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mercoledì 27 aprile 2011

II Domenica di Pasqua: La fatica di credere è la fatica di affidarsi

Dopo le celebrazioni del Triduo pasquale, culminate nella veglia di Sabato e nella messa solenne di Domenica, e dopo gli otto giorni in cui la Chiesa ha “dilatato” – come fosse un unico lungo giorno – la celebrazione della Risurrezione del Signore, Domenica veniamo introdotti “a tutti gli effetti” nel cosiddetto “Tempo di Pasqua”, un tempo forte in cui l’invito è quello di andare a ripercorrere e assimilare – pian piano – il mistero esplosivo condensatosi la Domenica di Pasqua.


Non a caso il vangelo che ci viene proposto riguarda l’apparizione di Gesù risorto ai suoi, avvenuta proprio «la sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei».

Siccome ogni anno la Chiesa – indipendentemente dal fatto che si tratti dell’anno liturgico A,B o C – nella seconda domenica di Pasqua, ci propone questo vangelo, dopo aver buttato giù qualche appunto, sono andata a rileggermi quanto negli anni scorsi avevo scritto in proposito. L’intento era duplice: cercare qualche spunto e contemporaneamente evitare di ripetermi…

Purtroppo o per fortuna, mi sono accorta che – tranne qualche eccezione – ciò che in maniera piuttosto costante tornava come idea guida era la stessa che avevo abbozzato nelle mie annotazioni previe, e cioè il fatto che – immediatamente dopo Pasqua – la Chiesa ci invita a leggere un testo evangelico che, nel suo svolgersi, ci sposta dalla domenica della Risurrezione… e ci colloca otto giorni più in là (gli stessi che – non a caso – son passati per noi dalla celebrazione della Pasqua).

Se infatti il testo inizia con una prima apparizione ai discepoli la sera stessa della Risurrezione, esso poi però prosegue con una seconda apparizione «otto giorni dopo», dove l’annotazione temporale, accompagnata dall’assenza (prima) di Tommaso e dalla sua successiva presenza, apre la strada al problema dell’accesso alla fede per chi non era lì in quei giorni. Dunque per tutti gli assenti, per tutti quelli della generazione successiva (per i quali, infatti, sta scrivendo Giovanni) e per quelli di tutte le generazioni successive…

Il problema è messo bene in luce dall’affermazione che Gesù rivolge a Tommaso – «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!», dove l’indisponibilità di Tommaso a credere nonostante l’assenza, diventa il comportamento da biasimare, mentre quello di chi non pone come condizione per la fede l’annullamento di una distanza fisica, diventa quello da lodare –, ma anche dal finale del testo: «Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome», dove è evidente la convinzione dell’evangelista che per accedere alla fede in Gesù non sia necessaria la contiguità cronologica alla vita storica di Gesù.

Questo era (è) infatti il problema… Lo stesso messo in luce dalla seconda lettura: «Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, in vista della salvezza che sta per essere rivelata nell’ultimo tempo. Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove, affinché la vostra fede, messa alla prova, molto più preziosa dell’oro – destinato a perire e tuttavia purificato con fuoco –, torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà. Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui».

Il problema è cioè quello della fede di chi non ha conosciuto di persona Gesù – di chi non ha potuto mettere le sue mani sulle sue piaghe – che – altrimenti detto – equivale a quest’altro problema (quello vero, che sta sotto l’altro e in esso si nasconde): il problema di doversi fidare di qualcun altro nella propria fede… “avere fede sulla fede di un altro”, come piace ripetere al nostro p. Mario.

Questa è la prima difficoltà dei discepoli della seconda generazione (quelli per cui scriveva Giovanni), ma poi anche della terza, della quarta… fino a noi. È il problema dell’affidabilità e dell’affidamento… Questioni delicate per l’uomo di sempre, tanto più – io credo – per l’uomo di oggi, che sempre più sembra gettato in un mondo di estraneità, competizione, paura dell’altro; tant’è che la domanda ricorrente è “Come si fa a fidarsi (di uno così, si una così, di chi ti fa un lavoro in casa, del tuo padrone, del tuo operaio, del tuo vicino, del tuo stesso amico…)? Come si fa a fidarsi?”.

Figurarsi fidarsi di questa manciata di uomini spauriti, vissuti più di 2000 anni fa, che parlavano una lingua stranissima, vivevano in terre lontane e avevano una cultura così diversa dalla nostra… Cosicché su queste considerazioni, oggi, i più se ne vanno scettici (soprattutto i nostri ragazzi, la prima generazione atea, come li chiamano i giornali), altri cercano di non pensarci, portando avanti il loro tran tran quotidiano (spesso scisso tra tempo profano e piccolissime parentesi di tempo sacro), altri si lanciano in una fede cieca, pochi provano a pensarci…

Io – che come dicevo prima ogni volta che mi imbatto in questo vangelo mi faccio sempre le stesse domande (si vede che c’è lì un neurone che s’inceppa…), ma ho l’ambizione di voler provare a pensare alle risposte – mi/vi chiedo se tutta questa sfiducia non derivi forse da due fonti:

- innanzitutto la mancanza di valutazione sull’affidabilità/attendibilità della fede degli altri, di quelli su cui noi ci appoggiamo per credere… cioè, io credo che un primo problema sia la scarsa conoscenza e la poca passione per la Parola di Dio… In questo non si possono dimenticare le colpe storiche dell’istituzione chiesa, ma è anche vero che oggi per tutti c’è la possibilità di un accesso alla lettura, allo studio, all’incontro con il testo biblico… che però spesso ci trova restii, latitanti, stanchi…

Cosicché ci ritroviamo incapaci di rendere ragione della fede che è in noi (1Pt 3,15), soprattutto a noi stessi…

- inoltre mi/vi chiedo se non è il caso di provare a pensare in maniera un po’ seria alla continua e soffocate aria di sfiducia negli altri in cui culturalmente siamo così immersi. Anch’essa ha tante radici, che non possiamo certo ora ripercorrere, ma che – se lasciate nell’ombra – rischiano di agire in noi senza che nemmeno ce ne accorgiamo, rendendoci passivi recettori, ma anche inconsapevoli complici, di quell’atmosfera per cui nel nostro mondo sembra impossibile fidarsi di qualcuno, affidare la nostra vita ad un A/altro, legare incondizionatamente il nostro destino a quello degli altri uomini…

Io credo che su queste due polarità si stia giocando il fallimento dell’annuncio della Risurrezione del Signore, che infatti – per troppe persone – non è più significativo e capace di trasformare la vita. E su questo, la distanza delle nostre esperienze ecclesiali da quella della prima comunità cristiana (descritta dalla prima lettura) è un segnale chiaro!

domenica 24 aprile 2011

Se siete risorti con Cristo, con Cristo vivete da risorti

Commento alle letture liturgiche della Pasqua

Per l’evangelista Giovanni, la resurrezione di Gesù è il momento decisivo del processo della sua glorificazione, con un nesso inscindibile con la prima fase di tale glorificazione, cioè con la passione e morte: ciò che qui evidenzia questo legame oltre alla presenza di Maria di Magdala presente anche alla crocifissione, è quel “buio” che Maria di Magdala ha dovuto attraversare con coraggio per andare al sepolcro…

“Vedere” è qui il verbo della fede che sola è in grado di vedere veramente ciò che gli occhi guardano, mentre il sepolcro, quasi a negare ciò che la fede vede, è il segno della presenza della morte nella storia. Tutti i cimiteri nei nostri paesi, sono lì a dirci che la morte regna regina nella storia e avanza…

LA MORTE? HA FATTO LA FINE CHE HA FATTO FARE A GESÙ!
Ora però il sepolcro è aperto… E col sepolcro aperto è la morte stessa ad essere “scoperchiata”, squarciata, forata, strappata dalla storia, detronizzata. Questo strappo alla morte, è uno strappo della morte (“O morte, sarò la tua morte; inferno, sarò la tua rovina” recita un’antifona dei vespri del Sabato Santo tratta dalla traduzione latina del libro di Osea 13,14). E rimette in moto la storia e la fa correre…

LA VITA TORNA A CORRERE
È tutto un correre… prima Maria di Magdala, poi Simon Pietro e Giovanni, il più vecchio e il più giovane degli apostoli insieme che rappresentano qui tutta la comunità credente.

Pietro e Giovanni, lo sappiamo dai racconti della Passione, sono anche coloro che dormivano nel “buio” del Getzemani e che fuggirono nella notte delle morte allontanandosi da essa e che ora – per il coraggio di una donna che “da sola” ha saputo affrontare il “buio” della storia – sono costretti a ripercorrere al contrario…
Segno che solo qui ai piedi della morte di Cristo e non altrove ci è possibile iniziare a compiere quell’inversione nel cammino della vita che si chiama conversione. E che apre alla fede concreta.

