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giovedì 30 giugno 2011

XIV Domenica del Tempo Ordinario: Tre “carezze accelerate”

Dopo le grandi solennità che ci hanno accompagnato in questo ultimo periodo post-pasquale, ricomincia – anche per le domeniche – il Tempo Ordinario, che ci accompagnerà fino all’inizio del prossimo Avvento.


Secondo il calendario liturgico, domenica entriamo, infatti, nella XIV settimana del Tempo Ordinario e la liturgia ci fa “ripartire” con questa ferialità del tempo dal capitolo 11 del vangelo di Matteo.

Se consideriamo che l’ultima domenica del Tempo Ordinario – prima dell’interruzione quaresimale e poi pasquale – era la IX e il vangelo era tratto dal capitolo 7 di Matteo, ci accorgiamo subito che c’è un salto di circa 3 capitoli e mezzo…

È utile allora, prima di affrontare il brano odierno, rifare un po’ il punto della situazione: i primi due capitoli del vangelo di Matteo ci avevano raccontato l’infanzia di Gesù (dal punto di vista del suo padre legale, Giuseppe), i capitoli 3 e 4 avevano presentato l’inizio della sua missione (il trittico sinottico – ossia la predicazione e il battesimo di Giovanni Battista, il battesimo di Gesù, le tentazioni nel deserto; il ritorno in Galilea; la chiamata dei primi quattro discepoli; gli insegnamenti e i gesti di liberazione dal male di Gesù), i capitoli dal 5 al 7 contenevano, poi, il cosiddetto “discorso della montagna” (col la proclamazione delle beatitudini e della giustizia nuova che Gesù – con autorità – propone agli uomini – suggellata dall’invito all’amore per i nemici)… e i capitoli 8-9-10?

Essi costituiscono quella parte del vangelo di Matteo che usualmente viene chiamata “La predicazione del Regno dei cieli” e che si compone di una sezione narrativa in cui vengono raccontati dieci miracoli, le parole di Gesù sulle esigenze della sequela, la chiamata di Matteo, un pasto di Gesù con i peccatori e la conseguente discussione sul digiuno e infine il cosiddetto “discorso missionario”.

Prima di giungere al nostro brano (Mt 11,25-30), ci sono poi i primi 24 versetti del capitolo 11…

Rubando le parole a Giuliano, potremmo dunque dir così: «si va manifestando sempre più l’identità vera di Gesù e quindi della sua missione tra di noi e la nostra difficoltà a capirla. Abbiamo visto Gesù che va a pranzo con i peccatori e i pubblicani …e i farisei si scandalizzano. Gesù si commuove di compassione per le folle perché erano stanche e sfinite come pecore senza pastore, e vuole che i suoi discepoli le consolino e le curino … In questo capitolo 11°, si intensificano incomprensioni e resistenze verso di lui: Giovanni Battista non ne coglie la novità, il popolo non lo comprende, i farisei lo dichiarano indemoniato, e i villaggi sul lago, dove più si è speso come amico, profeta, taumaturgo, sono refrattari al suo messaggio. Gesù ne rimane molto deluso…: ha nelle orecchie i commenti su di lui degli esperti delle Scritture: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori… e soffre per l’inutilità della sua predicazione: “si mise a rimproverare le città nelle quali aveva compiuto il maggior numero di miracoli, perché non si erano convertite…” É arrivato al fondo di un vicolo cieco e proprio qui, si apre uno squarcio inaspettato di gioia… si spalancano orizzonti nuovi luminosi, entro i quali addirittura brilla il volto del Padre e in lui Gesù sussulta di riconoscenza ed esulta nello Spirito Santo (Lc 10 21), perché ritrova il senso della sua avventura in questo mondo».

Improvvisamente infatti prorompe nella preghiera che coincide con il testo evangelico di questa domenica: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.

Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.

Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero»!

È un testo bellissimo… che contiene tre fondamentali affermazioni (identificabili anche graficamente).

