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venerdì 25 marzo 2011

III Domenica di Quaresima: Il Signore è in mezzo a noi sì o no?

Le letture che la Chiesa ci propone in questa terza domenica di Quaresima sono talmente ricche da rendere impossibile un’indagine approfondita di tutto ciò che mettono in campo. Per questo mi limito a delineare uno dei possibili percorsi a cui esse ci aprono, e cioè: è soltanto facendo esperienza (e facendo poi memoria) del Signore che mi incontra nel più intimo di me (Gv 4,5-42), che Egli può essere tolto dal banco degli imputati (Es 17,3-7), dov’è guardato con sospetto come un lui qualunque, e diventare un Tu con cui Vivere la vita (Rm 5,1-2.5-8). Cerco di spiegarmi… a partire dall’esperienza del popolo di Israele nel deserto: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?». Ecco la domanda inquisitoria nei confronti di Dio che crea un evidente “ribaltamento” dei ruoli “classici” (di solito è dio che mette alla prova l’uomo!): qui invece il deserto, da terra di prova per la fede dell’uomo, diventa luogo dove in discussione vi è Dio in persona.


«Il Signore è in mezzo a noi sì o no?»… è la domanda di Israele nel deserto, ma non è certo una domanda che noi possiamo permetterci di guardare con sufficienza o superiorità: quante volte infatti è salita in gola anche a noi? Soprattutto proprio in quei momenti in cui, come si dice del popolo, si «soffriva la sete per mancanza di acqua»?

Per ognuno certamente l’esperienza del deserto e della sete assume contorni e sfumature personalissime, l’acqua che manca è per ciascuno connotata in modo singolarissimo, ma – mantenendo il paragone – non si può negare che quello della mancanza di acqua sia proprio un tratto caratteristico di questa nostra vita umana, di tutti e di ciascuno. «il credente fa fatica a scoprire il presente di Dio. E quindi va in crisi ad ogni sofferenza e si ribella: il Signore è in mezzo a noi o no? Rischia di regredire nella religione come schiavitù o di fuggir nel futuro apocalittico. Ma il Signore non vuole servi. Si offre come amico, che è presente adesso: io ci sono! è sempre la sua risposta» [Giuliano].
Ma non solo: comune a tutti e a ciascuno pare anche, almeno tendenzialmente, la reazione a questa carenza di acqua, di vita. Essa si connota infatti umanamente con l’inquisire Dio: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?». È lui il primo imputato del nostro male di vivere, dei nostri stenti, delle nostre infelicità e solitudini, delle nostre povertà e miserie, dei nostri lutti… della nostra sete di Vita: Dov’era Dio? Interessante a questo proposito è notare come la domanda «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?» sia come urlata ad un cielo vuoto: non è rivolta a Mosè, né a nessun altro membro del popolo; e non è rivolta nemmeno a Dio stesso; Egli vi è infatti citato alla terza persona… Ed è interessante perché rimanda ad un’altra domanda – urlata da una croce – che interrogherà il cielo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Anch’essa è la domanda di uno che ha sete (sete di vita), di uno che dispera, di uno che muore… ma – a differenza di quell’altra – è una domanda che, anche nel grido dello strazio, tiene aperto il dialogo con il Padre. È infatti la domanda di uno che continua comunque a dargli del Tu, a interpellarlo in prima persona.

È proprio questa la novità cristica, la sua risposta al nostro umanissimo istinto di mettere in discussione Dio: o Dio lo incontri nel dramma della libertà storica di Gesù, o, se rimane un’impalcatura religiosa, un insieme di pratiche e devozioni, non ti disseta, non ti salva, non ti dà Vita; resta sempre un idolo in terza persona… cioè uno sconosciuto.

In questo senso è significativo che il liturgista abbia posto in connessione alla sete di Israele nel deserto, il dialogo che Gesù intrattiene con la Samaritana sull’acqua viva che zampilla per la vita eterna.

Questo incontro tra la libertà storica di questo uomo – che possiede in sé la fonte della Vita – e questa donna – che invece ha in sé la fonte della sete – è così coinvolgente perché non rappresenta un esempio edificante, un modello stereotipo del rivolgersi al Signore. Esso è piuttosto raccontato nel suo snodarsi, nel suo svolgersi reale; e in questo senso noi lettori siamo come catturati dentro alla scena, dove «il prototipo della fede... è la donna di tanti mariti! ... presso un antico pozzo biblico, a mezzogiorno, fuori orario per andare ad un pozzo, arriva infatti una donna mai vista prima, razza e religione diverse e conflittuali... Gesù, seduto lì, spossato dal viaggio, inizia un approccio sorprendente per lei (e anche per i discepoli, dopo). Un dialogo... come si impara una lingua ignota in terra straniera. Partendo dall’esperienza comune delle cose semplici e concrete, evidenti a tutte due, provoca l’intuizione di un significato nuovo, per successive ambiguità e spiegazioni, equivoci e chiarimenti. Smonta dolcemente un’impalcatura interiore di paure e pregiudizi, bisogni e desideri, legami e rimorsi... e le fa intravedere e le induce nel cuore una costellazione di orizzonti nuovi... e infine un totale sconvolgimento della vita. Attraverso il sentiero difficile dei fraintendimenti: l’acqua e la sete, l’amore e i mariti, Dio e la sua casa, il messia e il suo vangelo, il pane e la fame, il missionario e il salvatore... sono i passi di questa privilegiata catecumena, alla quale un catechista d’eccezione insegna il cammino per diventare... discepola e apostola, come lui la sogna. Un arduo viaggio interiore, per portarla a disseppellire una sorgente d’acqua viva per la sua sete, non chissà dove, ma nel proprio intimo, scavando nei sedimenti induriti che le impediscono la conoscenza di sé e quindi la conoscenza di Dio. Le due immagini infatti sono speculari dentro di noi, e solo nella purificazione e ricostruzione della propria immagine di sé s’illumina l’immagine di Dio, e viceversa. Il racconto vivace dei desideri e delle resistenze, dello stupore e delle riluttanze di questa donna, segna in filigrana i passi critici della fede» [Giuliano].

Così al seguito di questa donna anche noi abbiamo, ancora una volta, la possibilità di accedere al mistero dell’identità di Gesù vedendolo in azione, dal di dentro della sua vita: Egli è accessibile anche ai peccatori! In queste pagine infatti si rivela qualcosa di eccezionale: Dio è quel Gesù che camminando per le strade della Samaria si incontra (e qui il verbo va preso nel senso forte di “si mischia l’anima”) con una donna («Giunge una donna»), una donna considerata eretica («una donna samaritana»), un’eretica peccatrice («Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero») e proprio a lei si rende accessibile come fonte della Vita: «Sono io, che parlo con te». Ecco perché è possibile anche per noi metterci nella nuova prospettiva (convertirci) che «viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. [...] Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità».

Non è più questione di appartenenza etnica, religiosa, di genere, di casta, di santità... L’incontro col Signore è questione di spirito e di verità, o, se volete, di verità di spirito: cioè è questione di lasciarsi incontrare nella trasparenza del proprio essere, di quel centro vitale in cui noi siamo proprio noi... O Dio lo si incontra lì nel nucleo vitale della nostra singolarità, o non è Dio, di certo non è il Signore della mia vita, non può essere la fonte che mi dà Vita. È questa la nuova via aperta da Gesù nell’incontro col Padre: «noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo [...] perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato». E non tengono più neanche le remore etiche che ci facciamo o che ci mettono addosso: «Infatti, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi». Non c’è scusa per non avventurar la vita sulle strade di questa amicizia... neanche il male commesso fa più da ostacolo... nel poter lasciarsi zampillare l’anima.

Infatti: «L’amore non funziona perché non si apre all’altro, ma cerca se stesso, cioè la propria immagine e il proprio soddisfacimento. Non incontrando nessuno che lo ami, la sete insaziata moltiplica i tentativi di dissetarsi e la conseguente frustrazione... Anziché patire una grande sete, sembra più comodo inseguirne molte, piccole e inappaganti. Gesù non rimprovera la donna per i cinque mariti, le fa osservare la sua situazione senza aggressione moralistica... Sa che non ha imparato ad amare, perché nessuno l’ha mai amata gratuitamente, in perdita – per amore! È apprendimento più difficile e più importante della vita. Si impara ad amare per contagio, per esser venuti in contatto con chi ti fa sperimentare che amare vuol dire consegnarsi alla sete dell’altro. Questo amore accende una nuova dinamica interiore, che ha il suo senso e la sua garanzia in se stessa. Lo sappia o no, si è incendiata ad un Amore che genera e nutre ogni amore, senza fine» [Giuliano].

lunedì 21 marzo 2011

II Domenica di Quaresima: La Trasfigurazione

In questa seconda domenica di Quaresima, la Chiesa attraverso il Vangelo di Matteo (17,1-9) ci invita ad addentrarci in uno degli eventi più enigmatici dell’esperienza terrena di Gesù, che è appunto la sua trasfigurazione.


Già solo la parola – trasfigurazione – pare creare in noi un certo qual senso di inadeguatezza, un alone di mistero… quasi forse un sentimento di inquietudine: ci sentiamo messi di fronte a uno di quegli episodi della vita di Gesù che, per come ce li hanno raccontati fin da piccoli, si discostano troppo dalla nostra capacità di comprensione, perché li sentiamo al di là della nostra umanissima esperienza. E chissà come, dalle profondità ataviche del Cristianesimo succhiato al seno di nostra madre, sentiamo improvvisamente che l’umanissimo Gesù che siamo abituati a trovare nel Vangelo, ora ci pare così lontano… ci incute quasi timore.

Eppure, se guardiamo bene al testo, non ci sarebbero poi così tanti elementi a sostegno di questa sensazione istintiva che ci nasce in cuore: tutta la vicenda è infatti raccontata nel giro di pochi versetti, manca di qualsiasi presentazione dal sapore enfatico, è priva di ogni euforico senso del miracoloso e addirittura si conclude con un deciso invito a non sponsorizzare l’accaduto.

Si potrebbe quasi anzi dire che il modo di raccontare questo fatto da parte di Matteo (come anche di Luca e Marco) sia il più demitizzato possibile: avrebbe potuto caricarlo di prodigiosità, avrebbe potuto sfruttarlo per convincere alla fede i suoi lettori, avrebbe potuto anche forzare un po’ la mano e sottolinearlo tanto da farlo diventare il momento clou del suo vangelo. E invece no: invece, appunto, gli dedica pochi versetti e tiene un profilo narrativo basso.