Si fermano solo davanti al sepolcro aperto ed entrano nello squarcio della morte. Dapprima colui che era fuggito per primo… e che per anzianità avrebbe dovuto invece infondere coraggio agli altri. Poi colui che per la giovane età permetterà di prolungare il più possibile nel tempo della chiesa in maturazione la testimonianza autentica dell’avvenuta resurrezione.

LA FEDE IN CRISTO È PRIMA DI TUTTO FEDE NELLA FEDE DEI SUOI TESTIMONI
Noi crediamo, abbiamo creduto e crederemo per la fede di questi testimoni!… Non ci è dato di credere se non per loro. Per continuare a credere ancora e per crescere e maturare in questa fede non possiamo fare altrimenti, dobbiamo continuamente fare riferimento alla loro fede.
E la loro fede è questa: Che Cristo è risorto e noi siamo risorti con lui! Ce lo conferma san Paolo: Fratelli, voi siete risorti con Cristo… con Cristo vivete da risorti!
Infatti non servirebbe a niente la risurrezione di Cristo se questa fosse una prerogativa solo sua. Sarebbe una situazione privilegiata la sua che renderebbe ancor più tragico il nostro “essere consegnati alla morte”… Perché lui sì e noi no? Vana per noi sarebbe la sua salvezza… Non sarebbe “il nostro Salvatore”. La resurrezione di Cristo è fondamentale alla nostra fede – dirà Paolo ai Corinzi (1Cor 15,ss) – perché in essa si realizza e si manifesta la nostra.

LA “RESURREZIONE DELLA CARNE” COMINCIA ADESSO
Dobbiamo imparare a superare le preoccupazioni dogmaticistiche che nel tempo hanno offuscato la fede degli apostoli. La resurrezione dei corpi professata nel Credo ha la preoccupazione di dare al corpo quel ruolo che gli spetta nel progetto di Dio: in Cristo il Verbo si è veramente incarnato perché l’uomo crede anche con tutto il corpo! Il Credo non ha l’intenzione di affermare che la resurrezione è una realtà solo dopo la morte. Sappiamo bene infatti che non può esserci comunione col Padre dopo la morte se non c’è comunione col Padre prima della morte. Così non c’è la risurrezione dopo la morte se non c’è risurrezione prima della morte, in questa vita. Se lo Spirito di Dio non abita in noi ora, come può abitare in noi dopo? La risurrezione di Cristo attuata dal Padre sta proprio a dire che da vivo Cristo era in comunione col Padre: è il sì di Dio al sì di Cristo!
È questa comunione con Dio Padre che fa saltare i confini tra questa vita e l’altra, perché c’è una sola vita, quella dello Spirito di Dio che è in noi per mezzo della fede. Tutte le lettere di Paolo e le testimonianze degli apostoli ce lo confermano.

Nella risurrezione di Cristo c’è Dio che finalmente fa giustizia della più grande ingiustizia mai commessa… e in questa resurrezione, la giustizia di Dio – infinitamente lontana dalle nostre giustizie umane che sanno di vendette – entra definitivamente nella storia. E ci rinnova dal di dentro… E vince tutte le nostre paure sulle infinite morti, perché la morte non ci riguarda più! Noi ora abbiamo la sua vita in noi! Solo così le “Beatitudini” (beati voi quando… subite l’ingiustizia per amore della giustizia) diventano vere!

OLTRE UNA FEDE “VANA” PERCHÉ VUOTA
Noi diciamo di credere alla presenza del Signore nei sacramenti, noi diciamo di credere a tanti dogmi che la fede della chiesa giustamente ci consegna, ma perché non crediamo – ci dice san Paolo – alla nostra resurrezione? Eppure essa è, ce lo ricorda la Pasqua, il fondamento di ogni altro credere! (Cfr 1Cor 15)
Nel nostro credere, sigillato col sì al battesimo, è questo che avviene… e allora comportatevi da risorti, non da gente che ancora in attesa di risurrezione, in attesa dello Spirito di Dio…

Il discorso di Pietro tratto dagli Atti degli Apostoli, si inserisce proprio in quel contesto in cui lo Spirito di Cristo agisce nella storia facendo risorgere le persone portandole alla fede. Pietro sta spiegando a coloro che non capiscono come egli abbia potuto rendere visita al pagano Cornelio, “che chiunque crede in lui [in Cristo, nella sua parola, morte e resurrezione e vive di questo], riceve il perdono dei peccati”. Cioè riceve la vita di Dio, rinasce a vita nuova… E che cos’è questo se non la propria resurrezione operata dallo Spirito di Cristo?

UNA FEDE CHE RENDE VISIBILE LA RESURREZIONE
Certo bisogna crederlo… per chi non ha fede questa nostra resurrezione, come quella di Cristo, resta nascosta. Non so se avete notato ma nel Vangelo di Giovanni, Gesù è il grande protagonista della narrazione, eppure non compare mai di persona… La sua “visibilità” – diciamo così – è possibile solo nella fede, perché – ci dice san Paolo – non è ancora giunto il momento della glorificazione/manifestazione definitiva quando tutto sarà manifestato anche agli increduli quando il Padre lo vorrà.

Ma noi che abbiamo fede sappiamo che questa è già la realtà che viviamo.
Di questa realtà dobbiamo farci missionari, non missionari di una giustizia futura, ma missionari di una giustizia che già si sta attuando nella storia con la resurrezione di coloro che credono: Tutta la morale cristiana è la morale di chi si sa risorto! Qui trova radice ogni giustizia anche sociale.

Ed è evidente che se c’è una cosa che non si può annunciare a parole è proprio la propria resurrezione… Non si può dire: “Sai io sono risorto!” e poi vivere da non-risorto, attanagliati dalla paura della morte che si fa ladra e assassina nell’attesa di una ipotetica risurrezione futura…

PERCHÉ TUTTI HANNO DIRITTO DI FAR FESTA
Questa resurrezione è la nostra vita, per questo la resurrezione possiamo testimoniarla solo vivendola. Solo così si rende visibile la resurrezione di Cristo… Solo così la Pasqua diventa visibile… Solo così le “Beatitudini” diventano evidenti! E allora la Pasqua diventa, per tutti sempre e comunque una vita in festa!

domenica 17 aprile 2011

La solitudine dell'Amore

Klaas Muller, "Ecce Homo"
Scuola fiammingo-italiana, metà XVI secolo, olio su tela
Brussels Antiques & Fine Arts 2009

Commento alle letture liturgiche della Domenica delle Palme (Anno A)
Le parole che abbiamo ascoltato sono il cuore della stessa storia umana. Gesù Cristo appare qui veramente la chiave per comprendere tutta la Scrittura e tutta la Storia. E tutto ciò che Gesù Cristo ha detto e fatto, trova qui, nella “sua ora” un senso compiuto.

Io però vorrei soffermarmi solo su due figure apparentemente marginali nel racconto: il centurione e la moglie di Pilato. Perché a ben guardare ci rivelano qualcosa che è centrale nella nostro cammino di fede. D’altronde questa è la dinamica presente in tutta la Bibbia e il Vangelo: solo gli ultimi – coloro che sono considerati “ai margini della società” – colgono la verità che sta loro di fronte…

“Davvero costui era Figlio di Dio!”
Il centurione – il suo essere boia lo evidenzia – ci dice che l’unico luogo adeguato per dare risposta alle nostre domande è “stare dentro la crocifissione”… Esserne dentro, vuol dire né prima, né dopo (troppo rapidamente “saltiamo alla resurrezione”), e ben oltre il devozionale “stare ai piedi della croce”.

Perché solo collocandosi nella Passione, possiamo posizionarci nell’unico punto di prospettiva che ci consenta di giudicare e ci comprendere la totalità della nostra esistenza. Questo significa il suo grido: “Davvero costui era Figlio di Dio!”

Accade invece che noi “di norma” ci poniamo di fronte ai grandi problemi dell’esistenza, personali e collettivi, a partire dal nostro centro esistenziale, dalla nostra condizione umana. Senza però accorgerci di ciò che ha di menzogna. Allora tutte le nostre domande che pretendono risposta, sono false, perché falsa è la posizione da cui partono. E necessariamente false sono anche le nostre risposte.

Gesù invece ci parla sempre – fin dall’inizio del Vangelo – all’interno della prospettiva della sua Croce. E così fanno gli Apostoli che lo annunciano… Perché solo “da lì” è possibile cogliere e accogliere il mistero e comunicarlo. Essere suoi discepoli vuol dire “rivivere”, in qualche modo, questa Croce.