1- La prima… quella che ci fa più problema… o almeno quella che mi fa più problema… perché mi accorgo che spesso il tentativo è quello di presentarsi e di pensarsi – appunto – come sapienti e dotti agli occhi del mondo, agli occhi degli altri, agli occhi propri… con un atteggiamento non lontano nella dinamica da quello del fariseo della parabola di Lc 18,10-14 («O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano»), dove appunto in gioco c’è «l’intima presunzione di essere giusti» o migliori degli altri – che dunque “si possono disprezzare” («Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri», Lc 18,9)… E ogni volta – per fortuna! – la prima frase del vangelo odierno arriva come uno schiaffo a tirarmi fuori dai desideri di grandezza (soprattutto moral religiosi – o come li si vuol chiamare – che sono i peggiori, perché ben confezionati da quella che santa Teresa chiamava “falsa umiltà”!) e mi impone di domandarmi: “Perché questa frase ti fa venir male alla pancia, se è così bella, se custodisce i piccoli, ecc…?”. Forse perché – appunto – a tutti piace prendersi cura dei piccoli (da grandi che siamo), ma a nessuno piace essere considerati tali… Infatti mi chiedevo già tre anni fa – e non è un bel segno che me lo stia chiedendo ancora dopo tre anni… – quanto sarebbe diverso se, leggendo questo testo, io fossi – davvero – piccola tra i piccoli… Non mi verrebbe il mal di pancia… anzi mi si allargherebbe il sorriso… E invece mi viene il mal di pancia… che vuol dire che ce n’è davvero ancora tanta di strada da fare per convertire le viscere e ficcarsi una buona volta in questa testona che tutti esistenzialmente siam dei piccoli… e voler fare i grandi può servire per un po’ ad acquietarci le paure, ma in fin dei conti, fa solo ridere i polli…

2- La seconda non fa venire il mal di pancia, ma fa saltar le coronarie… perché è potente! «Tutto è stato dato a me dal Padre mio» dice Gesù… Cioè vuol dire che Dio – che noi ci immaginiamo sempre come così misterioso e lontano – in realtà per l’uomo non ha segreti. Egli infatti, conosciuto da sempre in tutto e per tutto dal Figlio suo, gli ha dato il potere di “dircelo anche a noi” chi è Dio… e Lui l’ha fatto! Tant’è che san Giovanni della Croce ha potuto scrivere: «Perciò chi volesse interrogare il Signore e chiedergli qualche visione o rivelazione non solo commetterebbe una sciocchezza, ma arrecherebbe un’offesa a Dio, non fissando i suoi occhi interamente in Cristo per andare in cerca di altra cosa o novità. Invece il Signore gli potrebbe rispondere in questo modo: “Se io ti ho detto tutta la verità nella mia parola, cioè nel mio Figlio, e non altro ho da manifestarti, come ti posso rispondere o rivelare qualche altra cosa? Fissa gli occhi su Lui solo, nel quale io ti ho detto e ho rivelato tutto, e vi troverai anche più di quanto chiedi e desideri» [S. GIOVANNI DELLA CROCE, Salita del Monte Carmelo, cap. 22,6, in ID., Opere, Postulazione Generale dei Carmelitani Scalzi, Roma 1979, 175].

Ma, nonostante fosse un’evidenza per la prima comunità cristiana, nonostante le parole di Giovanni della Croce di 500 anni fa, nonostante la Dei Verbum del Vaticano II (di cui – fra i vari numeri citabili – ci limitiamo al «4. Dopo avere Iddio, a più riprese e in più modi, parlato per mezzo dei profeti, “alla fine, nei giorni nostri, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” – Eb 1,1-2. Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e spiegasse loro i segreti di Dio – cfr. Gv 1,1-18. Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come “uomo agli uomini”, “parla le parole di Dio” – Gv 3,34 – e porta a compimento l'opera di salvezza affidatagli dal Padre –cfr. Gv 5,36; 17,4. Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il Padre – cfr. Gv 14,9 –, col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione che fa di sé con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l'invio dello Spirito di verità, compie e completa la Rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna. L'economia cristiana dunque, in quanto è l'Alleanza nuova e definitiva, non passerà mai, e non è da aspettarsi alcun'altra Rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo – cfr. 1 Tm 6,14 e Tt 2,13»)… nonostante tutto questo la potenza dell’affermazione che la storia di Gesù è il volto di Dio, non è ancora riuscita a conformare le nostre esistenze…

E questa è la seconda sberla che questo vangelo ci/mi dà… Siamo troppo dis-persi (anche solo religiosamente parlando) in ciò che non è Lui…

