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domenica 28 novembre 2010

I Domenica di Avvento (A): Oggi la morte può trasformarsi in Vita

Domenica inizia un nuovo anno liturgico, l’anno A, al seguito del vangelo di Matteo. Con esso – si apre ovviamente anche un nuovo Avvento, una nuova attesa… l’attesa della celebrazione del Natale del Signore, certo, ma – in essa – anche l’attesa, sempre presente nella vita del credente, della venuta (quotidiana) del Figlio dell’uomo.


La sua attesa escatologica, infatti, e tutti gli “avventi” liturgici che la Chiesa inserisce nel suo calendario, non devono offuscare, ma anzi servono per tenere viva, l’attenzione al quotidiano essere presente del Signore nella nostra vita.

Ricordavamo infatti già qualche settimana fa, quando la liturgia ci presentava un testo di Luca, simile a quello proposto per questa prima domenica di avvento, come questi brani – cosiddetti “escatologici” – che paiono parlare del “futuro” (e che a noi a volte risultano enigmatici, per non dire spaventevoli per il linguaggio tipico con cui sono costruiti – che però, appunto, è solo un linguaggio…), in realtà abbiano di mira la rifocalizzazione dell’attenzione degli ascoltatori non sul futuro, bensì sul presente. Scriveva Giuliano tre anni fa: «L'evangelista che tramanda le sue parole vuol rinsaldare lo spirito della comunità smarrita dalla necessità di gestire il quotidiano, con tutte le sue sollecitudini e dispersioni, infiacchita dalla delusione per la mancata realizzazione delle promesse… Se guardiamo all'orizzonte complessivo della storia e della vita della Chiesa, o allo spazio più ristretto della nostra vita personale, comunitaria, famigliare e personale, la parola di Gesù rompe i nostri schemi limitati, ci invita a guardare ad un futuro che trasforma in attenzione vigile ed affettuosa il presente: "così sarà la venuta del Figlio dell'uomo". Nella semplicità talora monotona o banale della nostra quotidianità, sta in realtà irrompendo il ladro, nell’ora e nei modi che non pensiamo».

La questione centrale – allora – delle letture odierne (le quali – ciascuno a suo modo – si concentrano sulla venuta del Signore), è proprio quella della decisività dell’oggi…
Il poema di Isaia, per esempio, non è una banale previsione del futuro, bensì una lettura teologica della storia (possibile oggi!): quest’ultima ha il suo senso, il suo polo attrattivo nella parola del Signore (intesa in senso forte, non come un insieme di precetti, ma come la volontà del Signore, il suo sguardo benevolo sull’umanità) che attira tutti a sé («Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore»). Una Parola – e dunque una storia – che ha come fulcro la nobilitazione dell’uomo, la sua piena umanizzazione (nell’aldiqua!). Isaia infatti parla di uno scenario di pace, cioè della fattiva trasformazione di ciò che insegna la logica umana (la guerra, la morte) in Vita («Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra. Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore»). Che è la medesima dinamica messa in campo da Paolo, che, parlando ai Romani, dice: «Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce»!

Una dinamica che – con l’avvento di Cristo – non può che ritradurre la profezia di Isaia in termini cristici: per cui, per Paolo, la scoperta che il senso della storia è la Vita e non la morte (anzi la trasformazione della morte in Vita), coincide con il fatto che il senso della storia è Gesù. È lui la Vita annunciata dai profeti. È quella vita lì che ha vissuto lui, quel suo modo di stare nel mondo, di passare per le strade, di fermarsi di fronte alle facce degli uomini e delle donne, di amare teneramente e tenacemente, di morire affidando e affidandosi, di offrire il suo corpo e il suo sangue… è quel suo modo lì di essere uomo e di essere Dio, la Vita per l’umanità tutta e in essa per ciascun uomo!

Ecco perché Paolo non può che dire: «Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo»! “Rivestirsi”, “con-morire”, “conformarsi”, “partecipare”… sono tutte categorie che l’Apostolo mette in campo per portare avanti quella che secondo lui è la verità della storia: è nell’intrecciare la propria libertà (il nostro esser-ci) con quella di Gesù, che il nostro esistere diventa Vivere e le nostre morti, Vita!

In questo senso – come accennavamo – va letto anche il vangelo, dove al centro sta la sottolineatura dell’urgenza e della radicalità del porsi nella Vita (o meglio nel lasciarsi porre in essa).

Non è una questione morale, non si tratta di un’etica da rispettare, di un codice deontologico da seguire: in gioco c’è tutto quello che siamo, l’opzione fondamentale della nostra vita, l’orizzonte di senso che ci orienta… è una scelta di campo: o la vita, l’amore, la donazione, la tenerezza… o la morte, l’odio, la sopraffazione, la violenza… una scelta di campo che ogni istante della vita ci si pone davanti… il solo già esser-ci, esistere, implica inevitabilmente e continuamente un decidere chi essere (oggi, ora, adesso…)! La questione è dunque chi sono io, chi voglio essere… Chi sono / chi voglio essere alla luce del fatto che tutta la storia della salvezza, attraverso le sue Scritture, riecheggia la testimonianza che c’è la possibilità della Vita, di una vita buona, bella, piena (perché donata)…? Chi sono io di fronte al fatto che questa è la buona notizia della storia? (nella consapevolezza che ciò che sono, ciò che scelgo di essere lo costruisco in tutta una vita… vivendola, giocandomi nella praxis – ecco perché a questo punto, ma solo a questo punto, tolto (si spera…) il germe moralistico, hanno senso anche le indicazioni pratiche sul vivere: «camminiamo nella luce del Signore», «è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce», «comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie», «rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri», «vegliate», «state pronti»)… Chi decido di essere oggi, considerando che ciò su cui verremo giudicati, cioè ciò su cui si misurerà la consistenza della nostra vita, sarà l’amore?

