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domenica 31 luglio 2011

Oltre la rassegna(a)zione: ascoltare la Parola per vivere da liberi



Abbiamo davanti agli occhi, la fatica quotidiana per riuscire ad arrivare alla fine del mese. Conosco gente che oramai per vivere, per riuscire a mantenere il suo tenore di vita (quello cioè che il “sistema” gli impone come dignitoso per sé e “solo per sé”), si sente “obbligata” a fare tre lavori. Uno ufficiale, l’altro di frodo quando capita, il terzo in permanenza, anche al bar, come venditore occasionale di cose tanto inutili quanto credute indispensabili.

Forse oggi riusciamo a capire meglio il grido di ben 2500 anni fa, di Isaia e ribadito da Gesù e dai cristiani di ogni tempo: solo un mondo fondato su una autentica giustizia (quella del Padre) rende possibile un equo sostentamento materiale e quindi un’autentica “adorazione”.

Abbiamo creduto che per poter vivere la vita concreta di ogni giorno, le sue leggi e le sue regole, dovessimo ignorare quelle evangeliche, come se queste appartenessero a un mondo ideale (e irreale) proprio di “persone speciali”, come i religiosi o i santi e che non potevano essere vissute da “uomini umani” (Pasolini). Ci rendiamo conto oggi più che mai, che invece quando l’ideale evangelico è ignorato, diventa vano ogni tentativo di attuare ciò che è umano. A furia di ignorare il Vangelo “perché impossibile da vivere in questo mondo”, ci stiamo rendendo conto che le leggi di questo mondo (anche la semplice buona educazione!) sono impossibili da vivere senza il Vangelo.

Un’economia (con tutto quello che la compone, formule finanziarie comprese) crea veramente profitto solo quando al proprio interno sono compresi i principi fondamentali del Vangelo. Solo la gratuità della charis rende possibile il profitto! Altrimenti quello che si produce non può che essere continua perdita anche per i pochi che si illudono di arricchirsi solo perché possiedono più degli altri.

C’è un nesso inscindibile tra economia e fede e spiritualità… Tra libertà religiosa e libertà economica: senza questa non c’è quella. Mosè, Isaia, Gesù, Paolo e i primi cristiani, Francesco e Gandhi… l’avevano capito! Cosa aspettano i cristiani se non a testimoniarlo almeno a riconoscerlo?

La vera fede è solo quella capace di costruire una nuova economia dove ciascuno possa uscire da un vano agitarsi (nei vari Egitto, Babilonia… e Pomigliano… sparsi nella storia) per poter finalmente trovare l’autentico frutto del proprio lavoro: Qui non ci sono luoghi da citare… né serve che ci siano delle “città di Dio” perché è il pianeta intero ad essere chiamato a risorgere e non una sua parte!

Come?
Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati. Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». Ed egli disse: «Portatemeli qui».
E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla.  Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene.

Il primo movimento è la compassione… quella di Dio che si manifesta concreta in Gesù Cristo, non quella effimera di una smemorata emozione che dura il tempo di un Tg o di una “pacca sulle spalle”.

Il secondo movimento è non aspettare di avere a sufficienza per cominciare a dare, spezzando la logica (dis)umana di un’economia individualista (vadano a comprarsi da mangiare), per condividere il niente che abbiamo. Per poter cominciare a condividere finalmente il necessario e non il superfluo. Ché, se superfluo, non serve (a) nessuno!

Il terzo movimento è uscire dalle dinamiche sacralizzanti che riducono il brano evangelico (nella quasi totalità dei commenti) a una prefigurazione e preparazione dell’istituzione dell'Eucaristia. Semmai – come il racconto dell’Ultima Cena di Giovanni intende – è il contrario: è l’Eucaristia – e quindi la Croce – ad essere prefigurazione e preparazione e costruzione di un’azione divina nella storica che cambi il modo e il mondo delle nostre relazioni economiche (notare che non ho scritto “ancheeconomiche”: perché persino l’amicizia si fonda su una dimensione esistenziale che permetta una relazione economica gratuita. Infatti le amicizie economicamente interessate non sono amicizie! Da ciò si può capire come la dimensione economica – come quella politica e religiosa – è una dimensione trascendentale che comprende tutto l’uomo e il suo agire).

Solo così “celebrare l’Eucaristia” non si riduce a una messinscena, vuota di incontri (nonostante lo sforzo di renderle solenniin un teatrale e spesso roboante quanto infecondo liturgismo), ma diventa un autentico celebrare la Vita Nuovache si è instaurata non solo nel nostro cuore ma anche nelle nostre tasche anche loro aperte come vasi comunicanti. E le nostre celebrazioni diventeranno allora il luogo dove si realizza e si manifesta al mondo intero la gioia evangelica di una solidarietà rinnovata che la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada e le vecchie e nuove ideologie xenofobe e “identitarie”, non potranno far altro che rinforzare, rinsaldare e rivitalizzare.

