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venerdì 29 ottobre 2010

XXXI Domenica del Tempo Ordinario: Prima la comunione, poi la conversione!

Le lettura che la Chiesa ci propone in questa trentunesima domenica del Tempo Ordinario, sono costellate di “elementi noti” per le nostre “orecchie cristiane” o, comunque, per le orecchie di coloro che sono cresciuti a bagnomaria in una cultura cattolica come la nostra: si parla infatti di peccati, peccatori, conversioni, perdono di Dio…


Ma – come sempre – l’emergere di “fattori conosciuti” porta in sé un grosso rischio… quello cioè di dar per scontata la Parola di Dio, perché – sostanzialmente – ci si ritiene già esperti in proposito… o comunque si ritiene che la “solfa” ecclesiale sul bene e sul male, sull’espiazione e sulla misericordia di Dio sia giunta fin troppo volte a invadere il nostro spazio uditivo, arrivando fin a farci dire “Ne abbiamo abbastanza, sappiamo già tutto!”.

Il punto è che questo “tutto” che pensiamo di sapere e che ci salta in mente istintivamente, quando certi termini ricorrono nei discorsi ecclesiali e – ahi noi l’identificazione! – nei testi biblici, è il risultato di un’operazione logica che associa le parole prima elencate (peccato – peccatore – conversione – perdono di Dio) più o meno in questo ordine: l’uomo pecca, ritrovandosi in uno stato (quello di peccatore) da cui deve uscire – se vuole salvare l’anima o per lo meno l’amicizia con Dio – e, per farlo, deve mettere in atto tutta una serie di cose (pentimento, espiazione, penitenza o, se già morto, le preghiere, le messe, le offerte dei familiari…)… a quel punto non resta che sperare nella misericordia di Dio… che lo faccia deliberare per il perdono.

Questa è la morale che ci hanno insegnato: non bisogna fare il male, perché altrimenti si incorre in una punizione (prima si pensava terrestre, poi – dato che a volte non sopraggiungeva – celeste, cioè l’inferno); se lo si fa, bisogna in tutti i modi porvi riparo al più presto, per evitare che possa capitare di morire in stato di peccato e dunque – appunto – incorrere nel castigo eterno. Da cui la necessità di tutta una serie di atti riparatori che ripristino la possibilità di tornare ad essere guardati da Dio non come dei peccatori da punire, ma come dei pentiti da accogliere con misericordia.

In tutto questo ragionare il ruolo dell’uomo è quello di non fare il male per evitare la punizione e quello di fare il bene per meritare un premio, in un’esistenza che non ha senso in sé, perché unico scopo di questo mondo sembra essere quello di fare da banco di prova per decidere del nostro futuro eterno: se fai il bravo vai in paradiso, se fai il cattivo vai all’inferno, se sei così così vai in purgatorio.

Anche a Dio però in questo quadro non si dà un gran posto… Di fatto, al di là di porre gli uomini nell’esistenza, il suo ruolo sembra solo quello di ratificare l’esito delle varie vite: dire se uno è bravo e meritevole del paradiso oppure no… Sembra addirittura che non sia poi proprio Lui a salvare gli uomini – perché questi, se si comportano bene, si salvano da soli, si meritano il paradiso!

Dentro a questa mentalità – presentata magari in maniera un po’ essenziale (cioè senza i fronzoli che tentano di attenuare i vari passaggi, per renderli meno ridicoli), ma indubbiamente ancora assai diffusa nel pensiero cristiano medio (cioè in quell’imprinting che abbiamo dentro tutti e ci sale alle labbra in maniera automatica) – noi crediamo di sapere il “tutto” della proposta evangelica sul peccato… e dunque evitiamo di tornare a prendere in mano i testi o li leggiamo distrattamente…

Solo che quando invece si decide di far la fatica di andare a rileggersi le letture, ci si accorge che ci son lì due o tre bordate inconciliabili col nostro pre-sapere, cioè con la nostra conoscenza previa della tematica in questione.
Innanzitutto il libro della Sapienza, che di Dio dice: «Hai compassione di tutti», «chiudi gli occhi sui peccati degli uomini», «sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita»… qualcosa di un po’ diverso dal volto di Dio che emergeva nel nostro modo solito di pensarLo in relazione al nostro peccato…

Ma ancora più sconvolgente il vangelo, dove – a ben guardare – è proprio descritta la storia di un peccatore (Zaccheo)… solo che i passaggi che compongono la sua vicenda (pur essendo i medesimi citati in precedenza), sono come assemblati in una maniera fantasiosamente diversa da quella che automaticamente a noi era venuta in mente…

Infatti, anche se il punto di partenza è il medesimo (c’è un uomo che ha peccato – ripetutamente, tra l’altro – e dunque si ritrova nella condizione del peccatore), già il secondo elemento varia… non c’è l’esigenza di uscire da questo stato e dunque di mettere in atto tutti gli escamotage che possano “lavare l’anima”… Zaccheo non sembra particolarmente preoccupato del suo essere peccatore… anzi, quando si presenta sulla scena evangelica è presentato più come un pacifico curioso che vuol vedere chi è questo Gesù che passa per la sua città, che un martoriato peccatore in cerca di espiazione… anzi… sappiamo che è un pubblicano solo grazie al commento dell’evangelista, non perché i suoi gesti o le sue parole o i suoi pensieri lo lascino percepire come un peccatore o quant’altro: «In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomoro, perché doveva passare di là».

Cambiando la prima delle associazioni in gioco nell’elaborazione di una logica che tenga insieme gli elementi della vicenda del peccatore, cambiano inevitabilmente a catena anche tutti gli altri… e di fatti il passo successivo non è la richiesta di perdono di Zaccheo a Gesù, ma il fatto che Gesù decida di incontrare Zaccheo: «Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”». È a questo punto che il peccatore si converte e mette in atto tutta una serie di scelte che lo porteranno a cambiare il suo comportamento: «Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: “Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto”».