Questo è il centro delle letture odierne, questo il punto focale che la Chiesa decide di mettere all’inizio dell’anno liturgico… La custodia del fatto che per la Vita (che è l’equivalente che dire “per Gesù”) ci si decide oggi… Non è questione di ritagli di tempo, di atti religiosi, di celebrazioni liturgiche… siamo proprio su un altro piano… è la determinazione più profonda del proprio essere… per il vangelo (per la consegna di sé per amore di tutti)… o per qualcos’altro… che – proprio perché determinazione profonda di sé, cioè costituzione del nostro io più vero e intimo e denudato – non può che darsi/farsi/mostrarsi ad ogni istante, ad ogni respiro… come se – tendenzialmente – il nostro vivere e il nostro vivere di Cristo, si sovrapponessero… «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»… un Cristo che – non a caso – non ha vissuto atti sporadici di consegna… ma ha incarnato (ogni attimo) la logica della consegna, che – proprio perché ne era impregnato – gli ha poi permesso di vivere anche momenti puntuali di consegna… Ecco questo è il punto di non ritorno che la liturgia pone lì subito in partenza d’anno… Perché non si travisi di che cosa si tratta!

Il mio Canto per Oggi

1 La mia vita è un sol attimo, un'ora di passaggio.
La mia vita è solo un giorno che svanisce e fugge.
O mio Dio, tu sai che per amarti sulla terra
non ho che l'oggi!

2 Oh, t'amo, Gesù! L'anima mia a te anela.
Resta per un sol giorno il dolce mio sostegno.
Vieni a regnare nel mio cuore, dammi il tuo sorriso,

3 Che m'importa, Signore, se oscuro è l'avvenire?
Io pregarti per il domani, oh, no, non posso!
Puro conserva il cuor mio, con la tua ombra coprimi, Sal 118,80
solo per oggi. Sal 90,4

4 Se penso a domani, io la mia incostanza temo,
e in cuore tristezza e affanno nascere mi sento.
Ma la prova e la sofferenza voglio, Dio mio,
solo per oggi.

5 Io presto devo vederti sulla riva eterna,
o Pilota Divino che mi porgi la mano.
Sui flutti in tempesta guida la mia nave in pace,
solo per oggi.

6 Lascia che nel tuo Volto, Signor, io mi nasconda. Sal 30,21
Là non udrò più del mondo ogni rumore.
Dammi il tuo Amore, la tua grazia serbami,
solo per oggi.

7 Io tutto dimentico presso il tuo Divin Cuore,
e le paure della notte non temo affatto. Sal 90,5
Ah, Gesù, un posto nel tuo Cuore a me concedi,
solo per oggi.

8 Pane vivo, pane del Ciel, divina Eucarestia, Gv 6,33.48.59
o Sacro Mistero che l'Amore ci ha donato!
Vieni, Gesù, Ostia Bianca, ad abitarmi il cuore,
solo per oggi.

9 Degnati, Vite Santa e Sacra, che a te m'unisca Gv 15,5
ed il mio fragile tralcio ti darà il suo frutto:
un grappolo dorato potrò, Signore, offrirti
già da quest'oggi.

10 Ho solo questo giorno fugace per formarti
il grappolo d'amore dove ogni chicco è un'anima.
Dammi, Gesù, il fuoco d'un Apostolo,
solo per oggi.

11 O Immacolata Vergine, sei la Dolce Stella
che mi dona Gesù e a Lui mi unisce sempre.
Che io riposi sotto il velo tuo, o Madre cara,
solo per oggi.

12 Sant'Angelo Custode, tu con l'ala coprimi;
con la tua luce il cammino che seguo illumina.
Vieni a guidarmi e i passi aiutami, ti prego,
solo per oggi.

13 Senza veli o nubi vederti voglio, Signore,
ma ancora esule languisco da te lontana.
Non mi sia nascosto il tuo viso amabile, Is 53,3
solo per oggi.

14 A dire le tue lodi volerò io presto.
Quando il giorno senza fine per me scenderà,
allor sulla lira degli Angeli io canterò
l'Oggi Eterno!

[TERESA DI GESÙ BAMBINO]

venerdì 26 novembre 2010

Il cristianesimo o è democratico o "non è"



Conosciamo il travaglio che la trasmissione di Fazio e Saviano ha, fin dai suoi albori, vissuto.
Tanto è stato scritto e molto a sproposito... Da Grillo a Travaglio passando per Aldo Grasso, la novità ha spiazzato molti.
Era prevedibile, soprattutto per chi non sa vedere oltre il proprio punto di vista.

Qui mi limito (per ora) a fare qualche osservazione sul preteso "diritto di replica". Di cui si fa paladino con tracotanza anche l'Avvenire. Addirittura uno speciale!

Da questo affaire si comprende meglio come la democrazia di un popolo è inversamente proporzionale al suo livello di intolleranza: per questo il "diritto di replica", la "processualizzazione" di ogni Parola (il maiuscolo è voluto!), manifesta soltanto il grado di intolleranza per le opinioni altrui (e il basso livello di democrazia di chi si ritiene depositario dell'unica praxis possibile).

Era accaduto a Gesù (Parola-fatta-carne), accade oggi da parte dei nuovi farisei, verso il dolore che si fa Parola... Come dire, che si può credere, senza mai cambiare mentalità e "convertirsi di niente"!

Detto questo - violenza nella violenza - a delle persone concrete, a dei volti specifici, a dei DNA storici... alla "carne di Cristo"... pretendono di replicare delle "Associazioni"...

Siamo alla "beffa" sotto la Croce... peggio degli amici di Giobbe! Imparassero a tacere!

giovedì 25 novembre 2010

Vincere l'Inferno è possibile

Un altro articolo della sempreverde Barbara Spinelli, ieri sulla Stampa oggi su Repubblica ma sempre se stessa nelle sue lucide analisi. Grazie a Dio esistono ancora persone così... libere.

L’osceno normalizzato di Barbara Spinelli

Ci fu un tempo, non lontano, in cui era vero scandalo, per un politico, dare a un uomo di mafia il bacio della complicità. Il solo sospetto frenò l’ascesa al Quirinale di Andreotti, riabilitato poi dal ceto politico ma non necessariamente dagli italiani né dalla magistratura, che estinse per prescrizione il reato di concorso in associazione mafiosa ma ne certificò la sussistenza fino al 1980. Quel sospetto brucia, dopo anni, e anche se non è provato ha aperto uno spiraglio sulla verità di un lungo sodalizio con la Cupola. Chi legga oggi le motivazioni della condanna in secondo grado di Dell’Utri avrà una strana impressione: lo scandalo è divenuto normalità, il tremendo s’è fatto banale e scuote poco gli animi.