Questo è un indizio significativo di quale sia l’intento dell’evangelista: egli non sta pubblicizzando Gesù, come una delle tante proposte di salvezza presentate all’umanità, ma dentro all’evoluzione della narrazione evangelica («il racconto della trasfigurazione, nel vangelo di Matteo, è strettamente legato alla passione, preannunciata da Gesù appena prima e ribadita subito dopo» [Giuliano]), con la quale questo brano sta in continuità, vuole portare pian piano il discepolo all’incontro con l’identità del suo Maestro e Signore.

È in questa prospettiva che va letta anche la trasfigurazione: essa, da un lato, è uno dei momenti della vicenda della libertà di Gesù (è un’esperienza che fa Gesù); dall’altro, è il coinvolgimento in questa vicenda da parte dei suoi discepoli, i quali non la apprendono su un libro o per sentito dire, ma lasciandosene implicare e compromettendosi in prima persona.

Questo modo, che è l’unico vero, di conoscere qualcuno, non è stato possibile solo allora e a noi precluso per un’immensa e incolmabile distanza spazio-temporale dal fatto storico: anzi, tutto il NT trasuda la certezza di un’accessibilità reale per il discepolo di qualunque tempo alla drammatica storica della vita di Gesù. Essa è percorribile proprio nella stessa dinamica di implicazione e compromissione, che era propria dei discepoli della prima ora.

Ecco perché credo utile provare a ripercorrere il senso del brano evangelico che la liturgia ci propone, puntualizzando proprio questa dimensione: il coinvolgimento con la sua identità che il Signore ha inteso proporre ai tre discepoli, in questo episodio della trasfigurazione.

Dicevo prima infatti che questa è: 1) sia un’esperienza di Gesù; 2) sia un coinvolgimento dei discepoli (e di noi in quanto discepoli) in questa stessa vicenda.

Perché sottolineo questo? Perché – leggendo – mi è sorta questa domanda: “Ma Gesù quando ha chiamato «in disparte su un alto monte Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello», sapeva che sarebbe stato trasfigurato «davanti a loro»?”.

Certo, so che sono quelle domande che non ci si dovrebbe mai porre, perché – come insegnano gli studiosi – i brani biblici non andrebbero mai interrogati con domande eterogenee al testo così come esso si dà… però mi pare che questa possa comunque essere una domanda “ammessa”, se non altro perché credo possa aiutarci a inquadrare un po’ meglio la situazione. Infatti, leggendo il resto del brano, sembra che Gesù viva con molta naturalezza questa esperienza: di lui non è raccontata nessuna reazione, nessuna parola, se non sul finale quando appunto «Gesù si avvicinò, li toccò e disse: “Alzatevi e non temete”». Forse questo può farci dire che non è stata un’esperienza così inaspettata per Gesù; forse possiamo addirittura arrivare a dire che il suo comportamento, per come ce lo dipingono i sinottici, in quell’occasione è stato quello di chi vive qualcosa di conosciuto, quasi di usuale: Gesù non si è spaventato come gli altri.

In questa prospettiva, riprendendo la nostra impertinente domanda, potremmo allora dire che, sì, in qualche modo, Gesù ha scelto consapevolmente di portare con sé i tre discepoli (quelli delle occasioni importanti) per coinvolgerli in uno dei momenti essenziali della sua vita: la sua relazione col Padre e in Lui, con la Legge (Mosè) e i profeti (Elia).

Di questa esperienza, ciò che emerge dai versetti matteani, è sicuramente l’insieme dei tratti caratteristici (classici) della teofania (la luminosità, l’apparizione, la voce dalla nube…) – che stanno lì a dire che appunto in gioco c’è il relazionarsi a Dio –, ma soprattutto la messa in campo di una dialogicità: «Mosè ed Elia, che conversavano con lui», «una voce dalla nube che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo”».

È in questa sua esperienza di relazione dialogica con Dio e con la storia della salvezza che Gesù vuole coinvolgere i suoi tre discepoli, quasi a tirarli dentro nel più intimo della sua intimità (il suo rapporto col Padre). In questo senso questa è davvero un’esperienza rivelativa, un momento cioè in cui Gesù dice davvero di sé; ma appunto lo fa non con un bel discorso, ma tirando dentro alla sua vicenda (intanto che la vive!) anche altri, che così possono capire «che dal suo cuore, emanava come un’esplosione di luce, il mistero intimo del Messia, che nella sua vita storica, tiene insieme cose inconciliabili: la potenza divina e la debolezza umana, la sofferenza fino all’angoscia e la gioia di vedere realizzato il disegno di amore del Padre, lo svuotamento di ogni bene e la fecondità della salvezza...» [Giuliano].

Ma tutto questo – gli altri (i suoi, noi…) – lo capiranno solo dopo la sua risurrezione… Qui, tanto per cambiare, fanno ancora una volta la figura di quelli che capiscono poco…

Infatti, la prima cosa che si dice di loro, di Pietro in particolare (gli altri sono addirittura ammutoliti), è che prende la parola, ma, come Marco e Luca addirittura esplicitano, non sa che dire: «Non sapeva infatti che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento» (Mc 9,6), «Egli non sapeva quel che diceva» (Lc 9,33). Matteo esprime questo suo dire inopportuno, attraverso l’escamotage letterario di non farlo nemmeno finir di parlare: «Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce…».

Inoltre Matteo aggiunge un’ulteriore notazione dell’“inebetimento” dei discepoli: «All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore».

Pare quindi che il tentato coinvolgimento nell’intimità di Gesù che egli attua a favore dei suoi, non sia andato a buon fine: i tre discepoli non capiscono, non sanno che dire e anzi si spaventano, tanto da ritrovarsi a terra tremanti e quasi tramortiti…

Ma non è il caso di essere troppo duri con loro, anche perché forse non sono così lontani da noi e da quell’immagine che tutti noi abbiamo misteriosamente impressa nella mente di un dio spauracchio dell’uomo, di un dio rivale all’uomo, di un dio che fa paura! In quest’ottica è più che comprensibile la reazione dei tre; senza contare che stiamo parlando di Ebrei, per i quali udire la voce di Dio può comportare addirittura la morte (in proposito il libro del Deuteronomio – 4,32-33 – dice: «Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da un’estremità dei cieli all’altra, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo?»).

Eppure la voce di Dio («voce di tuono», secondo Es 19,19) stavolta aveva un messaggio di speranza: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo».

Ma neanche questo basta!

È qualcos’altro che fa da chiave di volta nell’emotività dei discepoli. Perché effettivamente un cambiamento in loro c’è; li ritroviamo infatti un versetto dopo (v. 10) tutti tranquilli che intraprendono un discorso teologico con lo stesso Gesù: «Allora i discepoli gli domandarono: “Perché dunque gli scribi dicono che prima deve venire Elia?”».

Cosa gli ha fatto dunque ritrovare il riordinamento della sensibilità poc’anzi così sconvolta?

Io credo sia stato il tocco di Gesù, unito alle sue parole: «Gesù si avvicinò, li toccò e disse: “Alzatevi e non temete”».

È proprio questo modo nuovo di essere Dio in Gesù che permette all’uomo di non stare più prostrato pieno di paura, ma, toccato, di rialzarsi e coinvolgersi, in un ritorno al dialogo con Gesù, il Figlio che rivela un Dio che ama («Questi è il Figlio mio, l’amato»), che promette affidabilmente benedizione («Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra»). E questa è la buona notizia (Vangelo) per cui val la pena anche soffrire («soffri con me per il Vangelo»): che Dio è questo qua!

In questo brano infatti, di fronte ai nostri occhi: «si sono manifestate simbolicamente le tre tende della presenza di Dio , quasi tre successive abitazioni del Signore nella storia del suo popolo: la legge, la profezia... e il corpo di carne di Gesù», di cui la voce dal cielo dice: Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo! «Dunque questa ultima “tenda” è di tutt’altra natura. Non è solo la nuova legge che conduce a Dio, né la profezia che intravede nelle vicende storiche i barlumi di amore di Dio. È il figlio stesso, prediletto, di Dio, in cui, il Padre trova la sua gioia, perché lui salverà il mondo che il Padre “tanto ama”, attraverso la scadenza finale del dramma, quando gli stessi tre testimoni privilegiati, ma non più acuti degli altri, vedranno la sua disperazione e la sua debolezza estrema... ma fedele, fino alla morte. Fino a quando un ignaro centurione romano, dalla nube laica della sua rusticità militare, ribadirà la voce divina: “Costui era veramente figlio di Dio”! [Così] Tutto quello che Gesù ha fatto e detto è l’esegesi, la spiegazione, l’incarnazione dell’amore del Padre. Che così è divenuto percepibile a noi, al nostro linguaggio, al nostro coinvolgimento mentale e affettivo... Il suo amore di infinita benevolenza diventa umano... Questa è la gioia che lo fa rallegrare di compiacenza» [Giuliano].

venerdì 18 marzo 2011

Anatomia di un disastro: le menzogne strutturali


L’articolo di Carlo Bonini, qui sotto, che ho tratto da repubblica.it, fa la cronistoria delle menzogne (sempre a fin di bene, per non allarmare la popolazione! – lo dico ironicamente) del governo giapponese e della società che gestisce gli impianti e della società statale di controllo. Tutti mentono!

Dall’articolo però si potrebbe trarre la conclusione che da noi queste menzogne non accadrebbero. Falso! Quando gli incidenti dei reattori accaddero negli USA e in Francia, come in Gran Bretagna e altrove… tutti mentirono a loro tempo! Anche gli USA e la Francia che qui fanno la figura di guardiani della trasparenza. A suo tempo il governo francese, mentì persino sulla estensione e sul livello delle radiazioni di Chernobyl in territorio francese, i cui cittadini al nord mangiarono allegramente frutta e verdura dei loro orti e campi, ignari del pericolo a cui andavano incontro!

Non è un problema di “onestà”: la menzogna è “strutturale” a questo sitema
Queste società che hanno come fine ovvio e di per sé legittimo di guadagnare dalle loro attività produttive, hanno tutto l’interesse a nascondere la propria (vera o presunta) inefficienza! Ecco perché mai è accaduto che una società di qualunque tipo, riveli subito al mondo gli “incidenti” sulla propria attività produttiva. Almeno fino a quando non ci scappa il morto e non si riesce a nascondere il cadavere. Da parte loro i governi e le agenzie di controllo, che hanno concesso le autorizzazioni necessarie all’attività lavorativa, e hanno il compito di vigilare al rispetto delle norme, soprattutto se riguardano un’attività delicata, tendono naturalmente a nascondere (fin che ci riescono) le proprie, seppur a volte indirette, responsabilità.