In questa chiave, tanto per restare ancorati alla nostra storia, non basta più, come ai tempi di Zaccheo, restituire quando si è legalmente rubato costruendo sull’ingiustizia la propria fortuna… E se si vuole anche dissolvere ogni dubbio sull’ennesima machiavellica furbizia, occorre cominciare a pensare e a costruire una economia che al suo interno abbia come profitto la capitalizzazione di ogni giustizia. Un astuto servitore del dio Mammona come GeorgeSoros se vuole fare ammenda veramente di aver usato la finanza come legale arma di distruzione di massa a proprio vantaggio, dovrebbe cominciare da qui. Questo sarebbe veramente restituire la dignità a chi è stata tolta… E ciascuno di noi, per niente estranei all’attuale catastrofe economica mondiale (con l’ingiustizia globale che ne consegue) per la parte che gli compete (più di quanto si pensi!), dovrebbe fare altrettanto. Cominciando, ad esempio, a istituire nelle nostre parrocchie una solidarietà economica che manifesti concretamente la comunione di fede tra di noi. E non passare il tempo a rompere questa comunione con giudizi sprezzanti sulla “non voglia di sacrifici” degli altri…

Se la fede nell’Eucaristia non arriva fin qui essa è mera alienante idolatria. Sì! anche l’adorazione eucaristica può essere idolatrica, perché nessuno si illuda, non basta che l’Eucaristia sia vera, per rendere vera ogni nostra sincera modalità di officiarla!

mercoledì 27 luglio 2011

XVIII Domenica del Tempo Ordinario: «Date loro voi stessi da mangiare»

«O voi tutti assetati»...

Inizia così, attraverso le parole del profeta Isaia, la liturgia della Parola di questa diciottesima domenica del Tempo Ordinario… richiamando alla coscienza una delle condizioni più umane dell’umanità… la sete… la fame... Chi infatti non sente di essere incluso in questa chiamata? Chi non ha provato la sete? Sete di acqua (paradigma di ogni altra sete), sete di senso, sete di vita, sete di cura, sete di custodia, sete di approvazione, sete di giustizia, sete di riconoscimento, sete di leggerezza, sete di affetto, sete di sorrisi, sete di star bene, sete di coccole, sete di serietà, sete di passione, sete di libertà, sete di Dio... Chi, addirittura, non ha rabbrividito di fronte alla percezione che forse proprio questa è la natura stessa dell’uomo: un essere, sempre, dovunque e comunque, assetato/affamato? E ancora, chi non ha avvertito come tutti i tentativi “in proprio” di dissetarsi e di sfamarsi siano destinati a sfumare tra le mani?

Nonostante infatti tutte le risorse che uno può mettere in campo, il mirino pare sempre come puntato male, destinato a fallire il centro della questione, il ciò che veramente sazia: «Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro patrimonio per ciò che non sazia?».

La risposta della Scrittura in merito sembra essere univoca: il Dio dei vostri padri, il Dio rivelato in Gesù è Colui che sfama (non che affama!) e disseta il suo popolo. «O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite; comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. […] Ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti» – dice Isaia… e il vangelo conferma: «Tutti mangiarono a sazietà».

Eppure… il problema rimane… le parole di Isaia sembrano infatti far riferimento alla promessa del banchetto escatologico e il gesto di Gesù di moltiplicare i pani e i pesci pare un gesto contingente, simbolico… E infatti il mondo (e noi, che siamo il nostro mondo) continua ad avere fame e sete… Anzi a morire nella fame e nella sete…


Che dire dunque rispetto a questi testi che ci parlano, sì, di un’inequivoca paternità di Dio (Dio è il Padre che nutre i suoi figli, non il patrigno che li sfrutta o li punisce togliendo loro il cibo! E questo è fuori da ogni dubbio – evangelicamente parlando –, tanto che è impensabile attribuire alla Sua volontà o indifferenza la nostra sete inappagata), ma che ci pongono anche innanzi a un Dio che non risolve – con interventi miracolosi e definitivi – la drammatica storica della nostra condizione di assetati/affamati?

Da questo punto di vista credo sia istruttivo anzitutto il vangelo…

Esso è collocato nel capitolo 14,13 di Matteo (è la prima delle due moltiplicazioni dei pani che questo evangelista narra, l’altra è in Mt 15,32-39); cioè nel capitolo immediatamente successivo a quello che abbiamo letto nelle scorse settimane e che conteneva il cosiddetto “discorso parabolico”. Tra quello e l’episodio odierno c’è però un duplice racconto di rifiuto / persecuzione che non si può non riportare alla mente: Mt 13,53-14,12 narra infatti della scoraggiante visita di Gesù a Nazareth («Non è costui il figlio del falegname?», Mt 13,55) e soprattutto dell’uccisione di Giovanni Battista per mano di Erode, in occasione di quell’infausto banchetto di compleanno in cui Erodìade, attraverso la figlia, chiese la testa del profeta.

È con i sentimenti provocati da queste vicende che Gesù «si ritirò in un luogo deserto, in disparte»… anche lui con la gola riarsa e assetata per lo strazio della morte assurda del suo amico e cugino Giovanni… per la sfacciataggine del potere, che si sente libero di decretare la morte dell’uomo sull’uomo… per la tragicità di vedere il regno del male che sempre sembra avanzare e spravanzare…

Forse proprio per questo, cioè proprio perché il suo cuore in questo momento è così umano da essere abitato dalla fame e dalla sete di tutti quelli che soffrono (cioè di tutti, prima o poi), di fronte alle folle che vengono a rompere il suo isolamento non prova fastidio, anzi, sembra quasi che in esse si riconosca: «Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro»!

E la prima cosa che fa, è guarire «i loro malati»… cioè far retrocedere il regno del male e far avanzare il Regno di Dio! Quasi che – ancora abitato dall’angoscia per la morte di Giovanni – volesse affrettarsi a dire e a dirsi che è la vita che vince sempre…

Che è esattamente la convinzione di cui abbiamo più sete quando ci muore qualcuno che amiamo.

Ma la narrazione procede… Giunge la sera e la folla in cui Gesù si è riconosciuto e per la quale ha guarito molti è sprovvista di cibo. I suoi discepoli gli suggeriscono di congedarla cosicché essa possa provvedere “in proprio” alla sua fame… Ma Gesù – che sa, come tutti, che questo è impossibile – risponde: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare»!