Nella villa di Arcore e negli uffici di Edilnord che Berlusconi – futuro Premier – aveva a Milano, entravano e uscivano con massima disinvoltura Stefano Bontate, Gaetano Cinà, Mimmo Teresi, Vittorio Mangano, mafiosi di primo piano: per quasi vent’anni, almeno fino al ‘92. Dell’Utri, suo braccio destro, era non solo il garante di tutti costoro ma il luogotenente-ambasciatore. Fu nell’incontro a Milano della primavera ‘74 che venne deciso di mandare ad Arcore Mangano: che dovremmo smettere di chiamare stalliere perché fu il custode mafioso e il ricattatore del Cavaliere. Quest’ultimo lo sapeva, se è vero che fu Bontate in persona, nel vertice milanese, a promettergli il distaccamento a Arcore d’un «uomo di garanzia».

La sentenza attesta che Berlusconi era legato a quel mondo parallelo, oscuro: ogni anno versava 50 milioni di lire, fatti pervenire a Bontate (nell’87 Riina chiederà il doppio). A questo pizzo s’aggiunga il «regalo» a Riina (5 milioni) per «aggiustare la situazione delle antenne televisive» in Sicilia. Fu Dell’Utri, ancor oggi senatore di cui nessuno chiede l’allontanamento, a consigliare nel 1993 la discesa in politica. Fedele Confalonieri, presidente Mediaset, dirà che altrimenti il Cavaliere sarebbe «finito sotto i ponti o in galera per mafia» (la Repubblica, 25-6-2000). Il 10 febbraio 2010 Dell’Utri, in un’intervista a Beatrice Borromeo sul Fatto, spiega: «A me della politica non frega niente, io mi sono candidato per non finire in galera».

C’è dell’osceno in questo mondo parallelo, che non è nuovo ma oggi non è più relegato fuori scena, per prudenza o gusto. Oggi, il bacio lo si dà in Parlamento, come Alessandra Mussolini che bacia Cosentino indagato per camorra. Dacci oggi il nostro osceno quotidiano. Questo il paternoster che regna – nella Mafia le preghiere contano, spiega il teologo Augusto Cavadi – presso il Premier: vittima di ricatti, uomo non libero, incapace di liberarsi di personaggi loschi come Dell’Utri o il coordinatore Pdl in Campania Cosentino. Ai tempi di Andreotti non ci sarebbe stato un autorevole commentatore che afferma, come Giuliano Ferrara nel 2002 su Micromega: «Il punto fondamentale non è che tu devi essere capace di ricattare, è che tu devi essere ricattabile (...) Per fare politica devi stare dentro un sistema che ti accetta perché sei disponibile a fare fronte, a essere compartecipe di un meccanismo comunitario e associativo attraverso cui si selezionano le classi dirigenti. (...) Il giudice che decide il livello e la soglia di tollerabilità di questi comportamenti è il corpo elettorale».

Il corpo elettorale non ha autonoma dignità, ma è sprezzato nel momento stesso in cui lo si esalta: è usato, umiliato, tramutato in palo di politici infettati dalla mafia. Gli stranieri che si stupiscono degli italiani più che di Berlusconi trascurano spesso l’influenza che tutto ciò ha avuto sui cervelli: quanto pensiero prigioniero, ma anche quanta insicurezza e vergogna di fondo possa nascere da questo sprezzo metodico, esibito. Ai tempi di Andreotti non conoscemmo la perversione odierna: vali se ti pagano. La mazzetta ti dà valore, potere, prestigio. Non sei nessuno se non ti ricattano. L’1 agosto 1998, Montanelli scrisse sul Corriere una lettera a Franco Modigliani, premio Nobel dell’economia: «Dopo tanti secoli che la pratichiamo, sotto il magistero di nostra Santa Madre Chiesa, ineguagliabile maestra d’indulgenze, perdoni e condoni, noi italiani siamo riusciti a corrompere anche la corruzione e a stabilire con essa il rapporto di pacifica convivenza che alcuni popoli africani hanno stabilito con la sifilide, ormai diventata nel loro sangue un’afflizioncella di ordine genetico senza più gravi controindicazioni».

In realtà le controindicazioni ci sono: gli italiani intuiscono i danni non solo etici dell’illegalità. Da settimane Berlusconi agita lo spettro di una guerra civile se lo spodestano: guerra che nella crisi attuale – fa capire – potrebbe degenerare in collasso greco. È l’atomica che il Cavaliere brandisce contro Napolitano, Fini, Casini, il Pd, i media. I mercati diventano arma: «Se non vi adeguate ve li scateno contro». Sono lo spauracchio che ieri fu il terrorismo: un dispositivo della politica della paura. Poco importa se l’ordigno infine non funzionerà: l’atomica dissuade intimidendo, non agendo. Il mistero è la condiscendenza degli italiani, i consensi ancora dati a Berlusconi. Ma è anche un mistero la loro ansia di cambiare, di esser diversi. Il loro giudizio è netto: affondano il Pdl come il Pd. Premiano i piccoli ribelli: Italia dei Valori, Futuro e Libertà. Se interrogati, applaudirebbero probabilmente le due donne – Veronica Lario, Mara Carfagna – che hanno denunciato il «ciarpame senza pudore» del Cavaliere, e le «guerre per bande» orchestrate da Cosentino. Se interrogati, immagino approverebbero Saviano, indifferenti all’astio che suscita per il solo fatto che impersona un’Italia che ama molto le persone oneste, l’antimafia di Don Ciotti, il parlar vero.

Questa normalizzazione dell’osceno è la vita che viviamo, nella quale politica e occulto sono separati in casa e non è chiaro, quale sia il mondo reale e quale l’apparente. Chi ha visto Essi Vivono, il film di John Carpenter, può immaginare tale condizione anfibia. La doppia vita italiana non nasce con Berlusconi, e uscirne vuol dire ammettere che destra e sinistra hanno più volte accettato patti mafiosi. C’è molto da chiarire, a distanza di anni, su quel che avvenne dopo l’assassinio di Falcone e Borsellino. In particolare, sulla decisione che il ministro della giustizia Conso prese nel novembre ‘92 – condividendo le opinioni del ministro dell’Interno Mancino e del capo della polizia Parisi – di abolire il carcere duro (41bis) a 140 mafiosi, con la scusa che esisteva nella Mafia una corrente anti-stragi favorevole a trattative. Congetturare è azzardato, ma si può supporre che da allora viviamo all’ombra di un patto.