Una ragione in più, se ce ne fosse bisogno di mettere al bando ogni attività non solo nucleare che comporti, anche se ci fossero indiscussi vantaggi economici (cosa da escludere per le centrali nucleari ove i dati dei nuclearisti sono necessariamente manipolati in quanto non considerano né le spese stoccaggio e riciclaggio rifiuti, né le spese di dismissione della centrale: come dire la menzogna fin dall’origine) rischi per la popolazione. È chiaro che una tale decisione comporti la necessità di rivedere in profondità fine e forma del presunto progresso. Conoscete voi dei politici capaci di questa rivoluzione copernicana? Io no!

Nel giorno sei della Grande Paura, sostiene Washington e, nei fatti, Parigi, che Tokyo abbia sin qui nascosto la verità. Cosa è successo, dunque, e cosa può ancora davvero accadere nella centrale di Fukushima Daiichi? Di quali e di quante informazioni "privilegiate" il governo di Tokyo, l'agenzia nazionale per la sicurezza nucleare (la Nisa), il gestore dell'impianto (la Tepco, Tokio Electric power company) non hanno reso partecipe il mondo?

LO SCHIAFFO AMERICANO
Il pugno sul tavolo battuto dagli americani è storia di ieri. Ma a Vienna, già martedì sera, il giapponese Yukia Amano, direttore dell'Aiea (Agenzia Internazionale per l'energia atomica), mette da parte ogni diplomazia: "Abbiamo bisogno di maggiori informazioni, di più dettagli, di tempi più rapidi di comunicazione". Nelle stesse ore, il russo Iouli Andreev, uno degli specialisti che lavorò allo "spegnimento" del mostro di Cernobyl, è di una franchezza brutale. "So per esperienza - dice alla Reuters - che le autorità giapponesi sono in una situazione di tranquillo panico. Le loro parole e le loro azioni, come quelle della Aiea, dipendono dall'industria atomica, che richiede disciplina e burocrazia". Una "verità" che Kuni Yogo, ingegnere della "Japan Science Technology Agency", declina al New York Times in modo ancora più asciutto: "Il governo giapponese e la Tepco stanno svelando solo ciò che ritengono necessario".

È un fatto che l'agonia dei quattro reattori di Fukushima appare oggi non solo e non tanto la sgomenta presa d'atto di un incidente in divenire. Ma il progressivo svelamento di una verità che il governo giapponese e la Tepco intuiscono già nelle prime ore della catastrofe, ma provano ostinatamente a dissimulare. Nella speranza che quei reattori possano tornare sotto controllo prima che il mondo cominci ad averne paura.

EMERGENZA PRECAUZIONALE

Conviene dunque tornare alle 19.46, ora di Tokyo, dell'11 marzo. Sono trascorse cinque ore dalla scossa al largo del Pacifico e meno di quattro dall'onda di Tsunami. La Tepco sa che i sistemi di raffreddamento dei reattori 1, 2 e 3 di Fukushima sono fuori uso. È avvertita del rischio legato a un prolungato surriscaldamento del loro combustibile. La Tepco ha una storia di significativa opacità. Nel 2002, ha ammesso di aver falsificato negli anni '90 e '80 i test di sicurezza delle sue centrali (e tra questi quelli di Fukushima). Nel 2007, ha mentito sull'entità di una fuga radioattiva dalla centrale di Kashiwazaki-Kariwa dopo una scossa di terremoto. Anche l'11 marzo, non brilla per loquacità. In modo asciutto informa il Governo del "problema del raffreddamento dei reattori". Ma la circostanza, nelle parole che alle 19.46 pronuncia Yukio Edano, portavoce del premier giapponese, non appare neppure sullo sfondo. "È stata dichiarata l'emergenza nucleare a scopo precauzionale - spiega - Non c'è fuga radioattiva. La linea di evacuazione è di 3 chilometri dal sito". Nella notte, i toni si fanno ancora più rassicuranti. Perché se è vero che alle 21.55 fonti del governo ipotizzano già "una prima fuga radioattiva" dalla centrale, all'1 e 27 del mattino, la prefettura di Fukushima informa che per il pomeriggio del 12 marzo "i sistemi di raffreddamento dei reattori saranno nuovamente in funzione".

INCIDENTE DI LIVELLO 4
In realtà, nella notte tra l'11 e il 12, la Tepco sa che il sistema di raffreddamento dei reattori non ha nessuna possibilità di riprendere vita. Al punto che, nella mattinata del 12, il gestore avverte che nei reattori 1 e 2 il livello dell'acqua che copre le barre di combustibile è sceso per la progressiva evaporazione e che "un rilascio di materia radioattiva è possibile". La notizia è propedeutica allo sfiato controllato nell'atmosfera di vapore di idrogeno radioattivo che abbassi la pressione nei reattori. Manovra che il governo autorizza. Insieme al pompaggio nel sistema di raffreddamento di acqua marina e boro. C'è una prima esplosione che scoperchia l'edificio del reattore 1. Ma a Vienna, la Aiea, sulla scorta delle informazioni che arrivano da Tokyo, rassicura. La sera del 12, quando in Giappone è ormai la mattina del 13, un comunicato annuncia infatti che "la Nisa ha classificato l'incidente di livello 4 della scala Ines. Con conseguenze locali".

IL NERVOSISMO FRANCESE
C'è un'oggettiva incongruenza tra le rassicurazioni di Tokyo e le misure che il governo dispone sul terreno. Il 13 marzo, l'area di evacuazione intorno alla centrale sale a 20 chilometri e comincia la distribuzione di pillole di iodio alla popolazione. Mentre alle 11 del mattino del 14 marzo un'esplosione scuote l'edificio del reattore 3. È la prova che a Fukushima, a distanza ormai di tre giorni, le operazioni di raffreddamento dei reattori, non hanno prodotto nessun effetto. Ce ne sarebbe per rivedere il giudizio sulla classificazione dell'incidente. Ma le autorità giapponesi non tornano sui propri passi. Neppure la mattina del 15 marzo, quando si liberano due esplosioni dai reattori 2 e 4. Il primo ministro Naoto Khan ne viene informato dalla stampa e, pubblicamente, mostra la sua furia con la Tepco: "Vorrei sapere che diavolo sta succedendo". Quindi, aggiunge: "Il rischio di fuga radioattiva sta crescendo".

LA VERITÀ VIENE A GALLA
È Parigi, allora, a decidere di bucare la bolla di dissimulazione. Il livello di radiazioni registrate nella centrale il 15 marzo - i primi a essere diffusi - documentano 400 millisievert l'ora. Duecento volte la dose che un essere umano assorbe naturalmente nell'arco di un anno. Di più: i francesi, sulla base di proprie informazioni (hanno un team della Protezione civile a Sendai), ritengono di poter affermare con sicurezza che il nocciolo e il combustibile di almeno due dei tre reattori "è danneggiato" (circostanza che i giapponesi confermeranno solo nelle 24 ore successive). Che l'esplosione dell'edificio che ospita il reattore 4, in corrispondenza della piscina di decadimento del combustibile esausto aggiunge un nuovo elemento di assoluta criticità. Che, come era possibile prevedere, la catastrofe ora si allarga anche a quei reattori che pure erano in manutenzione al momento del terremoto. "È un incidente di livello 6". È la verità, appunto. Che, ora, anche i giapponesi cominciano ad ammettere.

giovedì 17 marzo 2011

Il dovere della paura


di Barbara Spinelli
Ci sono momenti così, nella storia degli uomini: dove si reagisce con l’emozione oltre che con la razionalità, perché l’emozione sveglia, incita a stare all’erta. Già in Eschilo, la passione e il patire sono fonti d’apprendimento. È il caso del Giappone da quando, venerdì, lo tsunami s’è aggiunto al terremoto e non solo ha spazzato case, vite, villaggi, ma ha causato l’esplosione di quattro reattori nucleari a Fukushima.

All’orrore spuntato dal sottosuolo e dal mare s’aggiunge ora una pioggia radioattiva che spinge chi abita presso le centrali a fuggire o barricarsi in casa. Ci sono momenti in cui si apre una fessura nel mondo, e non solo in quello fisico ma in quello mentale, sicché occorre ricorrere ai più diversi espedienti: all’intelligenza razionale, alla discussione pubblica, ma anche alla paura, questa passione giudicata troppo triste per servire da rimedio.
Non a caso, quando sollecita la responsabilità per il futuro della terra, il filosofo Hans Jonas parla di paura euristica: non la paura che paralizza l’azione o è usata dai dittatori, ma quella che cerca di capire, di scoprire (questo significa euristica). Che è generatrice di curiosità, prevede il male con apprensione, fa domande, sprona a rettificare quanto pensato e fatto sinora. Jonas evoca addirittura il dovere della paura: «Diventa necessario il «fiuto» di un’euristica della paura che non si limiti a scoprire e raffigurare il nuovo oggetto, ma renda noto il particolare interesse etico che ne risulta» (Il principio di responsabilità, Einaudi ‘90).
Alla luce del principio di responsabilità appaiono completamente inani i governi – come l’italiano, il francese – che screditano questa paura, e in tal modo negano la gravità del momento e l’urgenza di correggere i piani nucleari. Obama e Angela Merkel dicono ben altro: «Non si può fare come se nulla fosse». Non così il ministro dell’energia Eric Besson, o il ministro per lo sviluppo economico Paolo Romani. Per Besson nulla cambia, neanche le centrali invecchiate come quelle giapponesi: nella conferenza stampa di sabato ha evitato il termine «catastrofe», preferendo il meno allarmante «incidente grave». Stesso atteggiamento in Romani, che ha invitato l’altro ieri a «non farsi prendere dalla paura», senza sapere di che parlava. Non sono i soli: anche i governanti giapponesi hanno a lungo minimizzato, prendendo per buone le assicurazioni dei gestori delle centrali (Tepco, Tokyo Electric Power Corporation). La stessa Tepco che più volte è stata indagata (specie nel 2002-3) per il non rispetto delle norme anti-sismiche.

Apocalisse è vocabolo che s’espande come un virus, dall’inizio del cataclisma. Ma apocalisse è altra cosa, ha legami con la religione: è rivelazione di un piano divino, è l’omega che si ricongiunge all’alfa, è il cerchio terrestre che chiudendosi si schiude all’oltrevita. I colpiti sono innocenti, ma per qualche motivo Dio vuole che la storia terrestre s’esaurisca così, stroncando il libero arbitrio d’ognuno. Per questo conviene dismettere questa parola molto scabrosa, che sigilla gli occhi a quel che accade qui, ora; in terra, in mare. Eventi simili non sono la fine del mondo, pur preludendo forse a essa. Sono piuttosto la fine di un mondo: di certezze, di assiomi cocciutamente coltivati.