Allora… riassumendo…

Il nostro pensiero automatico era: un uomo pecca e quindi diventa un peccatore – ciò lo porta a rischiare di incorrere nell’ira di Dio e nella sua punizione quindi deve convertirsi e fare tutto ciò che serve per espiare la sua colpa – a questo punto può sperare che Dio, nella sua misericordia, lo perdoni.

Mentre il vangelo dice: un uomo pecca e quindi diventa un peccatore – ciò lo porta ad essere cercato dal Signore («Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto») e questa offerta di comunione, accoglienza, benevolenza, scioglie l’interiorità del peccatore, che per questo si converte, contagiato da quel bene che ha ricevuto.

La prospettiva è un po’ diversa… il volto di Dio in gioco è un po’ diverso… ma anche il volto dell’uomo… Il punto è decidere a quale dare credito, sapendo però che non si tratta di una scelta nominalistica (scelgo che etichetta mettere sulla scatola della mia fede ma poi il contenuto è comunque sempre lo stesso), ma di una scelta da cui dipende il mio modo di stare al mondo, di guardare al mondo, di inserirmi in questa storia… da questa scelta infatti dipende come guardo/penso Dio, come guardo/penso me stesso, come guardo/penso gli altri e dunque quali scelte faccio, a quali emozioni decido di dar peso e a quali no, su cosa investo e spendo energie e passione e dedizione e su cosa invece no… sapendo che – come per Zaccheo – il termometro dell’adesione vera alla prospettiva di Gesù è «il cambiamento delle relazioni e la gioia del cuore! È il passaggio da un rapporto di oppressione, competizione, imbroglio reciproco… magari frenato da normative morali e legali, che custodiscono una più o meno sopportabile convivenza … ad un nuovo rapporto conviviale, sbilanciato nella benevolenza sia verso i poveri e i deboli, sia verso chiunque abbiamo fatto soffrire… Una trasformazione inondata di gioia, perché ciò che inconsapevolmente soffoca la gioia dentro il cuore di tutti gli Zacchei che noi siamo, è la sofferenza che il nostro comportamento provoca negli altri, l’indifferenza alla loro sorte, per insensibilità di cuore, o il raffinato disprezzo che nullifica le persone. Il giovane ricco, che non ha avuto il coraggio di condividere i suoi beni con i poveri, come Gesù gli suggeriva, se ne andò triste… non per i propri peccati, che non aveva!... (Quando ci convinceremo che non sono importanti, i peccati, per la salvezza?… anzi nel vangelo sono proprio i peccatori che si convertono a Gesù, provocando gioia perfino negli angeli del paradiso – più che i giusti!). Se ne andò triste, comunque, perché aveva rifiutato di condividere i suoi beni con i poveri. Forse lui non lo sa, ma è la loro sofferenza che lo contagia e gli incupisce il cuore. Ancora una volta non si tratta di doveri morali adempiuti o trasgrediti, si tratta di relazioni umane da liberare e trasformare in amore, perdono e accudimento reciproco… Questa è la salvezza che Gesù è venuto a portare. [E infatti] Zaccheo si è ammalato della malattia di Dio. Questa è la vera causa dello “scioglimento dei peccati”, praticata da questo Rabbi! Zaccheo si è ammalato di compassione, cioè di passione per la vita degli altri, a cominciare dai poveri e da quelli che ha impoverito lui! E’ diventato “amante della vita”, non dei soldi. Perché gli è rinato dentro il vero amore dei viventi. E allora i soldi e i beni sono solo dei mezzi per vivere e far meglio vivere la gente. I capi e i responsabili del popolo e del tempio disprezzavano il pubblicano, ma usufruivano del servizio. Questo Rabbi non lo disprezza per niente, anzi si è autoinvitato a casa sua, tra lo stupore scandalizzato della gente, ma gli ha riempito di gioia il cuore e tutta la casa. Gli ha tolto di dosso per sempre il disprezzo e gli ha cambiato la vita, con questa seconda “celebrazione penitenziale evangelica” che Gesù ha celebrato, con intenso compiacimento e tenerezza. (La prima è stata in casa di Simone il Fariseo (7,36ss), con la prostituta che, anche lei tra il disprezzo dei benpensanti, non ha altro di suo da dargli che profumo e baci, lacrime e carezze… Non a caso sono i due i prototipi di tutti i peccatori che hanno accolto la salvezza e ci precederanno in paradiso!)» [Giuliano].

Ma… se a Zaccheo per uscire da se stesso e dai suoi circoli mortiferi è bastato così poco, cioè che un altro lo guardasse e gli offrisse comunione... e se questa logica è vera anche nella nostra esistenza (quante volte infatti ci basta un altro che ci guarda con benevolenza per tirar su gli occhi dal nostro ombelico...), se, infine, abbiamo un Dio che di fronte al peccato dell’uomo si rivela come colui che «è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto», perché invece quando i peccatori sono gli altri, noi (come chiesa e come singoli) riusciamo solo a tracciare i nostri confini escludenti?

Forse “gli altri” aspettano solo che li guardiamo e proponiamo loro comunione... come Gesù/Dio con Zaccheo/l’uomo…

venerdì 22 ottobre 2010

XXX Domenica del Tempo Ordinario: Il comune impasto umano genera misericordia

Le letture che la Chiesa ci propone per questa trentesima domenica del Tempo Ordinario, vertono tutte sulla tematica di Dio «giudice giusto»… Un Dio che non fa «preferenza di persone»… Anzi un Dio giudice molto diverso e sorprendente rispetto a quello che abitualmente ci immaginiamo.

