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giovedì 26 agosto 2010

XXII Domenica del Tempo Ordinario: Tra umiltà e gratuità la paura di innamorarci

Il vangelo che in questa ventiduesima domenica del Tempo Ordinario ci viene offerto dalla liturgia, mi pare ruoti intorno a due grandi fuochi, forse i due veramente centrali dell’esperienza di Gesù: l’umiltà e la gratuità…


E allora, facendomi aiutare da qualcuno che su queste cose c’ha giocato la vita, provo a dirne due parole anch’io…

Innanzitutto l’umiltà: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».

Sarebbe però davvero banale e banalizzante leggere o – peggio – pensare di “attuare” queste parole mettendosi all’ultimo posto col desiderio di cercare il primo… Il punto di vista di Gesù non è infatti quello di tracciare una via per arrivare al primo posto – dando come suggerimento quello di mettersi all’ultimo (il cristianesimo invece è fin troppo inficiato da questo finto perbenismo, da questa maschera petulante di costruita remissività che in realtà punta solo, in maniera cinicamente metodica, al primo posto per sé o al massimo per i propri cari – nell’aldiqua e nell’aldilà) – ma, come sempre, è quello di tentare di ribaltare una logica mondana!

Scriveva Giuliano: «L’umiltà non è una virtù! … difficile definirla come tale, perché uno non può proporsela come obiettivo cui mirare, altrimenti vuole essere qualcosa di grande, vuole raggiungere qualcosa di gratificante: l’uomo non deve tendere a niente per se stesso, nel senso che non ha in mano il disegno su di sé ! Se no sta ricercando in qualche modo un primo posto. Se vuole crescere, deve piuttosto cercare dentro di sé il posto dell’amore, il posto di Dio. E scopre presto che, di sicuro, il posto dove mettersi non è quello che ha pensato e progettato. È piuttosto l’ultimo, al servizio di tutti, come il figlio dell’uomo che è venuto non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita... Perché, amare è dire all’altro: stai prima di me! Chi “vuole” essere umile, si attorciglia attorno a sé. Non si può essere umili, se non per un’altra passione che nasce “dentro”, più grande che l’amore di sé: è il volto dell’altro, preferito al proprio, perché più valido a nutrire la tua gioia e compiutezza, capace di liberarti dalla paralisi del tuo narcisismo infantile, ridicolmente indaffarato tutta la vita a far girare il mondo attorno a te … Ti deve per forza capitare la grazia di rompere lo specchio della tua immagine, incessantemente rielaborata dentro di te, cioè innamorarti… e così ritrovarti all’ultimo posto (o in qualsiasi altro) con dentro nel cuore il tuo proprio “vero volto” ridisegnato da altri, da chi ami – da chi ti ama [non a caso per la Santa Madre Teresa di Gesù, l’umiltà è “conoscere e camminare nella propria verità”]! E trovi la tua gioia nel servire la crescita di bene dell’altro… Allora tutte le vicende mortificanti della tua storia, non fanno male più di tanto, nessun’altra arsura ti può distogliere da questa pur minuscola sorgente di senso, che sei riuscito a disseppellire sotto le macerie del cuore : chi beve dell'acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l'acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna (Gv 4,14)».

Ecco perché – nel vangelo – le parole sull’umiltà sono immediatamente seguite da quelle sulla gratuità («Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti»), perché in gioco non vi è l’ideale virtuoso dello stoico mortificarsi per apparire grandi (primi!) davanti a Dio e agli altri, ma il tentativo (sempre da riprendere) di decentrarsi da sé per far spazio agli altri!

In questo senso i poveri sono indicati come i migliori invitati: non perché vi è in causa un’analisi sull’ingiustizia dell’emarginazione e sulla giusta (da primi della classe!) elemosina che noi possiamo fare, ma perché sono quelli che non ti possono dare il contraccambio! Ecco il punto: finché si sta nella logica della ricompensa non si ha ancora avuto accesso alla prospettiva che Gesù qui tratteggia: non si tratta di essere umili (ultimi) per avere in contraccambio il primo posto; non si tratta di essere buoni con gli altri per guadagnarne in contraccambio stima, rispetto, considerazione, “punti paradiso”… Ma di ribaltare la prospettiva.

«Schematicamente si possono distinguere due atteggiamenti religiosi qualitativamente diversi, che si possono contraddistinguere con le categorie di “contraccambio” e di “gratuito” – anche se poi nella storia della salvezza, come nella vita di ognuno, si mescolano. E così riusciamo a consegnare la nostra povera fede al Padre solo come risultato di una lunga e mai terminata purificazione della fame di gratificazione, di riposta immediata, di contraccambio della nostra ambigua dedizione a Dio e al prossimo.