Il patto non è obbligatoriamente formale. L’universo parallelo ha le sue opache prudenze, ma esiste e contamina la sinistra. In Sicilia, anch’essa sembra costretta a muoversi nel perimetro dell’osceno. Osceno è l’accordo con la giunta Lombardo, presidente della Regione, indagato per «concorso esterno in associazione mafiosa». Osceno e tragico, perché avviene nella ricerca di un voto di sfiducia a Berlusconi. Non si può non avere un linguaggio inequivocabile, sulla legalità.

Non ci si può comportare impunemente come quando gli americani s’intesero con la Mafia per liberare l’Italia. L’accordo, scrive il magistrato Ingroia, fu liberatore ma ebbe l’effetto di rendere «antifascisti i mafiosi, assicurando loro un duraturo potere d’influenza». Non è chiaro quel che occorra fare, ma qualcosa bisogna dire, promettere. Non qualcosa «di sinistra», ma di ben più essenziale: l’era in cui la Mafia infiltrava la politica finirà, la legalità sarà la nuova cultura italiana.
Fino a che non dirà questo il Pd è votato a fallire. Proclamerà di essere riformista, con «vocazione maggioritaria», ma l’essenza la mancherà. Non sarà il parlare onesto che i cittadini in fondo amano. Si tratta di salvare non l’anima, ma l’Italia da un lungo torbido. Sarebbe la sua seconda liberazione, dopo il ‘45 e la Costituzione. Sennò avrà avuto ragione Herbert Matthew, il giornalista Usa che nel novembre ‘44, sul mensile Mercurio, scrisse parole indimenticabili sul fascismo: «È un mostro col capo d’idra. Non crediate d’averlo ucciso».

venerdì 19 novembre 2010

Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo

Siamo giunti alla fine di un altro anno liturgico… Domenica, trentaquattresima del Tempo Ordinario (C), si celebra infatti, la festa di Cristo Re dell’universo, che chiude “in gloria” il percorso fatto quest’anno attraverso la lettura del vangelo di Luca… Metto “in gloria” tra virgolette, perché – come mostra il vangelo scelto dal liturgista (Lc 23,35-43) – non si tratta di «una verità da sbandierare contro i miscredenti, come forse si tentava un tempo con la proclamazione di questa festa di Gesù Re dell’universo! È piuttosto da custodire in cuore e confidare come un segreto “arcano” (esplosivo e tossico!) perché ogni approccio culturale, religioso, amicale con qualunque compagno di strada sarebbe incrinato, se cominciassimo buttandogli in faccia… che questo crocifisso, appeso 2000 anni fa tra due ladroni, con unica distinzione un cartello ambiguo, con scritto su “re dei giudei” – proprio questo, è “il vangelo”: cioè la bella notizia essenziale della nostra fede, su cui noi fondiamo non solo la vita, ma la speranza di salvezza del mondo. Perché dopo tre giorni è risorto.

Se ormai l’usura della consuetudine non avesse svuotato le parole, ci risponderebbero come a Paolo: Su questo ti ascolteremo un’altra volta! E invece, questa è la sintesi di tutto il ciclo liturgico, perché il resto di cui possiamo agevolmente parlare con tutti, è contorno, tutto il resto è mediazione culturale su cui ricercare continuamente ulteriori approfondimenti e ogni possibile convergenza, se non mette in discussione o cerca di censurare questo dato fondante, che il nostro Dio è passato attraverso questo annichilimento» [Giuliano].

Dunque, certo, finiamo “in gloria” con una festa piuttosto altisonante (almeno nel titolo), eppure radicalmente impastata col mistero della croce… Ancora una volta infatti, parlando di Gesù e della sua esperienza umana, non si può sfuggire il dato che, in Lui, coppie di termini contrastanti (gloria / umiltà; grandezza / piccolezza; regalità / croce; divinità / umanità; cielo / terra…), diventano coppie di termini indisgiungibili e che solo in una continua circolarità dei significati, riescono a far intravvedere il mistero di Gesù: perché è vero che è un Dio di gloria, ma non della gloria che è tale perché supera o annulla la piccolezza… ma glorioso proprio perché capace di riempire, valorizzare, rinfrancare le cose piccole… Grande, certo, ma nell’amore, che è la forma più radicale di piccolezza; re, indubbiamente, ma di un regno le cui schiere sono formate da tutti gli incompiuti della storia (ciechi, storpi, prostitute, peccatori…)… Non so come dire, ma… bisogna davvero fare la fatica di uscire da un certo immaginario comune e ricostruire i riferimenti / significati delle parole che ascoltiamo, a partire dal senso di cui la storia di Gesù li ha riempiti… Per esempio… parlare di “gloria” non può ancora oggi farci venire in mente gli angeli, o l’incedere di Gesù trionfante, o la sua ascesa al cielo con schiere di cori angelici che lo accolgono… Questo è un immaginario, non più capace di rendere la realtà del dato evangelico… La “gloria” di Gesù credo sia colta meglio, nella sua sostanza più vera, per esempio da sant’Ireneo, quando dice “La gloria di Dio è l’uomo che vive”, o da san Francesco, che chiama perfetta letizia, la capacità di custodire il cuore dolce pur nelle avversità immeritate… Questa è la gloria di Gesù Cristo: che è passato attraverso questa storia senza mai permettere al male di inquinargli il desiderio di amare gli altri, chiunque altro… e di attuarlo per davvero… La sua gloria è la consegna di sé sulla croce per tutti gli altri… Ecco perché Matteo può dire che il Regno di Dio sono gambe storte che si raddrizzano, occhi ciechi che ci vedono, cuori tristi che si ridestano («Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo», Mt 11,4-5), perché questa è la regalità di Gesù… che nessuno dei suoi (cioè ogni uomo) vada perso… Non a caso reinventa anche il modo per dire “divinità”, che da Lui in avanti infatti si chiama (solo!) “paternità”…
Ancora una volta allora, alla fine di un anno liturgico in cui forse ci sentiamo ormai esperti, il problema è rimettersi con giù il crapone a spaccarsi la testa sull’identità del Dio in cui crediamo, e sulla quale non finiremo mai di convertirci… Dunque in qualche modo… ripartire da capo… anche se ogni ripartenza non è mai dal punto zero, perché contiene in sé ciò che nella storia si è sedimentato (ecco perché con domenica prossima ricomincia un altro avvento, un’altra attesa!)…