Solitamente, infatti, noi, di fronte all’idea del Dio giudice abbiamo un’istintiva reazione di paura, di soggezione, di sconcerto per Chi – sappiamo (o crediamo di sapere) – analizza puntigliosamente la nostra condotta, la nostra morale, la buona riuscita o meno della nostra vita e di tutti quegli atti che la compongono… In realtà – almeno così dicono i brani delle letture – questa prospettiva di “aggiustamento” della vita per risultare graditi a Lui, non pare propriamente in linea con quella che la sua Parola propone…
Lo si vede in maniera chiara già nel testo del libro del Siracide, dove si sottolinea come la preghiera più ascoltata, anzi lo sfogo del lamento più ascoltato, non sia quella del “giusto”, bensì quello di chi apparentemente risulta “non riuscito” (l’orfano, la vedova, il povero, l’oppresso…), indipendentemente dalla sua condotta… Un brano, dunque, dove ad emergere non è tanto il volto di un Giudice preoccupato della moralità di chi gli sta davanti, ma piuttosto quello di Chi è preoccupato della ferita (da umanizzare) di chi lo prega.
In proposito, dovremmo tornare a leggere sempre più spesso quello che Teresina scriveva sulla castità (e cito questo esempio perché, ancora oggi, i cristiani abitualmente quando parlano di “morale”, implicitamente fanno riferimento soprattutto alla “morale sessuale”): «É sorprendente come le anime perdono facilmente la pace a proposito di questa virtù! Il demonio lo sa bene: per questo le tormenta così tanto a questo riguardo! E invece non c’è tentazione meno pericolosa di questa. Il modo di liberarsene è di considerarle con calma, non meravigliarsene, ancor meno temerle. Normalmente, al primo attacco, ci si spaventa, si crede che tutto è perduto: è proprio di questa paura, di questo scoraggiamento che si serve il diavolo per far cadere le anime. E invece siate sicura che una tentazione di orgoglio è ben più pericolosa – e il buon Dio ne è ben più offeso quando uno vi soccombe – che quando fa una caduta, anche grave, contro la purezza, perché Egli ha riguardo della nostra natura ferita, mentre per una caduta d’orgoglio non c’è scusa. Però è una caduta – quella d’orgoglio – che le anime commettono spesso e facilmente, senza inquietarsene. Una tentazione di orgoglio dovrebbe essere temuta più del fuoco, mentre una tentazione contro la purezza non può che umiliare la nostra anima e proprio per questo farle più bene che male» [S.Teresa di Gesù Bambino fa questa confidenza a sr Maria della Trinità, che si lamentava con lei degli scrupoli di cui soffriva a riguardo della virtù della castità... CRM pp 86-87].
Ma, tra i testi odierni, è poi soprattutto nella parabola evangelica, che va in crisi l’immagine del Dio giudice che continuamente la nostra mente ci ripropone; un’immagine di Dio che – se è vero quanto diceva il papa e cioè che «Non ogni dio è degno di fede»! – ha bisogno continuamente di essere decostruita (perché questa è la conversione evangelica!) per far spazio – tra le macerie del nostro volto di Dio – al dissotterramento del suo volto, quello che Lui – attraverso suo Figlio – ci ha voluto raccontare.
La parabola è costruita su due personaggi chiave, il fariseo e il pubblicano. Ma dato che per esplicita dichiarazione di Luca, la vicenda è stata pensata appositamente «per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri», la corretta prospettiva con cui guardare al testo è quella di concentrarsi, almeno inizialmente, sul fariseo. Lui è l’efficace caricatura di chi ascolta, di chi legge.
Quel fariseo non è dunque immediatamente da identificare con quelle persone che – nella nostra vita, nella nostra chiesa, nella nostra comunità – noi individuiamo come particolarmente puntigliose nell’osservanza esteriore e legalistica delle norme ecclesiali, morali o cultuali e che hanno (quasi automaticamente – pare dire il vangelo) un innato disprezzo per gli altri che non sono bravi come loro o giusti come loro o osservanti come loro… Ma piuttosto l’identificazione va fatta col fariseo che c’è in ciascuno di noi… Con quella parte di noi che così spesso prende il sopravvento e che – appunto – nelle cose che fa, si sente giusta e – proprio per questo – pensa di trovarsi in una posizione tale (superiore) che gli permette di guardare gli altri dall’alto in basso, con disprezzo. Un disprezzo magari mascherato… dietro al pensiero che se a comportarsi in un certo modo o a costruire un certo tipo di vita «ci è riuscito lui, possono farlo anche gli altri – se ne avessero voglia!» [Giuliano], ma comunque un disprezzo acre nella sua sostanza, nonostante tutti i nostri tentativi postumi di dissimularlo…
I problemi in gioco sono dunque almeno due per noi farisei… e strettamente legati tra loro:

       - Il ritenersi giusti;
       - E il conseguente disprezzo per gli altri (non giusti come noi).

Perché questi atteggiamenti sono considerati problematici dal vangelo? E come si può fare per estirparli dal nostro cuore?

La prima domanda si pone da sé nel momento stesso in cui analizziamo il nostro sentirci giusti… Se faccio qualcosa di buono, perché non dovrei riconoscermelo (che vuol quasi sempre dire, “perché non dovrebbero riconoscermelo”, visto che siam sempre molto più preoccupati del giudizio altrui che del nostro…)? E perché – per altro verso e chiamando in causa l’altro atteggiamento problematico – se l’altro fa qualcosa di male o non fa bene ciò che deve fare, non devo biasimarlo? Perché non ci deve essere questo paragonarsi, mettersi in qualche modo in competizione nel bene, questo correggersi? Non ci sono forse passi biblici che indicano precisamente questa strada?

Come sempre, in questioni di questo tipo, bisogna intendersi sul linguaggio… perché altrimenti, con le stesse parole si rischia di dire tutto e il contrario di tutto e non arrivare mai ad intendersi…

Un metodo efficace per capire dietro alle parole di ciascuno, quale pensiero si nasconde, è quello di provare a immaginare il perché delle sue parole, delle sue domande, dei suoi perché. Cosa lo preoccupa, dove sta andando a parare… in altre parole… quali sono le sue vere intenzioni…

Allora, è evidente che va benissimo il riconoscimento (anche altrui) del bene che faccio e anche la saggia correzione fraterna per il male che l’altro fa, ma il punto è: in vista di che cosa? Faccio il bene per me, per la gratificazione del sentirmi dire “bravo” o perché nel bene che faccio vedo intorno a me che il mondo (o almeno un pezzettino di esso) si umanizza, sta meglio… per dirla come Gesù: perché per qualcuno arrivi il Regno di Dio…? E l’altro perché lo correggo? Perché così dal confronto emerga che io sono “più bravo” di lui o perché nel male che fa, vedo il male che si fa e allora cerco di umanizzargli la sua ferita?