In Giappone, per vie misteriose, suscitano ricordi funesti, che hanno radici profondissime nella sua cultura recente. Il collasso delle centrali nucleari rimanda al trauma mai sopito di Hiroshima e Nagasaki, quando Washington diede a Tokyo questa lezione di inaudita violenza. La terra che ti squassa, la solitudine dell’uomo in tanto scompiglio, la natura maligna, la morte nucleare che incombe: nelle teste nipponiche è incubo magari dissimulato ma è sempre lì, in agguato. Lo dicono i volti che ci fissano in queste ore: impietriti, più che impassibili. Lo vediamo nei corpi che d’un tratto s’immobilizzano, come morissero in piedi.
Non è vero che i giapponesi hanno paure più calme, controllate delle nostre. Il loro urlo non è quello di Munch ma è pur sempre urlo. Sappiamo dalla Bibbia quanto possa esser afono l’agnello, e il grido del Giappone è colmo di interrogativi atterriti: perché le autorità hanno permesso che centrali vecchie quarant’anni sopravvivessero? Perché non hanno previsto che anche dal mare poteva venire il mostro? Perché sono così evasive? Perché proprio Tokyo, che ha già vissuto la sventura e se la porta dentro come assillo, s’è fidata della tecnologia, non è corsa in tempo ai ripari?

Ci sono grandi disastri che hanno quest’effetto: di sconvolgere non solo le vite ma vasti castelli di teorie filosofiche ritenute sicure. L’Europa ha conosciuto ore analoghe: accadde nel terremoto di Lisbona, l’1 novembre 1755, e tutte le teorie si scardinarono. Anche quella fu fenditura d’un mondo: fondato sull’euforia tecnologica, sull’ottimismo, religioso o no. La modernità iniziava, e già inciampava. Ventidue anni prima, Alexander Pope aveva scritto un poema intitolato Saggio sull’Uomo. Il verso ricorrente era: «What ever is, is right»: tutto quel che esiste è bene. Ma ecco che si apre la crepa di Lisbona, sulla liscia pelle del pensare positivo. Voltaire, Kleist, Kant sono turbati e scoprono che non è più possibile consolarsi con Pope e le teodicee di Leibniz. Non è più possibile dire a se stessi, come Pangloss nel Candide di Voltaire: avanziamo «nel migliore dei mondi possibili».
Cadde anche l’illusione, cara alle chiese, sul dolore salvifico: non esiste una felix culpa, ma un male che ti prende di sorpresa, ingiusto. In presenza del disastro o del crimine sono più opportuni la sapienza di Kleist, le ricerche di Kant sulle origini dei terremoti (Kant è il primo a scoprire la «rabbia del mare»), lo sguardo di Voltaire: «Elementi, animali, umani, tutto è in guerra. Occorre confessarlo: il male è sulla terra». Ansioso di conforto, Rousseau scrisse incongruenze, in una lettera a Voltaire del 1756: «Non sempre una morte prematura è un male reale (...). Di tanti uomini schiacciati sotto le rovine di Lisbona, parecchi senza dubbio hanno evitato disgrazie più grandi, e (...) non è detto che uno solo di quegli sventurati abbia sofferto più che se, seguendo il corso naturale delle cose, avesse dovuto attendere in lunghe angosce la morte che lo ha colto invece di sorpresa». Ma anch’egli pone domande che solo l’emozione accende: non è stata edificata male Lisbona, con le sue case alte 6-7 piani? Non è l’uomo il colpevole, più della natura? Candide soffre il terremoto e conclude: «Bisogna coltivare (meglio) il proprio giardino», dunque la terra, perché questo tocca all’uomo. All’uomo descritto da Kant dopo il 1755: «legno storto», «mai più grande dell’uomo».

Il Giappone non ha alle spalle i settecenteschi ottimismi europei. Dopo Hiroshima si è risollevato con non poche rimozioni, ma con traumi indelebili. Cinema e letteratura narrano questi traumi, e una paura niente affatto calma. Su queste ramificazioni del pessimismo s’è rovesciato lo tsunami, e Jonas aiuta più di Voltaire. I giapponesi sapevano già che «il male è sulla terra», e quel che può soccorrerli è la paura che scoperchia, che scopre. La stessa paura che affiora da decenni, sotto forma di fantasmi, nel suo cinema, nella sua letteratura. In questi giorni guardi la tv, e sembra di vedere la città su cui s’abbatte l’indicibile cataclisma raccontato nel film Kairo, di Kiyoshi Kurosawa: strade e autobus vuoti, fughe verso il nulla, e in cielo, a distanza ravvicinata, un immenso aereo-avvoltoio (nell’Apocalisse griderebbe: «guai! guai!») che vola verso lo schianto.
Rivedere Kairo fa capire lo squasso mentale nipponico e anche il nostro. Il Giappone ha dietro di sé un’epoca che è stata chiamata Decennio perduto, fra il 1991 e il 2000, e s’è poi prolungata in Decenni perduti. Il film di Kurosawa risale a quegli anni (2001) e non è cinema dell’orrore ma – all’ombra dello tsunami – visione iperrealistica. Kairo vuol dire circuito: ma è un cerchio senza alfa e omega. Il fenomeno narrato da Kurosawa è quello di intere generazioni che si barricano in casa fino a divenire ombre davanti ai computer (le statistiche parlano di almeno un milione di drop-out). Il fenomeno si chiama Hikikomori: è un ritrarsi, confinarsi nella solitudine. Nasce da insicurezze esasperate dalla crisi, dal futuro amputato. Sulle pareti delle case, nel film, si stagliano informi ombre color carbone. Gridano «Aiutami!», nel momento in cui i giovani morenti lasciano in eredità quest’effigie di sé.

È la silhouette annerita dell’uomo accanto alla scala che apparve impressa su un muro di Hiroshima nel ‘45. L’incubo si stende sull’uomo, spaventandolo incessantemente. Viene da lontano, va lontano. Solo spaventandoci unisce il passato al presente; e ci tiene svegli, forse.

Criminale menzogna

All’interno di questo blog, troverete il link che porta ai video e articoli di Aldo Grasso che nel Corriere della Sera ci aiuta a “decifrare” il linguaggio dell’immagine e in particolare quello televisivo.

Non l’ho messo per capriccio, ma perché sono convinto che oggi bisogna sapersi alfabetizzare sempre più sul linguaggio audiovisivo.
Nessuno di noi potrebbe leggere queste righe se non sapesse interpretare e decodificare le macchie colorate sul suo schermo. Questo ha richiesto a ben vedere a ciascuno di noi anni di studio, nel periodo migliore della propria vita. Oggi diventa sempre più urgente imbarcarsi nello studio del codice linguistico dei messaggi audiovisivi per impedire loro di farci credere vero ciò che vero non è.

Prendiamo ad esempio lo spot che trovate qui in sotto.

Guardatelo una volta poi una seconda, una volta con l’audio, la seconda togliendo l’audio e studiando le immagini e capirete che il semplice fatto di voler far passare un messaggio in questo modo, falsifica tutto il messaggio e svela la disonestà del messaggero.

C’è una partita a scacchi (sinonimo di intelligenza e capacità strategica di prevedere le mosse future!) che è la metafora di un dibattito sul nucleare tra favorevoli e contrari. Solo che il dibattito è falso e vediamo perché.

I due personaggi che giocano sono la stessa persona, la bocca è chiusa, il tono è pacato, tipico in cinematografia del “pensato”: botta e risposta sono la stessa voce, cambia solo in modo quasi impercettibile il tono (fate molta attenzione alle inflessioni sulle parole, riascoltatela più volte), ma sufficiente per notare un non troppo leggero passaggio tra l’ansioso (contrario-nero) e il rassicurante (favorevole-bianco). È il dibattito interno alla coscienza di ciascuno: tra il diavoletto (nero, contrario, cattivo, che vuole il male) e l’angioletto (bianco, favorevole, buono, che vuole il bene)!

Solo che negli scacchi la prima mossa è sempre del bianco, qui invece è il nero che inizia (il diavoletto, il male, la parte negativa di noi, il NO!), il bianco vince (perché è questo sempre il problema all’interno di ogni giornale di enigmistica su cui il lettore deve cimentarsi per trovare la soluzione, tipo: “il nero muove e il bianco vince in due mosse”!
Abile manipolazione coi messaggi subliminali… Notate come gli scacchi del bianco sono candidi e pur presentandosi a sinistra, mostra la parte “destra” del volto: non mostra mai cioè il “volto sinistro”.
Il tono e l’atmosfera hanno lo scopo di farci bere le menzogne abilmente mascherate con mezze verità e rifilate come vere dal falso dibattito…

Per capire “lo scopo” a cui mirano i promotori del nucleare che hanno commissionato lo spot ingannatore occorre affinare quella che io considero la tecnica del judo applicata all’informazione: cedere con intelligenza per poter usare la forza delle argomentazioni dell’assalitore stesso per neutralizzarlo. Proviamo:

Sono contrario all’energia nucleare perché mi preoccupo dei miei figli, dice il nero. E il bianco risponde: Io sono favorevole, perché tra 50 anni non potranno contare solo sui combustibili fossili! Come dire anche io (bianco) sono preoccupato per i nostri figli… e proprio per questo sono favorevole al nucleare: fa niente se omette di dire che tra 50 anni anche il nucleare scarseggerà, con relativa lievitazione dei prezzi! L’astuzia qui sta nel far credere che la preoccupazione, il fine, lo scopo, è identico: salvare la generazione futura dalla catastrofe inevitabile. Ma per far questo deve omettere la verità che il combustibile nucleare è ancor più raro di quello fossile: la menzogna come omissione della verità!

Ci sono dei dubbi sulle centrali – dice il nero (vero). Al ché il bianco risponde mentendo: ma non ce ne sono sulla sicurezza! È spudoratamente falso perché che tipi di dubbi ci possono essere sulle centrali in quanto centrali, se non soprattutto sulla sicurezza? L’abilità sta qui nel separare il dubbio sulla sicurezza dalla sicurezza stessa! A suo modo diabolicamente geniale.

In un crescendo di abile capovolgimento di concetti, ecco che la “Mossa azzardata” del nero diventa “la grande mossa” del bianco: come dire, il futuro è di chi osa! Notare qui come “la grande mossa” è sottolineata dalla mossa del cavallo, sinonimo di forza, libertà, destrezza, virilità… E chi non osa è tutto il contrario di un “cavallo”… come minimo un fifone senza spina dorsale, un “pedone”.