… nella religione del “contraccambio”, infatti, predomina la ricerca del proprio bene, perché si è nel bisogno, nella debolezza e nel peccato, perché il mondo è pieno di male, mentre anche noi siamo incapaci di bene libero, fatto perché è bello farlo… Ma lo si fa piuttosto perché è dovere, e, in fondo a tutto, perché si deve morire! Si passa magari tutta una vita a cercare di essere bravi… e poi ce n’è sempre uno più bravo e più “ragguardevole” di te (lo guardano di più!), che ci passa avanti e ci lascia l’amaro nel cuore o ci avvelena la vita. […]

… la religione del gratuito (una voglia di amore e amicizia!) … sarebbe, invece, andare furtivamente dallo sposo, invece di amareggiarci per competizioni e precedenze, per dirgli : stai bene? hai bisogno che faccia qualcosa per aiutarti, per il pranzo? Perché, nella religione della benevolenza ricevuta e donata, si fanno tutte le cose che si devono fare, con tanta passione e senza competizione…Ma si anela, si cerca, si crede in una misteriosa presenza nella nostra vita quotidiana e nel mondo – una “presenza” (vera! anche se sempre troppo assente!) di amore, di tenerezza, di solidarietà sofferente, una presenza che Gesù chiama “Padre”! […]

Questo è il discorso difficile della fede, cioè di chi è invitato alle nozze del figlio di Dio, che nelle varie vicende della sua storia, ci insegna a prender atto della nostra umanità, sempre troppo intrisa di egocentrismo, per diventare veri discepoli di Gesù e capire come camminare nel viaggio della vita, che qualità di relazione con lui ci è proposta, quale scarnificazione ci toccherà subire per vincere l’istinto che ci spinge incessantemente a occupare sempre una poltrona più avanti e a guardare in cagnesco chi ce l’ha sottratta…» [Giuliano].

Ma a noi questa scarnificazione fa paura e spesso preferiamo tornare a consolarci all’interno della logica del contraccambio, compiacendoci di quanto siamo buoni (perché anche l’io – se serve – sa essere buono!)… O forse – più semplicemente – abbiamo perso il coraggio di innamorarci.

sabato 21 agosto 2010

La porta stretta della conoscenza del «dove»

Incomunicabilità
(dal sito http://www.giovannirapiti.it/)
Una delle cose che mi riempiono di fiducia nella presenza dello Spirito Santo è constatare la genialità (inconscia?) con cui il liturgista ci propone l’accostamento delle letture. Così esse assumono una luce nuova e ciascuna aiuta la comprensione dell’altra… Per questo oggi la prima lettura assume un ruolo discriminante per cogliere in profondità l’annuncio nuovo della liturgia che la chiesa ci propone, soprattutto nel compimento evangelico.

Infatti apparentemente, leggendo il brano di Isaia che ci è proposto, noi ricaviamo un sentimento di consolazione per la salvezza universale… Questo è certamente vero, almeno per noi, ma se poniamo il brano nel suo contesto, le cose cambiano non poco e notiamo che questa parola non ha minimamente una intenzione consolante ma semmai per coloro a cui è destinata, doveva risuonare come un rimprovero acerrimo!
Precisamente, il brano in esame che conclude tutto il libro di Isaia, e precisamente la terza parte, detta del Terzo-Isaia, che fu un discepolo (o discepoli) della scuola isaiana (che resta quindi storicamente sconosciuto, si sa solo che ha vissuto due secoli dopo il profeta Isaia storico del sec. VIII a. C.), si pone in contrasto con il primo gruppo degli esiliati a Babilonia che ritornano a Gerusalemme (537 a.C.), i quali si considerano dei privilegiati – perché a loro era data la possibilità di sperimentare l’antico esodo – fino a disprezzare coloro che erano rimasti in Palestina e non erano mai andati in esilio. Il brano si riallaccia a Is 56,1-3 dove, lo stesso autore, già introduce il tema del ripudio da parte di Dio di coloro che si credono puri e santi: nel Tempio di Gerusalemme (!) entrano stranieri e pagani per celebrare la liturgia con la stessa dignità di Israele.
È importante sottolineare che il discorso non è rinviato alla fine dei tempi, ma intende parlare concretamente dell’«oggi» storico della storia di Israele. Se dal punto di vista teologico noi sappiamo che la piena realizzazione di questa parola appartiene alla Storia di Dio e alla realizzazione del suo regno, la valenza “inaudita” di questo brano sta tutta nella espressa volontà di Dio che tutto ciò accada nell’«oggi» di Israele: infatti ciò che si compie alla fine dei tempi, può compiersi solo se ha avuto un inizio nell’oggi della storia!

Un brano quindi che per noi “pagani” suona di consolazione, non doveva suonare così per i suoi originari destinatari… Ora è quest’ultimo l’insegnamento originario e rivelativo del brano: la necessità di superare una visione meschina della fede, che vuole “l’altro”, il diverso (colui che ha una “storia” diversa dalla nostra), il non fedele, il non puro… escluso, non tanto dalla misericordia di Dio, ma escluso dal culto “attuale” nel “tempio di Gerusalemme”: dalla sua stessa liturgia.

Il brano acquista così una valenza tutta nuova e di grande provocazione per noi “fedeli” nell’oggi della nostra storia italiana, europea e occidentale… Noi che ci crediamo gli autentici depositari della fede e i veri araldi del vangelo… fino a impedire “agli altri”, agli “stranieri” (di coloro che hanno una storia e quindi una cultura diversa dalla nostra), di …vivere la loro liturgia nel nostro tempio.

Insomma, l’autore della terza parte del libro di Isaia, che ha vissuto la deportazione dell’esilio, ha sviluppato i grandi temi del profeta Isaia capovolgendo questa prospettiva “autoreferenziale” e auto-assolutoria della fede. Nella sua prospettiva – in aperta polemica con i confratelli che ritornano dall’esilio babilonese – l’esilio a Babilonia, lungi dall’essere un privilegio è semmai il segno del rifiuto di Dio perché esso è stato la conseguenza del peccato e del ripudio di Dio, come il ritorno è frutto solo della sua misericordia.