Ritorniamo dunque a spaccarci la testa sul vangelo… che questa domenica ci mostra una scena di Gesù in croce… scelta – dicevamo – proprio per il giorno in cui si celebra la regalità di Cristo sull’universo…

È una scelta curiosa… che forse noi non avremmo fatto… e che – proprio per questo – deve interrogarci… Cosa vorrà dire questa cosa? Non è che – forse – ci poniamo questa domanda (e non intuiamo in maniera istintiva la risposta) perché ancora una volta siamo caduti nell’errore di pensare al Signore non a partire dalla sua croce (che di fatti pensiamo sempre come un’appendice della sua vita… perché tanto poi è risorto), ma a partire dall’idea di gloria, regalità e potenza che abbiamo in testa noi? Quelle che continuamente ci vengono riproposte dalla logica mondana in cui siamo immersi?

Ma la croce molto più che un episodio della vita di Gesù, è stato piuttosto l’orizzonte di senso della sua vita, il punto prospettico da cui lui si è sempre guardato… Non a caso Gesù non incorre nella croce incidentalmente o per sfortuna… ma perché si consegna… E precisamente questa logica (la consegna come forma mentis) è ciò che lo identifica nella maniera più peculiare: Gesù è (sempre – in ogni atto del suo esistere) colui che si dona per amore… Tutto quello che fa, lo fa così… a partire da quella logica lì…

Ecco perché diventa ancora più pressante – alla fine del percorso liturgico e celebrando la regalità del Signore sull’universo – chiedersi se davvero in questo anno ci siamo convertiti al Dio di Gesù o se siamo ancora inchiodati all’immagine di Lui che abbiamo in testa noi… la cui regalità sull’universo – forse – fa bene a essere temuta da chi ha smesso di credere…

A proposito, scrive Raniero La Valle nel suo libro Prima che l’amore finisca. Testimoni per un’altra Storia possibile, parlando di Carlo Carretto: «A mio parere egli ha posto con radicalità, nel cuore della società contemporanea e secolare, la questione di Dio, e più precisamente la questione: quale Dio. […] È su questo problema che si è costituita storicamente la società moderna, laica e secolare. La laicità non si è costituita sulla tesi Non est deus, Dio non c’è, ma sull’ipotesi Etsi Deus non daretur, anche se Dio non ci fosse. […] E se la società moderna ha deciso di costruirsi come se Dio non ci fosse, l’ha fatto perché quello che le veniva offerto all’atto del suo sorgere era un Dio che non poteva più servire a fondare la sua unità e ad accogliere e accompagnare la sua crescita umana, la scoperta della sua ragione e le attuazioni della sua intraprendenza, ma anzi le era di ostacolo e di divisione. […] Un Dio – e da lui una Chiesa – non più capace di universalità, non capace di aprirsi all’accoglienza magnanima del nuovo che germinava nella storia». Ma chi era questo Dio espulso? Prosegue La Valle: «Era il Dio della guerra, il Dio che rendeva l’uno all’altro nemico, il Dio che veniva dall’alto, il Dio della trascendenza del potere, il Dio che fonda il trono dei potenti e sequestra i tesori dei deboli; era il Dio di cui la cultura moderna dirà che è la proiezione dei sogni di onnipotenza dell’uomo, e della cui trascendenza non un ateo, ma Dietrich Bonhoeffer dirà che non è vera, autentica esperienza di Dio, ma un “pezzo di mondo prolungato”».

È questo il Dio che arriva anche a Carlo Carretto e a tutti i cristiani prima del Concilio Vaticano II: «è ancora il Dio della guerra, il Dio delle leggi assolute, il Dio che allarga le braccia ma non fino ad abbracciare il nemico, non fino ad essere annunziato e riconosciuto come il Dio della misericordia e del perdono. Un Dio nel quale non c’è speranza. E qual era quel Dio, tale era la Chiesa». In proposito in una sua lettera a Wojtyla, Carretto scriverà, ricordando il preconcilio: «Io 40 anni fa, figlio del mio tempo e degli errori del preconcilio, mi sentivo nella Chiesa come arroccato in una fortezza da difendere contro i nemici che mi circondavano da ogni parte; io vedevo la Chiesa come separata dal mondo, come un esercito perennemente lanciato in crociate, come un partito che doveva diventare più forte e schiacciare il nemico. Nemici, nemici, sempre nemici. Ecco il mio apostolato di quel tempo».

Ma allora, com’è possibile rintracciare il vero volto di Dio? «Carretto, attraverso la sua esperienza, arriva a porre la stessa domanda. Chiedersi “quale Dio” non significa cadere nel soggettivismo, negare l’oggettività di Dio. Dio non si esaurisce in una sola immagine, egli non è dato, totalmente dato, deve essere cercato. La stessa Bibbia è percorsa da diverse percezioni di Dio, e non tutte valgono allo stesso modo; ma l’una va presa e l’altra lasciata, man mano che Dio si fa più manifesto e man mano che cresce l’esperienza spirituale dei credenti. È per questo del resto che si parla di un “Dio di Gesù Cristo”».

Ecco perché – forse – alla fine dell’anno liturgico, la Chiesa ci propone proprio il vangelo di Luca che parla di Gesù in croce… Perché lì, in maniera inequivocabile, è posta l’icona più chiara di chi sia il Dio di Gesù e in che senso Egli sia il re dell’universo… Ma è un Dio che ci lascia in silenzio, che non ci abilita a facili proclami, che neanche ci entusiasma più di tanto… perché è il Dio che ci invita a fare della sua logica di consegna, il nostro modo di stare al mondo… che – lo sappiamo fin troppo bene, per questo lo rifuggiamo – è un modo che proprio perché si consegna, è per definizione perdente, è di sua natura votato alla morte (o meglio: a dare la vita per…).

