Dio lui stesso, che per l’ambiente ebraico – da cui provenivano Pietro e tutti i primi cristiani – è una delle bestemmie peggiori, perché infrange il primo – e più importante – comandamento, fondante lo stretto monoteismo ebraico: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione servile. Non avere altri dei di fronte a me» – Dt 5,6-7).

Ecco perché a Gesù nasce come un guizzo di gioia interiore («Beato sei tu, Simone»!)… perché sta intuendo…

Un guizzo, che lo porta a fare qualcosa di inaudito…

Infatti, di fronte alla professione di fede di Pietro, Gesù – a sua volta – fa la sua di professione: «E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli»!

Gesù – cioè –, di fronte alla dichiarazione di Pietro di fidarsi di Lui e, in Lui, di Dio, risponde con la sua professione di fede nell’uomo: il Dio di Gesù Cristo è il Dio che si fida dell’uomo: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa»; «A te darò le chiavi del regno dei cieli»!

Se già è sconvolgente per la mentalità del tempo che Pietro dica di Gesù «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente», ancora di più lo è il fatto che Gesù dica a Pietro «A te darò le chiavi del regno dei cieli»! Che Dio, cioè, nel suo Figlio e attraverso il suo Spirito si fidi dell’uomo per la realizzazione del suo regno, cioè per la realizzazione del mondo come Lui lo vuole, è qualcosa che fa sobbalzare!

Di tutto questo “sobbalzo” – però – la tradizione cristiana ha come un po’ attenuato la portata… ciò che infatti, di questo brano, la nostra memoria cristiana ha trattenuto è soprattutto quel potere di “legare e sciogliere” in terra ciò che resterà legato e sciolto in cielo… Questo è ciò che attira immediatamente l’attenzione.

Non a caso la scelta della prima lettura va esattamente in questa direzione, menzionando la decisione di Dio di porre sul trono di Giuda Eliakim, del quale viene detto: «Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide: se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire», che è un’espressione che richiama quella del vangelo.

Vorrei dunque spendere qualche parola in proposito…

Noi infatti immediatamente associamo queste affermazioni (quella di Isaia su Eliakim e quella di Gesù su Pietro) ad un conferimento di potere, che – per quanto riguarda il NT – colleghiamo subito al sacramento della riconciliazione… Il percorso mentale che facciamo mi pare possa essere delineato in questo modo: se a Pietro è stato conferito questo potere di legare o sciogliere, vuol dire che lui e i suoi successori (indistintamente papi, vescovi, preti) hanno il potere – attraverso la confessione – di decidere chi va in paradiso e chi no… ragionamento dal quale derivano poi – a cascata – tutta una serie di altre considerazioni come per esempio quella dell’assoluta necessità di confessarsi prima di morire, ecc…

Ora, io credo che – per orientare il tutto ed evitare fraintendimenti o letture riduttive – vada colta una piccola parolina che Isaia mette in quella che è la nostra prima lettura: «Eliakim sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme e per il casato di Giuda»!

Cioè, è vero che dentro alle parole del profeta e dentro alle parole di Gesù c’è in gioco un conferimento di potere, ma questo è un potere diverso da quello che inseguono le logiche umane. Questo potere evangelico non è capriccioso (questo lo lego / questo lo sciolgo; a questo apro / a questo chiudo), ma paterno. Ha cioè in sé il germe del contagio della paternità di Dio; dicevamo infatti che è l’attestazione della fiducia che Dio ripone nell’uomo per la costruzione condivisa (tra Dio e l’uomo, appunto) del Regno!

Ecco perché quell’invito dovrebbe suscitare in tutti noi che tentiamo di essere almeno un po’ discepoli, il desiderio di usare di questo potere animati dallo stesso Spirito di paternità proprio di Dio! Cioè mai come un qualcosa di nostro, da usare contro gli altri. Ma un qualcosa di tutti, messo – immeritatamente – nelle nostre mani perché arrivi a tutti!