È a questa prospettiva – peccato/punizione, liberazione/misericordia – che attinge anche il discorso dell’autore della seconda lettura, che come sappiamo è un giudeo convertito e ancora legato ai propri schemi culturali e cultuali e che la riflessione più cristocentrica della comunità credente (lo stesso vangelo di Luca nel brano di oggi), risolve piuttosto – soprattutto nel primo binomio – nella responsabilità personale dell’uomo: Dio non punisce nessuno, piuttosto è l’uomo che si autodistrugge nel non accogliere il progetto di giustizia del Padre.

Coloro pertanto che tornano da Babilonia nonostante la lodevole iniziativa di voler ricostruire la città santa e il tempio, non possono considerarsi degli avvantaggiati (anche se storicamente rivivono le gesta degli antichi fuggitivi dall’Egitto), ma devono fare penitenza e riconoscere il “castigo di Dio” come strumento purificatore della fede.

Al contrario, quei popoli considerati impuri, chiamati sprezzantemente “genti” (goìm), ora portano offerte in «vasi puri nel tempio del Signore» (Is 66,20) e quindi sono abilitati a celebrare la liturgia nel tempio di Yhwh: «anche tra loro mi prenderò sacerdoti leviti» (Is 66,21). Notare il paradosso: sono leviti coloro che leviti non sono! A cui non bisogna escludere, nella logica del brano, gli stessi persiani e gli stessi egiziani! Gli antichi e nuovi nemici.

È il capovolgimento radicale dell’immagine di Dio, del Dio liberatore e un po’ nazionalista dell’esodo e dell’esilio: nessun popolo è estraneo alla sua Presenza. La funzione di Israele lungi dall’essere di privilegio è quella di mettersi al servizio di questo culto universale: liberati dalla schiavitù forzata, per imparare a mettersi liberamente al servizio del regno di Dio (cfr Magnificat).

“Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze” (Lc 13,26).
Il Gesù di Luca, si colloca perfettamente in questa linea isaiana come attualizzazione e compimento ulteriore.

Il brano del Vangelo si inserisce all’interno di un contesto polemico dei giudei nei confronti di Gesù. Contesto che a sua volta si incardina nella grande struttura del Vangelo di Luca che descrive, nella sua seconda parte, un Gesù itinerante nel suo cammino teologico-esistenziale verso Gerusalemme (qui v. 22) vista come “luogo metastorico” del compimento delle scritture (Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme), e che ci suggerisce un ulteriore orizzonte a cui attingere per cogliere il senso del brano di oggi e soprattutto della risposta di Gesù.

Infatti la domanda del “tale” si inserisce in questo quadro e si colloca nella stessa prospettiva che il Terzo-Isaia ha stigmatizzato: è “ovvio” che lui si salva! La sua domanda verte necessariamente sugli altri! Soprattutto quelli non appartenenti al suo “gruppo” (cfr invece Lc 18,18). Gesù non risponde alla domanda, ma risponde alla “prospettiva” da cui nasce la domanda, capovolgendola (stesso metodo ad es. in 10,33)! Ancora una volta nonostante le apparenze! Proprie di una lettura di chi vuole restare all’interno dello schema della domanda e non si vuole sforzare a “entrare per la porta stretta” della prospettiva nuova inaugurata dalla risposta di Gesù (anche la Parola è «una porta stretta» anzi è la Prima)!

Gesù infatti allarga l’orizzonte per togliere ogni sicurezza a coloro che fanno dell’appartenenza alla religione “vera” (o da loro ritenuta tale, poco importa se a ragione o a torto), la garanzia dei propri privilegi. Nella fede (relazione/affidamento a Dio e al prossimo) – dice Gesù – non ci sono automatismi. Non basta più una religiosità del “dovere” (il fare “materiale” dell’imperativo kantiano della coscienza), ora è tempo della fede personale e coinvolgente, della “fede del rischio” che mette in gioco la vita nella dinamica interiore della relazione che si fonda sulla conoscenza sperimentale: non basta avere mangiato e bevuto in sua presenza e ascoltato la sua parola (Giuda, non solo per i cristiani, in questo è paradigmatico)…
Il mangiare e il bere, seppur gesti dell’intimità familiare e conviviale, quindi della consuetudine amichevole e confidenziale, non bastano…