E in questa frase avviene il cambiamento della storia…

Infatti qui diventa chiaro come «il peccato originario (strutturale) della “emersione” umana nella storia dell’universo assume un nuovo volto, il suo vero volto: l’uomo per vivere e affermarsi ha bisogno di mangiare! Se nella dinamica biologica dell’universo questo cannibalismo dei viventi non fa problema, quando emerge la coscienza/ volontà/ libertà… e quindi la percezione della irrepetibilità, irrevocabilità della persona, l’uomo va in crisi, perché dovrebbe smettere di mangiare. Sussultano le strutture antropologiche costitutive, e si rivelano come tragedie, come raccontano i miti ancestrali: il bimbo mangia la madre, il figlio uccide il padre, il fratello dissangua il fratello, l’uomo opprime la donna, la tribù più forte schiavizza la debole, la legge è la gabbia dell’uomo che deve liberarsi… Dio mangia le sue creature…: Ognuno, insomma, sta mangiando un frutto che non doveva mangiare: con reazioni inumane: schifo, vomito, anoressia, bulimia… indigestioni e carestie… granai stipati di alimentari che vanno a male e popoli affamati.

Dentro il pellegrinaggio biblico iniziato quando Dio ha ascoltato il grido di fame del suo popolo, tra tante peripezie ed equivoci, si ripete il ritornello profetico sul senso di ogni pane: dallo da mangiare alla gente! Perché, quando la realtà storica non è la competizione, ne mangeranno e ne avanzerà anche! Questo è il paradosso economico / eucaristico: distribuire è moltiplicare» [Giuliano].

Ecco perché il Dio che ci è Padre e ci nutre, non fa qualche intervento miracolistico-risolutivo per la nostra fame e per la fame del mondo… perché il vero “miracolo” che ha cambiato la storia, l’ha già fatto… quando suo Figlio ha compiuto la sua missione: «cioè convincere il mondo (far toccare con mano sulla sua pelle) l’inversione della dinamica carnale avvenuta nella “sua carne crocifissa” – prefigurata nell’ultima cena, nella quale si è dato da mangiare e bere ai discepoli. Il livello “spirituale” a cui ci comanda di passare (esodo) non è un livello non carnale: è la carne “offerta” da mangiare e distribuita – cioè misteriosamente divenuta in lui capace di oblatività (il contrario di sé). E così realizza in modo impensato l’antico anelito profetico: del “senso” del pane: datelo da mangiare alla gente! Questo adesso è il senso del corpo umano…» [Giuliano].

Da allora «la dialettica di fondo dell’umanità non è più economica (come produrre beni per sfamare tutti?) politica (a quale “re” fare gestire la convivenza di affamati?…) affettiva (quale prodotto sazia la fame di amore?…) filosofica (quale l’origine e il senso di questa fame insaziabile, nel cuore dell’universo?)… ma evangelica.

Ecco! – la salvezza è entrata in “questo” mondo: il rapporto dialettico tra vita e morte, costitutivo dell’universo, ai suoi vari livelli di esistenza – tragico nell’uomo cosciente – diventa la dialettica tra morte (peccato) ed eucaristia, intesi come salvezza propria o altrui, salvare la propria vita o perderla, mangiare l’altro o offrirsi da mangiare… per rinnovare e continuare in sua memoria la salvezza nostra e del mondo! Trasformare il sanguinario rapporto con il dio sacrificale… in un convito fraterno ove offrirsi a vicenda…» [Giuliano].

È a questo livello che il Signore ha cambiato la storia… Con buona pace di chi dice che era meglio un miracolone definitivo… che però – appunto – se era definitivo, doveva eliminare la storia… dunque la nostra libertà… dunque noi… Il Dio di Gesù, invece, essendo amore, è Colui che mai si impone, mai fa un passo, senza il consenso altrui, mai “per un bene superiore” (la famosa “ragion di stato” di Caifa) sacrifica qualcuno o qualcosa di qualcuno… Altrimenti non sarebbe più se stesso, cioè non sarebbe più amore, ma qualcos’altro… Perché Lui sì che ha preso sul serio la logica evangelica del mai mangiare l’altro e sempre offrirsi da mangiare ed è su questo che continuamente si propone a noi.

E allora concludo con questa preghiera:

Sarebbe forse più facile accettare, o Signore, un’opera definita, dai contorni precisi; sarebbe più facile marciare inquadrati e con precise consegne; sarebbe più facile, Dio mio, obbedire specialmente a coloro che hanno già pensato e pesato tutto in vece nostra. Ma non è questo che tu o Signore vuoi da noi. Oggi, tu o Signore, vuoi che ci immischiamo con tutte le folle. Vuoi che ci immergiamo nel mondo che va lontano dal retto cammino e dopo d’aver constatato noi stessi l’immensa angoscia dei tuoi figli sperduti, possiamo allargare i nostri cuori in proporzione alla loro miseria. O Dio fatto uomo, fa che i nostri cuori siano abbastanza umani affinché i nostri fratelli vi si trovino a loro agio quando vi sono accolti.



[mons. Benson]

giovedì 21 luglio 2011

XVII Domenica del Tempo Ordinario. E se il Signore mi chiedesse: “Chiedimi ciò che vuoi?”

Il vangelo che la Chiesa ci propone per questa diciassettesima domenica del Tempo Ordinario – tratto anch’esso, come quelli delle due domeniche precedenti dal discorso parabolico di Matteo (cap.13) – inizia con la narrazione di due similitudini sul Regno: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra».

Sono immagini che, per la loro immediatezza, non necessitano di una spiegazione. Fanno parte di quel tipo di parabole brevi ed istantaneamente comprensibili che Gesù dispensava alle folle, dunque ai semplici, senza necessità di far grandi giri di parole.