Da cui io penso non si possa che dedurre che è proprio necessario che i cristiani si mettano sulle strade del mondo per sciogliere tutti! Altrimenti… è un potere discriminante («che è una parola terribile, perché ha una radice semantica che suggerisce che di là ci sono i criminali» [Giuliano]) non attribuibile al Dio di Gesù!

venerdì 12 agosto 2011

XX Domenica del Tempo Ordinario: Dio anche per noi stranieri

Le letture che la Chiesa ci propone per questa ventesima domenica del Tempo Ordinario mi hanno suscitato un vero e proprio fermento di riflessioni, spunti, intuizioni… io vorrei provare a mettere tutto per iscritto, ma temo che l’effervescenza che m’ha preso, mi porti a fare un po’ di confusione… perché vorrei dire tutto quanto m’è passato nell’anima, ma non sempre è facile tradurre questi “attraversamenti” in pensieri razionali e in discorsi compiuti… Ne risulterà perciò forse – e me ne scuso fin da ora – una lectio un po’ turbolenta, che – appunto – vuol più provare a metter lì delle suggestioni, che a compiere un percorso organico…

Innanzitutto vorrei sottolineare come tutte e tre le letture contengano un riferimento chiarissimo agli stranieri:

-          Isaia dice: «Gli stranieri li condurrò sul mio monte santo e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera. I loro olocausti e i loro sacrifici saranno graditi sul mio altare, perché la mia casa si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli» (Is 56,7).

-          San Paolo scrive alla comunità cristiana di Roma (dunque a cristiani non ebrei, anzi a cristiani romani… romani esattamente come coloro che occupavano la Palestina…); scrive cioè a stranieri – particolarmente non amati – e gli scrive riconoscendo la loro piena titolarità cristiana;

-          Infine il vangelo parla dell’incontro di Gesù con una donna straniera (una Cananea), con la quale Egli ha un confronto proprio in merito alla sua “estraneità” al popolo eletto…

E allora, mi veniva da pensare al grande problema degli immigrati, degli stranieri che arrivano nella nostra Italia, delle inconsulte reazioni che tutto ciò ha provocato nei mesi scorsi (e di cui oggi ci siamo totalmente scordati, perché presi da altro… dal terrore che i nostri soldi diventino carta straccia), della strumentalizzazione della sofferenza della gente, del razzismo inconsapevole di tanti di noi, ecc… ecc… ecc… Ci sarebbe da andare avanti fino a domani mattina solo a parlare di questo…

Ma ciò che invece vorrei far notare è come la reazione a tutto ciò – cioè a queste letture che ci richiamano a questi problemi – solitamente sia di stampo morale: bisogna accogliere gli stranieri, bisogna aiutarli, bisogna rispettare la loro diversità, ecc… che son tutte cose vere e sacrosante, ma che – mi pare – non arrivino fino al nodo vero della questione, che invece il testo biblico centra in pieno: gli stranieri siamo noi!


È un po’ come il discorso dei peccatori… Leggendo il vangelo noi ci mettiamo spesso a guardare le cose dal punto di vista (morale) dei giusti invitati a usare misericordia verso i peccatori, dato che Dio è misericordioso… Poche volte (magari legate a particolari situazioni della vita) ci viene istintiva l’identificazione col peccatore (non a caso nei nostri discorsi vien sempre fuori la necessità che – va bene tutto – però poi: “Che il Signore venga e faccia una bella distinzione finale – inferno/paradiso – tra i peccatori e noi!” ci scappa detto…). Ecco… per gli stranieri è la stessa cosa… Ogni volta che si parla di loro nella Bibbia, noi pensiamo non ad un messaggio rivolto a noi, ma un messaggio rivolto a loro (poverini!), mentre a noi non rimane altro che collaborare con Dio (da bravi figli che siamo – cosa che loro invece, così implicitamente pensiamo, non sono) al suo progetto di accoglienza anche nei loro confronti, ecc…

In realtà gli stranieri (così come i poveri e i peccatori) non sono l’occasione per la mia carità, ma sono un luogo teologico vero e proprio, in quanto paradigmatici della vera identità di ciascuno di noi. Noi siamo gli stranieri a cui pensava Isaia, cioè quelli non appartenenti per razza al popolo ebraico. Noi siamo i Romani a cui Paolo scrive per riconoscergli la possibilità di essere cristiani nonostante non siano ebrei. Noi siamo quella donna cananea che ha aperto la missione di Gesù al di là dei confini giudaici!