Perché il punto – credo – sta proprio qui… è impensabile paragonare le esistenze e vedere quella “meglio riuscita”… ma non solo perché – come ci insegnano alle elementari – “non si fanno i confronti”, ma perché non è vero che ogni esistenza parte dalle stesse possibilità. E non è neanche vero che due esistenze con pari opportunità (chi sarebbe poi a stabilirlo che sono pari?) dovrebbero avere lo stesso esito… perché non esistono due individualità uguali (non sarebbero più individualità!), ma solo soggetti unici e irripetibili, con le loro storie, le loro ferite, la loro cultura, le modalità di reazione di fronte alle cose che gli si sono introiettate chissà quando…

Allora… è troppo facile stare dalla parte giusta del mondo e dimenticarsi che quella “giustezza” proprio in una piccolissima misura è nostra… è troppo facile condannare chi si separa, quando noi ci ritroviamo in mano un matrimonio riuscito per grazia, o – detto laicamente – perché c’è andata bene e neanche noi sapremmo dire poi perché… è troppo facile condannare il rom che ci rompe al semaforo per chiederci i soldi, quando noi abbiamo ogni giorno da mangiare, chi ce lo prepara e anche tutto il resto in aggiunta…

Cioè, io credo, finché l’altro lo guardiamo come estraneo, cioè non fatto della nostra stessa pasta umana, continueremo a guardare ai nostri privilegi (e anche l’essere giusti lo è!) come a qualcosa di “dovuto”, di “meritato”, dunque nostro; e alle loro disgrazie come qualcosa di loro, altrettanto “dovuto” e “meritato”… ma in negativo…

È questo il retro pensiero delle domande che – un po’ provocatoriamente – ponevo… è il retro pensiero di chi si sente – appunto – giusto! Ma non è la visione del Signore e nemmeno quella di quelle frasi bibliche che invitano a fare il bene (a essere giusti) e a correggere chi sbaglia! Usano le stesse parole nostre, forse, ma intendono tutt’altro… Mettono cioè al centro la parentela del comune impasto umano di cui siamo fatti, la comune figliolanza divina, la consanguineità della matrice con cui siamo generati… non a caso il primo discrimine è razziale (cioè è la messa in discussione di questa fraternità tra gli uomini di tutti i popoli)…

La prospettiva biblica, soprattutto evangelica, infatti, è quella per cui l’altro non mi è estraneo, nemmeno quando è colpevole (non giusto o non giusto come me…)… l’altro è mio e così caro che piuttosto che la sua vita, preferisco perdere la mia… che è la storia di Gesù (che non a caso è venuto ad insegnarci che faccia c’ha Dio e come si fa a essere uomini secondo il sogno di Dio!): «Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» Rm 5,6-8.

Ma come si fa ad accedere a questo modo di stare al mondo, senza che risulti un bel pensiero che ci appiccichiamo addosso, ma che non riesce mai a penetrarci nella pelle e a convertirci la carne?

Beh… sicuramente stando a bagnomaria nel “modo di stare al mondo” del Signore… quindi nella sua Parola, nella memoria della sua carne data per noi, nella relazione personale con Lui… In più… ricordando quanto diceva Teresina («una tentazione contro la purezza non può che umiliare la nostra anima e proprio per questo farle più bene che male»), permettendoci di accedere all’umiliazione (all’essere humus, terra, carne umana strettamente imparentata con quella di tutti i peccatori della storia) non come ciò che ci annienta, ma come ciò che rompe la durezza della nostra giustizia e ci fa accedere alla misericordia per tutti: «O Dio, abbi pietà di me peccatore».

sabato 16 ottobre 2010

Pecunia olet

La merda di Satana? Puzza, puzza, altroché se puzza! Non se ne accorge solo per chi ha il naso (della coscienza) chiuso: Provate a sturarvi il naso e sentirete che fetore…

Ho letto questi articoli – entrambi del Corriere – e non riuscivo a sopportare i miasmi che i cultori del denaro emanano!
In entrambi viene poi il sospetto che tanta acredine verso le “minoranze”, nasconda ben più lucrosa benevolenza verso il loro economico sfruttamento.


XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO: LA PREGHIERA, LA PAROLA E LA CHIESA… L’ALVEO CHE CUSTODISCE LA FEDE PER QUANDO IL FIGLIO DELL’UOMO VERRÀ

Le letture che la Chiesa ci offre in questa ventinovesima domenica del tempo ordinario, sono tutte e tre molto belle e molto ricche e mi pare che riescano – meglio che in tanti altri casi – a tracciare un arco di senso facilmente individuabile e comprensibile, perché molto vicino all’esperienza che anche noi spesso ci troviamo a vivere.

Innanzitutto Mosè… è l’uomo nelle cui mani sta la sorte dei suoi… mani fragili, mani di uomo, mani di un uomo solo… che prima o poi iniziano a pesare.
Anche noi spesso ci sentiamo così – a torto o a ragione – con il peso dei “nostri”, con il peso degli altri, con il peso delle situazioni, tutto sulle nostre spalle… spalle fragili, spalle di uomini e donne… spesso soli…
La Parola ci intercetta qui… nella pesantezza di una condizione che – ci pare – non siamo in grado di sos-tenere…
E ci intercetta con tre grandi sottolineature, che riescono forse a ridarci la forza che lungo i giorni si è logorata… o, se non altro, a ridarci la lucidità con cui guardare alla vita:

1- Innanzitutto la sottolineatura del libro dell’Esodo… Non è vero che siamo soli! Nella comunità di chi ha passione per l’annuncio evangelico c’è sempre un Aronne e un Cur che può sostenere le nostre mani… qualcuno che ci dà una pietra su cui sederci e che “tiene su” con noi le sorti altrui…
Che è stata anche la scoperta del presuntuoso Elia, quando alle sue parole «Io sono rimasto solo, come profeta del Signore, mentre i profeti di Baal sono quattrocentocinquanta», il Signore stesso aveva risposto dicendo, piuttosto ironicamente: «Io, poi, ho riservato per me in Israele settemila persone»… (1 Re 18).