3- Eppure era stato proprio Lui (come testimonia la terza affermazione del vangelo di domenica) a dirci cosa fare nella dispersione: «Venite a me!»…

L’invito che mi faccio e vi faccio – dunque – dopo le due “sberle” di prima, è quello di prendere la “terza”… un bello sberlone (che qualcuno definiva “una carezza accelerata”) che ci giri la testa via da tutto ciò che la nostra mente trasforma in oppressione e affanno, perché possa rispondere a quello strepitoso «Venite a me!», con una corsa dalle lacrime agli occhi… la corsa di chi sente rotte le catene – sempre e solo figlie della paura che nemmeno uno ci voglia bene… rotte appunto dalla buona notizia che, invece – come diceva il mio amico Davide (avvocato difensore) per i delinquenti («Ci deve essere almeno un rappresentante della società – l’avvocato appunto – che sta dalla sua parte!») – uno (almeno uno) che ti vuole bene, c’è sempre!

venerdì 24 giugno 2011

Corpus Domini

Domenica è la solennità del Corpus Domini: una solennità che risale al XIII secolo e che – nella sua istituzione – aveva l’intenzione di celebrare la presenza reale del corpo e sangue di Cristo nell’eucaristia. Non a caso tutte le letture che la Chiesa ci propone per questa domenica fanno riferimento al cibo che il Signore dà al suo popolo, che nell’Antico Testamento ha il suo emblema nella manna nel deserto e che nel Nuovo Testamento diventa il darsi di Gesù stesso ai suoi: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».


Le riflessioni che si potrebbero fare in proposito sono innumerevoli, così come gli spunti per ripensare alla nostra relazione col Signore a partire dal dono del suo corpo e del suo sangue, ma anche le attenzioni da avere: troppo spesso lungo la storia (e anche oggi) infatti la presenza reale del corpo e sangue di Cristo nell’eucaristia è stata intesa con un realismo esasperato o – viceversa – ridotta ad un simbolismo inconsistente. Sono famose in proposito le dispute del IX secolo tra Pascasio Radberto, Ratramno e Giovanni Scoto Eriugena e quelle dell’XI secolo tra Lanfranco di Pavia e Berengario… che porteranno al Concilio Lateranense IV (1215) e alla promulgazione del dogma della transustanziazione.

È difficile oggi entrare in questo dibattito, perché esso risente di una mentalità teologica ed antropologica di stampo metafisico che non è più la nostra... e che rischia di essere travisata, se approcciata con la cultura odierna.

Ciò che inoltre va ulteriormente a complicare il discorso e a costringermi ad entravi in punta di piedi è il fatto che oggi quella mentalità metafisica – abbattuta dalle riflessioni teologiche del XX secolo – non è ancora stata rimpiazzata da una teologia in grado di performare il mondo cristiano. Essa è ancora in “fase di elaborazione” all’interno delle scuole teologiche e – anche dove ha trovato ormai la forma del sistema (e non solo dell’idea abbozzata) – risulta ancora discussa e non di certo diffusa in senso egemonico (come era stato appunto per la metafisica medievale).

Tutto questo per dire che l’“affare” è più complicato di quello che a volte con riduzioni semplicistiche si vuol far credere, senza considerare le conseguenze – anche sul piano pratico/esistenziale – cui un’errata o parziale visione teologica può portare.

Non è certo però compito delle lectio inoltrarsi in una disquisizione teologica che – inevitabilmente – dovrebbe assumere linguaggi e strumenti specifici, che – data la situazione di passaggio del nostro tempo (è finita l’epoca metafisica, ma non si è ancora costruito con solidità un orizzonte di senso teologico rinnovato e condiviso) – risulterebbero un po’ ostici o per lo meno poco accessibili…

Compito della lectio è stare sulla Parola… la quale – come accennato – al di là di tutti i dubbi riflessivi, porta un dato certo: il Dio di Israele è il Dio che si preoccupa e si prende cura del suo popolo, nutrendolo; quello stesso Dio è il Padre di Gesù Cristo che si dà ai suoi… in un momento contingente della storia (nell’ultima cena), che però diventa accessibile per tutti nella memoria di quei suoi gesti e di quelle sue parole…

Contro ogni etereo spiritualismo, il Cristianesimo è quindi la fede in una persona in carne ed ossa, con una storia, con una libertà che si è determinata nel tempo: di lui noi diciamo che è Dio.