Notare che l’ultima parola, nello pseudo dibattito, è sempre del bianco che contesta il nero, e che a sua volta non ribatte sullo stesso argomento al bianco, ma cambia “argomentazione”. Capito ora perché, contrariamente alle regole del gioco, comincia il nero? Perché il bianco deve avere l’ultima parola! In un dibattito vero il nero avrebbe potuto rispondere come ho risposto io: anche l’atomo si sta già esaurendo; il dubbio è proprio sulla sicurezza; una grossa mossa, se azzardata provoca sempre un grosso danno. E comunque non si gioca d’azzardo con la vita de pianeta e ancor meno con la vita dei propri figli (se arriveremo ad averli e non ci distruggiamo prima!), ecc.

Il colpo finale è ancor più cinico: E tu sei a favore o contro l’energia nucleare? O non hai ancora una posizione? Notare che non chiede se si è favorevoli o contrari alla costruzione di 10, 20, 30… centrali nucleari a due passi da casa propria… ma molto più innocuamente parla di “energia” nucleare! Invitando a prendere posizione che ovviamente con questo spot si cerca di manipolare.

A questo punto si può raccogliere le idee e capire meglio a cosa mira specificatamente lo spot. Cioè in un messaggio non basta capire se uno vuole convincerti ad essere favorevole a una cosa (qui il nucleare) ma occorre domandarsi: quale idea sta cercando di farmi passare nella coscienza? Quale pensiero sta cercando di innestare nella mia mente? Beh, qui è abbastanza facile:
Dopo aver immediatamente identificato il contrari con il male e i favorevoli con il bene: Far credere che ciò che crediamo problema sia la soluzione a tutti i problemi!

Cioè far credere che il nucleare è la soluzione al problema della penuria delle materie prime! E (rovescio della stessa idea) chi è contrario al nucleare è qualcuno che non vuole risolvere il problema ma ci porterà inevitabilmente all’età della pietra.

Non c’è da stupirsi allora se il “Giurì dell’Autodisciplina Pubblicitaria” abbia condannato lo spot del Forum Nucleare Italiano, giudicandolo ingannevole! Anche perché non è proprio la “Croce Rossa” il comitato promotore e finanziatore dello spot! Approfondimenti: qui e qui e qui




mercoledì 16 marzo 2011

C'è sempre un'alternativa

Centrale Nucleare in avaria a Fukushima in Giappone
Ecco che le lobby economiche che fino ad oggi ci hanno inquinato con gli scarichi petrolchimici di motori rumorosi si rifanno vive per arginare l’effetto Fukushima!
Il Corriere della Sera, così sensibile a questi interessi, si lancia oggi con un articolo demenziale di Edoardo Boncinelli. Mi dispiace dirlo perché Boncinelli, che ho incontrato personalmente a un convegno, normalmente sa usare il cervello, ma evidentemente qui mostra di aver perso quella lucidità che ha saputo dimostrare altrove.
Andatevelo a leggere! Io intendo contestare qui il suo delirante ragionamento: Il titolo del post è espressamente antitetico a quello dell’articolo.
Zombie
Le ferali notizie che ci giungono dal Giappone stanno portando tanto inopinatamente quanto perentoriamente alla ribalta le polemiche sull’utilizzazione delle centrali nucleari e i loro rischi.
Non se ne sentiva proprio il bisogno
(sic!), in un momento in cui occorrerebbe fare appello a tutta la nostra lucidità e in un Paese che è sempre pronto a rinunciare a priori a questo o a quello a causa di una tremenda, paralizzante paura delle novità tecnico-scientifiche. È facile in questo momento abbandonarsi all’onda emotiva e rinunciare mentalmente a ogni progetto che coinvolga l’energia nucleare. Sotto la spinta di questa onda, anche alcuni governi non hanno potuto fare a meno di annunciare provvedimenti restrittivi e la chiusura di vecchie centrali. Ma proprio perché il coinvolgimento emotivo di tutti quanti noi è più che evidente, occorre fare appello a tutta la razionalità che abbiamo a disposizione per non lasciarsi portare fuori strada dalle emozioni e soprattutto dalle paure, le meno illuminanti delle emozioni.

Evidentemente Boncinelli si sente uno zombie e l’uomo vero per Boncinelli è lo zombie! Come definire altrimenti una tale antropologia? Per lui l’essere umano è tale solo se è morto dentro, se le sue emozioni non interferiscono nel suo ragionamento. L’uomo come pura razionalità, freddo e impassibile come un cadavere. Ambulante morto.
Che razionalità è, una razionalità che censura parte del reale? E si immagina il mondo e l’uomo non “influenzato” dalla propria realtà sentimentale? Vero è che l’occidente ha censurato il sentimento, diventandone così spesso schiavo! Salvo farvi appello nella pubblicità per la vendita di prodotti inutili. L’economia è fredda, a lei interessa solo il profitto anche a costo di perderci. Sembra paradossale, ma solo apparentemente. Infatti l’inquinamento con la necessità di creare infrastrutture disinquinanti rischia di diventare il gioco perverso di una economia che abbia come fine solo se stessa. Come la società sudafricana che da un lato vendeva mine antiuomo (a Saddam) e dall’altro forniva (per conto dell’Onu) la propria consulenza per disinnescarle. In pace o in guerra ciò che conta è guadagnare.

Ma torniamo alla pseudo lucidità razionale di Boncinelli e adepti (ricordate? tra questi c’è anche il freddo Fini).
Ciascuno è quel che è, il carattere uno alcune volte se lo trova addosso, e ci può fare ben poco per cambiarlo se non dopo anni e anni di ascesi. Ma un conto – mi si perdoni per l’esempio, ma è solo per dare l’idea – è essere pedofili, un altro è sostenere che la pedofilia sia la modalità corretta per amare!
Il sentimento non è dis-trazione dal reale, ma immersione e conoscenza profonda di quello che ci circonda. Anche la paura. Essa ci è data per salvarci la vita avvertendoci, prima ancora di avere il tempo di abbozzare un ragionamento, che siamo davanti a un pericolo. Senza questo sentimento pre-razionale, non credo che oggi ci sarebbero ancora degli esseri umani sulla faccia della terra. Che sia a questo a cui mirano i fautori del nucleare? Il sospetto è legittimo.

Nell'uomo sentimento e razionalità, sono esigite entrambi, perché ciascuno aiuta l’altro a orientare l’uomo nella conoscenza vera di ciò che in generale si chiama Vita. Ma il sentimento arriva prima, di quello che è e sarà, o rischia di essere, il nostro presente e futuro. A volte agisce come un uragano che rischia di far perdere ogni razionalità, ma non per questo esso è irrazionale… solo ha bisogno di essere incanalato verso uno sbocco concreto, che non si limiti a essere solo emozione. Ma una razionalità che ignori il sentimento, porterà l’umanità verso l’autodistruzione. Perché, forse non ci abbiamo mai pensato, ma è il sentimento, l’emotività, che rende razionale la razionalità! Senza il sentimento, l’emotività, e persino la paura, la ragione è cieca e capace solo di sragionare, perché devia dal suo percorso vitale che solo il sentimento tiene desto.

Come le argomentazioni simili a quelle di Boncinelli evidenziano.
Definire l’Italia come un paese che è sempre pronto a rinunciare a priori a questo o a quello a causa di una tremenda, paralizzante paura delle novità tecnico-scientifiche, è un a priori che definisce solo la propria cecità. Faccio solo un esempio: Il fatto che siamo il paese con il più alto numero di telefonini sebbene non siano mai venuti meno i dubbi sulla sua capacità di produrre cancro al cervello, non aiuta a smontare dogmi ideologici funzionali ai propri interessi? Evidentemente no! Se gli interessi si contano in migliaia di miliardi di euro.
Compito della ragione è trovare la ragione delle proprie paure. Perché tutto sta a vedere se esse siano reali e immaginarie. Per questo bisogna domandarsi qual è il vero “oggetto” della paura. E non rimuoverla!

Non quindi la novità in sé fa paura agli italiani (anche se il meccanismo del nuovo porta sempre in sé un sospetto legittimo, da cui si capisce – ammesso che ci sia buona fede – la svista di Boncinelli), ma esattamente il contrario: il fatto che non ci sia reale novità!

Non c’è novità in una politica asservita al potere economico…
Non c’è novità in una scienza che continua ad essere finanziata dalle industrie…
Non c’è novità in una economia che pensa solo al profitto…
Non c’è novità in un progresso che non miri al vero progresso dell’uomo ma solo al suo conto in banca (per finanziare i prodotti dell’industria!).
Ditemi voi se c’è mai stato un disastro ecologico che non abbia coinvolto queste non-novità!

Politici inaffidabili…
Non la politica, ma i politici! Come ci si può fidare di politici disposti a rinunciare alle proprie idee e ideali per servire solo i propri interessi? I continui cambi di casacca dei politici italiani, possono ispirare fiducia nel giudizio e nelle scelte di questi politici e di chi li accoglie a braccia aperte? Quanti di questi politici sono veramente sganciati dagli interessi economici delle lobby economiche? In questo quadro, come poter credere alla loro buona fede? Il conflitto di interessi va ben oltre Berlusconi… È un problema mondiale il fatto che la politica non sia in grado, in questa economia, di riformare se stessa. I due terzi del Congresso americano sono in mano alle lobby. E l’Italia non è da meno. Non è una novità che nel disastro di Fukushima non siano esenti responsabilità anche dei politici giapponesi. Che tutto sapevano e tutto han nascosto. E non oso pensare cosa accadrebbe in Italia se questo è potuto accadere in un mondo politico dove un ministro è stato costretto a dimettersi per aver preso 400 euro di offerta! Come si può dare la responsabilità del nostro futuro a degli irresponsabili? Quello che sta accadendo in Libia non è ulteriore prova della loro inettitudine ad agire sulla storia per il bene comune delle popolazioni innocenti? Fin che si tratta di far andare in orario i treni, passi pure qualche ritardo… ma giocare col fuoco atomico con questi senza-coscienza (avete mai notato che a sentir loro, hanno sempre la “coscienza pulita”?) è sì il massimo di irrazionalità. Si ritorni alla vera politica e poi ci risentiremo sul nucleare!