In questo senso è illuminante il ruolo dei due ladroni. Infatti «di fronte alla croce si aprono per tutti le due strade, le due alternative che ci sono dentro ogni uomo. I due delinquenti ci raffigurano tutti, e ci fanno rivivere il dilemma della fede che tutta la vita ci tormenta, di fronte a Gesù. Una voce dentro di noi, che grida nella disperazione (quante volte!) "Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!" [logica della pretesa]. Mentre l’agonia profetica dell’altro delinquente, stranamente trasformato dalla dignità sovrumana di Gesù e fiducioso di poter essere accolto da lui, geme pure dentro di noi: "Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno" [logica della consegna].
Non esiste un potere che non versi il sangue dei suoi soggetti, per mantenersi, perché sarebbe subito perdente! Il potere (allora dicevano ‘la regalità’!) è omicida per costituzione intrinseca. L’unica regalità che quando si afferma fa vincere il vinto è l’amore, ma deve essere appunto “più forte della morte”. Questo ha visto il ladrone in Gesù morente: questa testimonianza inerme l’ha vinto, lui che aveva fatto della violenza l’unica risorsa della vita» [Giuliano].

A ciascuno, come singolo, e a tutti, come Chiesa, alla fine dell’anno liturgico allora è come posta la domanda “Vuoi andare dietro ad un Dio così?”… Una domanda esistenziale, non intellettuale, perché l’arte della consegna la si impara vivendo una quotidianità di consegna, un continuo – momento dopo momento, scelta dopo scelta – rinnegare se stessi per fare un po’ di spazio a chiunque ne abbia bisogno…

sabato 13 novembre 2010

XXXIII Domenica del Tempo Ordinario: La / Il fine della storia: Questione di consistenza della propria vita

Le letture che la Chiesa ci propone per questa trentatreesima domenica del Tempo Ordinario, hanno tutte come punto di riferimento il “giorno del Signore”, con la sua valenza escatologica come (la/il) fine della storia: il libro del profeta Malachia ci parla del «giorno rovente come un forno» che sta per venire; Paolo ai Tessalonicesi se la prende con coloro che a causa di questo giorno, in cui è atteso il ritorno del Signore, «vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione»; e Gesù stesso nel Vangelo di Luca riferisce di una «fine».


Essa, immediatamente, in noi fa risuonare note arcaiche, di paura e grandiosità, di terrore e fragore, di curiosità e trepidazione... Ma se, per un momento, proviamo a lasciare il rimando emotivo immediato, sedimentato in noi dalla storia religioso-affettiva da cui proveniamo, e proviamo a guardare da vicino i testi, scopriamo che l’accento è posto su tutt’altri toni.

Malachia infatti, tentando una descrizione di «quel giorno», sottolinea come esso svelerà la realtà di ciascuno:

- da un lato l’inconsistenza di «tutti i superbi e [di] tutti coloro che commettono ingiustizia», raffigurata dall’immagine della paglia incendiata;

- dall’altro il rilucere della consistenza di chi ha costruito la vita come «cultore» del nome del Signore (come diceva la vecchia traduzione Cei); di chi, in altre parole, l’ha riconosciuto Signore della sua vita.

La prospettiva, dunque, non è quella (in noi automatica, ma anche tanto riduttiva) del giudizio universale inteso come una divisione tra buoni e cattivi, giusti e ingiusti, dabbene e malvagi. Qui – a partire dalla fine – si punta piuttosto l’attenzione sull’oggi… si parla infatti della consistenza della vita, del fondamento su cui la si è posta, della realizzazione di quello che dovevamo essere (figli)... in gioco non ci sono aspetti secondari, sovrastrutture della nostra vita, ma la Vita stessa, accolta («Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia») o rifiutata per vivere di se stessi («superbi») sopraffacendo gli altri («coloro che commettono ingiustizia»).

È dunque sull’orizzonte di senso della nostra vita (di qua) che la liturgia di oggi richiama l’attenzione. E anche le parole di Gesù secondo Luca vanno in questa direzione: non si sta facendo una previsione sulla distruzione del tempio di Gerusalemme, sul ritorno di Cristo risorto, sulla fine del mondo. Il punto prospettico lo si trova alla fine, quando si dice: «con la vostra perseveranza salverete le vostre ψυχας».
La Cei – prima della recente nuova traduzione – rendeva quest’ultima parola col termine anime, così che la traduzione suonava più o meno in questo modo: «con la vostra perseveranza salverete le vostre anime»; ora traduce con vita («con la vostra perseveranza salverete la vostra vita»).

Noi pur prediligendo di gran lunga la scelta della nuova traduzione, preferiamo lasciare comunque il termine originario greco che è meno compromesso. Esso infatti compare circa 800 volte nella Bibbia e spesso è tradotto con persona. È dunque inteso come ciò che indica la sede delle passioni, dei sentimenti, delle emozioni: ψυχη, ha quindi uno spettro semantico molto più ampio di quello che la parola anima (“salvarsi l’anima”) ha ormai assunto nel gergo comune, ed indica la personalità di ognuno. Rende anche meglio rispetto alla traduzione «con la vostra perseveranza salverete la vostra vita», perché quest’ultima mantiene un’intonazione un po’ troppo biologica/fisiologica nell’intendere la vita da salvare… Mentre appunto ψυχη, non è la vita biologica, ma la Vita umana in quanto umana, dunque sensata, riempita, realizzata, umanizzata…

Tenendo presenti queste considerazioni, risulta evidente come la prospettiva di Gesù nel pronunciare quella frase si riferisca al problema della sensatezza della vita, della sua consistenza, dunque della salvezza della singolarità di ciascuno, quella che Etty Hillesum descriverebbe così: «voglio solo cercare di essere quella che in me chiede di svilupparsi pienamente».

Ecco perché quando «la Chiesa rilegge le profezie tragiche del Signore sulla distruzione del tempio, con tutte le sue decorazioni e rifiniture, … e sulla sofferenza e lo stermino di tanta gente del popolo, con carestie, malattie, torture … e nasce nei discepoli sbigottiti l’eterna domanda dell’uomo nella sventura: “Ma allora quando il Regno?”, Gesù non risponde, e attira invece la loro attenzione sul “prima” della fine, perché è questo il momento della nostra responsabilità: il tempo in cui siamo visitati- e anche noi, come Gerusalemme e i suoi abitanti, rischiamo di non accorgerci del passaggio del Signore. Marco, prima che le cose avvengano, dice ai cristiani della prima generazione come attenderlo, in quei frangenti tragici. Luca, dopo che quelle cose sono già avvenute, dice alla seconda generazione e a tutti noi … come attenderlo sempre, in ogni tornante della storia, finché il Signore arriva» [Giuliano].