“Perché mi hai abbandonato?”
Tra Gesù che entra liberamente nell’ombra della croce e tutti i protagonisti della Passione, c’è come una distanza, un muro. Il sonno degli apostoli, il suo ripetuto silenzio, il tradimento di Giuda e lo stesso amore di Pietro che la paura trasforma in tradimento, sono mostrati come lo specchio della nostra autentica condizione umana, rivelando noi a noi stessi. Nella Passione di Cristo, la verità della nostra menzogna si manifesta come una luce improvvisa e dal suo buio tutto ci appare chiaro: il potere, la passione politica, la menzogna, la paura, persino le cose che noi consideriamo belle come l’amicizia ci si manifestano omicide perché nostre! Le nostre passioni sono inadeguate a trovare una risposta all’esistenza e come il centurione, con tutte le nostre buone intenzioni di servire il bene, siamo costretti a riconoscerci “boia”. Per questo Gesù appare, rispetto alle nostre dinamiche, sempre dall’altra parte: Solo!
E la solitudine in cui l’abbiamo confinato ci mostra chi è l’uomo vero e che cosa rende l’uomo vero: “Davvero costui era Figlio di Dio!” ci ricorda che non si è uomini veri se non si è figli di Dio così!

La solitudine di Gesù paradossalmente rivela non la sua, ma la nostra autoreferenziale solitudine.
La sua solitudine invece nasce dall’estrema comunione con coloro che lo abbandonano, lo tradiscono, lo torturano e lo uccidono… Tutti Gesù vince con le “mani disarmate” dell’amore sconfitto: “Rimetti la tua spada al suo posto” dice a ogni discepolo, a ogni integralismo.

Mani così disarmate da esserlo anche davanti a Dio, rifiutando di far valere davanti al Padre, il suo “essergli Figlio”, come invece gli chiedono fin sotto la croce coloro che vorrebbero “salvarlo” e “salvarsi”: l’autoinganno di molti discepoli che vogliono “salvare” la Chiesa e il Vangelo, si protrae nella storia…
Il grido “perché mi hai abbandonato?” non è una richiesta di intervento divino (il Padre non potrebbe non esaudirla!), ma è una manifestazione di una “scelta di stato” di chi, persino da Dio, si lascia abbandonare, “tradire” e consegnare a una storia di morte.

Ma non gli rispose neanche una parola, tanto che il governatore rimase assai stupito
Perché amare, amare veramente conduce alla solitudine: perché chi più ama più sente la falsità delle verità costruite per zittire le coscienze in facili risposte… e infatti Gesù tace! E Dio con lui.
E ci si scopre soli, impotenti, privi di potere adeguato a cambiare la storia dell’odio… Chi ama, vive nella solitudine di un sogno apparentemente irrealizzabile.

Ma avendo Gesù creduto a questo amore impotente noi non possiamo esimerci da un confronto con lui per cogliere la verità di ciò che siamo e di ciò che siamo chiamati ad essere.
Per questo essere cristiani vuol dire imparare a non mentirsi, facendo finta che il mondo abbia senso perché abbiamo imparato a memoria le risposte del catechismo. Perché una fede che non sa giungere fino alla oscurità della Croce è una fede che fugge se stessa. La morte, come inesorabile fatalità incombe su di noi e non c’è risposta che tenga se non quella che ci viene dalla totale solitudine della Croce.

Questa è la vittoria della risurrezione, che seppur raccontata dopo, è un mistero all’interno alla stessa crocifissione (E. Balducci). Mentre noi troppo spesso come Pietro diciamo per paura “il Vangelo non sempre si può applicare” anzi “è meglio non conoscerlo”: questa è la vera ragione perché “non troviamo mai il tempo” di studiarlo.

Il sogno di Maria, oggi!
E “lo spessore” di questa fede Matteo lo mette in bocca alla moglie di Pilato: “Non avere a che fare con quel giusto, perché oggi, in sogno, sono stata molto turbata per causa sua”. Ma quand’è che la gente dà ascolto alle visioni (sogno e visione sono sinonimi nella bibbia)? Di una donna poi! (E. Drewermann). E infatti Pilato non le diede ascolto! Come non le daranno ascolto i discepoli il giorno di Pasqua… E noi con loro…

Eppure la fede è credere in un’utopia, credere in quell’amore impotente nel quale Gesù si consegna. Questa sogno che turba la moglie di Pilato in Matteo, è “coerente” con la visione che ha turbato Maria in Luca (Lc 1,28s). Di Maria conosciamo il contenuto del sogno: “Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”.
Non mi sembra che il racconto della Passione confermi questo sogno… per ora…

Ecco cos’è la fede: è credere e continuare a credere in un sogno fatto a una donna, nonostante la storia sembri smentirlo. La fede è vivere nella solitudine della Croce continuando a credere al sogno di Maria. E la Pasqua ci sveglierà (Gv 11,11!) non più soli!

Domenica delle Palme: Quale parola per lo sfiduciato?

Ed eccoci giunti alla domenica delle Palme… Quella in cui la Chiesa ci invita a ripercorrere l’intera vicenda della passione, morte e sepoltura di Gesù. Quella che ci conduce fino all’esito normale e tragicamente inevitabile della vita delle persone: la tomba. Quella che proprio quest’anno, per noi, capita in maniera così tempestiva ad accompagnarci, con la sua Parola, alle tombe della nostra umanità:


- alla tomba di Giuliano, morto proprio un anno fa;

- alla tomba che il Mediterraneo è diventato per centinaia di nostri fratelli che cercavano e chiedevano Vita;

- alla tomba della giustizia e della Costituzione;

- alla tomba di tanti dei nostri sogni e delle nostre speranze, che ci paiono giacere come strade interrotte;

- e alle altre innumerevoli tombe di fratelli e amici che per riservatezza non raccontiamo, ma che – esattamente come le nostre – ci attanagliano la gola, ci gelano d’angoscia, ci disperano il cuore…



Eppure… proprio in questa domenica che sa di morte, la prima lettura che la Chiesa fa risuonare, inizia con un invito che scuote: «Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato».

Io non ho la presunzione di dire di me stessa che il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepola, eppure, scrivendo queste poche righe, per il nostro appuntamento settimanale, mi sento come “in dovere” di provare ad indirizzare una parola allo sfiduciato, alla sfiduciata… a quello sfiduciato/a che spesso ritrovo primariamente proprio dentro di me.
Il Passio è il racconto di una morte… di una morte atroce… la morte di chi muore urlando un grido inarticolato di disperazione – «A mezzogiorno si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: “Elì, Elì, lemà sabactàni?”, che significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”» – e prima ancora è il racconto di un tradimento – «“In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà”. Ed essi, profondamente rattristati, cominciarono ciascuno a domandargli: “Sono forse io, Signore?”. Ed egli rispose: “Colui che ha messo con me la mano nel piatto, è quello che mi tradirà”» –, è dunque anche il racconto di un tradimento consapevole – «Giuda, il traditore, disse: “Rabbì, sono forse io?”. Gli rispose: “Tu l’hai detto”» – ma è anche il racconto di un estremo ed ingenuo tentativo di fedeltà – «Pietro gli disse: “Se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai”. Gli disse Gesù: “In verità io ti dico: questa notte, prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte”. Pietro gli rispose: “Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò”. Lo stesso dissero tutti i discepoli» –; un tentativo di fedeltà miseramente fallito, perché perdente di fronte alla paura della morte, che infatti la fa da padrona – «venne dai discepoli e li trovò addormentati. E disse a Pietro: “Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora?”. Si allontanò una seconda volta. […] Poi venne e li trovò di nuovo addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti» – un tentativo di fedeltà fallito, che per la paura si trasforma addirittura in rinnegamento – «Pietro intanto se ne stava seduto fuori, nel cortile. Una giovane serva gli si avvicinò e disse: “Anche tu eri con Gesù, il Galileo!”. Ma egli negò davanti a tutti dicendo: “Non capisco che cosa dici”. Mentre usciva verso l’atrio, lo vide un’altra serva e disse ai presenti: “Costui era con Gesù, il Nazareno”. Ma egli negò di nuovo, giurando: “Non conosco quell’uomo!”. Dopo un poco, i presenti si avvicinarono e dissero a Pietro: “È vero, anche tu sei uno di loro: infatti il tuo accento ti tradisce!”. Allora egli cominciò a imprecare e a giurare: “Non conosco quell’uomo!”» – un tentativo di fedeltà fallito, che per la paura si trasforma addirittura in abbandono – «Allora tutti i discepoli lo abbandonarono e fuggirono».

Eppure proprio in relazione a questo racconto di morte, tradimento, rinnegamento, abbandono, la Chiesa ci invita a indirizzare una parola allo sfiduciato…

Mentre scrivevo che il Passio è un “racconto di morte, tradimento, rinnegamento, abbandono”, mi veniva in mente, che la storia di Gesù, alla fine, non è così diversa dalla storia del mondo, o dalle nostre piccole storie di vita… Quanti dei racconti delle nostre storie potrebbero essere messi sotto quest’etichetta “racconto di morte, tradimento, rinnegamento, abbandono”… forse tutte… prima o poi…

E allora… Quale parola indirizzare allo sfiduciato?