Cioè, queste letture sono rivolte a noi! E ciò che ci dicono è la buona notizia che Dio non è solo il Dio di un popolo, di una razza, di un gruppo (a cui noi non apparteniamo), ma può e vuole essere anche il Dio della mia vita… della mia vita non abilitata (per razza, eredità o merito) ad esserlo!

Allora, vedete che le cose cambiano… La prospettiva cambia… E diventa stupefacente andare a vedere come questa cosa è accaduta nella storia… quella volta… che poi ha spalancato le porte a tutti...

È ciò che è raccontato nel brano di vangelo di questa domenica attraverso tre passaggi sconvolgenti:

1-      Gesù cambia idea;

2-      è una donna straniera a fargliela cambiare;

3-      e la cambia su una questione fondamentale: Dio non è solo il Dio degli ebrei.

Per capire davvero la portata di questi elementi, che coraggiosamente la prima comunità cristiana ha voluto tramandare per sempre a tutta la Chiesa, proviamo a guardarli uno alla volta, da vicino.

1- Innanzitutto, dire che Gesù – che noi crediamo il Figlio di Dio – abbia cambiato idea “strada facendo”, lasciandosi provocare dalla storia che man mano viveva e dagli incontri che in essa faceva, non è una cosa così indolore. Ancora oggi (anzi forse molto più oggi che allora), affermare una cosa del genere scatena immediatamente reazioni di iper-prudenza, di attenuazione delle parole, di ridimensionamento della cosa. Non fa niente se è scritto in modo inequivocabile nel vangelo: la paura atavica della dissacrazione di Dio e della sua possibile ritorsione (eterna) è più forte. E allora si ha bisogno come di liofilizzare la vicenda terrena di Gesù, di renderla eterea, di de-storicizzarla.

Ma perché fa così paura dire che Gesù ha cambiato idea? Il timore è che questo possa mettere in discussione la sua divinità e – di conseguenza – la nostra salvezza. Cioè che, se Gesù non sapeva già tutto in anticipo (con l’esclusione quindi della possibilità per lui di cambiare idea, di evolvere nella presa di coscienza di sé, del Padre e della sua missione), ma “si è fatto” strada facendo (come fanno tutti i figli di questo mondo – e come peraltro di Lui dice anche il Credo…), allora forse non era Dio... Ecco il terrore sottostante!

Ma il problema è che in tutto questo ragionamento, che forse non esplicitiamo mai, ma che soggiace al nostro modo di rapportarci a Dio e dunque a noi stessi e agli altri, c’è un pregiudizio di fondo: il fatto che siamo noi a decidere il modo in cui Gesù deve essere Dio: deve sapere tutto e in anticipo (onniscienza), deve potere tutto ciò che vuole (onnipotenza), deve essere forte, grande, eterno... Insomma un plenipotenziario degli attributi degli abitanti dell’Olimpo... questo è il dio che abbiamo in testa noi, perché – ci chiediamo – se non fosse così, come potrebbe salvarci?

E seppur il vangelo è lì a smentire continuamente questa immagine e a invitarci a convertirla, essa rispunta sempre. Come per esempio qui, nella fatica, personale ed ecclesiale di prendere sul serio il fatto che Gesù abbia cambiato idea, che Gesù cioè fosse uomo per davvero e che questo, lungi dal diminuire la sua divinità, la rivela invece in pienezza: Gesù è Dio così, facendosi uomo. Tutti i tentativi di ridurre, mitigare, diluire la sua personale vicenda storica, pensando così di salvaguardarne la divinità, in realtà perdono l’una e non trovano l’altra, se non, al massimo, in una forma evanescente, inconsistente, insapore e incolore, tanto lontana dalla vita dell’uomo da apparire superflua, se non addirittura inutile (come di fatto accade oggi).

E pensare che tutta la vita di Gesù dice il contrario... nasce povero e nudo dal grembo di una donna; di lui il vangelo dice che «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52); che ha provato la lotta col male (Mt 4,1 ss); che si è lasciato provocare dalle discussioni con gli altri uomini (Mt 9,14 ss); che «si meravigliava» (Mc 6,6); che si intristiva e piangeva (Gv 11,35); che si commuoveva (Mt 14,14); che incontrava, andava, ritornava, amava, pregava; che provava «paura e angoscia» (Mc 14,33)… che – per dirla alla De Andrè – «è morto come tutti si muore, come quegli altri, cambiando colore».