Scienziati inaffidabili…
Non la scienza ma gli scienziati! Come ci si può fidare del giudizio degli scienziati quando questi sono al servizio degli interessi delle società che li finanziano? Altro che conflitto di interessi qui! Senza parlare che gli stessi scienziati sono divisi nel giudizio non per amore di verità scientifica, ma perché le società che finanziano le loro ricerche sono in concorrenza tra loro! Come ci si può fidare ancora del giudizio degli scienziati sulle centrali nucleari, quando sempre degli scienziati hanno dichiarato sicuri medicinali che non lo sono mai stati o hanno mentito sulla nocività di questo o quel prodotto?… O quando hanno dichiarato sicure centrali nucleari che si sono rivelate insicure?… Si sganci la scienza dai mastodontici interessi dell’industria e poi ci risentiremo sul nucleare! Certo che i tagli di Berlusconi-Bossi-Tremonti, non aiutano di certo a rendere autonoma la scienza. Se poi le lobby adesso entrano nel consiglio di amministrazione delle università (legge Gelmini), ben presto gli scienziati dichiareranno mangiabile anche la merda! In fondo è naturale e fa crescere le piante!

Industriali ed economisti inaffidabili…
Non l’economia e non l’industria in sé sono un problema, ma questa economia e questa industria! Come fidarsi ancora di questi industrialotti che passano il tempo a corrompere la politica e la scienza pur di ottenere il loro tornaconto?
Ma le leggiamo le notizie sui disastri ecologici? C’è n’è forse uno che non sia colpa loro? Non ultimo quello del Golfo del Messico? Dove i controllori erano benevoli perché vedevano nei controllati il loro futuro professionale. E questo negli USA, immaginiamoci da noi dove la corruzione imperversa! Eppoi mi vengono a parlare di pregiudizi sugli industriali, questi non sono pregiudizi, ma giudizi basati su fatti concreti.

Le società che costruiscono centrali nucleari, e quelle che le gestiscono, sono veramente al di sopra di ogni sospetto? La nostra è solo paura irrazionale? E non è vero invece che la paura ci sta avvertendo di qualcosa di irrazionale all’orizzonte? Le società private e non, che gestiscono le centrali nucleari, hanno sempre fatto gli interessi dello stato per il quale sono state costruite? Direi proprio di no! La Tepco che gestisce anche quella di Fukushima ha sempre mentito sui veri rischi della centrale. E chi ci dice che si dica il vero sulle altre? La Tepco non è un’eccezione, anzi, per gli industirali mentire è la regola. Si sa che anche quelle francesi, vivono di omertà! Per questo risultano sempre sicure anche se non lo fossero… E come credere che non sia solo fumo negli occhi il test di verifica (stress test) che tutte le capitali si apprestano a fare? Chi ci assicura che sia veritiero? E non sia come quello benevolo che la BCE ha fatto sulle banche? Fumo negli occhi che alla prima crisi pagheremo con la vita.

Eppoi chi ci dice che ciò che è sicuro oggi, sia ancora sicuro domani? La centrale elettronucleare giapponese Fukushima-1 è uno dei 25 maggiori impianti nucleari del mondo, costruito su progetto di General Electric, ed era considerato una delle strutture del genere fra le più sicure esistenti (fonte ANSA). Quando l’americana General Electric ha progettato il contenitore di acciaio (vessel) della centrale di Fukushima lo si credeva sicuro. Solo ora (ore 17,11 del 15 marzo fonte ANSA) si scopre che gli scienziati americani (sic!: ma non erano scienziati americani anche quelli che l’avevano progettata?) lo dichiarano progettualmente antiquato! Tante grazie, col senno di poi ci ero arrivato anch’io! E perché la politica, l’economia e la scienza non hanno fermato subito un impianto non più sicuro al 99,99 %? E chi ci dice che il crimine commesso in Giappone non si stia consumando altrove?

Ma ve la vedete voi un’Italia che costruisce un ostello per studenti universitari all’Aquila che si accartoccia alla prima “scossetta” di terremoto perché non avevano messo abbastanza cemento e omesso qualche pilastro, costruire centrali atomiche sicure? Eppoi la mafia non avrebbe niente da fare che guardare sfuggirle un affare colossale? È razionale pensare che la mafia stia a guardare o pensare che in qualche modo ci metta lo zampino costruendo come si sono costruiti gli impianti di riciclaggio che inquinano le falde a Napoli? Che si emargini la mafia e si riformi l’economia e poi ne riparleremo…

Ci sono sempre delle alternative
Dice ancora Boncinelli: Alla base della mia posizione a favore del nucleare ci sono due considerazioni elementari: al nucleare non ci sono vere alternative e le nazioni più sviluppate e civili ce lo hanno e lo usano da anni.

Certo che non ci sono alternative quando non le si cercano e ancor meno si finanziano! Se si investisse da subito per la ricerca di fonti alternative, dirottando i soldi per il nucleare per la riprogettazione dei “motori” per ridurre lo spreco (lo si è fatto con le lampadine e gli elettrodomestici che si aspetta a farlo col resto sviluppando ulteriormente la ricerca). Ma questo domanda allo stesso tempo una revisione dell’economia capitalista che si fonda sullo spreco. Ma a furia di sprecare stiamo per essere sommersi dai nostri detriti, non solo nucleari. Questo esige di porsi una buona volta la domanda sulla qualità del nostro progresso… E questo è compito anche della politica. Ma abbiamo visto da quali politici è abitata.
In quanto poi alla presunte nazioni più sviluppate e civili mi chiedo se Boncinelli ci inserisce il Giappone. In tal caso si risponde da sé…
Civile e sviluppata è una nazione che non si fonda sullo spreco, sul rischio della salute dei propri cittadini… Che punta sulla qualità della vita e non sulla quantità degli utili… ma qui il discorso rischia di diventare astratto oltre che allargarsi troppo.

Certo che in alcuni punti l’articolo rasenta il ridicolo, Come quando afferma che noi italiani vogliamo fare sempre di testa nostra, senza guardare a quello che fanno gli altri. Ma come, ci hanno sempre accusati di esterofilia! Diciamo che lo siamo spesso e volentieri nel copiare i difetti dei nostri vicini, aggiungendovi dei nostri. Molto più pigri nell’imitarli nelle virtù. A cominciare dal livello di trasparenza e di partecipazione dei cittadini al controllo del territorio e dell’operato dei suoi rappresentanti. La lista sarebbe troppo lunga di come da noi, azioni anche legali contro l’arroganza del potere politico ed economico, sono continuamente frustrati. D’altronde che attendersi da politici che sempre si auto-esonerano dalla responsabilità delle proprie azioni! E si permettono di sindacare su quella dei PM che vorrebbero richiamarli (in nome della legge che i politici hanno approvato!) alle proprie responsabilità almeno davanti alle loro leggi!

Ed è proprio per questo che è falso affermare come fa Boncinelli che il rischio si può contenere e controllare. Non questo rischio e non con questa fauna politica ed economica.

Quando parliamo poi di rischio col nucleare, non parliamo di rischio petrolchimico, dove al massimo si deve evacuare un territorio limitato (cfr Seveso), parliamo di rischio apocalittico di dimensioni planetarie, e sinceramente non possiamo permettercelo proprio perché, come dice Boncinelli, non è, e mai sarà, pari allo zero.

E questo direi che tagli la testa al toro! E chiude definitivamente il discorso: Di zero qui c’è soltanto l’azzeramento totale di ogni tipo di vantaggio davanti ad un rischio seppur piccolo di azzerare tutta la specie umana e un ritorno all’età della pietra per quei poveri deformati dalle radiazioni che sopravviverebbero. Altro che progresso!
Proprio perché, come ci invita a fare Boncinelli, noi guardiamo dritti in faccia i problemi noi sappiamo che quello nucleare ha come unica soluzione il suo bando totale (Bartolomeo I) che ci obbliga a investire risorse umane e finanziare per finalmente trovare le soluzioni che portino a un vero cambiamento, per un vero progresso di tutta l’umanità e non solo di alcuni oscuri personaggi che giocano con la menzogna sulla pelle degli altri e propria. Di questo bando totale, l'Italia dovrebbe farsi promotrice, come lo fece a suo tempo per la pena di morte!

Le persone favorevoli al nucleare mi sembrano come quei piloti che decidono di suicidarsi schiantando l’aereo con tutti i passeggeri a bordo! Ora se i nuclearisti sono stanchi di vivere e proprio non riescono a farvi una ragione del perché vivere, possono sempre spararsi un colpo in testa! Assicuro, da sacerdote, che la misericordia di Dio perdonerà certamente un peccato così orrendo, se lo fanno per lasciar vivere chi ancora lo vuole!

Per non scandalizzare i “piccoli”, informo che questo mio consiglio è moralmente lecito! In teologia morale questo invito consiste nel fatto che “non potendo impedire il male è lecito consigliare il male (che resta male!) minore”! Amen!

venerdì 11 marzo 2011

I domenica di Quaresima (A)

Eccoci entrati nel tempo della Quaresima! E per la prima domenica di questo tempo speciale, la Chiesa ci invita a tornare a riflettere sul tema del male! In particolare in questo anno A, insieme al “classico” vangelo delle tentazioni di Gesù nel deserto, questa proposta di riflessione la si incontra già nella prima lettura, col racconto del cosiddetto “peccato originale”, dove “originale” – come spiego ai miei ragazzi a scuola – qui non indica qualcosa di “stravagante”… ma nemmeno qualcosa di “originario”, come se si stesse narrando del primo reale peccato commesso dall’umanità (dal primo uomo) con delle conseguenze a cascata su tutte le generazioni che sono seguite (come farebbe pensare e – per secoli – ha fatto pensare una certa interpretazione letterale dei testi). Siamo piuttosto davanti al racconto del peccato “originale” perché, dentro al mito di Genesi, si tenta di raccontare il “funzionamento” del peccato di sempre, la matrice di ogni male che l’uomo fa e si fa…

Proviamo dunque ad analizzarlo un po’ più da vicino… Innanzitutto: il serpente. Esso è indubbiamente figura letteraria (con buona pace di tutti gli amanti di questi curiosi esseri che la natura ci ha fatto conoscere)… una figura letteraria che nella finzione del mito ha la funzione di rappresentare la cattiva coscienza umana o ciò che la instilla nelle profondità del nostro cuore (perché è lì che si dà la lotta tra Bene e Male). Dunque il serpente… che esordisce con una domanda curiosa: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?». Una domanda curiosa perché ha in sé una chiara esagerazione: non è infatti assolutamente vero che Dio ha detto di non mangiare di alcun albero del giardino! Perché allora fa questa domanda, così palesemente erronea? Perché esagera così tanto nel travisamento delle parole (della Parola – della Legge – del comandamento) di Dio? Perché ha in mente una strategia bene precisa: quella di insinuare nella donna il dubbio che l’intenzione di Dio (in ciò che dice) non sia per il bene dell’uomo, ma per una sua soggiogazione, mortificazione, limitazione… Instilla cioè nella donna il dubbio che il comandamento di Dio sia troppo esagerato per avere uno scopo benefico: è infatti così difficilmente osservabile, che la sua trasgressione diventa giustificabile.