Certo, quella che domenica prossima sentiremo risuonare: quella per cui Dio Padre, riconoscendo nel suo Figlio e nella sua incondizionata donazione d’amore, la vita riuscita, la tramuterà in vita che non muore in eterno!

Ma quelle sono le parole si settimana prossima… Oggi… tra le tante che si potrebbero scegliere (da quelle che dicono la lucida consapevolezza di Gesù, a quelle dell’ultima cena, che ci spiegano in anticipo cosa sta per accadere; da quelle che Gesù dice nell’intimità al Padre suo nel Getzemani, a quelle che con assoluta dignità non dice ai suoi giudici, calunniatori e tentatori…), io vorrei indirizzare allo sfiduciato solo alcuni nomi… nomi di personaggi di secondo piano (anzi forse di terzo e di quarto…), che però sono lì nel vangelo ad attestare che se la storia di Gesù, la storia dell’umanità e la nostra storia è fatta di morte, tradimento, rinnegamento e abbandono, essa è anche fatta di riconoscimento («Il centurione, e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù dicevano: “Davvero costui era Figlio di Dio!”»), fedeltà («Vi erano là anche molte donne, che osservavano da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo. Tra queste c’erano Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedèo») e custodia («Giuseppe di Arimatèa prese il corpo, lo avvolse in un lenzuolo pulito e lo depose nel suo sepolcro nuovo, che si era fatto scavare nella roccia»).

Sono questi insignificanti (?) personaggi, con i loro insignificanti (?) frammenti di umanità, la parola che vorrei indirizzare agli sfiduciati, perché anche loro, come Gesù, sappiano fare la faccia dura come la pietra e tornare a investire l’esistenza, rifondandola sul riconoscimento, la fedeltà e la custodia.

martedì 12 aprile 2011

Non basta dire: «Carmelo, Carmelo!»


«Esci fuori!»
Un commento “interessato” – con un occhio alle letture di ieri e alla storia di oggi – all’articolo di Barbara Spinelli pubblicato qui sotto.
Il coraggio della profezia oggi diventa urgente a tutti i livelli.
Il suo pensiero, certamente forte e ardito, oltre che intelligentemente lucido e vero, è spesso quanto manca oggi alla nostra Chiesa. Se di profeti abbiamo bisogno, lei è certamente da annoverare tra questi. Questo è il mio parere.

Mio parere è anche – lo ribadisco qui – che dobbiamo ripensare la “vita consacrata” e la Chiesa stessa… Le soluzioni fin qui proposte per rispondere a un disagio di una vita ecclesiale e religiosa che non dà più risposte alla vita, si limitano – al di là delle intenzioni – a una “riorganizzazione” della struttura, non a una “pensata” rimessa in discussione della stessa.

La storia è in cammino, lo stesso cammino contorto di migliaia, milioni di persone che cercano disperatamente una via di uscita alla propria dignità oppressa di uomini e donne. Lo stesso cammino che cinquemila anni fa il Dio di Israele ha indicato all’umanità intera.
Questo movimento di popoli è il movimento stesso della storia: Non è possibile che questo accada senza che le millenarie strutture della Chiesa, popolo di Dio, non si mettano in movimento col suo “popolo che cammina”. Se non accadesse questo, avremmo – come già abbiamo – un “popolo in gabbia”, mortificato, pietrificato, dalla sua stessa sacrale strutturazione. Tutto il contrario dell’Esodo.

B. Spinelli osa proporre in ambito politico un “ripensamento (anche) della democrazia”. In ambito ecclesiale non può non riproporsi una “rifondazione” della stessa Chiesa e delle relazioni tra le sue componenti, laiche, religiose, magisteriali. Rifondazione che non può non coinvolgere tutti gli ambiti del pensare e agire teologico e spirituale e pastorale. Le parole stesse domandano di essere rifondate da un nuovo contenuto semantico.

Se la parola “rifondazione” non piace, lo si chiami come si vuole, ma il cambiamento radicale si impone urgente alla Chiesa: Questo è già accaduto nel passato, perché si ha paura di farlo riaccadere oggi? Certo è che “aggiornare” non basta più (S. Cannistrà).

Non di può oggi – per stare in casa propria – essere carmelitani/e come ai tempi di Santa Teresa d’Avila, come non si può oggi pregare come ieri… Troppe cose sono cambiate nel mondo. Lei osò cogliere il cambiamento, cambiando… noi la tradiremmo se non osassimo altrettanto.

Inadeguata è la risposta dei vari ordini religiosi alla crisi istituzionale degli stessi, perché si limita a una ristrutturazione geografica, sperando poi in una rivitalizzazione generale. Lo stesso errore si sta facendo con la ristrutturazione formale delle parrocchie. L’una non esclude l’altra ma la riorganizzazione della vita deve partire da una messa in discussione della vita stessa, deve partire da un ripensamento radicale dell’essere cristiani e religiosi oggi. E non il contrario come sta generalmente accadendo. In altre parole dobbiamo domandarci “che qualità di vita (religiosa, cristiana…) stiamo (ri)organizzando”? Se la vita è morta, non c’è riorganizzazione che le ridia vita! In qualunque posizione e luogo mettiate un cadavere, cadavere resta! E ancor meno basta raccoglierne i pezzi per farne un corpo vivo.

Occorre al contrario, sciogliergli le bende perché riprenda il movimento della vita.
Diceva don Giussani, a un ritiro a cui partecipai vent’anni fa, “la Chiesa è movimento, se non è movimento, non è Chiesa”. E già allora vedeva lungo: “le parrocchie stanno morendo perché han cessato di essere in movimento”. E penso che ciò che lui disse allora valga ancora oggi anche per la “vita consacrata” in generale. Occorre “slegarla” da lacci e laccetti (non solo canonici) che le impediscono di vivere… E non soffocarla ulteriormente in mega strutture ancor più vincolanti: Faremmo la fine dei dinosauri (T. Radcliffe).

Questo domanda una riflessione seria che vada oltre i luoghi comuni sul legame tra numero di religiosi in un convento e la qualità della sua vita. Tra l’età dei religiosi e la qualità di vita di un convento, di una provincia, di un ordine… La vita non è questione di quantità e non è questione di età (Gesù a Nicodemo). La vita è questione di rapporto. E di qualità di rapporto. E se questo rapporto non c’è, non c’è numero e età che tengano. I conventi non stan morendo perché l’età media dei religiosi sta aumentando, ma i conventi stanno invecchiando perché la vita ha smesso di essere vitale. E la vita ha smesso di affascinare perché ha smesso di camminare e ha preferito rinchiudersi in un “buco” protettivo e autoreferenziale.

Questo cammino nella storia lo esige l’Incarnazione stessa, senza la quale non esisterebbe cristianesimo e non esisterebbe Chiesa, perché non esisterebbe la Pasqua. Ora invece la Pasqua esiste e questo dà ragione dell’Incarnazione e della Chiesa. Il problema non è dunque se accettiamo o meno di cambiare, perché questo cambiamento avverrà comunque, perché lo Spirito di Dio susciterà per amore dell’umanità questo cambiamento. Il problema è semmai se noi vogliamo partecipare a questa festa di liberazione o preferiremo restare “dentro” alle nostre tristi sicurezze.

Il problema non è la vita della Chiesa che Dio sa condurre in Terre sempre nuove, il problema è se io in quanto uomo, in quanto “Carmelo”, accetterò di entrarvi vivo.

Non basta dire: «Europa, Europa!»


La nuova Europa
di Barbara Spinelli (il grassetto è mio)

Il Presidente Napolitano, che quando parla d’Europa usa veder lontano e ha sguardo profetico, ha fatto capire nel giorni scorsi quel che più le manca, oggi: il senso dell’emergenza, quando una crisi vasta s’abbatte su di essa non occasionalmente ma durevolmente; l’incapacità di cogliere queste occasioni per fare passi avanti nell’Unione anziché perdersi in «ritorsioni, dispetti, divisioni, separazioni». Son settimane che ci si sta disperdendo così, attorno all’arrivo in Italia di immigrati dal Sud del Mediterraneo. Numericamente l’afflusso è ben minore di quello conosciuto dagli europei nelle guerre balcaniche, ma i tempi sono cambiati. Lo sconquasso economico li ha resi più fragili, impauriti, rancorosi verso le istituzioni comunitarie e le sue leggi. Durante il conflitto in Kosovo la Germania accolse oltre 500mila profughi, e nessuno accusò l’Europa o si sentì solo come si sente Roma. Nessuno disse, come Berlusconi sabato a Lampedusa: «Se non fosse possibile arrivare a una visione comune, meglio dividersi». O come Maroni, ieri dopo il vertice europeo dei ministri dell’Interno che ha isolato l’Italia: «Mi chiedo se ha senso rimanere nell’Unione: meglio soli che male accompagnati». La sordità alle parole di Napolitano è totale.