E a meno di dire – come è stato detto dall’eresia docetista –che Gesù facesse finta, è necessario, di fronte a questa evidenza, assumere con serietà e radicalità il fatto che Gesù sia Dio proprio nel modo di farsi uomo! E che – viceversa – dentro a questo “farsi uomo” di Gesù, fatto di storia e incontri, riflessioni e esperienze, ci sia anche il suo modo di essere Dio: un Dio che sceglie di essere Dio-con-gli-uomini o Dio-mai-senza-l’uomo, che dunque sceglie di non scrivere la storia a prescindere da lui, ma di inventarla insieme con lui… sapendo il rischio che corre…

2- Secondo sconvolgimento: anche le donne in maniera inconcepibile per la mentalità ebraica di allora ed ecclesiastica di oggi – sono entrate in questo flusso di presa di coscienza di Gesù! E lo hanno fatto in modo radicale. È curioso quanto peso – ancora una volta con un coraggio smisurato – la prima comunità cristiana abbia riservato nei vangeli agli incontri di Gesù con le donne. Non solo per la loro quantità o frequenza, quanto per la loro decisività: Gesù nasce dal grembo di una donna; non ha paura di andare contro le prescrizioni ebraiche e di suscitare scandalo facendosi da loro toccare («Ed ecco una donna, che soffriva d'emorragia da dodici anni, gli si accostò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. […] Gesù, voltatosi, la vide e disse: “Coraggio, figliola, la tua fede ti ha guarita”», Mt 9,20.22) e amare («Ed ecco una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, venne con un vasetto di olio profumato; e fermatasi dietro si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato», Lc 7,37-38), difendendole pubblicamente («Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei», Gv 8,7); addirittura attribuendo all’incontro con una di esse la stessa necessità di farne memoria che assegna all’eucaristia («In verità vi dico: dovunque sarà predicato questo vangelo, nel mondo intero, sarà detto anche ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei» Mt 26,13); scegliendo tra tutti, appena risorto, di andare dalla sua Maria Maddalena («Maria!», Gv 20,16)…

E poi la nostra di oggi… quella donna che ha fatto cambiare idea al Figlio di Dio… una donna… che era straniera!

3- Testimone emblematica del fatto che il Signore è uno che accetta di avventurare la sua libertà nell’intreccio con quella della sua creatura, a prescindere da qualsiasi barriera razziale, culturale, di genere, incontrandola invece in quell’intimità di sé (la stanza interiore) che fa l’uomo umano (e cioè abilitato all’incontro col divino – il divino di Gesù Cristo).

Ecco il terzo sconvolgimento! Il più sconvolgente perché ha sconvolto per primo Gesù stesso! Egli infatti ha dovuto prendere coscienza di dover cambiare idea e di dover uscire dalla mentalità giudaica del suo tempo che pensava la salvezza come dono esclusivo per Israele. A ben guardare infatti Gesù inizialmente si dedica «alle pecore perdute della casa d’Israele», non va nei territori pagani e non a caso chiama dodici discepoli: egli infatti vede la sua missione come la costruzione del nuovo Israele!

Ma… la vita gomito a gomito con la gente, nonostante il tentativo, anche duro, di trattenersi («egli non le rivolse neppure una parola») lo “converte”… gli fa cambiare strada… e spalancare le porte dell’incontro con Dio, in lui, a tutti gli uomini! Anche a noi stranieri!
Forse perché «dire no a chi ‘da vicino’ ti chiede qualcosa, è sempre più difficile» [Relazione per i 25 anni della fraternità di Lessolo].

mercoledì 3 agosto 2011

XIX Domenica del Tempo Ordinario: Il Signore… L’Altro di cui non avere paura

Le letture che la Chiesa ci propone per questa diciannovesima domenica del Tempo Ordinario sono davvero molto ricche: contengono infatti alcune tra le pagine più dense dell’AT e del NT.