E – per entrare maggiormente a indagare il senso teologico ed esistenziale di questo suo essere Dio così – “rubiamo” le parole ad una donna che dell’umanità di Cristo ha fatto il centro della sua vita:

«1. […] In alcuni libri sull’orazione si dice che, sebbene l’anima non possa arrivare da sola a questo stato [unione mistica] – essendo una condizione del tutto soprannaturale e opera unicamente di Dio – potrà però aiutarsi, distaccando lo spirito da tutte le cose create ed elevandolo con umiltà.

[…] Tali libri raccomandano, inoltre, vivamente di allontanare da sé ogni immagine corporea per accedere alla contemplazione della divinità, perché dicono che, per coloro che sono ormai giunti tanto avanti, è d’imbarazzo e d’impedimento a una più perfetta contemplazione anche l’umanità di Cristo. […] Chi scrive questi libri ritiene dunque che […] considerarsi concretamente circondati da ogni parte da Dio e in lui sommerso è quello a cui devono tendere i nostri sforzi.

Questa mi sembra che possa essere una buona via da seguire, qualche volta, ma allontanarsi del tutto da Cristo […] non lo so ammettere.

2. […] A mio parere s’ingannano. Può essere che l’ingannata sia io, ma voglio dire ciò che mi è accaduto.

3. Poiché non avevo un maestro e leggevo quei libri […] procurai di allontanarmi da ogni cosa corporea, pur non osando elevare grandemente l’anima, il che mi sembrava – spregevole com’ero – una temerarietà. Avevo, però, l’impressione – ed era proprio così – di sentire la presenza di Dio e cercavo di starmene raccolta in lui. È un’orazione soave e molto gioiosa, se Dio ci aiuta. E, vedendo il profitto e il piacere che ne traevo, non solo sarebbe stato impossibile farmi tornare alla considerazione dell’umanità di Cristo, ma – a dire il vero – sembrava anche a me un ostacolo.

Oh, Signore dell’anima mia e mio bene, Gesù Cristo crocifisso! Non c’è una sola volta in cui mi ricordi di questo pensiero senza provare una gran pena: mi sembra, infatti, di aver commesso un gran tradimento, sia pure per ignoranza.

4. […] È mai possibile, mio Signore, che io abbia potuto pensare anche solo per un’ora che voi mi sareste stato d’impedimento per un bene maggiore?

6. […] E che abbia potuto io, mio Signore, allontanarmi da voi nell’intento di servirvi meglio! Almeno, quando vi offendevo non vi conoscevo, ma che, conoscendovi, abbia pensato di trarne maggior profitto seguendo questa strada, oh, che strada sbagliata battevo, Signore! Anzi, come mi sembra, ero del tutto fuori strada. […] Io vedo chiaramente, e l’ho visto dopo quell’inganno, che per essere graditi a Dio e per ottenere che ci doni speciali grazie, egli vuole che si passi attraverso questa sacralissima umanità di Cristo, in cui Sua Maestà disse di compiacersi.

[…] 9. Che noi a bella posta procuriamo di disabituarci dal cercare con tutte le nostre forze di aver sempre dinanzi – piacesse al Signore che fosse davvero sempre! – questa sacratissima umanità, è ciò che – ripeto – non mi sembra ben fatto. È, come suol dirsi, un camminare per aria, perché allora l’anima sembra andare senza appoggio, pur nella ferma convinzione di essere piena di Dio. È molto importante, finché viviamo in veste umana, aver presente il Signore come uomo.

10. […] Noi non siamo angeli, ma abbiamo un corpo. Voler fare gli angeli, stando sulla terra, è una pazzia.

[…] Per questo è un bene, come ho detto, non adoperarci a cercare consolazioni spirituali; qualsiasi cosa succeda, stiamo abbracciati alla croce, che è una grande cosa.

[…] 11. Dio si compiace molto nel vedere un’anima prendere umilmente per mediatore suo Figlio. […] Quantunque abbia a soffrirne un po’, non giungerà mai a quella inquietudine e a quella pena di alcune persone che, se non si impegnano sempre a lavorare con l’intelletto e a far pratiche di devozione, pensano che tutto sia perduto, come se un così gran bene potesse essere merito dei loro sforzi.