Nonostante questo, esse, però, veicolano comunque degli interrogativi che chi le ascolta/legge non può non porsi: Nella mia vita ho incontrato il Regno dei cieli di cui parla Gesù? C’è stato qualcosa nella mia storia che ha avuto questa conformazione? Che cosa è stato come un tesoro, come una perla preziosa? Per che cosa sono o sono stato disposto a vendere tutto?


Certo le cose non sono immediatamente sovrapponibili… Non sempre ciò che ci è sembrato un tesoro (e per il quale magari abbiamo anche venduto tutto) si è poi rivelato tale! Spesso noi prendiamo e abbiamo preso degli abbagli… Ci siamo entusiasmati e spesi per ciò che forse non si è rivelato così promettente come sembrava all’inizio…

Ma – nonostante questo – io credo che ciascuno, anche solo perché l’ha sforato, sappia cogliere la differenza tra “la gioia di aver trovato” di cui parla il vangelo e qualche altra ambigua fascinazione.

In proposito, mi pare che le letture che accompagnano il vangelo di questa domenica, siano particolarmente istruttive per comprendere meglio il “cosa c’è in gioco” nelle parole di Gesù.

In particolare due frasi, che – a mio parere – hanno un rimando potentissimo.

Innanzitutto i vv. 11-12a di 1Re 3: «Poiché hai domandato questa cosa [un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male] e non hai domandato per te molti giorni, né hai domandato per te ricchezza, né hai domandato la vita dei tuoi nemici, ma hai domandato per te il discernimento nel giudicare, ecco, faccio secondo le tue parole».

In questo testo – che lasciamo agli esegeti stabilire se storico o leggendario – il re Salomone si trova di fronte al Signore che gli fa la domanda che – probabilmente – tutti vorrebbero sentirsi porre da Dio: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda».

Al di là delle eco puerili del genio di Aladino e dei suoi tre desideri che ci tornano alla mente, la situazione è di quelle che davvero danno da pensare… Che cosa chiedere a Dio per sé?

Spesso noi anneghiamo le nostre preghiere in un elenco (anche serio, ma) molto contingente di richieste e bisogni (che non vanno disdegnati, perché sono l’anelito – in quel momento – del nostro cuore); ma se si trattasse di fermarsi un attimo e chiedere qualcosa al Signore per sé, su come si è fatti, sulle nostre ferite, sulle nostre speranze… Cosa chiederemmo? Cioè dov’è il nostro tesoro («Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore», Mt 6,21)?

Interessante che il Signore ponga la domanda in termini personali: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda», cioè “conceda a te”, sbaragliando il campo da tutte quelle risposte moralistiche (fintamente pan-agapiche) – che a Salomone non sono nemmeno venute in mente, ma a noi sì – sulla pace universale e la fame nel mondo ecc ecc ecc… Di cui – come si vede bene dalla scelte economiche di tutti i giorni – non interessa niente a nessuno (cioè non interessa a sufficienza da far cambiare la struttura economica del primo mondo), ma di cui ci ricordiamo sempre quando dobbiamo fare i grandi proclami sui nostri desideri profondi…

Sbaragliato il campo da tutto questo (cioè da una risposta che è una non risposta perché non è vera e contemporaneamente fornisce una facile scappatoia per non pensare veramente a cosa vorrei “per me”), il problema rimane: “per me” che cosa chiederei al Signore?

E Salomone – che prende molto sul serio la domanda di Dio – risponde: «un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male»! Tra tutto quello che poteva chiedere, chiede “un cuore docile”.

Ecco, questo è uno che ha proprio capito! Anche se ha vissuto circa 1000 anni prima di Gesù, ha capito cos’Egli avrebbe inteso dire con “perla” e “tesoro”…

Ha capito cioè che in gioco, quando si ha a che fare con Dio e con le cose serie della vita, ci sono io… c’è la costruzione di sé, della propria interiorità e personalità (prima ancora che di progetti o idealità) … c’è il chi voglio essere e chi voglio diventare come uomo, come donna… il come vorrei essere ricordato… la consistenza interiore con la quale vorrei arrivare al momento di salutare questo mondo…

Ecco perché incontrarsi con Dio, con le cose importanti della vita, col suo Regno, magari anche inconsapevolmente, è come trovare un tesoro, come trovare una perla. Perché lì dentro c’è la possibilità di una costruzione di se stessi che ha una pienezza inaudita: scegliere di essere figli (dunque di accogliere un Padre nelle cui braccia tornare sempre a mettersi) e di essere fratelli.

Ecco perché Paolo può dire – ed è la seconda frase cui facevo cenno prima –: «Fratelli, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio». Perché se uno ha capito che la questione si gioca tutta sulla scelta di chi essere (in ciascuna situazione), sulla scelta di essere sempre figlio e fratello, allora nulla di ciò che può accadere esce (sta fuori) dall’orizzonte di senso del vivibile (bene), anche le ferite più grosse. Come ci hanno insegnato tanti eroi della Shoah: incatenati e uccisi, nei campi, c’erano uomini liberi! Cioè capaci di libertà! Capaci di scegliere, nella situazione di prigionia, oppressione e disumanizzazione, di essere uomini e non vittime.

Io credo che alla fine è di questo che si tratta… in tutta la vita… scegliere chi essere… perché è quello che di noi rimarrà…

Non a caso, il discorso parabolico di Matteo, si conclude con la parabola della rete: «il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi». Dove, innanzitutto, onde evitare fraintendimenti, c’è una precisazione da fare: la scelta tra “buoni” e “cattivi” è un problema “della fine del mondo”. La cernita viene fatta dopo la pesca, non durante… Anzi – durante – il Regno dei cieli è simile ad una rete che tira su tutti!