Infatti nella nostra vita quotidiana facciamo l’esperienza che si può «stare» insieme, senza «essere» insieme, senza conoscersi. È una esperienza drammatica che mette lo scompiglio nella nostra vita, rivela false le nostre sicurezze e fa riemergere le paure rimosse e mai veramente superate. Lo stesso può accadere nelle “strutture religiose”: Gli ambienti chiusi che non interagiscono con il mondo circostante (cfr “il camminare” del Gesù lucano), sono destinati a produrre personalità fragili, paurose e spesso narcisistiche…
Di fronte ad un conflitto (anche positivo), ad un confronto, ad una interazione, è facile cedere all’istinto «solipsistico» e rinchiudersi nel rifiuto della relazione reale per non mettere in discussione se stessi e il castello di certezze su cui abbiamo costruito i bastioni della nostra falsa sicurezza. Il religioso che vive la comunità come rifugio e protezione, non come progetto dinamico di attuazione del regno di Dio, è un immaturo condannato a vivere “solitario” anche in mezzo agli altri. Vivere la vita di comunità (anche parrocchiale) vuol dire impegnarsi a vivere pienamente la propria umanità in modo armonico, perché solo nella pienezza dell’umanità può risplendere l’abbondanza della grazia e lo splendore della «solitudine» scelta come dimensione di vita di comunione. La «solitudine» infatti è la capacità di stare con se stessi nella profondità del proprio io abitato dalla presenza del Signore. La “solitudine” così intesa è vera comunione che si oppone a «solitarietà». Il credente «solitario» è radicalmente estraneo alla storia che vive (cfr invece Santa Teresa d’Avila: lo scopo del suo stare insieme è cambiare la storia) e si trova «solo» anche in mezzo alla propria gente. Uno così anche quando sta «insieme» agli altri, ne è parte esteriore, non è immerso nell’intima unione della vita ma ne resta – per usare le parole di Luca – “fuori”!: vive la famiglia o il lavoro – solo per fare un esempio – come incidenti o come condanne da scontare, non come «sacramenti di alleanza» e «altari di comunione» da condividere con tutti in vista dell’accoglienza del regno di Dio.
Vivere sotto lo stesso tetto, mangiare alla stessa mensa, pregare nella stessa cappella, eseguire scrupolosamente la stessa «regola», vivere gli stessi orari e impegni, non mette al riparo dal rischio della vita di relazione. Conventi, monasteri, seminari, famiglie, ambiti così fortemente qualificanti, dovrebbero allora diventare luoghi in cui le persone possano ritrovare se stesse e ritrovarsi. Il collante religioso da solo non basta infatti a creare le condizioni della vita comune: occorre che il nostro vivere diventi il luogo dove le nostre ferite (vecchie e nuove), possano trovare un unguento per essere guarite. Perché se siamo immaturi, se siamo non risolti, lo saremo dovunque vivremo e attorno a noi costruiremo rapporti e condizioni di vita immaturi.
Ora il Vangelo ci dice che le ferite dell’anima si curano con la presenza dell’abitare reciproco (cfr Gv 14,21ss e paralleli).

«Voi, non so di dove siete» (Lc 13,27).
La risposta di Gesù infatti è articolata e composta nella sua drammaticità. Egli per prima cosa dice di «non conoscere» cioè di «non sapère», il cui significato etimologico rimanda al parallelo del mangiare e bere (come anche al divorare la Parola ascoltata): anche se abbiamo gustato il cibo “non ci siamo gustati”… io non vi conosco perché non ho gustato, non ho potuto sperimentare il «sapore» della vostra presenza, nonostante abbiate condiviso con me cibo e bevanda. Il secondo rilievo è ancor più tragico: non conosco il vostro «dove», cioè il luogo dove voi esistete e diventate voi stessi; non conosco la vostra consistenza, l’abitazione del vostro cuore e quindi la profondità della vostra vita. Siete dissolti, dissipati, siete “altrove”. Siete zombie. Senza il «dove» della propria esistenza, noi siamo inesistenti: ciò che “non è da nessuna parte” semplicemente non esiste, anche se crede di esistere. Il «dove» indica la consapevolezza della prospettiva da cui si guarda alla vita, al futuro, al regno. La prima parola che Dio rivolge ad Adamo è infatti «Dove sei?» (Gen 3,9). La risposta del primo uomo è la consapevolezza della propria nudità (cfr Gen 3,10).

Gesù parla a persone per cui l’appartenenza religiosa esteriore era garanzia della propria identità. Al tempo di Gesù, tempo turbolento e di grandi trasformazioni, passaggio di due secoli e di due millenni, tempo di confusioni e di trapassi epocali, la religiosità era vissuta in maniera materiale: ma un ritrovarsi insieme nel Tempio, in casa, in chiesa, non vuol dire abitare l’uno nell’altro, accogliersi reciprocamente… per questo Luca definisce coloro che vivono così le relazioni umane e rituali «… operatori di ingiustizia!» (Lc 13,27).

L’espressione tradotta letteralmente è «lavoratori d’ingiustizia – ergàtai adikìas» che è una connotazione più forte perché il termine «lavoratore» indica lo stato abituale e quindi l’impegno, l’intelligenza e la dedizione che bisogna mettere nel fare il proprio lavoro è cioè un’adesione sistematica e non occasionale! L’operatore può essere occasionale, il lavoratore è abituale. Il termine «ingiustizia» descrive la natura di chi non vuole instaurare una relazione vera: chi vive una religiosità di comodo è «ingiusto»; chi si accontenta di esteriorità è «ingiusto»; chi non è autentico nella verità di Dio è «ingiusto»; chi pretende di rinchiudere Dio nella prigione del proprio pensiero è «ingiusto»; chi non ama è «ingiusto»… La giustizia di Dio invece è la realizzazione del piano di salvezza e di pace nell’oggi della storia di ogni uomo. Il “lavoratore di ingiustizia” considera un Dio così come proprio nemico e mette tutto il suo “sforzo” (cfr sull’impegno dei figli delle tenebre Lc 16,8) perché il suo regno non si realizzi ma si realizzi il proprio (cfr il “Padre nostro”).

Ancora una volta ciò che Gesù descrive ed esige non è qualcosa che dovrà accadere (anche! cfr quanto detto sopra…), ma è qualcosa che è domandato all’oggi del credente. Infatti nel regno di Dio, il passato è già futuro perché «Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio» siederanno a mensa con tutti coloro che «verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno» (Lc 13,28-29). Nella storia dei patriarchi infatti è già contenuto in “seme” il futuro di tutta l’umanità che è invitata alle “nozze dell’Agnello”. È di questo futuro che il credente è invitato a farsi nella sua storia concreta a sua volta “seme” (cfr Gv 12,24).