Ecco il primo dato: il male si origina sempre per una messa in discussione della paternità/benevolenza di Dio… per una sospensione della fiducia riposta in questo volto… una sospensione che apre la strada per addentrarsi in altre vie, in altre ricerche di felicità e bontà…

E la donna ci casca… Se prestiamo infatti attenzione alla sua risposta («Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”»), ci accorgiamo immediatamente che essa si è fatta “tirar dentro” alla rete del serpente: riporta infatti a sua volta il presunto comandamento di Dio, ma anch’ella lo sbaglia/esagera in due punti non marginali.

Se infatti andiamo a prendere ciò che aveva detto Dio («Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire»), vediamo come gli errori della donna siano:

- Nella proibizione: Dio aveva detto solo di non mangiare, mentre lei aggiunge (esagera) “non mangiare e non toccare”;

- Nella dislocazione: Dio aveva detto di non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male e non dell’albero al centro del giardino, che era l’albero della vita («Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male»)… come a dire che quando ci si insinua la tentazione del male, quest’ultimo diventa il centro del nostro mondo, dei nostri pensieri, dei nostri desideri…

Non a caso, la donna guardando al “frutto proibito” «vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza»… cioè era una via alternativa a quella di Dio che conteneva in sé tutto ciò che può soddisfare la ricerca della felicità: era buono (da mangiare, dunque appagava il desiderio corporeo), gradevole (agli occhi, dunque appagava il desiderio estetico), desiderabile (per acquistare saggezza, dunque appagava il desiderio di sensatezza)… appagava l’essere umano nella sua interezza… e di fatti «prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò»… Non prima però di aver sentito per l’ennesima volta il serpente parlare e mettere in discussione l’identità di Dio: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male». Ecco consumato il peccato originale! Ecco raccontato cioè, non un peccato, ma lo “schema di funzionamento” di ogni peccato… Il problema biblico infatti non sono mai i peccati (al plurale), ma la loro radice più intima, chiamata – appunto – biblicamente, il peccato (al singolare), che è il dubbio su Dio. Questo infatti riesce a fare il serpente: instillare nella donna il dubbio che quel Dio che aveva sempre conosciuto come paterno, come benevolente (cioè come volente il suo bene), forse non lo è per davvero… forse nasconde una doppia faccia… un volto oscuro tenuto finora nascosto, per rivelarlo al momento opportuno, colpendoci alla sprovvista… con le sue punizioni, con le sue limitazioni, con le sue mortificazioni…

È quanto succede anche a Gesù nel deserto, che infatti viene tentato esattamente su questo punto: l’identità di Dio. Come se nelle tre domande che il diavolo (il dia-ballo, il divisore) gli pone, sostanzialmente venisse invitato per tre volte a non affidarsi al Dio Padre, tra le cui braccia ha riposto la sua vita… «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane»… Cioè se sei Figlio di quel Dio che agisce con potenza e può tutto per sé e per i suoi… usa questo potere! Ecco la prima tentazione sul volto di Dio: «Un’esperienza di guerra totale contro il male, pagata sulla sua pelle, per imparare ad amare sempre, senza cedere mai alla paura e all’egoismo, senza tentennamenti né pentimenti» [Giuliano], perché Dio è Amore, non Potere! E infatti ecco la risposta… «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”»… Ma il diavolo torna al contrattacco… citando – a sua volta – la Bibbia (elemento che convince definitivamente che il problema delle tentazioni non è morale – a Gesù non presentano una bella donnina poco vestita – ma teologico: in gioco c’è l’identità di Dio e per metterla in discussione il diavolo stesso si fa teologo ed esegeta… prova a mettere in crisi Gesù, citandogli le Scritture Sacre): «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”»… Come a dire… “Se sei così sicuro del tuo Dio, prova a vedere se davvero ti raccoglie”… (eco dell’altra tentazione, quella sulla croce: «se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!»)… che è come se dicesse “tu dici che del tuo Dio ci si può fidare… per me no, vediamo?”… «Gesù gli rispose: “Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”», perché Dio è Amico di cui fidarsi, non Nemico di cui diffidare. Ma il diavolo non è ancora domo (in realtà non lo sarà mai fino alla fine della vita di Gesù e ad ogni passo lo accompagnerà con la sua tentazione sul vero volto di Dio): «il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: “Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai”»… L’ultima tentazione, la più grande: l’esplicitazione di una via alternativa a quella di Dio… Se ti prostri a me (cioè se abbandoni Lui) avrai potere, ricchezza e gloria, cioè felicità… «Allora Gesù gli rispose: “Vàttene, satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”»… Perché in Dio è la Vita e non nelle altre strade che il nostro cuore dis-perso (diviso) ci propone.

Ecco allora cos’è «l’obbedienza di uno solo» per cui «tutti saranno costituiti giusti» di cui parla Paolo: è la fedeltà al volto paterno di Dio… è la fiducia nella sua univoca benevolenza anche quand’essa non è immediatamente riconoscibile, è il continuare a riconoscerlo come un Tu, anche quando gli si grida contro per la disperazione: «"Elì, Elì, lemà sabactàni?”, che significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”»…

Anche per Gesù infatti… «Non si trattava soltanto di sopravvivere, lui e i suoi... il mangiare, bere, vestirsi… la casa e gli affetti, e le varie necessità essenziali pur semplicissime, che dopo l’infanzia imparò a soddisfare con il lavoro duro delle sue mani, come la tradizione e le Scritture insegnavano. Ma soprattutto era in gioco la compassione per i bisogni ... disattesi o disprezzati, dei poveri, malati, oppressi …che costituiranno apertamente i suoi interlocutori preferiti degli anni della vita pubblica … L‘impazienza di intervenire e lo struggimento dell’impotenza di fronte al male, avranno fatto venire anche a Gesù un’umanissima voglia di miracolo, pur di soccorrere il disperato che non ha più dove sbattere la testa, il piccolo violentato nella sua crescita umana, l’affamato che si è smangiato ogni sentimento umano perché non ha cibo per il suo stomaco né tenerezza per il cuore. Ecco il desiderio che il Padre trasformi non solo le pietre in pane, ma le rocce in case e il deserto in scuole e ospedali e rifugi d’accoglienza per chi ha perso ogni riparo… E invece gli tocca imparare ad amare a mani vuote E anche lui ! dopo quel poco che può fare, dichiararsi servo inutile, per questo tipo di bisogni. Ed abitare nella nostra stessa impotenza, accanto alla sofferenza senza rimedio. Ed imparare quanto è amaro e duro, rinunciare ad usare Dio per tappare i vuoti della nostra storia, cercando invece di accompagnare umilmente la gente nel deserto inospitale della vita. E ascoltare quale Parola esce dalla bocca di Dio, dentro le situazioni senza uscita nelle quali lascia vivere i suoi figli. E, dunque, imparare ad amare, senza pretendere inutili miracoli!» [Giuliano].

mercoledì 9 marzo 2011

Convertire la fede

La Conversione di San Paolo (o Conversione di Saulo), olio su tela di 230 x 175 cm, del 1601 dal Caravaggio.
È conservato nella Cappella Cerasi della Basilica di
Santa Maria del Popolo a Roma


Mercoledì delle Ceneri

“Ritornate a me” dice il Signore per bocca di Gioele, gli fa eco san Paolo: ti supplico, lasciati riconciliare (con Dio, ma non solo). E il Vangelo ci avverte: “State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro”. Il resto del discorso del vangelo non è che declinazione ulteriormente illuminante di questo avvertimento.

Cosa accomuna questi tre brani? Cosa sta al cuore del discorso biblico e della chiesa che ce li propone proprio oggi, mentre iniziamo il nostro cammino quaresimale?
A che tipo di conversione siamo chiamati in questa quaresima?

Ci guida la frase di Gesù: c’è una giustizia che non ha a cuore la giustizia! A pensarci bene è un avvertimento ben curioso: c’è del male anche a fare del bene? C’è un modo di vivere la propria fede (preghiera), carità (elemosina), pietà (digiuno) che è contro la fede, la carità, la pietà?

Pare proprio di sì! Si può pregare per evitare di incontrare Dio… si può fare l’elemosina per non assumersi la responsabilità di aiutare il prossimo… si può digiunare per tacitare la coscienza e meglio gozzovigliare in pace…

C’è un modo perverso di vivere la propria religiosità che uccide in noi la fede.
Mi capita spesso di confessare… Qualcuno si confessa di non pregare abbastanza, di aver saltato la messa… ma mai nessuno si è confessato di non pregare bene!
Non ricordo se qualcuno si sia mai confessato di non fare l’elemosina (forse perché la fanno! o forse perché lo considerano un gesto discrezionale e quindi – sbagliando – non peccaminoso ometterla)… ma nessuno si è mai confessato di essersi liberato delle proprie responsabilità, facendo l’elemosina. Mi è capitato che qualcuno si sia accusato di aver mangiato carne al venerdì… ma mai nessuno si è accusato di non aver dato in elemosina ciò di cui si è privato… E finito il digiuno rituale, non si sono curati di maturare un rapporto diverso con le “cose” e con il “tempo”…

Certo, la conversione è sempre conversione dal male… ma non solo: è soprattutto conversione dal
bene che compiamo. Perché questo è il male più subdolo, così male che può essere considerato il vero male personificato: Il Male! Ecco perché Paolo – come abbiamo visto dalla seconda lettura di domenica scorsa – si guarda bene dal giudicare persino se stesso: per non cadere nell’illusione di aver concluso la corsa… Infatti basterebbe comprendere che nessun “bene” è così bene da non aver bisogno di un ulteriore conversione verso un bene più grande, per cominciare a correre.

Sì, c’è una giustizia che non ha a cuore la giustizia, perché non ha a cuore la giustizia di tutti ma solo la propria. Ma la giustizia solo per sé è il massimo dell’ingiustizia.

Se il bene che facciamo lo facciamo solo per noi stessi, prima o poi smetteremo di farlo il giorno che non ci converrà. C’è un lavorare alla propria “salvezza” che costruisce la propria (e altrui) rovina.
Siamo buoni per conquistare il paradiso, per questo ci meritiamo l’inferno che costruiamo con le nostre buone azioni.

Sì, c’è un modo di vivere la nostra religiosità che va convertita. A ben pensarci la bibbia è stata scritta proprio per avvertirci di questo pericolo: C’è un modo di pregare che non va bene! C’è un modo di fare l’elemosina, che non serve il prossimo! C’è un modo di vivere le manifestazioni concrete della propria pietà e religiosità che uccide il “senso religioso”.