La democrazia stessa, che contraddistingue gli Stati europei e spinge i governi a preoccuparsi più dell’applauso immediato che della politica più saggia, si trasforma da farmaco in veleno. Di qui la sensazione che l’Unione non sia all’altezza: che viva le onde migratorie come emergenza temporanea, non come profonda mutazione. Governi e classi dirigenti sono schiavi del consenso democratico anziché esserne padroni e pedagoghi con visioni lunghe. Non a caso abbiamo parlato di spirito profetico a proposito di Napolitano. È la schiavitù del consenso a secernere dispetti, rancori, furberie. Tra le furberie che ci hanno isolato c’è la protezione temporanea eccezionale che il nostro governo ha concesso a 23.000 immigrati. La protezione è prevista dal Trattato di Schengen, ma solo per profughi scampati a guerre e persecuzioni: non vale per i tunisini, come ci hanno ricordato ieri la Commissione e gli Stati alleati. Non è violando le regole che l’Italia suscita solidarietà. Può solo acutizzare le diffidenze: un altro veleno che mina l’Unione.

Per questo vale la pena soffermarsi sul significato, in politica, dello spirito profetico. Vuol dire guardare a distanza, intuire le future insidie del presente, ma innanzitutto comporta un’operazione verità: è dire le cose come stanno, non come ce le raccontiamo e le raccontiamo per turlupinare, istupidire, e inacidire gli elettori. Di questo non è capace Berlusconi ma neanche gli altri Stati e le istituzioni europee: i primi perché sempre alle prese con scadenze elettorali, le seconde perché intimidite dalle resistenze nazionali. La lentezza con cui si risponde alle rivoluzioni arabe non è la causa ma l’effetto di questi mali.

La prima verità non detta è quasi banale, e concerne l’intervento in Libia e il nostro voler pesare sui presenti sconvolgimenti arabi e musulmani. Condotta con l’intento di apparire attivi, la guerra sta confermando il contrario: una grande immobilità e vuoto di idee. È un attivarsi magari sensato all’inizio, ma che mai ha calcolato le conseguenze (compresa un’eventuale vittoria di Gheddafi) sui paesi arabi-africani e sui nostri. Fra le conseguenze c’è l’esodo di popoli. Un esodo da assumere, se davvero vogliamo esserci in quel che lì si sta facendo. Invece siamo entrati in guerra senza pensarci, né prepararci.

La seconda verità, non meno cruciale, riguarda l’Europa e i suoi Stati. L’occultamento è in questo caso massiccio, ed è il motivo per cui il capro espiatorio della crisi migratoria non è l’Italia come gridano i nostri ministri ma – se non si inizia a parlar chiaro – l’Unione stessa. L’evidenza negata è che da quando vige il Trattato di Lisbona, molte cose sono cambiate nell’Unione. Le politiche di immigrazione erano in gran parte nazionali, prima del Trattato. Ora sono di competenza comunitaria, e la sovranità è passata all’Unione in quanto tale. Questo anche se agli Stati vengono lasciati, ambiguamente, ampli spazi di manovra, in particolare sul «volume degli ingressi da paesi terzi».

Risultato: l’Unione, anche perché guidata a Bruxelles da un Presidente debole, prono agli Stati, non sa che fare della propria sovranità. Non ha una politica verso i paesi arabi, di cooperazione e sviluppo. Tuttora non ha norme chiare sull’asilo, sull’integrazione dei migranti, né possiede il corpo comune di polizia di frontiera che aveva promesso. Ma soprattutto, non ha le risorse per tale politica perché gli Stati gliele negano, riducendo la sovranità delegata a una fodera senza spada. Per questo alcuni spiriti preveggenti (l’ex ministro socialista Vauzelle, il presidente del consiglio italiano del Movimento europeo Virgilio Dastoli) propongono una cooperazione euro-araba gestita da un’Autorità stile Ceca (la prima Comunità del carbone e dell’acciaio). Come allora viviamo una Grande Trasformazione, e Monnet resta un lume: «Gli uomini sono necessari al cambiamento, le istituzioni servono a farlo vivere».

Se il Trattato di Lisbona significasse qualcosa, non dovrebbero essere Berlusconi e Frattini a negoziare con Tunisia o Egitto, con Lega araba o Unione africana. Dovrebbero essere il commissario all’immigrazione Cecilia Malmström e il rappresentante della politica estera Catherine Ashton. Resta che per negoziare ci vogliono progetti, iniziative: e questi mancano perché mancano risorse comuni. La condotta dei governi europei è schizoide, e tanto più menzognera: gli Stati hanno avuto la preveggenza di delegare all’Europa una parte consistente di sovranità, su immigrazione e altre politiche, ma fanno finta di non averlo fatto, e ora accusano l’Europa come se gli attori del Mediterraneo fossero ancora Stati-nazione autosufficienti.
La terza operazione-verità, fondamentale, ha come oggetto l’immigrazione e il multiculturalismo. È forse il terreno dove il mentire è più diffuso, tra i governanti, essendo legato alla questione della democrazia, del consenso, della mancata pedagogia, degli annunci diseducativi. Risale all’ottobre scorso la dichiarazione di Angela Merkel, secondo cui il multiculturalismo ha fatto fallimento. Poco dopo, il 5 febbraio in una conferenza a Monaco sulla sicurezza, il premier britannico Cameron ha decretato la sconfitta di trent’anni di dottrina multiculturale. Il fatto è che il multiculturalismo non è una dottrina, un’opinione. È un mero dato di fatto: in nazioni da tempo multietniche come Francia Inghilterra o Germania, e adesso anche in Italia e nei paesi scandinavi. L’operazione verità non consiste nel proclamare fallito il multiculturalismo: se un dato di fatto esiste, fallisce solo se estirpi o assimili forzatamente i diversi. Se fossero veritieri, i governi dovrebbero dire: il multiculturalismo c’è già, solo che noi – Stati sovrani per finta – non abbiamo saputo né sappiamo governarlo.

Dire la verità sull’immigrazione è essenziale per l’Europa perché solo in tal modo essa può osare e fare piani sul futuro. Urge cominciare a dire quanti immigrati saranno necessari nei prossimi 20 anni, e quali risorse dovranno esser mobilitate: sia per mitigare gli arrivi cooperando con i paesi africani o arabi, sia edificando politiche di inclusione per gli immigrati economici e per i profughi (la frontiera spesso è labile: la povertà inflitta è una forma di guerra).

Tutto questo costerà soldi, immaginazione, pensiero durevole. Comporterà, non per ultimo, un ripensamento della democrazia. Ci sono cose che non si possono fare perché maturano nei tempi lunghi e l’elettorato capisce solo i risultati immediati, spiega l’economista Raghuram Rajan in un articolo magistrale sulle crisi del debito (Project Syndacate, 9 aprile 2011). Il bisogno di immigrati che avremo fra qualche decennio in un’Europa che invecchia è, paradossalmente, quello che dà forza ai nazional-populisti: in Italia, Francia, Belgio, Olanda, Ungheria, Svezia, Finlandia. Il dilemma delle democrazie è questo, oggi. Esso costringe governanti e governati a fare quel che non vogliono: smettere l’inganno delle sovranità nazionali, guardare alto e lontano, insomma pensare. E far politica, ma con lo spirito profetico che vede la possibile rovina (il «passo indietro» paventato da Napolitano) e la via d’uscita non meno possibile, se è vero che il futuro non cessa d’essere aperto.

domenica 10 aprile 2011

Vieni fuori!

Commento alle letture liturgiche della V Domenica di Quaresima (Anno A)

“Vieni fuori!” è il grido di Dio che oggi rivolge in Gesù Cristo a ciascuno di noi.

Ci sono situazioni storiche e personali in cui come popolo e come individui ci si può sentire come morti, ridotti a ossa scarnificate, bruciate dal sole arido della vita.
C’è un deserto nella nostra vita dove la vita sembra sparire e noi ci sentiamo ogni giorno di più senza quella vita che dà vita alla nostra vita. Ma la vita non è sparita si è solo nascosta, sotto mucchi di sabbia, sotto strati di roccia. E noi con lei. Basta venirne fuori! Ma come?

Fare l’esperienza del Dio della vita è fare esperienza della vita di Dio, spiega Giovanni riportando nel terzo capitolo il colloquio segreto tra Gesù e Nicodemo: È rinascere da un altro che si trova sopra di noi perché possiede da sempre quel gusto della vita che dà vita alla vita.

Fare l’esperienza della vita di Dio, come l’ha fatta il cieco nato, è come se i nostri occhi si aprissero ai colori della vita dopo una notte senza fine,. Anno dopo anno, giorno dopo giorno, la nostra vita può imprigionarsi nella mancanza di prospettive, nella paura di un futuro che non si vede più, e accecarsi alla luce e morire alla vita.
Eppure è possibile una sorta di nuova nascita alla vita. Come un collirio sugli occhi che consenta di vedere il mondo sotto una luce mai gustata prima.