[nota: i riferimenti esegetici sono presi dalle opere di Paolo Farinella]

venerdì 20 agosto 2010

XXI Domenica del Tempo Ordinario: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?»

Le letture che la Chiesa ci propone per questa ventunesima domenica del Tempo Ordinario, potrebbero indurre chi le ascolta – soprattutto chi le ascolta oggi, in una cultura cattolica che ha una scarsa frequentazione del testo biblico, ma che ha già assimilato nel DNA le spiegazioni che la cristianità ha trasmesso – due immediate e rapide interpretazioni, che – bisogna riconoscerlo – sono quasi istintive nella lettura dei testi, del vangelo soprattutto.
Innanzitutto l’interpretazione più “classica”, quella per cui qui si starebbe dicendo che a salvarsi sono proprio pochi! È un’interpretazione che segue più o meno questo ragionamento: se un tale chiede a Gesù «Signore, sono pochi quelli che si salvano?» e lui risponde «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno» (con tutta la parabola al seguito), vuol dire che il Signore sta dicendo che in paradiso vanno in pochi, quelli che – con grandi sforzi – sono riusciti a entrare nella porta stretta. E solitamente gli sforzi sono istintivamente identificati con digiuni, sacrifici, preghiere, mortificazioni, ecc…, cioè con ciò che tradizionalmente ha rappresentato l’itinerario per la via di perfezione.
Vi è poi una seconda immediata interpretazione, più “moderna”, ma ormai altrettanto automatica: quella che fa riferimento agli ultimi versetti contenuti nel vangelo («Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi») in associazione con la prima lettura («Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue…»). Si tratta cioè dell’interpretazione per cui qui si sta parlando della salvezza puntando soprattutto sul fatto che essa non dipenda automaticamente dall’appartenenza (formale o di sangue) ad un popolo eletto (Israele o la Chiesa), ma che appunto – per salvarsi – sia necessario uno sforzo personale, una vita esemplare… per questo possibile a tutti (ai membri di tutti i popoli) e non dato per “nascita”.