Che cosa fare allora? Porsi la domanda non basta, perché anch’essa può nascere dallo stesso scrupolo con cui amiamo senza preoccuparci di coloro che amiamo. In fondo sia i divorzi che gli abbandoni nella vita religiosa e sacerdotale sono lì a ricordarci che la malattia è molto più diffusa di quanto si creda.

Tre letture, tre puntualizzazioni evangeliche che vanno tutte in unica direzione.
Preghiera, elemosina, digiuno sono i tre ambiti in cui si realizza la dinamica dell’incontro: verso Dio, verso il prossimo, verso il creato… decentrandosi da sé.

Non basta “credere”! Occorre “credere al Vangelo”! Senza sapere ancora cosa effettivamente esso significhi se non che l’unico modo di salvarsi è di fregarsene della propria salvezza presente o futura e cominciare a preoccuparsi fin d’ora di quella degli A/altri.

Perché se al centro resta l’Io… non ci resterà che un futuro fatto della cenere del nostro passato.

sabato 5 marzo 2011

IX Domenica del Tempo Ordinario: Vivere come Dio comanda!

Le letture che la Chiesa ci propone per questa nona domenica del Tempo Ordinario – l’ultima prima che inizi la Quaresima –, mi pare, propongano una vasta serie di spunti per la riflessione. Mi piacerebbe oggi soffermarmi su un paio di essi.


Innanzitutto quello che emerge dalla prima lettura e dall’ultima parte del vangelo (che coincide con l’ultima parte del Discorso della montagna), e cioè una riflessione sul ruolo della Legge (della Parola di Dio) nella vita del credente.

In questi testi infatti si legge: «Vedete, io pongo oggi davanti a voi benedizione e maledizione: la benedizione, se obbedirete ai comandi del Signore, vostro Dio, che oggi vi do; la maledizione, se non obbedirete ai comandi del Signore, vostro Dio» e «chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia. Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, sarà simile a un uomo stolto, che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde e la sua rovina fu grande».

Sono frasi che paiono indicare come – in qualche modo – la corretta modalità per guardare alla Legge (Parola) di Dio non sia quella “retributiva”, che vede nelle indicazioni di Dio dei moniti, trasgrediti i quali si incorre – come contropartita – in una punizione; quanto piuttosto quella “indicativa”, che vede nei comandamenti di Dio quei consigli che amichevolmente (o paternamente) Dio dà per vivere una vita buona. A chi li segue, Dio pare assicurare una buona riuscita della vita (una felicità – beatitudine – per la persona che, vivendo, si costruisce, si diventa); mentre a chi non li segue – per seguire altre vie («vi allontanerete dalla via che oggi vi prescrivo, per seguire dèi stranieri, che voi non avete conosciuto») – Dio non promette una punizione… semplicemente non assicura una buona riuscita: quelle sono altre vie, non le sue; legittime e possibili, ma – che dal suo punto di vista – conducono ad un probabile franare della propria consistenza interiore.

Questa precisazione non mi pare cosa da poco, perché – anzi – riscrive totalmente il modo di concepire Dio, il suo modo di proporsi all’uomo e il nostro modo di relazionarci a Lui. Perché se la sua Parola non è l’imposizione di un dio anonimo e lontano, di un legislatore freddo e distante, incurante delle nostre persone e preoccupato solo che i suoi dettami vengano osservati, ma è il consiglio di un amico-Padre che dice quel che dice perché ci ha a cuore (ha a cuore il nostro destino), allora anche il nostro modo di porci di fronte ad essa cambia radicalmente. In particolare vien meno il presupposto che abilita e fomenta la necessità di una ribellione ad una legge sulla nostra vita posta da qualcun che non siamo noi (e che prende solitamente le sembianze di un tiranno), per far nascere piuttosto un atteggiamento di ascolto e di buona disposizione verso quanto ha da dirci…
È l’esperienza che comunemente facciamo quando nella nostra vita ci si avvicina qualcuno con cui non abbiamo o a cui non riconosciamo nessun rapporto profondo (perché non si è mai interessato a noi) e che vuole imporci la sua visione delle cose, i suoi dettami, le sue leggi… spesso i nostri adolescenti sentono così l’avvicinarsi degli adulti… per quello si ribellano… e anche noi ci ribelliamo. Che però è proprio un’esperienza diversa rispetto a quando veniamo/vengono approcciati da qualcuno che stimiamo/stimano, da cui ci sappiamo/si sanno voluti bene, per i quali nutriamo/nutrono una fiducia… Quando infatti è qualcuno così che si avvicina (un volto amico, paterno, fraterno…), allora la reazione è diversa. Scatta un ascolto diverso di quanto ha da dirci, consigliarci, suggerirci…

Il dramma cristiano è che Dio è stato troppo spesso presentato con i tratti della prima esperienza e non di quest’ultima… Per ciò la gente si ribella… noi ci ribelliamo…

In realtà da tutta la testimonianza biblica e in particolare neotestamentaria, Dio ha un’altra faccia e un altro cuore… è Colui che – appunto – propone amichevolmente/paternamente una via all’uomo perché questi possa essere felice… Dal nostro osservare la sua Legge infatti Dio non ci guadagna niente (non è che diventa più Dio!), siamo noi che diventiamo più uomini!

Ecco perché il grande inquisitore dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij rimprovera a Gesù proprio questo: «Invece di impadronirti della libertà degli uomini. Tu l’hai ancora accresciuta! Avevi forse dimenticato che la tranquillità e perfino la morte è all’uomo più cara della libera scelta fra il bene ed il male? Nulla è per l’uomo più seducente che la libertà della sua coscienza, ma nulla anche è più tormentoso. Ed ecco che, in luogo di saldi principi, per acquetare la coscienza umana una volta per sempre, Tu hai scelto tutto quello che c’è di più inconsueto, enigmatico e impreciso, hai scelto tutto quello che superava le forze degli uomini, e hai perciò agito come se Tu non li amassi per nulla, e chi mai ha fatto questo? Colui che era venuto a dare per essi la Sua vita! Invece d’impadronirti della libertà umana, Tu l’hai moltiplicata e hai per sempre gravato col peso dei suoi tormenti la vita morale dell’uomo. Tu volesti il libero amore dell’uomo, perché Ti seguisse liberamente, attratto e conquistato da Te. In luogo di seguire la salda legge antica, l’uomo doveva per l’avvenire decidere da sé liberamente, che cosa fosse bene che cosa fosse male, avendo dinanzi come guida la sola Tua immagine».

Ecco – dunque – cos’era (cos’è!) la Parola di Dio: la sua immagine… il suo volto amichevole e paterno che consiglia all’uomo come costruire una vita buona…

Che non è il mito dell’uomo artefice del suo destino… Per chi è nato dopo le stragi del Novecento (ma forse anche per tutte le altre generazioni di uomini), questo è un disinganno ormai superato… Certo è però quello che suggeriva Etty Hillesum: «Mi sembra presuntuoso che un uomo possa determinare il proprio destino dall’interno. Quel che invece un uomo ha in mano è il proprio orientamento interiore verso il destino». È qui che “lavora” la Parola di Dio… è qui che quel volto conquista… è qui che l’uomo deve decidere per cosa (per Chi!) decidersi…

Ma è qui anche che si apre il secondo fronte di riflessione di quest’oggi… perché il problema che la prima parte del vangelo inaugura, con quel suo «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli», è conseguente a quanto abbiamo appena finito di dire: non basta ascoltare quella Parola, lasciarsi affascinare da quel volto, invocarlo come “Signore” della nostra vita, riconoscere buona la sua volontà… bisogna anche farla!

La questione sembra allora quella del “che cosa è più importante fare?”: pregare o fare le opere; andare a messa tutti i giorni o darsi da fare per i poveri; stare chiusi in monastero o andare in missione?

Sono i “luoghi comuni” che spesso sentiamo, con i rispettivi schieramenti… Qualcuno che cita l’episodio di Marta e Maria per dire che è più importante andare a messa o far la monaca di clausura… Qualcuno che cita le dispute sul sabato per dire che è più importante il bene fatto alle persone che l’osservanza dei precetti religiosi…

E anche la Scrittura non pare venire in grande aiuto se san Paolo dice, per esempio nella seconda lettura di oggi: «Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge»; e Giacomo risponde: A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere? Quella fede può forse salvarlo? (Gc 2,14)…

Si tratta dunque di una questione insolubile? Io credo si tratti semplicemente di una questione mal posta… Le “opere” e il “cuore” nell’antropologia del NT non sono divise, tanto meno in contrapposizione. Piuttosto sono le une espressione dell’altro e viceversa… è solo la riflessione culturale successiva (più analitica che sintetica) che divide (per analizzare), senza riuscire più ad unire…

Ma basterebbe questa osservazione empirica (mutuata dalla rinnovata antropologia del XX secolo) a risolvere il problema che non c’è, cioè a riformulare la questione in modo che si sgonfi da sé l’apparente contraddizione:

- Le opere che facciamo rivelano chi siamo (Gesù ha appena finito di dire «Dai loro frutti li riconoscerete» e, commenta Maggioni: «è dalla vita quotidiana che si deduce se abbiamo o no un solo padrone, è dalla vita quotidiana che si comprende quale sia davvero il nostro Signore», da il racconto di Matteo, 104);

- Ma anche… siamo/diventiamo ciò che facciamo (non a caso la filosofia del Novecento riconosce come l’uomo sia prima azione e poi riflessione… C’è sempre un primato dell’agire sul pensare, che certo poi entra come in un circolo biunivoco, ma… basti guardare ad un bambino… prima succhia il latte dalla mamma… e poi la riconosce – riflessivamente – “mamma!”…).

Questo per dire che è un finto enigma quello del primato delle opere o della disposizione del cuore… un enigma figlio anch’esso dell’ansia di sapere “Cosa devo fare per salvarmi la vita? Per far più felice Dio? Dunque per non incorrere nella sua punizione? Pregarlo 10 volte al giorno o fare 10 opere di carità?”… È cioè figlio di quella stessa errata mentalità che mi fa sentire la Legge di Dio come oppressiva…

La questione allora è forse molto meglio prenderla (o per lo meno più evangelico prenderla) da quest’altro lato: se il Dio che ci ha rivelato Gesù è un Padre amico che ha come unica preoccupazione la buona riuscita della nostra vita, cioè l’umanizzazione della nostra interiorità, la costruzione di una nostra consistenza amante e per far ciò ci dà una via da seguire (che è la vita di suo figlio!) senza che gli vengano minimamente in testa punizioni o retro pensieri, forse val davvero la pena di dargli fiducia e provare a mollare gli ormeggi, per vivere “come Dio comanda”!
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