In secondo luogo, va notato come la finale («i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi»), che non gode della nostra simpatia, perché istintivamente richiama in noi l’immagine di un Dio giudice, calcolatore insensibile che ci fa paura (che è esattamente l’immagine di dio che il serpente da sempre tenta di instillare nel cuore dell’uomo e che Gesù da sempre tenta di distruggere!), in realtà ha la valenza tipica della “minaccia pedagogica”, come la mamma che dice “guarda che se non fai i compiti, non ti voglio più bene!”; dove l’accento non è sulla minaccia (fasulla), ma sulla preservazione della cosa importante e bella che si deve custodire (“fare i compiti!” o “essere pesci buoni”, dove appunto, l’essere “buoni” coincide esattamente con ciò che tentavamo di delineare in precedenza… “costruirsi dentro come figli… come fratelli”!).

Il problema storicamente è stato che nella cultura è stata veicolata maggiormente la minaccia (“Guarda che se fai così o non fai così vai all’inferno!”) – che aveva solo uno scopo pedagogico – che il nucleo incandescente da custodire (la buona notizia di Gesù) e così spesso ne son venuti fuori cristiani impauriti, che sceglievano non per adesione a qualcosa che riconoscevano come bello (un tesoro, una perla!), ma per evitare una punizione minacciata (l’inferno!)… cristiani moralistici e non evangelici! Che in più si sono messi a far la morale anche agli altri, dividendo già nell’aldiqua i pesci buoni dai pesci cattivi secondo i loro criteri!

L’invito di Gesù invece – attraverso il genere letterario della minaccia che sottolinea qualcosa di importante – è quello di rendersi conto che “durante la pesca”, cioè in questa vita qua che c’è donata, in gioco c’è qualcosa di radicale, di assoluto… in gioco ci siamo noi… nella nostra vita è di noi che ne va! L’essere “buono” o “cattivo” dunque non ha un senso morale, ma esistenziale e sempre recuperabile! Perché in ogni istante a ciascuno è chiesto di scegliere chi essere!

Mi pare dunque che queste tre parabolette, che ad una prima lettura sembravo qualcosa di fin troppo semplice per prestargli una grande attenzione, in realtà vadano a cogliere il problema più serio della nostra esistenza. E per questo meritano davvero di essere lasciate sedimentare in noi, perché arrivino a scardinarci negli anfratti più duri del nostro moralismo e ci facciano star lì un po’ seduti a pensare a chi siamo e a chi vogliamo essere…

sabato 16 luglio 2011

XVI domenica del Tempo Ordinario: La parabola della zizzania

I testi che la liturgia ci propone per questa sedicesima domenica del tempo ordinario sono ricchissimi, sia dal punto di vista della mole che del contenuto. Proprio per questo, a partire da essi, si potrebbero sviluppare innumerevoli tematiche, col rischio però, nel commento, di disperdersi.


Per evitare tale pericolo, focalizziamo l’attenzione in modo specifico sulla cosiddetta “parabola della zizzania” (Mt 13,24-30), stando bene attenti però a non scivolare immediatamente dalla parabola vera e propria alla sua spiegazione (Mt 13,36-43), che forse, per deformazione (cattolica), ci è più nota. Quest’ultima infatti ha tutt’altri intenti e tutt’altre finalità rispetto alla parabola e punta interamente l’interesse sulla tematica della fine del mondo; tematica che invece nella parabola occupa solo lo spazio di mezzo versetto (il 30b «al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio») e che dunque non ne costituisce di certo il centro.

Precisato l’intento di concentrarsi soprattutto sulla parabola della zizzania, va chiarita in primo luogo la sua collocazione; essa infatti non è casuale, ma davvero significativa per la comprensione: siamo al capitolo 13 del Vangelo di Matteo, ai versetti 24-30, e cioè immediatamente dopo la spiegazione della parabola di domenica scorsa: quella del seminatore. Ciò che risulta così interessante è il fatto che mentre quella terminava con il riferimento al terreno buono («Quello seminato nella terra buona è colui che ascolta la parola e la comprende; questi dà frutto e produce ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta», Mt 13,23), questa inizia con la menzione del seme buono («Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo», Mt 13,24). Questo richiamarsi così evidente delle due parabole ha una motivazione ben precisa: il fatto cioè che la problematica della seconda è in qualche modo lo sviluppo dell’esito della prima. Mentre in quella infatti si concludeva sottolineando la responsabilità dell’uomo (dei terreni) per la fecondità del seme, in questa nasce una domanda nuova: Perché da un seme buono e da un terreno buono, da cui dobbiamo aspettarci ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta, non viene solo un frutto buono, ma anche dell’altro?

Perché cioè, sembra domandare la parabola, neanche quando la Parola di Dio (il buon seme) si incontra in modo fecondo con l’uomo (il buon terreno), il problema dell’ambiguità della storia è risolto? Perché anche nel fruttuoso incontro dell’uomo con Dio rimangono zone d’ombra, interstizi imputriditi, spazi di aridità?

Ma non solo! La parabola infatti sembra suscitare anche tutta un’ulteriore serie di interrogativi: Come va identificata la zizzania? Da dove viene? Chi è quello che Gesù chiama “un nemico”? E soprattutto: Che cosa bisogna fare?

Andiamo con ordine...

Innanzitutto va evitata quella lettura (ereticheggiante) secondo la quale grano e zizzania rappresenterebbero la divisione fra buoni e cattivi. La questione infatti è più radicale: la zizzania non sono i malvagi, ma il male in senso forte, quello che non può essere trasformato in bene, ma che resta male radicale. Ecco dunque il problema vero: perché c’è il male, nonostante il seme buono e il terreno buono?