2- La seconda sottolineatura è la parola di Paolo a Timoteo… La parola della saldezza, della fondatezza e della giustezza del nostro essere lì a tener su, per tutti, le mani… una fondatezza (e una giustezza) che, quando le mani iniziano a pesare, è la prima ad andare in crisi… Perché siamo qui? Per chi? Con la smaniosa voglia di lasciar perdere, abbassare le mani e lasciare che tutto vada allo scatafascio, con l’autogiustificazione ingannatrice che “ci stavano chiedendo troppo” e dunque che “era proprio inevitabile lasciar stare e pensare un po’ a noi stessi (alla nostra sopravvivenza)”… E invece Paolo ci riporta (ci butta – forse – un po’ in faccia) il modo giusto con cui guardare la realtà: «Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia»!
Come a dire: “Figlio/a, tu sai perché sei lì a tener su le mani per tutti! Tu sai che sono degni di fede coloro che lì – attraverso questa storia di uomini (e donne) – ti hanno posto. Tu sai che ha una fondatezza ciò in cui hai creduto e che ora ti è andato in crisi… Una fondatezza che, ancora (e sempre), è rintracciabile, mantiene aperto il suo accesso… perché la Scrittura rimane, anche quando chi te l’ha insegnata non c’è più!”.

3- E infine la terza parola, quella del vangelo, «sulla necessità di pregare sempre»… non la preghiera per quel dio che abbiamo dentro (costruito da noi! E che dunque è un idolo!), che assomiglia così tanto al giudice «senza religione e senza pietà» del racconto lucano, ma «La preghiera capace di ottenere tutto da Dio», «quella che ci insegna Gesù: che ha cambiato il volto di Dio in “Padre nostro” – e prima si preoccupa anzitutto di lui, del suo nome, del suo regno della sua volontà… perché questa è la nostra salvezza, affidarsi a Lui» [Giuliano] a cui diamo del “tu”.
Ecco dunque tratteggiato, brevemente, il percorso che le letture ci invitano a fare questa domenica… perché i Mosè a cui pesano le mani, la vedova abbandonata senza più l’appoggio di nessuno, siamo noi!
Siamo noi quelli sostenuti – finora – da un’ostinazione invincibile che adesso invece pare aver perso la sua imbattibilità, per lasciarci nel «l’abbandono della partita, per ateismo o agnosticismo»…
Siamo noi quelli a cui – con il Salmo 41,5 – vien da dire: «Questo io ricordo, e il mio cuore si strugge: attraverso la folla avanzavo tra i primi fino alla casa di Dio, in mezzo ai canti di gioia di una moltitudine in festa». Ma ora…
Siamo noi quelli tentati di fare come «l’Ivan di Dostojevski e restituire dignitosamente a dio il biglietto da visita» dicendo «non mi interessa più, non voglio aver più niente a che fare con lui!»…
Siamo noi quelli che Gesù ha voluto portare con sé, «a questa barriera estrema oltre la quale inoltrarsi, per continuare a pregare…» [Giuliano].
Siamo noi quelli immersi in una situazione che biblicamente si chiama la “prova” e che è radicale proprio perché mette in discussione Dio, il suo volto, il nostro modo di pensare la storia, il giusto e l’ingiusto, il buono e il cattivo, la sensatezza e l’insensatezza… e che il Signore chiama a ri-decidersi per Lui e a non fare come Israele, che ogni volta che ha sperimentato qualcosa che mandava in crisi l’idea che si era fatto di Dio, passava a qualcun altro, costruendosi vitelli d’oro…

Ecco perché le sottolineature così pressanti sulla necessità della preghiera, della Parola e della Chiesa, come alveo da cui non sottrarsi quando il germe della sfiducia, della stanchezza e dell’insensatezza si insinua nei nostri interstizi e inizia a rodere le fondamenta del nostro essere… Perché la prova in cui la vita mette l’uomo, non si trasformi nella prova in cui l’uomo mette Dio, che – non a caso – in queste situazioni viene identificato immediatamente con il giudice sordo della parabola, o con colui che ci lascia soli a tener su le mani per tutti… comunque quello della cui parola si inizia a diffidare…

«… a meno di prendere l’altra strada, suggerita da Gesù : cambiare il volto di Dio!» [Giuliano], anzi ri-accedere a quello autentico, tornare a sbilanciarsi con fiducia verso il volto di Dio a cui la Parola dà una fondatezza e al quale – come dice un bellissimo canto liturgico - «A te fratello chiedo di credere con me…».

venerdì 8 ottobre 2010

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario: Il circolo della riconoscenza

Il vangelo che la Chiesa ci propone per questa ventottesima domenica del Tempo Ordinario, ha come oggetto il racconto di un miracolo. Un miracolo che per molti aspetti ricalca lo “schema” consueto con cui questi segni di Gesù (cioè queste modalità gestuali con cui annuncia il Regno) sono solitamente narrati; ma anche, un miracolo, che viene raccontato con qualche particolare “variazione sul tema” e che proprio per questo suscita particolare interesse: è il racconto di un miracolo, certo, come ce ne sono tanti nei vangeli… eppure è un racconto sui generis, non classificabile con troppa leggerezza come uno dei tanti miracoli di Gesù.


Proprio per questo proviamo a ripercorrere il testo lucano con ordine, in modo da recuperare il senso sia degli aspetti comuni del “tema-miracolo” – che, non perché sono comuni, vanno per questo sottovalutati –, sia delle singolarità di questo racconto di miracolo.