Innanzitutto nel vangelo di Luca si dice che, per salvare le nostre ψυχας (per cercare – cioè – di essere quello che in noi chiede di svilupparsi pienamente), è necessario seguire la via dell’“impastarsi” nella storia, nella drammatica della storia (non quella della fuga mundi!): «di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta», «sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni», «si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno, e vi saranno di luogo in luogo terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandi dal cielo». È una drammatica che appunto non resta – e non deve restare – tangente rispetto al discepolo, ma lo incrocia e tocca nell’intimo: «metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e a governatori», «sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e metteranno a morte alcuni di voi; sarete odiati da tutti per causa del mio nome».

E nella tragicità di questa storia – unico luogo per la salvezza delle nostre anime, per la costruzione della consistenza delle nostre ψυχας – pochi ma sostanziali punti di riferimento:

1. «Guardate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno sotto il mio nome dicendo: “Sono io” e: “Il tempo è prossimo”; non seguiteli», cioè non c’è un’altra via di salvezza che non sia quella cristica, la sua! La durezza della storia, la sua difficile intelligibilità, il frastornamento che ci provoca, il non senso che spesso ci rimanda, non devono arrivare a inquinare il cuore del nostro dar credito al Dio di Gesù. Ogni altra strada è inevitabilmente illusoria perché parte dall’uomo, anzi, peggio, dalla sua paura di morire!

E infatti, non a caso, la seconda parola che Gesù pone sulla drammatica della storia è:

2. «non vi terrorizzate», non lasciate cioè che a determinare la vostra vita, le vostre scelte, il vostro impegnarvi o meno, il vostro amare o meno, le vostre ψυχας, sia il terrore. Esso è solo mortifero: blocca gli zampilli di vita, chiude gli spiragli di luce, immobilizza il desiderio di appassionarsi, indurisce il cuore, spegne il sorriso…

Sulla base di che cosa, allora, possiamo Vivere e non “morire nel terrore”? Sulla certezza che:

3. «nemmeno un capello del vostro capo perirà». Sulla certezza, cioè, che ciò che fonda la possibilità della Vita è l’assicurazione di una cura, di una presenza, di una vicinanza, di un intreccio possibile con la libertà di Dio!

È quanto anche Paolo ribadisce nella sua esortazione finale: «a questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace», come a dire che nella fede/fiducia nel Signore Gesù Cristo, è possibile vivere nella pace del cuore, costruendo dentro a questa storia (drammatica) – e solo dentro a questa storia drammatica – la nostra evangelica singolarità!

«Mio Dio, prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto e nel modo migliore. Ma concedimi di tanto in tanto un breve momento di pace. Non penserò più, nella mia ingenuità, che un simile momento debba durare in eterno, saprò anche accettare l’irrequietezza e la lotta. Il calore e la sicurezza mi piacciono, ma non mi ribellerò se mi toccherà stare un po’ al freddo, purché tu mi tenga per mano. Andrò dappertutto allora, e cercherò di non aver paura. E dovunque mi troverò, io cercherò d’irraggiare un po’ di quell’amore, di quel vero amore per gli uomini che mi porto dentro. Ma non devo neppure vantarmi di questo “amore”. Non so se lo possiedo. Non voglio essere niente di così speciale, voglio solo cercare di essere quella che in me chiede di svilupparsi pienamente. A volte credo di desiderare l’isolamento di un chiostro. Ma dovrò realizzarmi tra gli uomini, e in questo mondo. E lo farò, malgrado la stanchezza e il senso di ribellione che ogni tanto mi prendono. Prometto di vivere questa vita sino in fondo».

Dal Diario di Etty Hillesum

XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO: LA RISURREZIONE DEI MORTI: CREDIBILE O IN-CREDIBILE?

I testi che la liturgia di questa trentaduesima domenica del Tempo Ordinario ci propone, hanno come tematica centrale quella della risurrezione dei morti, pilastro della fede cristiana, ma anche questione tra le più assenti dalla sensibilità quotidiana del nostro vivere.


In parte forse per una motivazione che potremmo chiamare sociologica, per la quale l’uomo moderno e postmoderno si ritrova disilluso di fronte alla speranza di una vita che continua dopo la morte fisica (siamo tutti figli del razionalismo – che crede solo in ciò che è dimostrabile, misurabile, verificabile – della filosofia del sospetto – che lucidamente ha messo in discussione la religiosità illusoria della cristianità – delle grandi tragedie del Novecento – che hanno proposto con forza la domanda “Dov’è finito Dio?”…), in parte forse per una motivazione personale, nata ai piedi delle bare delle persone più care che lungo gli anni perdiamo per strada, senza che tornino, che si facciano sentire presenti, come se davvero fossero finite nel nulla…

Fatto sta che di fronte al dramma della morte, spesso la reazione più intima è proprio quella dell’incredulità nella risurrezione… Ci facciamo tanti discorsi, proviamo a convincerci – ciascuno nel dialogo profondo tra sé e sé –, ma in ultima analisi ci risulta in-credibile che la morte non sia la fine di tutto, ci risulta una pia illusione la speranza nella risurrezione della carne o perlomeno nell’immortalità dell’anima e ci ritroviamo a ripetere con santa Teresa di Gesù Bambino che sembra che «le tenebre assumendo la voce dei peccatori dicano, facendosi beffe di noi: “Tu sogni la luce... credi di uscire un giorno dalle brume che ti circondano. Vai avanti! Vai avanti! Rallegrati della morte, che ti darà non già ciò che tu speri, ma una notte più profonda, la notte del niente”» (C 278)…
Questa situazione – che i più piccoli tra noi ormai leggono come un’evidenza – non è scevra di conseguenze sul piano della vita dell’aldiqua. Sempre più infatti avvertiamo intorno a noi il bisogno di allungare la vita il più possibile, col grande sviluppo – che è sotto gli occhi di tutti – di una cultura “salutista”, “igienista”, “paurosa” verso tutto ciò che può arrecare danno alla salute, divenuto il primo dei beni da salvaguardare in vita… Un bisogno che vede nella malattia non più un normale aspetto della vita umana, ma ciò che radicalmente la dis-umanizza e dunque va aborrito, evitato, eliminato… Non a caso mentre per i nostri vecchi “ci si ammalava per morire”, oggi “si muore perché ci si ammala”… che non è un gioco di parole, ma quasi la traduzione del fatto che, essendo la malattia o l’invecchiamento (è la stessa cosa) la causa prima di morte, si vive pensando che eliminando o ritardando il più possibile (tendenzialmente all’infinito) questi aspetti della vita, appunto, si possa non morire…