La parabola espone questo problema ponendo in bocca ai servi due domande: «Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?». La prima questione cade nel vuoto. Il padrone infatti alla prima domanda, che metteva in discussione la bontà del seme (che cioè poneva la possibilità dell’origine del male in Dio stesso), non risponde: è già stato detto che il seme era buono. La seconda questione riceve invece una risposta: «Un nemico ha fatto questo!»; ma è una risposta che non soddisfa; non scioglie la gravità del problema e anzi suscita ancora maggiori interrogativi: Chi è questo nemico? È un nemico che si può sconfiggere? Cosa bisogna fare?

Ma la parabola di tutte queste problematiche sembra disinteressarsi. Essa non dà risposta. Il suo interesse è altrove, nella nuova domanda dei servi: «Vuoi che andiamo a raccoglierla?».

È a partire da qui infatti che si snoda il proseguimento della parabola, facendo di questa domanda il centro di interesse vero di chi racconta e di chi ascolta: il problema è infatti che cosa fare di fronte al male che c’è; di fronte al male che c’è nonostante terra buona e seme buono si incontrino.

La soluzione proposta dai servi – «Vuoi che andiamo a raccoglierla?» – la soluzione cioè dell’eliminazione, è ancora nella prospettiva di chi divide il mondo in buoni o cattivi, in giusti e ingiusti, in puri e impuri, con l’implicita premessa di sapere distintamente chi sono i bravi (noi) e chi i cattivi (gli altri) e con la apparentemente ovvia e necessaria conseguenza dell’estirpazione... è la stessa logica dei discepoli quando, di fronte alla non accoglienza di Gesù da parte di un villaggio di Samaria, avevano esclamato: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?» (Lc 9,54).

È la modalità che immediatamente verrebbe naturale anche a noi. Ed in effetti non manca di una sua coerenza interna: togliere la zizzania infatti appare inevitabile per la crescita del grano; essa rischia di soffocarlo, di rubargli nutrimento, luce, aria e dunque vita! Non è una proposta assurda dunque quella dei servi: per la vita del grano, perché possa crescere più vigoroso, solido, robusto, è meglio che gli sia strappata intorno l’erbaccia che lo opprime... anche a rischio di strappare un po’ di grano – ci verrebbe da dire...

Eppure... questo discorso che a noi pare così lineare riceve nella parabola un duro rifiuto: «No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme». Per il padrone di casa è meglio che zizzania e grano crescano insieme! Conosce di certo le nostre obiezioni: il rischio che il grano soffochi, che faccia più fatica a crescere e a svilupparsi... Eppure preferisce correre questo rischio che percorrere la strada dell’estirpazione. In essa infatti il pericolo è ancora più realistico: «che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano».

È dunque la salvaguardia del grano il principio che guida la scelta del padrone!

Alla logica dei servi – così simile a quella di Caifa per cui «È meglio che un uomo solo muoia per il popolo» (Gv 18,14) – che una parte di grano sia strappata per la buona crescita del restante, Gesù contrappone quella della salvaguardia della singolarità preziosa di ciascuno. Il Dio di Gesù è fatto così: non ragiona secondi i calcoli economici del massimo profitto (per cui val la pena a volte anche sacrificare qualcosa/qualcuno per una rendita maggiore – come di fatto funziona il nostro mondo), ma secondo quelli della massima cura di ogni singolo uomo: «Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose, perché tu debba difenderti dall’accusa di giudice ingiusto. La tua forza infatti è il principio della giustizia, e il fatto che sei padrone di tutti, ti rende indulgente con tutti» (Sap 12,13.16).

Ma resta ancora qualcosa da dire... infatti, fatta salva la cura della singolarità di ognuno, resta il problema di questo “rimanere” della zizzania... Se essa rappresenta il male (il male che c’è in ciascuno di noi e nel mondo in generale) perché non va estirpato? La nostra singolarità non sarebbe ancora più custodita se il male fosse eliminato? Gesù non era venuto proprio per liberarci da esso? Sicuramente sì... E di fatti “tenere” la zizzania non vuol dire accettare un compromesso col male, un rassegnarsi inoperoso alla sua presenza (in noi e nel mondo), ma è un prendere coscienza serio della realtà: la zizzania che rimane nel campo è come una fotografia della storia, un invito a uno sguardo lucido su di essa che porti alla consapevolezza dell’ambiguità dei percorsi umani che accompagna tutta l’esistenza e che va assunta.

E l’ambiguità è questa: che come non si può dividere l’umanità in buoni e cattivi, allo stesso modo non si può neanche col bisturi separare nel nostro cuore il limpido dal torbido, il chiaro dall’ombroso... e non perché l’uno non possa esserci senza l’altro (quasi che il male fosse necessario al bene), ma perché ogni bene è bene storico, si dà cioè in una storia, che ha un prima e un dopo, una germinazione silente e un futuro incerto, che impedisce qualsiasi assolutizzazione o fissazione, foss’anche del momento più bello della vita. Per usare un’immagine: non possiamo pensare la nostra vita personale e la vita del mondo in generale come una linea retta in cui, in una progressione continua, man mano estirpiamo questo male, questo difetto, questo limite... per arrivare ad “essere apposto”. Ad ogni istante infatti si ripropone per l’uomo la questione fondamentale della sua esistenza: l’inevitabile domanda su chi egli sia e dunque l’inevitabile scelta su chi egli voglia essere. E seppure è vero che tale questione, nel procedere della vita, è posta in modo diverso, con soglie che come regali a volte si schiudono, e che dunque – come dice Paolo – man mano, «colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito», all’uomo rimane sempre comunque l’inesauribile problema di se stesso, di farsi e costruirsi, di scegliere se esser-ci o auto-distruggersi, di vivere o di morire...