A livello di reazioni emotive immediate, non si può nascondere che mentre la prima interpretazione disturba, la seconda non basta. Si tratta di sensazioni di “pancia”, certo, quindi anche facilmente “smontabili” (basterebbe per esempio dire che la prima interpretazione ci disturba perché propone un itinerario troppo difficile, che non vogliamo seguire), eppure a me hanno insegnato un immenso rispetto per le viscere di carne, perché non sono mai solo carne. E allora, se di fronte a qualcosa, reagiamo col “mal di pancia”, vuol dire che abbiamo intercettato qualcosa che la nostra testa ancora non ha visto e razionalizzato, ma che merita la nostra attenzione. Il processo di portare a ragione (e a linguaggio) quanto la pancia “dice” è delicatissimo – troppo facilmente connotiamo le nostre sensazioni con le interpretazioni che ci fanno più comodo – ma un sano allenamento in proposito, aiuta davvero a smascherarsi, disingannarsi, mostrarsi – almeno di fronte a se stessi – in trasparenza.
Ebbene, io credo che le nostre viscere di carne reagiscano a queste interpretazioni così istintive non perché esse siano sbagliate – anzi sicuramente per la cultura, il linguaggio e le situazioni in cui sono sorte sono state adeguate e davvero capaci di trasmettere il messaggio cristiano – ma perché – per la cultura, il linguaggio e le situazioni odierne – esse risultano sfuocate, come poste a partire da un punto prospettico non ideale. Entrambe le interpretazioni infatti danno per scontato che la domanda posta da quel tale che Gesù incontra sul suo cammino verso Gerusalemme («Signore, sono pochi quelli che si salvano?»), sia corretta, dimenticando invece che Gesù – come in tante altre occasioni – elude la richiesta specifica della domanda postagli e – nella risposta – cambia il livello del discorso e dimenticando soprattutto che – se avesse dovuto rispondere direttamente alla domanda in questione – avrebbe probabilmente usato le espressioni che in un passo parallelo, l’evangelista Matteo gli mette in bocca: «Gesù allora disse ai suoi discepoli: “In verità io vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”. A queste parole i discepoli rimasero molto stupiti e dicevano: “Allora, chi può essere salvato?”. Gesù li guardò e disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”» (Mt 19,23-26).
Le nostre interpretazioni immediate vanno in cortocircuito proprio a questo riguardo, cioè nel presupposto per cui all’uomo (A pochi? Solo agli ebrei? Solo ai cristiani? Solo a chi ha un comportamento moralmente adeguato?) sia possibile salvarsi e dunque sia giusto mettere in atto tutto ciò che serve per “pagare a Dio il proprio prezzo” (cfr. Sal 49,7-10), facendo assumere alla domanda «Signore, sono pochi quelli che si salvano?» non tanto la connotazione di un interesse (per quanto ansioso) per la salvezza di tutti, quanto piuttosto l’intonazione di una rivendicazione per sé: se infatti in qualche modo “c’è da salvarsi” e per farlo è necessario intraprendere un duro percorso (una porta stretta), allora tutti quelli che “non ce la fanno” o “non ce la vogliono fare” (come spesso con arroganza noi presupponiamo) devono essere esclusi… è questione di giustizia (!)… umana.
Se così fosse, il Grande Inquisitore di Dostoevskij avrebbe tutte le ragioni per rivolgersi a Gesù dicendogli: «Il Tuo grande profeta dice nella sua visione e nella sua parabola di aver visto tutti i partecipi della prima resurrezione e che ce n’erano dodicimila per ciascuna tribú. Ma se erano tanti, vuol dire che quelli erano piú dèi che uomini. Essi sopportarono la Tua croce, essi sopportarono diecine d’anni di vita famelica nel nudo deserto, cibandosi di cavallette e di radici; e certo Tu puoi appellarti con orgoglio a questi eroi della libertà, dell’amore libero, del libero e magnifico sacrificio da essi compiuto in nome Tuo. Ma ricordati che erano in tutto appena alcune migliaia, ed erano per giunta degli dèi, ma i rimanenti? E che colpa hanno gli altri, gli uomini deboli, di non aver potuto sopportare ciò che i forti poterono? Che colpa ha l’anima debole, se non ha la forza di accogliere cosí terribili doni? Possibile che Tu sia venuto davvero solo agli eletti e per gli eletti?».
Eppure il Gesù che pronuncia le parole odierne («Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno») è lo stesso che racconta la parabola di Mt 20,1-16 (che curiosamente si conclude con la stessa espressione del nostro testo: «gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi»), nella quale il padrone della vigna paga allo stesso modo tutti gli operai (sia quelli che hanno lavorato per un’intera giornata, che quelli che hanno lavorato un’ora sola… per questione di giustizia (!)… divina).
Ma se tutto questo è vero, se cioè si può ben dire che non è l’uomo che si salva («Essi confidano nella loro forza, si vantano della loro grande ricchezza. Certo, l’uomo non può riscattare se stesso né pagare a Dio il proprio prezzo. Troppo caro sarebbe il riscatto di una vita: non sarà mai sufficiente per vivere senza fine e non vedere la fossa», Sal 49,7-10), che anzi «questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”» (Mt 19,23-26); che Dio non segue i nostri stretti criteri contabili e non ha il desiderio di fare una selezione eroica che – dopo uno stillicidio di pusillanimi – tenga solo “chi se lo è meritato davvero”, ma – come dice Paolo a Timoteo – «vuole che tutti gli uomini siano salvati» (1 Tim 2,4), in che senso vanno interpretate le parole che pronuncia nel vangelo di Luca che la liturgia ci propone questa domenica («Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi»)?
In che cosa bisogna sforzarsi, se il Regno è un dono e non una conquista? Perché si parla di porta stretta, se anche gli operai dell’ultima ora ricevono la stessa paga di chi ha lavorato tutto il giorno? E in cosa consiste l’ingiustizia di cui sono colpevoli coloro che non vengono riconosciuti e allontanati? E perché questo tono minaccioso da parte di Gesù, così diverso da come siamo abituati a percepirlo (nel vangelo, non nel nostro cuore, dove il germe infetto del dio giudice implacabile si è incistato irrimediabilmente - ? - )?
Forse il modo migliore per approcciare queste domande è quello di guardarle non a partire dalle nostre paure (di un Dio che ci castigherà, ci manderà all’inferno, ci farà finire nel niente, ecc, ecc, ecc…), ma a partire dalla sua identità, cioè dalla sua storia. A partire dalla sua predicazione (dal suo vangelo) non c’è dubbio che il Regno sia un dono e non una conquista. Eppure bisogna, sì, sforzarsi… Sforzarsi in cosa? E per che cosa? Per chi? Non sforzarsi ad una conquista che è impossibile (un’impossibilità a salvarci da soli con la quale davvero – prima o poi – drasticamente ci dobbiamo scontrare, per arrivare a dire con Elia «Non sono migliore dei miei padri» e fare un sano bagno nell’umiltà – quella vera di quando ti torvi col sedere per terra e non quella finta che compiacente ti “autoprovochi” – fonte zampillante e rigenerante della misericordia – per sé e per gli altri – e per questo tanto cara ai suoi cantori), bensì – dentro ad un regalo – sforzarsi (ora sì! Perché non è più nostro, ma Suo il regalo!) per farsi carico della responsabilità in gioco: se infatti il regalo è la salvezza, cioè non tanto e non solo un mero perdurare in vita dopo la morte, ma un’inondazione di amore e tenerezza che scardina le durezze interiori e ci fa essere veramente noi stessi (perché solo dentro all’alveo dell’accoglienza benevola e innamorata si percorrono le strade interiori della trasparenza) in eterno, lo “sforzarsi” prende i connotati del far circolare il regalo (che se no ti marcisce in mano, proprio per la natura intrinseca dell’amore, che se non è dato, muore), dedicando una vita ad alzare il tasso di amore nel mondo! Sapendo che non siamo capaci, ma ricominciando sempre ad allargare il cuore. Ecco la porta stretta: chi ha provato a vivere così è infatti morto in croce, o perseguitato, o esiliato… Ed ecco l’inusuale tono minaccioso… ma è proprio come quello di chi ci vuole bene e le prova tutte a convincerci di qualcosa di cui è convinto che sia il nostro Bene, la nostra salvezza… quasi minacciando di sculacciarci se non lo facciamo, ma non perché vuole sculacciarci (se non lo facciamo mica ci sculaccia davvero), ma per provarle proprio tutte… a farci accettare il suo regalo ed entrare nel circuito dell’amore che per contagio si diffonde.

lunedì 16 agosto 2010

Vacuità...