Il risveglio di Lazzaro ci dice tutto questo.
Fare esperienza di un incontro che dà vita alla nostra morte è fare esperienza del fatto che eravamo spenti e ora bruciamo. È superare la malattia della disperazione, quella perenne prigionia della paura che ci condanna a rinchiuderci in un sepolcro in attesa della putrefazione.
Quando le bende che ci avvinghiano cadono e noi usciamo dal buco in cui ci siamo infilati, le viscere della terra non possono più tenerci prigioniere e noi siamo finalmente liberi.

Due parole si intersecano nel vangelo: malattia/morte da una parte e amore dall’altra. La malattia di Lazzaro (e nostra) e l’amore di Gesù per Lazzaro e le sue sorelle. Morte e amore sembrano sfidarsi e la malattia della morte sembra vincere. Ma l’amore non può lasciare nella morte. Perché l’amore è vita e perché la vita è l’amore.
Di cosa è morto Lazzaro? Per due volte il Vangelo ce lo dice: ce lo ricorda Marta prima e Maria dopo “se tu fossi stato qui Lazzaro non sarebbe morto…”: Lazzaro è morto di un amore che si era reso assente… Lazzaro e noi moriamo di un’amicizia che non riesce ad essere vissuta. Lazzaro e noi moriamo di un’assenza che non riesce a farsi presenza. Incontro.

Di questo Gesù sembra rendersi conto “solo” quando vede le lacrime di Maria e di chi ne condivideva il dolore di una presenza diventata assenza. L’amore di Maria per Lazzaro mostrano a Gesù, che ama Maria, quanto Gesù amasse Lazzaro e quanto Lazzaro amasse Gesù e Gesù si scopre amato da Maria e da Lazzaro. Ed è come se, scendendo nelle profondità del proprio cuore, si incontrasse nel suo amore per Lazzaro. E non può trattenersi dal pianto…
E questo pianto dell’uomo che provoca il pianto di Dio è l’amore che riporta all’amore della vita Lazzaro che si era ammalato per l’assenza dell’amato.
C’è qui in un solo comune pianto, in un solo gesto: “liberatelo”, in un solo grido: “vieni fuori”, tutta la storia che da Israele porta Dio sui sentieri del mondo. Tutta la storia – ciascuno potrebbe dire – della mia vita.

Noi “erriamo” quando pensiamo che la vita si trovi dopo la morte perché questo modo di vedere svuota la nostra vita di senso e toglie alla vita che viviamo il gusto di una speranza che gli dia fondamento. Ma se la vera vita fosse solo dopo la morte, che senso avrebbe vivere qui sulla terra? E non ci sarebbe mai potuto essere un mattino di Pasqua e noi non avremmo mai potuto accorgercene, anche se fosse avvenuto, se non potessimo fare un’esperienza di Dio in questa vita, un’esperienza di Dio tale da comprendere che cos’è la vita, al di là della paura della morte, al di là della finitezza, al di là dell’angustia e dell’angoscia di questo mondo. (E. Drewermann)

Questo grido “Vieni fuori!” vale per ciascuno di noi oggi, a prescindere da dove siamo e come siamo. Non importa la nostra età, non è mai troppo presto, non è mai troppo tardi per esperimentare che non ci sono due mondi, uno aldiquà e l’altro aldilà. Questa vita nuova che ci scorre nelle vene del corpo e dell’anima – ci dice san Paolo – è il nuovo principio che dà sapore alla nostra vita.

Credere vuol dire sapere, perché gustato, che tra cielo e terra, tra tempo ed eternità, tra umanità e divinità non ci sono più confini e c’è un unico luogo dove la vita dà gusto alla vita: Noi!

venerdì 8 aprile 2011

V Domenica di Quaresima: L’amore più forte della morte

Anche questa quinta domenica di Quaresima ci propone un brano di vangelo assai lungo e assai impegnativo: la risurrezione di Lazzaro. Anche questa domenica allora, preferisco non dilungarmi troppo e lasciare che a parlare sia la Parola. Accenno solo all’elemento che mi ha colpito di più… Il testo racconta di tutta la vicenda che riguarda la morte di un amico di Gesù, Lazzaro… una vicenda che – attraverso la notizia che raggiunge Gesù, il suo cammino per raggiungere Betania, i suoi dialoghi con i discepoli e con le sorelle Marta e Maria – arriva fino al miracolo della risurrezione…


Di fronte ad un episodio del genere, mi è venuto da pensare: “Io avrei subito fatto un’intervista a Lazzaro!”. Avrei voluto infatti sapere da lui cosa ha voluto dire morire e restare morto… Cosa ha sentito, cosa ha provato, cosa ha visto… sempre ammesso che qualcosa abbia sentito, provato e visto… E invece nel testo Lazzaro non dice niente! Niente! Né qui, né più avanti, quando Gesù tornerà in questa casa poco prima della sua morte.

A nessuno viene in mente di chiedergli niente! Com’è possibile??!!?? Passiamo tutta la vita preoccupati (angosciati?) dalla prospettiva che prima o poi tutti (tutti!) muoiono (anche i nostri cari, anche noi)… e quando c’è lì uno che è tornato indietro dal regno dei morti, non gli chiedono niente… Strano! Troppo strano! Ci deve essere una spiegazione…
E io credo sia questa: ancora una volta, al centro della scena c’è Gesù, non Lazzaro; c’è la sua Verità, non le nostre paure.

Come scrive un biblista – infatti – in questo testo «Alla base vi è senza dubbio un’antica tradizione su un miracolo di risurrezione compiuto da Gesù, nettamente riconoscibile anche entro gli sviluppi teologici del racconto giovanneo. Nel quale tuttavia alcuni particolari svolgono un’importante funzione interpretativa del “segno” operato da Gesù. […] Come sempre, Giovanni è fedele alla concretezza dei ricordi, anche se la sua massima aspirazione è quella di interpretarli per un’efficace educazione alla fede dei suoi lettori» [M. Làconi, il racconto di Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi 1989, 219]. In gioco, allora, vi è nuovamente l’identità di Gesù. Esattamente come nel brano del cieco nato, che non a caso, fa da pendant con questo («Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato» / «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio»); anche qui infatti troviamo una confessione di fede su Gesù da parte, stavolta di Marta, accompagnato ad un dire qualcosa di sé da parte di Gesù stesso: «Gesù le disse: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?”. Gli rispose: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo”».

«L’atto di fede di Marta riprende tutti quelli che l’hanno preceduto: quello di Natanaele (1,49: “il Figlio di Dio, il Re d’Israele”), dei samaritani (4,29.41: “Il Messia… il Salvatore del mondo”), di Pietro (6,69: “Il Santo di Dio”), del cieco guarito (9,35-38: “Il Figlio dell’uomo”)» [Ivi, 228] e ci riporta al centro del testo: chi è Gesù? È colui che vince la morte!

Questo è quello che deve catturare la nostra attenzione. Questo è quello che cattura l’attenzione degli astanti. Questo è quello che Giovanni vuole sottolineare nel suo vangelo. Noi invece ce ne dimentichiamo perché lo diamo per scontato… talmente scontato che – se fossimo stati giornalisti – avremmo intervistato Lazzaro e non Gesù… talmente scontato che quasi non gli diamo più peso… forse anche perché il «… se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» di Marta e Maria «vale per tutti i morti, tanto più per quelli che non hanno neanche uno che li piange e che prega per loro! È un lamento che si può rivolgere solo a Dio. È il lamento che fonda ogni religione e la rende indistruttibile, come la morte che lo genera. Tiene viva la religione, ma ne è anche è la spina mortale, che la rende debole, sostanzialmente inaffidabile, perché non è nei poteri di Dio di impedire che gli uomini muoiano... E infatti continuano a morire, nonostante questa implorazione salga a Dio milioni di volte al giorno. E gli uomini ne concludono sempre più che… Dio è inaffidabile! Ancora una volta però il volto di Dio rivelato da Gesù (il volto di suo Padre, che solo lui conosce… e quelli a cui vuole rivelarlo!) non assomiglia per niente al volto del Dio che ci hanno trasmesso e pure rimane così difficilmente sradicabile dal nostro cuore» [Giuliano]. Infatti… In che modo Gesù è tutto questo?

«Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro», «Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: “Dove lo avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”. Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: “Guarda come lo amava!”. Ma alcuni di loro dissero: “Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?”. Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra».