Ecco cos’è dunque il campo di grano con la zizzania: la fotografia della realtà, di come siamo fatti, della storicità della costruzione della vita! Perché nessuna assolutizzazione (nel male e nel bene) interrompa il farsi dell’uomo...

E per concludere... e forse, per chiarire... un piccolo stralcio del libro L’ultimo giro di giostra di T.Terzani, il quale nelle pagine finali, dopo aver raccontato della scoperta di avere un cancro e di tutto il viaggio interiore che questo l’ha portato a fare, commenta:

«Un lieto fine per questo?

E che cos’è lieto, in un fine? E perché tutte le storie ne debbono avere uno? E quale sarebbe un lieto fine per la storia del viaggio che ho appena raccontato? “... e visse felice e contento”? Ma così finiscono le favole che sono fuori dal tempo, non le storie della vita che il tempo comunque consuma. E poi chi giudica ciò che è lieto e ciò che non è? E quando?

A conti fatti anche tutto il malanno di cui ho scritto è stato un bene o un male? È stato, e questo è l’importante. È stato, e con questo mi ha aiutato, perché senza quel malanno non avrei mai fatto il viaggio che ho fatto, non mi sarei mai posto le domande che, almeno per me, contavano.

Questa non è un’apologia del male o della sofferenza – e a me ne è toccata ancora poca. È un invito a guardare il mondo da un diverso punto di vista».

giovedì 7 luglio 2011

XV Domenica del Tempo Ordinario: La parabola dà da pensare

In questa quindicesima domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa, sopratutto nella prima lettura e nel vangelo, ci propone il tema della Parola di Dio, una delle vie di accesso imprescindibili alla relazione col Signore.
Lo fa, appunto, con il bellissimo testo di Isaia 55 e poi sopratutto nel brano evangelico, il quale è tratto dal capitolo 13 di Matteo, cioè esattamente dal punto di inizio del cosiddetto “Discorso in parabole”.

Questo tredicesimo capitolo segue il dodicesimo (che la liturgia domenicale non ci propone), che è un capitolo molto duro, tutto incentrato sulle contestazioni cui Gesù pian piano è sottoposto, e che si chiude con le forti parole di Gesù «chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre». È a questo punto che l’evangelista riferisce: «Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse»...

Inizia così il racconto della famosissima parabola del seme, riportata da tutti i sinottici (cfr. Mc 4,3ss e Lc 8,5ss).

Essa è sempre proposta accostata alla sua spiegazione e questi due momenti del discorso di Gesù sono inframmezzati da un piccolo, ma intensissimo, dialogo coi suoi discepoli.

Dato che – però – spesso nei percorsi automatici del nostro pensiero si sono fissati per lo più i dati della spiegazione della parabola (per esempio le associazioni tra i vari tipi di terreno e i possibili gruppi di ascoltatori della Parola), piuttosto che quelli della parabola stessa, mi pare utile procedere con ordine.


Iniziamo perciò dai versetti 3-9: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti».

Innanzitutto il genere letterario: siamo di fronte ad una parabola, perciò a quel particolare tipo di testo che gli esperti chiamano “racconto fittizio”, cioè un racconto realistico, che parte da elementi molto noti per gli uditori (nel nostro caso l’attività agricola), e che però non narra un fatto realmente accaduto, ma una storia, appunto. Come ogni parabola, anche la nostra, contiene poi in sé un elemento particolare (o perché stravagante o perché inusuale, esagerato, extra-ordinario) che scatena nell’uditore – che fino a quel momento aveva semplicemente ascoltato una storiella “normale”, senza tensioni letterarie – uno shock, che lo costringe a pensare.

La parabola funziona infatti sempre in questo modo: pare un racconto semplice, per semplici, ma ad un certo punto subisce una “variazione sul tema”, tale da provocare intorno a sé agitazione e riflessione.

Nel nostro caso questi momenti sembrano essere due: uno che tutti noi lettori moderni percepiamo all’istante, ma che in realtà forse per gli ascoltatori di Gesù era meno shockante, e che consiste nello “spreco” di semente che il seminatore attua; e l’altro – che noi percepiamo meno, ma che in realtà forse era il vero elemento scaravoltante per gli uditori di allora – che consiste nella sovrabbondanza del frutto portato dal terreno buono.

L’elemento che noi percepiamo come particolarmente anomalo, quello della sovrabbondanza del seme, allora era forse meno sentito come elemento inconsueto del racconto di Gesù, perché pare fosse abitudine degli agricoltori palestinesi di allora utilizzare questa metodologia di semina. Noi occidentali contemporanei con la nostra mentalità economico-efficientista, troviamo invece questo aspetto per lo meno strano, ed è per questo che da subito la parabola ci “dà da pensare”.

Al di là delle abitudini agricole dei contadini del tempo di Gesù, è da ammettere comunque che una certa esagerazione/sbadataggine di questo seminatore, nella parabola, non è casuale. In qualche modo questa sua sovrabbondanza allude alla sovrabbondanza con cui il Signore dispensa la sua Parola e – con essa – il suo amore.

Ecco dunque un primo elemento: la storiella apparentemente banale del seminatore, con questo stratagemma comunicativo dello “shock che dà da pensare” ha già fatto fare all’uditore un salto… Qui non si parla semplicemente di un seminatore e del suo seme, ma si sta rivelando qualcosa di chi è Dio. È la cosiddetta “funzione rivelativa” della parabola che, se è vero che spesso contiene anche un suggerimento morale o un’indicazione per la sequela, in realtà ha soprattutto lo scopo di dire qualcosa su chi è Dio. E qui ci dice appunto che il Signore non è un Dio tirchio, che sceglie con cura il destinatario della sua Parola tra coloro dai quali ha una buona probabilità di ottenere ascolto, ma è un Dio che dona con abbondanza, anzi con sovrabbondanza, un Dio che non teme lo spreco e l’esagerazione quando si tratta di dare, anzi di darsi, e che ha questo atteggiamento verso tutti, indipendentemente dalle credenziali altrui.