Innanzitutto l’avventura di Elia… un profeta davvero “strano”… lontano dall’idea classica di profeta che spesso abbiamo in testa… un profeta che pretende di parlare e agire in nome di JHWH prima di arrivare a conoscere il suo vero volto… combinando perciò anche qualche pasticcio…

Sarebbe interessante andare a rileggersi la sua storia (contenuta nel I e II libro dei Re – si tratta infatti di un “profeta non scrittore”, cioè di un profeta che non ha nel canone biblico un libro che porta il suo nome), accompagnati magari da qualche buon commento (per esempio quello di G. Borgonovo), perché si tratta di una parabola umana davvero molto emblematica: Elia è colui che «arde di zelo per il Signore, Dio degli eserciti» e – animato da questo fervore – è colui che comanda, pretende, discute, uccide… Fino a quando quello stesso Signore che credeva di servire in quel modo, lo prende e lo conduce attraverso un itinerario di conversione… non morale… ma teologica… Elia infatti si comporta in quel modo perché ha in mente un’errata immagine di Dio (il Dio degli eserciti, appunto) e Dio vuole condurlo a diventare un uomo diverso, mostrandogli di essere un Dio diverso… «Il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera»… che letteralmente sarebbe “la voce di un silenzio svuotato”…

In questo doppio ossimoro (voce-silenzio-svuotato) sta il tentativo di raccontare l’esperienza del vero volto di Dio che Elia fa… Un doppio ossimoro davvero difficilmente comprensibile (molto più facile è invece intuire il volto di un dio che sta nel vento o nel terremoto o nel fuoco), ma forse è proprio a questo che Elia accede: il Signore non è un Dio “misurabile”, “contenibile”, “circoscrivibile”… è sempre Altro… lo si può intuire, incontrare, sfiorare, ma mai possedere… non ci sta dentro ai nostri schemi, ai nostri calcoli, alle nostre misure…

Scriveva a proposito D. Bonhoeffer in Resistenza e resa: «Chi è Dio? Anzitutto, non una fede generica in Dio nella sua onnipotenza ecc… Questa non è autentica esperienza di Dio, ma un pezzo di mondo prolungato. […] Il nostro rapporto con Dio non è un rapporto “religioso” con un essere, il più alto, il più potente, il migliore che si possa pensare – questa non è autentica trascendenza. […] Il trascendente non è il mostruoso, il caotico, il lontano, l’orribile in forma animale, come nelle religioni orientali; ma neppure le forme concettuali dell’assoluto, del metafisico, dell’infinito, ecc…».

Ecco… io credo che – nonostante queste siano cose che abbiamo probabilmente spesso già sentito, studiato, meditato, ecc… – io credo che uno dei problemi più grandi della nostra fede resti proprio quello di vederla troppo spesso orientata verso un dio che in realtà è solo “un pezzo di mondo prolungato”… non Lui come veramente è… ma come noi ce lo siamo costruito nella nostra testa…


Per esempio io è più di un anno che nutro un grande risentimento per il dio che mi ha fatto morire mio fratello. Solo che questo “dio che mi ha fatto morire mio fratello”, semplicemente non esiste, non è il Dio di Gesù e Signore della mia vita. Solo che continuamente nel mio cuore e nella mia mente, quando provo a stare un po’ in compagnia di Dio, è lui – questo idolo / falso dio – che “prende il posto” a quell’Altro…

Siccome è a questi livelli che si gioca l’incontro col Signore, possibile solo nel suo lasciarlo essere Sé (e non un altro), è fondamentale ricercare sempre quella lucidità di sguardo che ci permette di non confonderci… una lucidità non solo intellettuale, ma anzitutto esistenziale – come quella che arriva ad acquisire Elia – che dunque necessita di tempo, di bollitura, di andate e ritorni, di storia… e che ha bisogno essenzialmente dei tre ingredienti imprescindibili dell’esperienza cristiana (imprescindibili perché coincidono col modo in cui il Signore stesso si è reso accessibile): la sua Parola, il dono del suo corpo e del suo sangue, i suoi poveri.