Innanzitutto la contestualizzazione: siamo al capitolo 17 del vangelo di Luca, i versetti 11-19; e come ci ricorda l’evangelista stesso ci troviamo «Lungo il cammino verso Gerusalemme». Siamo cioè in quella sezione del vangelo di Luca che organizza il materiale, di cui l’evangelista è in possesso, secondo il canovaccio del viaggio verso Gerusalemme: un viaggio iniziato al capitolo 9,51 (con la celebre espressione: «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione [indurì il suo volto] di mettersi in cammino verso Gerusalemme») e che sta ormai per giungere a compimento (Lc 19,28). Un viaggio che ha visto – appunto – lo snodarsi di molte delle vicende più importanti della vita pubblica di Gesù (parabole, guarigioni, insegnamenti, contrasti, ecc…) e che ora è testimone di questo incontro con i dieci lebbrosi, che – come dice il testo – «si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!”».

Questo loro comportamento (fermasi a distanza e urlare) – che a noi potrebbe sembrare strano – in realtà è in perfetta consonanza con la legge ebraica in materia di lebbra (cfr. capp. 13-14 del libro del Levitico), la quale in particolare in Lv 13,45-46 sancisce: «Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento».

Ma anche la reazione di Gesù (che «appena li vide, disse loro: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”») è rispettosa della legge, la quale prescriveva in caso di guarigione l’obbligo di presentarsi ai sacerdoti perché quest’ultima fosse certificata: «Questa è la legge che si riferisce al lebbroso per il giorno della sua purificazione. Egli sarà condotto al sacerdote. Il sacerdote uscirà dall’accampamento e lo esaminerà…», Lv 14,2-3 + tutti i versetti seguenti che indicano la ritualità sacrificale per la riammissione del lebbroso – ormai guarito – nell’accampamento). Si tratta, dunque, semplicemente di «un retaggio dell’antico Israele, quando il sacerdote fungeva anche da ufficiale medico: solo lui poteva attestare la guarigione e il reinserimento di un lebbroso» [P. Curtaz].

Fin qui dunque, niente di particolarmente significativo, se non il fatto che, a differenza della mentalità dei suoi contemporanei, Gesù non considera coloro che sono affetti da lebbra come dei maledetti, degli impuri da evitare o come peccatori castigati. Li accosta e li guarisce (lo aveva già fatto – secondo il racconto di Luca – al cap. 5,12-14). Per lui non ci sono persone da escludere, persone che debbano fermarsi a distanza (cfr. B. MAGGIONI, il racconto di Luca, p. 301).

A ben guardare però, qualcosa di incongruente con la tradizione ebraica c’è: Gesù invia i dieci lebbrosi al sacerdote prima di guarirli (e non dopo averli guariti, come prevedeva la legge)! Essi infatti «mentre andavano, furono purificati»…
Questo dettaglio apre ad un duplice ordine di considerazioni: innanzitutto l’emergere di un elemento costitutivo della struttura dei miracoli di Gesù. Essi non sono mai gesti di dimostrazione fatti per catturare l’attenzione e la fede (la credulità) della gente – come invece troppo spesso il sentire comune ancora oggi rilancia –, bensì gesti che presuppongono la fede, cioè la fiducia nella persona di Gesù (non a caso li invia – cioè, spazialmente parlando, li allontana da sé, li manda via… essi devono dunque fidarsi che qualcosa accada poi, quando Gesù non è nemmeno più con loro). Gesti che dunque non mostrano solo e non mostrano tanto la potenza di Gesù, quanto la sua straripante benevolenza per l’uomo: è un altro modo (oltre a quello verbale) di annunciare il Regno, che infatti non è che la liberazione dell’uomo dal male (cfr. Mt 11,2-6, dove a Giovanni Battista che dal carcere manda i suoi discepoli per chiedere a Gesù se era davvero Lui colui che doveva venire, Gesù risponde elencando ciò che accade dove Lui passa, cioè dove il Regno arriva: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!»).

In secondo luogo, il fatto che i dieci lebbrosi vengano purificati mentre andavano, porta a riflettere anche su una modalità di guarigione apparentemente anomala, eppure forse molto più consueta, rispetto a quella del gesto miracoloso puntuale. Scrive ancora P. Curtaz: «Anche a molti di noi accade di guarire per strada»… Anche a noi capita di guarire strada facendo… Che è una considerazione che forse, istintivamente, rifiutiamo (perché pensiamo che, se manca la extra-ordinarietà di ciò che provoca il cambiamento della nostra situazione, non si può parlare di “intervento divino” e perché poi – in fin dei conti –, se non c’è extra-ordinarietà, il merito è mio, non di Dio…), ma che in realtà rimanda allo statuto più autentico del rapporto dello spirito umano con lo Spirito di Dio. Questi due attori infatti agiscono e inter-agiscono molto più nelle trame (lente e viscose) della storia, negli interstizi bui della quotidianità che scorrendo costruisce la nostra esistenza, nella consistenza umana che ci ritroviamo tra le mani man mano che passa il tempo, piuttosto che negli interventi estemporanei operati da qualche potenza soprannaturale.

Comunque, al di là delle nostre considerazioni, e tornando al vangelo… ai “nostri dieci” capita di essere purificati mentre andavano. E qui accade l’inedito della vicenda – ciò che non rientra né in qualcosa che ha a che vedere con la tradizione ebraica, né con la consueta “struttura-miracolo” dei vangeli: «Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano». Dove ciò che crea discrepanza sono – nuovamente – due elementi: il fatto che solo 1 su 10 torni a ringraziare e il fatto che quell’uno che torna sia un samaritano. Elementi per altro ravvisati entrambi dalle stesse parole di Gesù: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». Con la frase finale «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!», che – posta proprio dopo la guarigione di tutti e 10 i lebbrosi – mette immediatamente in luce come Gesù sottolinei una differenza decisiva tra “guarigione” e “salvezza”.