«È buona cosa tener ben ferme queste tre coordinate dell’animo di Gesù: pianto, fremito interiore, turbamento… Non si tratta solo di arricchire la conoscenza profonda del Gesù storico, ma soprattutto di prendere contatto con quella veemenza vitale che si agita in Lui, da cui scaturirà irresistibile il prodigio» [M. Làconi, il racconto di Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi 1989, 234]. È cioè perché ha questa empatia fortissima col dolore dell’uomo… (e delle donne, in particolare con Maria… la sua Maria – come si vedrà in Gv 12 e in Gv 20: Mentre infatti «Marta proclama di credere in Gesù Signore della vita (v. 22); Maria col suo atteggiamento prepara il gesto sovrumano di Gesù: col suo pianto provoca il pianto di Gesù (vv. 33-34), con le sue parole di amorevole protesta (v. 32: le stesse della sorella! [«Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!»]) pone la premessa per il miracolo di risurrezione» » [M. Làconi, il racconto di Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi 1989, 230])… è cioè perché ha questa empatia fortissima col dolore dell’uomo che Gesù può dargli la vita (in entrambi i sensi che può avere quest’espressione: non a caso siamo nell’anticamera del racconto della Passione!).

Ecco perché il volto di Dio rivelato da Gesù non è più quello inaffidabile della religione, ma quello affidabile della fede: «Gesù si oppone ad una specie di rassegnazione omertosa alle situazioni di malattia, di oppressione e schiavitù sociali o religiose o economiche… Non accetta l’acquiescenza all’insensatezza della morte, che anestetizza l’istintiva protesta elaborando il lutto attraverso razionalizzazioni e riti, ma che di fatto corrode la fiducia nella vita sbarrando all’amore il suo futuro. L’amore che cerca una strada per salvare a tutti i costi la vita non deve essere deviato nel mondo irreale dei sogni e delle ombre. […] La compagnia, la solidarietà, la compassione d’amore e d’amicizia sono il dono più grande che ci è fatto sulla terra, la spiaggia estrema della speranza. Perché hanno dentro appunto la pretesa mite e struggente della continuità (che i filosofi chiamano immortalità), altrettanto inestirpabile dentro di noi quanto la certezza della morte» [Giuliano]. Per questo, muore, amando i suoi fino alla fine! Non tradendo mai cioè la fede in quella continuità per cui l’amore è più forte della morte! E per questo Dio lo risusciterà… Perché in quell’amore lì, si riconoscerà in maniera definitiva. Ma che in quell’amore lì, Dio – suo Padre – si sarebbe riconosciuto, Gesù lo sapeva da sempre, perché sapeva che così era il Padre suo. Ecco perché può dire: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno». «Questa pretesa sbalorditiva è il cuore della vita e del messaggio di Gesù! La resurrezione di Lazzaro è solo l’occasione per la manifestazione del vero mistero di Gesù. Infatti quella di Lazzaro non è propriamente una risurrezione ma la rianimazione di un cadavere e Lazzaro non entra in un nuovo livello di vita (“eterna”, cioè non più mortale), ma morirà ancora! "La risurrezione della carne", che professiamo nel Credo, è " la vita eterna". Questo è il destino che ora Cristo restituisce all'uomo: non una rivivificazione (o una reincarnazione!), ma una pienezza di vita, la vita stessa di Dio! “Chiunque vive e crede in me non morirà in eterno. Credi tu questo?” Tale rimane per sempre la domanda che assilla il cristiano e la chiesa dentro la storia di questo mondo, e sulla fede in “questo!” si decide e si qualifica la sua vita e la sua morte. Infatti è la fede in Cristo che riscatta dalla morte, ieri come oggi. Gesù è risuscitato per essere "il primogenito dei risorti", non un caso unico. Ha fondato con la sua morte una nuova solidarietà creaturale, un’appartenenza eterna che non sarà mai più insidiata dalla morte: […] "quel medesimo Spirito che ha risuscitato Gesù dai morti darà vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi" (Rm 8,11)» [Giuliano].

martedì 5 aprile 2011

Dentro l'abisso


di Francesco Merlo

Tutto è stato detto su Berlusconi che racconta barzellette, niente su quelli che ridono. Sono servi? Sono a libro a paga? Sono sdoppiati? E se fosse peggio? In pochi giorni Berlusconi si è esibito per due volte ben oltre la decenza delle sue solite storielle.

E ogni volta, colpiti dalla scurrilità che è simpatia andata a male, dalla fuga nell’oscenità persino mimata che è la cifra degli spettacoli prolungati oltre la fine, abbiamo pensato che peggio di lui ci sono quelli che ridono. E ci sentiamo come Petrolini che reagiva così alla maleducazione di uno spettatore: «Non ce l’ho con lei, ma con quelli che le stanno accanto e non la buttano di sotto».
A Lampedusa, per esempio, quando ha raccontato la barzelletta sulle italiane ha riso anche il presidente Lombardo che, bene o male, guida una giunta di centrosinistra. E, due giorni dopo, indossavano la fascia tricolore tutti quei sindaci che hanno applaudito la mela che (non) «sa di f***».

Riguardate il filmato: non ce n’è uno che si mostri infelicemente rassegnato per quella degradazione istituzionale. È vero che gli applausi tradiscono qualcosa di nervoso ma tutti i sindaci ostentano un’aria compiaciuta e divertita per il premier che mortifica i luoghi e i riti dello Stato. Ovviamente sanno che la coprolalia non è compatibile con l’aula, con i ruoli e con la bandiera. Ma è proprio per questo che ridono. Non per le battute da postribolo, ma per i toni da villano di osteria che declassano e offendono tutti quei simboli ai quali, faticosamente e insieme, siamo riusciti a ridare valore, a sinistra come a destra.


Eppure i sindaci del centrodestra sanno meglio di noialtri che queste non sono più le solite barzellette per distrarre gli italiani, ma sono i rumori grevi e le impudicizie della stagione ultima. Lo sanno dai sondaggi e dagli umori interni, dalla depressione di Bondi, dalla paziente disperazione di Bonaiuti, dal disprezzo sibilato di Tremonti, dalla rassegnazione al martirio di Gianni Letta che – come ha detto in privato – teme «la passerella delle quarantatré ragazze più dei pugnali di Cesare»; e ancora lo sanno dall’irascibilità incongrua di La Russa, dalle donne in fuga dai letti del potere, dal disgusto certificato di Mantovano che è il solo ad essersi veramente dimesso (ma, si sa, è un magistrato), dalla sofferenza trattenuta della Carfagna e della Prestigiacomo, dall’impotenza comica del ministro degli Esteri, dal fastidio persino di Dell’Utri che ha confessato a un amico: «Due cose non deve fare un uomo: innamorarsi ed ubriacarsi. E Silvio si è innamorato e si è ubriacato di se stesso».

E tuttavia quelli ridono. Acclamano la barzelletta lunga e noiosa, approvano gioiosamente il turpiloquio. E noi, che li vediamo nel filmato, ci sentiamo imbarazzati al posto loro, e non più perché sappiamo che esistono un’altra comicità e un’altra educazione alla comicità: non è più questione di contrapporre risata a risata, Marziale alla barzelletta, e perciò forse dovremmo persino astenerci dal ridere, come nel Risorgimento, quando gli italiani rinunziavano a comprare il divertente «Figaro», vale a dire rinunziavano a ridere per non sovvenzionare gli austriaci. Certo, ci sembrano eversivi i drammatici e goffi numeri da caserma di un premier che intanto si sta battendo contro «i magistrati golpisti» che lo processano, vuole cambiare la Costituzione, e non controlla più il Paese impoverito e assediato... E però al cuore della nostra pena e della nostra rabbia ci sono innanzitutto quelli che ridono. Sono loro che ci fanno gelare il sangue.
Consenso? Compiacimento servile? Identificazione? Di sicuro sono risate di complicità. Ma non ridono come gli uomini di Stalin che temevano per la sopravvivenza loro e delle loro famiglie. Questi davvero pensano che la mela dal «sapore di f***» sia meglio che leggere Kant. E dunque voluttuosamente degradano istituzioni e cultura che, tra gli sberleffi, lasciano alla sinistra. La mela da brevettare è la loro cifra ontologica, il loro marchio. Nel film «Nessuno mi può giudicare», la prostituta Eva (Anna Foglietta) insegna la «vita» a Paola Cortellesi: «Se sono di destra, tu ridi, perché a loro piace tanto sembrare simpatici; se invece sono di sinistra, tu annuisci, perché loro hanno bisogno di sentirsi intelligenti». Insomma, si parte da una barzelletta e si arriva lontano. Allo scadimento del gusto italiano e a quella commedia di Luciano Salce dove Ugo Tognazzi, imprenditore di mezza età, racconta una barzelletta ai suoi dipendenti ed è felice di vederli ridere di gusto. Poco dopo lo stesso Tognazzi si sentirà sprofondare quando, trascinato dalla «voglia matta» per una giovanissima Catherine Spaak, racconterà la stessa barzelletta a un gruppo di ragazzi che lo guarderanno come un marziano e gli sveleranno la mestizia che si porta dentro. Certo, quei ragazzi non erano suoi dipendenti ma persone libere. E però questo non basta.
Non basta il libro paga per spiegare i laudatori di Berlusconi, per capire perché ridono. Anzi, dargli dei servi pagati finisce con l’essere un complimento perché ammette uno scarto dentro di loro tra la coscienza e il contratto, certifica il professionismo cinico di chi, cambiando editore di riferimento, sarebbe pronto a cambiare musica. E invece non è sempre così. C’è infatti una identificazione con la cultura della mela al «sapore di f***». Lo stesso Vittorio Sgarbi – è un esempio per tutti – gode nell’umiliare la specificità della sua stessa cultura, come quelli umiliano la fascia tricolore. Non per i soldi, ma perché c’è una voluttà nel profanare, nel farsi capre per rendere cavoli tutte le cose belle e profonde, tutte quelle meraviglie che da Caravaggio a Masaccio fanno la grandezza dell’arte.