Finendo così per elaborare una cultura che, illudendo le persone su una speranza di vita sempre più lunga, sostanzialmente censura la morte dagli argomenti di discussione quotidiani: ne sono esempio il fatto che sempre più nascondiamo ai bambini questa realtà (non gli facciamo vedere i morti), trovandoci – quando più bambini non siamo e di fronte alla morte inevitabilmente ci ritroviamo – assolutamente spiazzati, inebetiti, inconsolabili… Che è la medesima logica che sottosta agli strumenti mediatici (come i TG o i film), che – certo – propongono continuamente davanti ai nostri occhi scene di morte, ma così rapide e istantanee, che impediscono una vera riflessione in proposito, soprattutto l’acquisizione heideggeriana per cui il problema vero della vita non è che “si deve morire”, ma che “io devo morire”…

Con questi pochi accenni, anche se un po’ velocemente, la situazione odierna pare però ben tratteggiata nelle sue linee fondamentali: la caduta dell’“illusione” della vita dopo la morte; la concentrazione conseguente sulla vita nell’aldiqua, che – dunque – deve essere il più lunga possibile; la censura della questione del morire…

È su questo tessuto sociologico-personale che irrompe il messaggio evangelico («I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui») e il racconto – un po’ leggendario, ma di certo emblematico – dei sette fratelli Maccabei («E` preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati»). Annuncio, anch’esso non scevro di conseguenze per la vita (dell’aldiqua)… basti pensare all’esperienza stessa di Gesù e alla sua consegna alla vita e (poi) alla morte … possibile solo perché alimentata dalla fede che quella consegna – in ultima analisi – era la consegna al Padre, che tutto tiene e custodisce, e dalle cui mani nulla va perso per sempre…

Come sempre, allora, di fronte a questo tipo di problematiche per l’uomo si pone la questione “da che parte stare”, “per quale posizione decidere”, “a cosa credere”… sapendo che la scelta di astenersi – percorsa oggi da troppe persone perché la Chiesa non si faccia carico del problema – è già una scelta…

La cosa interessante è che – a differenza di quel che si pensa di solito, e cioè che da una parte stanno quelli dis-illusi (nel senso di realistici, legati alla mentalità razionalistica, quantificabile, dimostrabile), mentre dall’altra gli illusi (i creduloni, i bigotti) – né l’uno né l’altro versante ha in mano la dimostrazione per la sua posizione: non si può dimostrare che Dio esista e che ci aprirà la vita eterna, certo; ma non si può dimostrare nemmeno il contrario… Per entrambe le posizioni si tratta di “credere in” qualcosa, cioè – ultimamente – di una fede…

La fede dei Sadducei (di ieri e di oggi) ha come base l’osservazione (smagata, dicono loro) della realtà, per cui tutta una serie di elementi testimoniano che Dio non c’è e che la vita finisce nella tomba.

La fede dei cristiani invece si fonda sulla Parola di Dio – anche se è interessante che, soprattutto sul versante cattolico, ancora oggi siamo di fronte ad un’ignoranza abissale da questo punto di vista (sarà anche per questo che non sappiamo più rendere ragione della nostra fede? Tanto che i nostri ragazzi – pur battezzati e cresimati e tutto il resto – accettano senza sobbalzare che “tanto dopo la morte non c’è niente”, come dicono di solito?).

La fede dei cristiani si fonda sulla Parola di Dio, che come ha insegnato il Concilio Vaticano II e in particolare la Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione (Dei Verbum), è, sì, materialmente contenuta nel testo biblico, ma è eminentemente rintracciabile nella vita di Gesù, cioè nel modo in cui lui – vivendo – ha impegnato la sua libertà, ha deciso di sé, ha deciso chi essere…

Ecco perché la credibilità dell’annuncio della risurrezione della carne è da “misurare” sulla credibilità della persona di Gesù… come a dire che è sulla base di quanto riteniamo affidabile (degno di fede) Gesù, che dobbiamo dar credito al suo vangelo, cioè alla buona notizia che non solo Dio c’è, ma è un Padre che vuole la salvezza (cioè la Vita piena) per ciascun uomo… una Vita piena che non ha fine.

Il problema è quindi a questo livello… Quanto valgono, di fronte alle ragioni che porta il sadduceo che c’è in me (o la sua versione post-moderna) e che mi suscita così tanta angoscia, le ragioni di credibilità di Gesù di Nazareth, della sua vita, del suo vangelo? La fede sta tutta qua.

martedì 9 novembre 2010

E io non ci credo che non ci credi

Ho ascoltato questa intervista della Carfagna sul Corriere (con finale comico - se non fosse tragico - sull'operato del governo): clicca qui per vedere il video

Poi ho trovato sul Web alcune informazioni su di lei, comprese queste sue foto... ma se volete una panoramica più esaustiva basta cercare su Google.

E ho capito, perché non ci crede...
E ho capito, perché in Italia è così costosa e lenta la connessione a internet!

lunedì 8 novembre 2010

La Pietra

Nella vita certe coincidenze fanno pensare:

A Barcellona il Papa "inaugura" la Sagrada Familia. Opera (ancora) incompiuta di Gaudì che tra le altre cose è una sfida alla forza di gravità: a guardarla uno non può proprio non chiedersi come cavolo faccia a stare in piedi!

A Pompei il Bondi visita le macerie della Casa dei Gladiatori... e ci si chiede come cavolo abbia fatto a crollare!

Un "presente" che è più di una metafora di futuri possibili!




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