Dunque dieci sono stati sanati, ma uno solo salvato… e quell’uno – l’unico tornato a ringraziare – è un samaritano, uno straniero, un eterodosso, un nemico… percepito allora dagli uditori di Gesù come oggi noi italiani (in specie del nord) percepiamo i rumeni, per intenderci. In effetti è come se Luca andasse da un enclave leghista e dicesse che su 10 persone guarite, le 9 padane se ne sono andate per la loro strada (forse a fare una ronda?) e l’unico rumeno del gruppo è quello che è tornato a ringraziare e per questo non è stato solo guarito, ma salvato!

Capite come le coronarie del pubblico siano messe a dura prova… Ma l’impatto emotivo è vincente, perché fa dire a chi ascolta: “ma porca miseria! Noi che siamo i vicini, quelli che dovevano capire tutto, che sanno la bibbia a memoria, che non possono farsi passare il messia sotto il naso senza neanche accorgersi che era lui… ci siam fatti fregare da ‘sto samaritano/rumeno che non va al tempio/in chiesa, appartiene ad un’altra cultura (sottinteso: inferiore) e solitamente non è proprio un cittadino rispettabile…”.

Ecco ciò che accade e che in una certa misura stupisce anche Gesù, che non a caso più volte “ha il pallino” di fare l’esempio col samaritano/a: accade che a volte è più capace di accedere al senso vero di ciò che avviene, qualcuno che non ha lo strumentario (culturale, razziale, religioso…) che noi riteniamo adeguato, rispetto a chi invece ha tutte le carte in regola (la fedina penale apposto, quella ecclesiale linda con tutti i bolli dei sacramenti ricevuti, un matrimonio apposto, un buon lavoro, ecc…).

E questo è insieme un grande monito… per chi si mette tra i giusti, tra quelli “apposto”, tra gli ortodossi… tra quelli che “c’hanno ragione loro…”… (siamo noi, al 90%!).

E un grande conforto, per “tutti gli altri”… perché ci ricorda che per fortuna i pensieri del Signore, non sono i nostri pensieri e le nostre misure non sono le sue misure…

Infine l’ultimo punto rimasto da sviscerare… perché, certo, quello che torna è un samaritano… ma resta il fatto che samaritano o no, qui ne è tornato solo 1… E gli altri 9?

Ma siamo sicuri che la domanda giusta sia chiedersi dove sono andati a finire gli altri 9? Perché a ben guardare non è che hanno fatto qualcosa di diverso da quello che gli aveva detto Gesù… il quale non li aveva invitati a tornare… e non si capisce nemmeno bene – dal testo – perché Gesù se ne risenta…

Forse la domanda più corretta è quella che si chiede: Perché questo è tornato? Perché non gli è bastata la guarigione, ma ha avuto voglia/bisogno/desiderio di tornare dal guaritore… di tornare a vedere la faccia di quello là che dicendogli di andare per quella strada, ha avuto ragione e gli ha regalato la guarigione?

Forse perché ciò che quest’uomo cercava, andando da Gesù, non era solo una cosa, un bene fisico, pur nella sua valenza sociale… ma forse cercava Qualcuno che gli restituisse l’umanità che la lebbra (e la mentalità del tempo) gli avevano tolto. Questo – forse – a differenza degli altri, lo porta ad accedere al circolo della riconoscenza. Infatti: «Come in un bambino, perché scatti la scintilla della coscienza di sé, della memoria autobiografica, ad un certo punto non bastano più le carezze rassicuranti sulla pelle. Ci vuole un volto cui affidarsi per entrare in dialettica con “lui”, e scoprire un “tu”, che faccia nascere e individuare i contorni dell’io… Così per diventare “credenti”, discepoli di Gesù, ci vuole la ri/scoperta di un volto… che ti ha salvato e ti rigenera. Perché in quel volto amico si ridisegna la propria identità e il senso della propria vita. È la riconoscenza! Il balsamo che lenisce le malattie del cuore, apre un’uscita di luce dai propri abissi, fa compagnia alla solitudine angosciosa delle crisi di panico, disinquina i complessi di colpa… È la ri/conoscenza (gratitudine) che scoppia dalla gioia di aver scoperto l’affetto che ti ha guarito – perché? – gratis, per niente, per amore… Solo così si entra nel circolo virtuoso di comunione» [Giuliano] in cui a ciascuno è garantito lo statuto umano del suo esserci.

sabato 2 ottobre 2010

XXVII Domenica del Tempo Ordinario: «Siamo servi inutili»

«Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: “Violenza!” e non salvi? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?».


Questo il terribile incipit delle letture che la Chiesa ci offre per questa ventisettesima domenica del Tempo Ordinario. Una serie di domande che lascia ammutoliti tanta è la densità della problematica che porta a galla…

Quante volte anche noi, di fronte al male – al male del mondo, al male del nostro mondo – ci ritroviamo con le stesse angosciose (e forse rabbiose) parole: “Perché?”, “Fino a quando?”. Dove la tentazione non è tanto quella (banale) di non credere più a Dio (che pare appunto spettatore muto – indifferente? – delle nostre e altrui sofferenze radicali), quanto piuttosto quella di rinunciare a credere alla sua (e nostra) possibilità di dare senso alla vita, e dunque – di conseguenza – di rinunciare alla Vita stessa… non solo nella forma estrema del suicidio fisico, ma in tutte quelle altre modalità suicide a cui la mancanza di un senso ci induce: la rinuncia all’impegno, lo scoraggiamento (che non a caso santa Teresina, che festeggiamo proprio in questi giorni, diceva già essere peccato, perché contiene in sé il germe dell’infedeltà, cioè della sottrazione di fiducia, di credito dato al Padre), l’avvilimento, la durezza, il cinismo…