Mi pare che anche il vangelo vada in questo senso…

Infatti immediatamente dopo la moltiplicazione dei pani, Gesù attua una serie di comportamenti che attestano questo suo essere “al di là delle misure umane” e che, non per niente, suscita reazioni di incomprensione: «La folla reagisce d’istinto al miracolo gratuito e sorprendente del Signore. È “saziata”, e quindi tentata di sequestrare questo taumaturgo che risolverebbe tanti problemi (fino a pensare di farlo re, come ricorda il Vangelo di Giovanni). I discepoli non ci capiscono più niente, perché prima volevano congedare la folla, quando era affamata e senza risorse, e adesso che Gesù la vuole congedare perché è saziata, loro vorrebbero trattenerla, per godersi gli allori del miracolo…» [Giuliano]. Insomma… quando tutti si aspetterebbero un certo tipo di messianicità (regale, osannata), Gesù si discosta… congeda la folla, spedisce i discepoli… e va «in disparte, a pregare»… Altro elemento anomalo… se è Dio lui stesso, perché prega? Mi piace citare la risposta di B. Maggioni (in il racconto di Matteo): «Non è certo possibile per noi penetrare tutto il segreto di questa preghiera solitaria. Ma forse ci avviciniamo un poco se pensiamo che era profondamente consapevole di essere Figlio, e nel colloquio col Padre esprimeva questa sua consapevolezza: uno slancio di comunione col Padre, quasi – per così dire – un ritorno a casa. Ma Gesù era anche consapevole di essere uomo, e come uomo – nella solitudine – si confrontava col Padre e con la sua parola per ritrovare costantemente la nitidezza e il coraggio della propria via».

Anche nel vangelo ritroviamo dunque questo inevitabile “essere Altro” del Signore… tant’è che quando poi raggiunge i suoi che sono sulla barca «i discepoli furono sconvolti e dissero: “È un fantasma!” e gridarono dalla paura»… cioè: non lo riconobbero (come avverrà poi in tutti i racconti di resurrezione)! È così “altro” rispetto ai loro preconcetti che non lo riconoscono... «Ma subito Gesù parlò loro dicendo: “Coraggio, sono io, non abbiate paura!”», che è una delle frasi più belle che il Signore pronuncia nei vangeli: Coraggio! Sono io (Io sono!)! Non abbiate paura! Come a dire che questa sua “alterità” irriducibile non deve e non può essere intesa nella logica del serpente, che pretendeva caratterizzare la misteriosità di Dio come qualcosa di inaccessibile per l’uomo perché rivolta contro di lui, maligna, malvagia… il “volta faccia di dio”… come se Dio di sé nascondesse qualcosa per prima attirare gli uomini (con la faccia del Padre) e poi soggiogarli o sterminarli (con la faccia nascosta del Patrigno). No! A questa tentazione diabolica di pensare così, Gesù mette subito un freno: «Io sono!» - dice innanzitutto… Cioè, sono sempre quello stesso Signore che già conoscete, da Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, Elia… «Non abbiate paura!»… Sono solo un Padre, mai un Patrigno. Il giusto modo di starmi di fronte è quello di non avere paura!

Dopo Gesù non si può più avere paura di Dio… Averne, è un chiaro segno che non lo si sta lasciando essere, ma ci si sta relazionando con un’immagine falsa che ci siam messi noi in testa! Tant’è che tutto il prosieguo del brano è giocato proprio sulla risposta umana al proporsi così (come Colui di cui non si deve avere paura) del Signore.

«Pietro allora gli rispose: “Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque”. Ed egli disse: “Vieni!”. Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù».

Pietro è tutti noi… Quando permettiamo al Signore di essere se stesso (Sono io! / Se sei tu…) – e ci si staccano perciò di dosso tutte le paure (Non abbiate paura! / Comandami di venire verso di te) – siamo capaci dell’impossibile (si mise a camminare sulle acque)…

«Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare»…

Quando togliamo lo sguardo da ciò che Lui è quando lo lasciamo essere sé (vedendo il vento forte) – e perciò ci ritornano tutte le paure (s’impaurì) – ci accartocciamo (cominciando ad affondare).

«Gridò: “Signore, salvami!”. E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”».

Ma anche questo è “previsto”, cioè contenuto nello sguardo del Signore, che – non perché non siamo sempre all’altezza – tradisce le parole appena pronunciate diventando un Dio di cui aver paura (anche quando siamo peccatori il Signore vuole essere lasciato essere colui che non fa paura!)… e infatti: «subito Gesù tese la mano e lo afferrò», subito cioè Egli si ri-rivela come il Signore che salva non il Signore che condanna o lascia morire… senza esitazione, nonostante Pietro abbia appena fatto il contrario di ciò che gli aveva detto… aveva dubitato… cioè aveva avuto paura!

«Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: “Davvero tu sei Figlio di Dio!”». Quell’Altro di cui non avere paura!
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