Non dico che non ci si debba impegnare ad ottenerlo e a stare ben raccolti davanti a Dio, ma che, se non si riesce ad avere neppure un buon pensiero, non ci si disperi.

[…] 14. Voglio, dunque, concludere così: che quando pensiamo a Cristo, dobbiamo sempre ricordarci dell’amore con il quale ci ha fatto tante grazie, e di quello, immenso, che ci ha testimoniato dio col darcene tale pegno. Amore chiama amore, e anche se siamo agli inizi e tanto miserabili, cerchiamo di riflettere sempre su questa verità e di stimolarci all’amore» [Santa Teresa di Gesù, Vita 22].

giovedì 9 giugno 2011

L'ascensione

«Fino alla croce ci sono dei sentimenti naturali che possono in qualche modo, nonostante le nostre resistenze, darci il senso che essa è ancora dentro il nostro orizzonte umano. La risurrezione evidentemente già ci fa faticare di più, perché ci porta assolutamente al di sopra del nostro orizzonte. Ma l’ascensione impegna in modo ancora più totale la nostra capacità di trascendere la nostra esperienza e la nostra capacità di vivere – nella considerazione di questo mistero – tutto il prolungamento dell’esistenza che noi speriamo, ma che contrasta fortemente con la nostra esperienza immediata, che sa che al di là della vita c’è la morte. Bisogna, invece, che pensiamo che questo è il mistero veramente riassuntivo di tutto Gesù, di tutto il Cristo. Bisogna tornarci su spesso» [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 97-98].


Raccogliendo l’invito di don Dossetti, anche noi allora, proviamo in questa domenica di Ascensione a tornare su questo mistero che la Chiesa ci invita a celebrare.

Innanzitutto va detto che i testi riguardanti l’ascensione cercano di trasmetterci l’esperienza intensa e lacerante che la prima comunità ha fatto del mistero che è condensato in questa partenza di Gesù («Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi»). Essa, allora come oggi, implica infatti una presa di distanza fisica del Signore dai suoi, una nuova modalità di presenza (detto in positivo), ma che sull’altro versante vuol dire l’esperienza di un’assenza!

Troppo spesso invece noi di questa esperienza di orfanità patita nell’ascensione ci dimentichiamo, riducendo questo elemento della fede cristiana a non molto altro che il momento in cui “finisce” il tempo di Gesù e inizia il tempo della Chiesa… Saltiamo cioè a piè pari quello che ha voluto dire per i primi discepoli non vedere più Gesù, non averlo “a portata di mano” (vivo o risorto), non poterlo consultare, ecc… e troppo spesso – parlando di ascensione – saltiamo a piè pari quello che vuol dire per noi questo non vederlo, non averlo “a portata di mano”, non poterlo consultare, ecc… Poi, certo, patiamo questa cosa, ma quando dobbiamo parlare di ascensione partiamo come dei treni con quello che abbiamo imparato a catechismo (l’ascensione è Gesù che viene assunto in cielo) e stop… ci dimentichiamo del problema…

Che invece c’è! Che Gesù sia e diventi l’assente infatti fa problema ad ogni credente: perché troppo spesso la vita ci rimanda ad un doverci far carico in prima persona, in solitaria, di noi, delle scelte, delle fatiche, delle sofferenze, del male, dell’amore… E troppo spesso questa stessa vita, queste stesse scelte e fatiche e dolori, sembrano sovrastarci, sembrano mancare di un’intelligibilità, di una sensatezza, di una finalità…