È proprio a questo livello che il male fa male: il problema infatti non è tanto (non è solo) il dolore fisico, la sofferenza morale o il dramma esistenziale… a questo livello il problema non è nemmeno la morte (propria o altrui)… ma ciò che tutto questo chiama in causa rispetto al “Cosa siamo qui a fare?”, al senso di tutto ciò per cui impegniamo ogni giorno le nostre energie, le nostre passioni, il nostro tempo, la nostra intelligenza… appunto… è il problema del senso della vita, della sua giustizia. È lì che il male mette il suo pungolo e inizia a rosicchiare la nostra sicurezza, la nostra baldanza, la nostra determinazione, il nostro “andare avanti”… Se si muore, che senso ha vivere? Se la sofferenza dilaga, che senso ha il mio impegno? Se tutto finisce, perché iniziare?
È dentro a questa situazione, fin troppo nota per doverci calcare la mano, che giunge la sorprendente parola profetica – «Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette, perché la si legga speditamente. È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà. Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede» – cui fa eco, nella seconda lettura, san Paolo: «Figlio mio, ti ricordo di ravvivare il dono di Dio […], uno spirito di forza».

A fronte del rapido sgretolamento della nostra consistenza che il male mette in atto, la risposta della Scrittura è l’energica parola di Dio, che chiede che gli si presti fede: «È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà», «Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio […], uno spirito di forza».

Di fronte al crollo della sensatezza cui il male radicale condanna l’uomo (soprattutto l’uomo moderno e post-moderno, quello per il quale il pungolo del dubbio su Dio fa ormai parte del patrimonio genetico), ciò che si sente è una parola forte… è il richiamo di un Altro – dimenticato nell’angosciosa disperazione che avviene nell’uomo tra sé e sé – a una saldezza impossibile da conquistare, ma raggiungibile nella consegna alla Sua parola.

Non si esce dal dramma dell’insensatezza: è impossibile per l’uomo fondare la propria consistenza. Ma nella fiducia alla parola di un Altro (che biblicamente parlando non è mai né una fede cieca, né una richiesta di dimostrazione, ma sempre la rivelazione di una credibilità di fronte alla quale decidersi) sì: lì diventa possibile una fondatezza, una solidità, una fortezza.

Ecco cosa chiedono i discepoli: «Accresci in noi la fede!». Infatti «solo finché è sonnolenta e superficiale ed estranea alle passioni profonde, la fede non ha problemi, non ha crisi, perché fa solo da vernice protettiva ad una dinamica impersonale, fondata su dottrine o valori o convinzioni impermeabili… funzionali all’io. Chi frequenta i sotterranei bui dell’anima propria e altrui, sa che lavora sul baratro tra speranza e disperazione e rischia molto, per sé e per gli altri (come gli infettivologi o i radiologi nel loro mestiere…). E allora, quando si smontano i pezzi delle nostre costruzioni, e vanno in frantumi le torri delle nostre aspettative, fondate sulla sabbia, quando attorno a noi la gente si svuota dentro… allora ci va in angoscia, si arriva al limite del proprio equilibrio - e sgorga la preghiera disperata verso Lui, dal profondo dell’anima, dalle ceneri della nostra fede ormai spenta: (letteralmente) aggiungi fede! perché la nostra ha esaurito le sue possibilità» [Giuliano].

Ma perché proprio a questo punto l’evangelista sceglie di mettere quelle parole sul servo inutile?

Perché, cioè, proprio nel momento in cui ciò che emerge dalla trama della vita dei discepoli è l’esaurimento delle possibilità della propria fede, tanto da chiedere disperatamente di accrescerla, Gesù fa un discorso apparentemente così duro? Sostanzialmente: perché quando i suoi (noi?) hanno bisogno di gratificazione, usa parole ruvide? Perché in un momento di vuoto, cita un esempio stroncante?

Forse perché vede meglio di tutti… o – diremmo noi col linguaggio di oggi – “conosce i suoi polli”…

Il passaggio logico che forse il testo lascia implicito è questo: a fronte del discorso che abbiamo fatto, immaginiamoci il proseguimento della vita di colui che decide di dar credito a quello spirito di forza di cui parla Paolo; immaginiamoci di noi, che dentro alla tentazione dell’insensatezza che il male ci instilla troviamo la consistenza di una Parola a cui af-fidarci… Cosa vediamo?

Certo la rinascita interiore, la luce che penetra negli interstizi delle nostre tenebre, l’ossigeno che torna a dilatare i nostri polmoni… ma insieme anche l’ostentazione della nuova sicurezza, la presunzione di essere finalmente “apposto”, l’irriducibile prerogativa di essere i difensori della verità, la prevaricazione sulla libertà altrui… Dove al centro torniamo ad esserci noi e non Colui che è la Parola affidabile del Padre…

Ecco il perché di quella frase (apparentemente) dura di Gesù: «“Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”»… perché la ri-focalizzazione su ciò che dà senso, su chi è a fondamento della sensatezza della nostra vita è un’operazione sempre da ri-attuare. Noi «siamo servi normali! senza nessun merito. Sembra una espressione dura, che lo schiavo lavori nei campi e con le pecore, e poi torna a casa di corsa e prepara cena per il padrone, lo serve a puntino… e poi finalmente, se gliene avanza il tempo, mangia qualcosa anche lui (gli avanzi). E invece, è normale! chi non ha conosciuto qualche mamma, che allo stesso modo, dopo aver fatto tutto il lavoro e servito da mangiare a tutti … se le domandi: come fai a resistere? ti risponde: Così è una mamma! non ho fatto niente, se non quello che dovevo fare. Così, nella nuova comunità cristiana che il Signore sogna per i suoi discepoli, dovremmo aver imparato a fare tutto “perché siamo di casa”» [Giuliano] e lo siamo “per grazia” (non per merito: e questo dovrebbe generare benevolenza…), così come “di casa” sono tutti coloro a cui l’affidabilità di quella parola non ha ancora convertito la vita e di cui noi – con la tenerezza, che sola rende ragione del messaggio che ha da portare – siamo i servi, perché anche loro non si “suicidino”, ma Vivano.
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