C’è poi – dicevamo – il secondo elemento, quello forse maggiormente percepito dai contemporanei di Gesù e che invece a noi – lontani ormai dall’esperienza rurale – cogliamo con minor immediatezza: il terreno buono non solo porta frutto, ma lo fa in una maniera impensabile, addirittura irrealistica, che forse ha fatto sogghignare con sarcasmo qualche contadino che era lì ad ascoltare Gesù: «il cento, il sessanta, il trenta per uno».

Anche questo elemento dà “dare da pensare” e – anche senza che egli se ne accorga – suscita nell’ascoltatore una serie di domande irriflesse: Che seme è questo che dà un frutto così abbondante? E di quale terreno sta parlando? Chi è questo seminatore? Com’è possibile un raccolto così sproporzionato? Ecc…

Per comprendere meglio il senso di questo IV quadro così positivo è forse utile notare come esso venga dopo 3 quadri assolutamente fallimentari: 1) «Una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono»; 2) «Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò»; 3) «Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono».

È dunque il contrasto “3 quadri bui / 1 quadro luminosissimo” che ci deve indirizzare nella giusta comprensione della parabola: essa – a fronte della predicazione apparentemente infruttuosa di Gesù e poi della prima Chiesa (chi scrive il vangelo è infatti convinto che Gesù sia il Messia e dunque fa fatica ad accettare che Egli sia stato rifiutato – soprattutto all’interno del suo popolo – e che la sua Parola non convinca immediatamente tutti) – è probabilmente scritta per coloro che erano tentati di sfiducia… A loro la parabola risponde dicendo che se anche la Parola incontra tanti ostacoli, tanti terreni non buoni, tante resistenze, comunque essa arriva anche al terreno buono e lì dà un frutto inimmaginabile per la sua sovrabbondanza: «Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata»!

Ma – come dicevamo in precedenza – il testo evangelico di questa domenica non termina qui. Continua infatti con un piccolo dialogo che intercorre tra Gesù e i suoi discepoli sul motivo per cui Egli parla in parabole.

Contrariamente a quanto – forse – siamo abituati a pensare, Gesù non risponde dicendo “Parlo in parabole, così – attraverso queste storielle – tutti, anche i più semplici, possono capirmi”, ma anzi, afferma proprio il contrario: “Perché a loro non è dato comprendere!”, e non sta parlando di avversari o cattivoni… ma delle folle… Le stesse a cui – abbiamo sentito settimana scorsa – aveva detto «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli»…

Forse allora, non solo il contenuto delle parabole deve dare da pensare… ma anche il genere letterario parabola in se stesso dà da pensare… Esso infatti incarna una strategia (un vero e proprio marchingegno) che funziona così: «Gesù stesso dice che ci sono delle parabole che racconta precisamente perché non capiscano, che vuol dire, appunto, che in realtà sono parabole che mirano a tenere in sospeso la comprensione. E quando si mira a tenere in sospeso la comprensione? Per esempio quando si ha il fondato timore che una spiegazione più diretta produca già l’automatismo di una comprensione che coincide con il fraintendimento, col prevalere del luogo comune. Quando io cioè, discorrendo di un argomento delicato, temo che, se adopero parole troppo dirette, esempi troppo elementari, quell’altro dica: “Ah, ecco è l’idea della grazia che…” ed invece sto cercando di aprire un varco nel luogo comune, per farlo evolvere, istintivamente adotto un congegno, un apparato di comunicazione che riesca a frenare quell’approdo immediato (della serie: “So, perché ho anch’io uno zio monsignore”), che l’altro debba pensare un attimo, forse pensandoci su si apre un varco perché possa scoprire dell’altro, perché gli venga in mente che, forse, quello che ha in mente, era uno schema un po’ semplificato, e gli mancavano dei pezzi; che forse l’argomento che voglio proporgli contiene qualcosa di più di quello che lui sa già e, spesso quando so che il luogo comune è pronto a scattare in un attimo, questo freno, questa inibizione della comprensione è destinata a creare un varco per un ripensamento» [Sequeri].

Le parole di Gesù ai discepoli dunque non denotano una sorta di selezione tra quelli a cui Dio vuole farsi conoscere e quelli per i quali invece vuole restare velato (non ri-velato, appunto) – prova ne è che poi questa parabola e la sua spiegazione “privata”, riservata cioè solo ai discepoli, è entrata nel testo evangelico, dove tutti possono leggerla! – ma mostra come quando si ha a che fare con Gesù, sia necessario rompere con il luogo comune, soprattutto con quello religioso. E il genere letterario parabolico serve esattamente a questo!
Una parola, infine, sulla spiegazione della parabola, caratterizzata dall’associazione di ciascun terreno con un determinato atteggiamento umano: dato che abbiamo già scritto fin troppo, solo una provocazione finale… È vero che a ciascun tipo di terreno è associato un tipo di persona, ma forse quei tipi di persona non coincidono con persone singole, ma con diversi modi di essere che ciascuno di noi ha in sé… Siamo noi dunque (e non altri) la strada, il terreno sassoso, quello pieno di spine… ma anche, a volte, quello buono... La questione diventa allora, come pian piano “lavorare” il terreno che noi siamo, perché in esso possa trovare casa il seme della Parola e portare frutto, lasciandoci da lei sempre più conformare, al di là dei luoghi comuni su Dio?
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