È questa, dunque, la difficoltà insita in questo evento della vita di Gesù e della Chiesa: che storicamente si fa l’esperienza di un Dio che è l’assente, lontano, invisibile, nel senso di irraggiungibile… E il rimando è dunque alla nostra solitudine, alla paura atavica che essa ci fa patire, fino alle estreme manifestazioni dell’angoscia per la morte, che altro non è che la solitudine definitiva. Tanto che – anche se non vorremmo – spesso ci ritroviamo per la testa o nel cuore pensieri simili a quelli che il libro della Sapienza mette in bocca agli empi: «Dicono fra loro sragionando: “La nostra vita è breve e triste; non c’è rimedio quando l’uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dal regno dei morti. Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati: è un fumo il soffio delle nostre narici, il pensiero è una scintilla nel palpito del nostro cuore, spenta la quale, il corpo diventerà cenere e lo spirito svanirà come aria sottile. Il nostro nome cadrà, con il tempo, nell’oblio e nessuno ricorderà le nostre opere. La nostra vita passerà come traccia di nuvola, si dissolverà come nebbia messa in fuga dai raggi del sole e abbattuta dal suo calore. Passaggio di un’ombra è infatti la nostra esistenza e non c’è ritorno quando viene la nostra fine, poiché il sigillo è posto e nessuno torna indietro. Venite dunque e godiamo dei beni presenti, gustiamo delle creature come nel tempo della giovinezza! Saziamoci di vino pregiato e di profumi, non ci sfugga alcun fiore di primavera, coroniamoci di boccioli di rosa prima che avvizziscano; nessuno di noi sia escluso dalle nostre dissolutezze. Lasciamo dappertutto i segni del nostro piacere, perché questo ci spetta, questa è la nostra parte. Spadroneggiamo sul giusto, che è povero, non risparmiamo le vedove, né abbiamo rispetto per la canizie di un vecchio attempato. La nostra forza sia legge della giustizia, perché la debolezza risulta inutile”» (Sap 2,1-11)…

È qui che si arriva se si prende sul serio ciò che avviene nell’ascensione e se non si riesce a comprenderla fino in fondo. Perché l’assenza fisica di Gesù che essa impone è il dramma della debole fede di noi uomini di ogni generazione. Infatti il problema a cui l’ascensione rimanda, è precisamente questo: È possibile continuare a credere e più radicalmente continuare a vivere dopo che Gesù diventa l’assente? Si può – cioè –affidarsi a un fondamento, a una sensatezza, a una salvezza, nonostante non sia verificabile? Si può dargli credito, sapendo che o esso ha consistenza o noi non l’abbiamo? Oppure bisogna – con gli empi della Sapienza – rassegnarsi ad una vita senza senso e senza compimento, che di conseguenza si abbandona all’edonismo (cosa che peraltro sta epocalmente avvenendo)?

Molti sembrano incamminarsi per questa strada… Non solo chi la ostenta come l’unica via per l’uomo coraggioso (finalmente maggiorenne), capace di fronteggiare la morte di Dio, di nietzschiana memoria; ma anche chi aveva davvero creduto alla possibilità di costruire una vita sul fondamento della fede nel volto paterno del Dio di Gesù, ma poi, sull’onda delle fatiche della storia, dell’abbandono dei fratelli, della morte degli amati, dell’assenza (appunto!) non ha più retto alla dinamica dell’amore in perdita che il vangelo propone e – spaventato dalla morte – s’è messo a pensare a sé…

Altri invece – che forse si credono uomini di maggior fede ma che invece sono altrettanto impauriti dall’assenza del Signore quanto gli altri – non fanno altro che fermarsi col naso all’insù, aspettando il suo ritorno…

Ma gli Atti degli apostoli, in proposito, sono fin troppo netti: «Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”».

C’è dunque – secondo il racconto di Atti – una lontananza, una distanza, un’assenza… che non è negata… Eppure essa è riletta dentro ad un’ottica diversa da quella della paura: l’assenza del Signore, condensatasi letterariamente nell’episodio dell’ascensione, non è destinata a interrompere il flusso della vita e dell’amore che la vita storica di Gesù ha prodotto… Sembra anzi – stando al racconto di Luca – che ci sia una possibilità di continuazione della vita («perché state a guardare il cielo?»). E non solo della vita biologica o della mera sopravvivenza fisiologica, ma della Vita con la “V” maiuscola proposta dal Signore. È come se la sua dipartita, oltre ad un’assenza che sperimentiamo e patiamo, implichi però qualcosa d’altro, qualcosa di più, un passo ulteriore: non è tutto finito con l’ascensione di Gesù…

Non a caso Luca racconta lo stesso episodio in conclusione al Vangelo e in apertura agli Atti… scelta letteraria che, forse, prima di essere spiegata attraverso slogan tipo “è finito il tempo di Gesù inizia quello della Chiesa”, domanda un approfondimento ulteriore: Cosa vuol dire davvero questa ascensione?