Compiacciono Berlusconi dunque, e ridono ad ogni nuovo abbassamento di livello, a questo scadere dalle fogne ai pozzi neri. Ridono dinanzi a quella che gli studiosi di Storia Antica chiamerebbero Oclocrazia, ridono per massacrare un patrimonio anche se – come racconta Giorgio Manganelli nell’«Encomio del tiranno» – presto saranno loro, quelli che ridono, a farlo fuori con uno sbadiglio.

Se qualcuno ha stomaco per sentirsi la barzelletta berlusconiana, può vedersela qui

sabato 2 aprile 2011

IV Domenica di Quaresima: Chi è Gesù?

Il lungo vangelo che la Chiesa ci propone per questa quarta domenica di Quaresima, lascia poco spazio nel foglio per sviluppare una riflessione. “E per fortuna!”, dirà qualcuno… Ma anche noi! Grati che, ogni tanto, la Parola si imponga sulle nostre parole e – come diceva Clemente Maria Rebora – le zittisca: «La Parola zittì chiacchiere mie»!


Ci limitiamo dunque a mettere in luce un unico profilo di questo testo, tra i tanti che offre. E scegliamo quello dell’identità di Gesù, perché raramente nel vangelo, troviamo brani così densi di “titoli” (positivi e negativi) che gli vengono attribuiti o che egli stesso si attribuisce, come quello di questa domenica. Potremmo infatti quasi dire che, tra le molte tematiche che questo brano intercetta, di certo, su tutte, spicca quella cristologica: esso sembra infatti costruito per rispondere alla domanda “Chi è Gesù?”. Una domanda, tra l’altro, che per come è costruito il discorso, non si propone in termini filosofico-metafisici – dunque riservati agli specialisti del mestiere – ma piuttosto in una trama coinvolgente, che trascina nel suo andirivieni concentrico (ma un concentrico “a spirale”, che cioè va sempre più in profondità) il lettore stesso. È lui che – dentro alla complessa dinamica in cui è raccontato lo scontro teologico sull’identità di Gesù (che sarà ciò che lo porterà a morire) – dovrà dare la sua risposta.

Veniamo dunque al testo…
Esso si apre con una domanda che i discepoli – vedendo «un uomo cieco dalla nascita» – pongono a Gesù: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?».

Rabbì è dunque il primo modo in cui nel testo viene nominato Gesù: maestro.

Un titolo a cui se ne affianca però subito un altro, contenuto nelle stesse parole di risposta di Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo».

Sono la luce del mondo è quindi ciò che Gesù dice di sé, il modo in cui, in questa prima parte del testo, si autodefinisce. Mentre quindi Gesù, rispondendo ai suoi, corregge la loro teologia (cioè il loro modo di pensare al male del cieco nato come legato ad un peccato suo o dei suoi genitori di cui la cecità sarebbe appunto la punizione… e lo fa mettendo immediatamente in relazione il cieco a Dio e non al peccato!), coglie anche l’occasione per dare un orientamento sulla sua identità: certo è un maestro, un rabbì… ma un maestro diverso da tutti gli altri: egli è infatti la luce del mondo, mandata da Dio.

Ma il brano prosegue, perché dopo la guarigione del cieco inizia la diatriba vera e propria sull’identità di Gesù. Perché il cieco, interrogato su come gli fossero «stati aperti gli occhi», risponde anche lui dando un “titolo” a Gesù. Lo nomina infatti: «l’uomo che si chiama Gesù». Il cieco parte quindi dall’evidenza immediata. È stato un uomo a guarirlo, un uomo di nome Gesù.

Ma i farisei lo incalzano, scettici sui fatti e sulla loro interpretazione. Anch’essi infatti dicono la loro sull’identità di Gesù: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Per loro dunque Gesù è un uomo che non viene da Dio.

Ma non son tutti d’accordo. Qualcuno infatti commenta: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». Per questi altri cioè Gesù non può essere un peccatore… deve in qualche modo “venire da Dio” per compiere segni di quel tipo.

«C’era [dunque] dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: “Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?”. Egli rispose: “È un profeta!”». Il nostro cieco ha fatto un passettino ulteriore… la domanda è sempre la stessa (la scena gira infatti continuamente intorno ad essa e la ripropone in continuazione), ma stavolta rispetto alla prima risposta, si va più in profondità: non è riportata solo l’evidenza immediata (l’uomo che si chiama Gesù), ma a partire da essa si fa un passettino ulteriore: mi ha aperto gli occhi, non può essere che un profeta, cioè uno che ha Dio dalla sua parte, non un peccatore!

Ma è proprio su questa interpretazione che i farisei “sbottano”: non può essere un uomo di Dio e tradire il riposo del sabato (vorrebbe dire che per Dio l’osservanza del sabato, cioè della legge non è il riferimento ultimo… quello su cui loro – farisei – hanno impostato tutta la loro vita…). E perciò urlano al cieco: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». In mancanza di ragioni convincenti, ecco che scatta la violenza: è un peccatore, «Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia».

Ma qui il cieco si fa raffinato, convinto ormai dalla reazione aggressiva degli altri, di averli messi in scacco: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Per il cieco dunque Gesù non solo è l’uomo che gli ha aperto gli occhi, non solo è un profeta, ma diventa uno che onora Dio e fa la sua volontà, uno che viene da Dio.

Tutto il problema legato all’identità di Gesù sembra così in qualche modo legato alla sua provenienza: viene da Dio o no?

Ma il brano non è ancora finito, perché nel finale presenta un’altra scena rivelativa. Gesù e il cieco si rincontrano dopo che quest’ultimo è stato cacciato dalla sinagoga e nel dialogo che intraprendono, emergono altri due titoli: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!».

Dunque Figlio dell’uomo e Signore, titoli, entrambi molto forti (anche figlio dell’uomo, che a differenza di quanto si può pensare non indica un’audesignazione umile da parte di Gesù, ma fa riferimento a tutto un mondo antico testamentario e ad un’appropriazione personale che rimandano all’eletto/inviato da Dio): è il riconoscimento finale del fatto che alla domanda “Da dove viene Gesù?”, il cieco (e Gesù stesso) dice “Da Dio”. È il riconoscimento finale sull’identità di Gesù. Come se l’evangelista nell’avvicinarsi della sua narrazione alla Pasqua, sentisse il bisogno di dire: stiamo parlando di questo, del Messia che viene da Dio, cioè di cose serie, di cose determinanti la vita.

Ecco perché a metà Quaresima, nella cosiddetta domenica laetare (quella che fa pendant con la domenica gaudere dell’Avvento – un tempo accomunata all’altra dal fatto di essere le uniche due domeniche in cui i paramenti liturgici erano rosa), quella che in qualche modo vuole porre una “pausa” nei toni concentrati della Quaresima per dare un po’ di lietezza ai fedeli, la Chiesa ci invita a fare una “pausa” per ricordarci che tutti gli sforzi di preparazione a questa Pasqua non sono fini a se stessi o marginali alla vita: il centro, ciò che c’è in questione, ciò su cui bisogna che ci concentriamo in questo tempo speciale è Gesù, il Figlio dell’uomo, cioè il Signore mandato da Dio. Di questo stiamo parlando!

Allora sarebbe bello, come avevamo suggerito per le beatitudini, fare anche noi una pausa e dare la nostra risposta alla domanda “Da dove viene Gesù?”, cioè “Chi è?”, provando a farlo anche noi come il cieco: non nei termini metafisici-filosofici degli addetti ai lavori, ma a partire da quella che è l’esperienza del nostro incontro con lui. E da lì ripensare noi stessi e la nostra vita, perché: «la conoscenza di sé e quindi la conoscenza di Dio sono speculari dentro di noi, e solo nella purificazione e ricostruzione della propria immagine di sé s’illumina l’immagine di Dio, e viceversa» [Giuliano].
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