L'inizio
È venuta l’ora di analizzare la morte di quella che è stata chiamata, in gran fretta e proditoriamente, Seconda Repubblica. Doveva essere qualcosa che somigliava alla quinta repubblica di De Gaulle, inaugurata alla fine degli Anni 50: un sistema che restituisse alla politica la nobiltà, lo sguardo lungo, l’efficacia che il predominio di fazioni e partiti le aveva tolto. Doveva, partendo dalla simultanea svolta avvenuta a Nord con Mani Pulite e a Sud con l’offensiva contro la mafia di Falcone e Borsellino, rigenerare un ceto politico corrotto da anni di democrazia senza alternanza, di poteri paralleli e illegali. Le forze che dopo il ‘45 avevano ricostruito il Paese gli avevano dato una Costituzione vigile sulla democrazia, ma antichi mali, non curati, si erano incancreniti: il rapporto degli italiani e dei politici con lo Stato in primo luogo, e la maleducazione civile, lo sprezzo della legalità, del bene comune. Tutti questi mali sopravvissero alla Prima Repubblica, e per questo anche la seconda sta morendo.

Quel che mancò, nei primi Anni ‘90, fu la rigenerazione delle classi dirigenti. La politica abdicò, accettò di farsi screditare, e forze estranee ad essa se ne appropriarono. Furono queste ultime ad annunciare l’avvento del Nuovo: nuovi uomini, non prigionieri dei vecchi partiti; nuova attitudine manageriale al comando; nuova fermezza nel decidere. La Seconda Repubblica è stata innanzitutto un sistema di dominio il cui scopo era di radicare quest’immagine del potere nelle menti di italiani stanchi di lungaggini, assetati di efficacia. Altri obiettivi non esistevano, se non la libertà del leader da ogni vincolo. Il conflitto d’interessi non era un ostacolo: sanciva tale libertà. Ovvio che la rigenerazione dello Stato e della legalità divenne non solo impossibile ma esecrata. Mani Pulite e Falcone-Borsellino erano escrescenze di una Prima Repubblica caduta per motivi che restando arcani non insegnavano nulla se non più furbizia e più menzogne.

I dati lo confermarono presto, dopo Tangentopoli: la corruzione non solo era ripresa, ma s’era inasprita fino ad assumere, oggi, proporzioni enormi. L’impunità dei dirigenti s’estese. L’informazione televisiva, ieri lottizzata, è ora monopolizzata da una persona. La Seconda Repubblica era nata, ma affatto diversa dal racconto che se ne faceva. Ha dato vita al bipolarismo, ma un bipolarismo tra due concezioni dello Stato e della legge, non fra due politiche. In sedici anni ha creato un sistema che salvaguarda i difetti del regime precedente, distruggendo le forze e gli anticorpi che nonostante tutto esso ancora possedeva. Non c’è dunque una sola Seconda Repubblica. Ce n’è una cui tendevano i veri riformatori. E ce n’è un’altra, effettiva, che usurpando il linguaggio dei riformatori ha installato un regime che confonde la crisi della politica con l’inutilità della politica, e mette il potere esecutivo al riparo da ogni controllo. Che non ha corretto nulla se non l’immagine del leader, e l’uso democratico di frenare il potere eccessivo con altri poteri.

Questa Seconda Repubblica non è falsa a causa del predominio di una persona (Berlusconi). È falsa perché ha dato agli italiani, contemporaneamente, un uomo forte e uno Stato disarticolato, con poteri di controllo indeboliti se non neutralizzati. Per poteri di controllo s’intende la magistratura, la stampa indipendente, il Capo dello Stato che incarna il legame con la Costituzione, la Costituzione stessa. Quando si parla di regime non si parla di un uomo, ma di questa ben organizzata disarticolazione.

Gli italiani hanno avuto quel che non chiedevano. Non la politica rinobilitata, ma il suo discredito. Non una giustizia più rapida, ma una giustizia celere con i deboli, impotente e interminabile con i forti: una giustizia giudicata usurpatrice se giudica i potenti, come usurpatrice è giudicata la stampa indipendente. La Prima Repubblica aveva anticorpi che l’affossarono; la Seconda forse ne ha ma di meno, sicché neppure ricorre all’ipocrisia: Berlusconi non esita a rompere con Fini che chiede il rispetto della legalità, non esita a definire golpista il potere del Quirinale di sciogliere il Parlamento. L’interiorizzazione dell’illegalità non potrebbe essere più esplicita e impudente.

Tuttavia anche la Seconda Repubblica sta morendo. Perché non c’è leader che alla lunga possa vivere d’immagine, senza esserlo. Perché non basta inoculare nelle menti lo sprezzo della politica, per aggiustarla. Quando Berlusconi incolpa il «teatrino della politica», sa di che parla perché tutto in lui è teatrale. Hannah Arendt spiega bene come simili teatranti si adoperino a «defattualizzare la realtà» (memorabile il saggio sulla guerra in Vietnam, New York Review of Books 18-11-‘71). Un «enorme sforzo fu dispiegato», scrisse quando i Pentagon Papers rivelarono l’inutile disastro della guerra, per «dimostrare l’impotenza della grandezza». Egualmente impotente è la grandezza del Premier italiano: proprio come leader ha fallito, incapace di tener unite la ampie maggioranze di cui disponeva.