Ci facciamo aiutare ancora una volta da don Dossetti [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 69-73.99], che con molto acume annota: «Mi sembra che sia detto anche a noi di non dovere stare lì a guardare il cielo fisico, per ritrovare un contatto con Gesù asceso alla destra del Padre», infatti «il cielo di cui si parla non è certamente il cielo fisico – questo già lo sappiamo, però bisogna sempre tornarselo a dire, per sgomberare l’anima da quella pesantezza che viene da questo rapporto con il cielo fisico –, e non è nemmeno una realtà spaziale o una realtà dell’ordine fisico o dell’ordine creato: il cielo non è questo. Questo cielo è esclusivamente Dio stesso»: Gesù assunto in cielo, vuol dire cioè Gesù immerso nel Padre, «… una passione “umana” infuocata è entrata dentro Dio ed ha assunto la potenza di Dio. È un corpo umano tanto sprofondato e assorbito nella divinità che con essa può impregnare di tenerezza “umana” divinizzata ogni cosa e tracima invadendo tutto il mondo, l’universo, gli angeli e ogni essere che possa esistere, nel tempo e fuori del tempo, come Dio un Dio di carne trasfigurata, che sa cos’è lo spazio e il tempo e la materia, ma non lo limitano più. Ecco l’Ascensione!» [Giuliano]. «Dunque, vedete, non compiamo nessun itinerario esterno. Soltanto si tratta di raggiungere degli spessori totalmente interni all’essere. […] In questo ordine di essere, in questo spessore intimissimo, Cristo è stato assunto. […] È in conseguenza di questo suo ritorno al Padre che lui si intimizza a noi: è veramente con noi ed è veramente in noi, ritornato al Padre, raggiunge in noi lo spessore più profondo del nostro essere, quello in cui il nostro essere giace in lui, in Dio». Perciò «nell’atto stesso in cui sembra allontanarsi, in realtà si fa massimamente intimo a noi e noi diventiamo massimamente intimi a lui» [don Dossetti]. Ecco perché nasce il tempo della Chiesa: non perché finito il tempo di Gesù – che ormai non ha più niente a che fare col mondo dell’aldiqua – inizia il tempo della chiesa, ma perché nasce la comunità di quelli che vivono di questo nuovo e intimissimo modo di rapportarsi al Signore risorto. È in questo rapporto intimo – accessibile ad ogni credente – che infatti «scaturisce quella scintilla della fede che ci fa ritrovare Cristo glorificato nel Padre e presente in noi, e che realizza già per noi – dobbiamo avere il coraggio di dirlo – il ritorno di Cristo. Con ciò non si vuole confondere questo momento in cui Cristo ritorna in ciascuno di noi, personalmente, col momento del ritorno universale del Signore; però sono scintille dello stesso fuoco» [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 100]. «È nell’intimo del nostro essere, dove la benevolenza del Padre ci genera all’unica vita dell’essere e dell’amore, che occorre rientrare per prendere il contatto vitale con Gesù mentre è “trasferito” nel Padre. Perché lì Gesù è “ritornato” e abita come uomo / Dio. Ha trascinato e coinvolto nella sua “glorificazione” (inserimento nel cuore del Padre) tutto l’essere umano, tutto il nostro faticoso rapporto con la storia che ci conduce e ci travolge, tutta la realtà che noi diciamo terrestre, che l’ha nutrito e intriso nella sua vita terrena. Ma soprattutto la rete vitale dei rapporti umani che hanno intessuto e fatto crescere il suo vissuto umano conoscitivo e affettivo… i suoi amori e le sue piaghe, le sue fatiche e le sue gioie. “Tutto questo”, nato e cresciuto nell’avventura umana di Gesù nella persona del Verbo, è stato come raccolto, condensato e imploso nell’intimo di Dio… Ma “tutto questo” non è andato ad abitare chissà dove (cieli, super cieli, troni potestà… che nell’immaginario religioso erano il luogo degno di Dio), ma è andato ad abitare nel profondo del nostro cuore, perché non c’è altro luogo più degno nell’universo, più capace (pur nella sua miserrima fragilità!) di interloquire da amico con Dio, per il dono che il Padre stesso gli ha fatto di “essere per”… e di essere figlio, fratello di Gesù» [Giuliano].
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