Se si vuole analizzare la fine della Seconda Repubblica, bisogna fare quel che non si è fatto: capire perché la Prima cadde, e come. Riconoscere i mali che sopravvissero nella Seconda, e anche certe virtù che nella distruzione vennero spazzate via. La Prima Repubblica infatti non fu solo storia criminale. Fu anche partecipazione all’Unione europea. Fu la tendenza ad aggirare magari la Costituzione, non a demolirla. Fu Mani Pulite e l’opera di Falcone e Borsellino. Fu l’incorruttibile lealtà istituzionale di Vincenzo Bianchi, il generale della Guardia di Finanza morto l’altro ieri a Civitavecchia: nell’81, su incarico dei magistrati Turone e Colombo, l’allora colonnello scoprì a Castiglion Fibocchi, una fabbrica di Gelli, la lista dei 972 affiliati alla P-2. Fu, infine, la capacità di resistere alla grave sfida delle Br. Basti pensare al ruolo decisivo che i pentiti svolsero nell’anti-terrorismo, al colpo mortale inferto dalle prime deposizioni di Patrizio Peci nell’80. Il giudice Giancarlo Caselli ricorda, nel libro scritto con il figlio Stefano (Le Due Guerre, 2009), gli esordi della Seconda Repubblica, quella raccontata come nuova: come prima cosa, nella lotta alla mafia e ai suoi legami con la politica, vengono mozzati l’uso e la protezione dei pentiti. Meritevole non è più chi parla ma chi omertosamente tace, come Mangano.

Rimeditare la fine della Prima Repubblica significa svelare la vera natura della Seconda. Non è detto che si riesca, tanto vasta è la manipolazione, lo spin di chi guida il regime. Tutti ne sono prigionieri: anche la stampa, quando accetta di mettere sullo stesso piano le vicende monegasche di Fini e quelle di Berlusconi e dei suoi. Quando denuncia la politica fatta a colpi di dossier sui mali altrui. Il risultato, lo spiega Michele Brambilla su La Stampa, è di «attribuire a ciascuna vicenda un valore equivalente a tutte le altre». È una trappola in cui Fini, che ha rotto sulla legalità, rischia di cadere. Da giorni, i suoi uomini invocano una tregua, e tanti reclamano la fine di «contrapposizioni dannose»: se Berlusconi con i suoi giornali smette gli attacchi al presidente della Camera, anche i finiani smetteranno l’offensiva su illegalità e corruzione. La rottura non servirebbe ad altro che a rendere gli scandali tutti eguali: la vendita di una casa di An e la corruzione di magistrati, l’uso privato del denaro pubblico, il monopolio televisivo. La tregua, presentata come progresso, sarebbe il fallimento del Presidente della Camera, non di Berlusconi. Non la casa a Montecarlo rischia di squalificare Fini, ma la rinuncia alla battaglia sulla legalità, e a una Repubblica che cessi di definirsi nuova solo perché viene «defattualizzata» e abusivamente chiamata Seconda.
Il fine

giovedì 12 agosto 2010

L'Assunta - Un segno ("traccia") anche per noi

Questa settimana, essendo domenica il 15 agosto, la XX domenica del Tempo Ordinario è sostituita dalla Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria: una ricorrenza che – data la sua importanza – ha letture proprie, diverse dunque da quelle che il calendario ordinario avrebbe presentato, e adatte piuttosto a questa importante festa mariana.
Il problema è che, però, l’evento dell’assunzione di Maria non è raccontato nei testi neotestamentari, ma ci giunge dalla Tradizione della Chiesa, perciò il vangelo proposto dalla liturgia è, sì, mariano, ma tratto dai racconti dell’infanzia di Gesù (in particolare la narrazione della visitazione di Maria ad Elisabetta + il Magnificat) e non fa riferimento al mistero dell’assunzione di Maria…
Questo è un primo elemento di difficoltà, perché o si sceglie di commentare il vangelo o si prende la via del commento al dogma mariano («L’immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo»), contenuto nella costituzione dogmatica Munificentissimus Deus, promulgata da Pio XII il I novembre 1950.
Una resistenza a seguire la prima via – quella del commento al vangelo odierno – nasce dal fatto che, riferendosi agli inizi dell’esperienza storica di Gesù, non trova continuità col percorso che la liturgia ci sta facendo compiere lungo il testo del vangelo di Luca (di cui siamo già al capitolo dodicesimo); è stato scelto infatti solo perché “serviva” un testo che parlasse di Maria.
Ma altrettanto reticenti si è nel dedicare lo spazio della lectio sui testi della Liturgia della Parola della domenica, ad argomenti extra biblici. Anche perché «Anche la chiesa non sa bene cosa dire dell’Assunta, e lo dice con il linguaggio maldestro del tempo: Maria ci precede lassù, in corpo e anima!…
In verità, un frammento di terra, quello che ha contagiato di umanità il cuore di Dio, è rimasto a sua volta contaminato di eternità. Maria, come il figlio, non può rimanere prigioniera della morte, ma è sprofondata nella passione di Dio, divenuto per sempre casa sua! Madre sua e nostra, instancabilmente aspetta il lento farsi completo della speranza, nei suoi figli!» [Giuliano].
Quest’ultima visione potrebbe, invece sì, essere una via interessante per approfondire e convogliare le tante istanze contenute in questa domenica 15 agosto, quella che forse ha anche mosso fin dalle origini la fede dei cristiani verso questo mistero mariano: e cioè il fatto che quando muore si resta morti… ma se – una di noi – non una “semi-dea” come a volte si pensa (e come anche questo stesso dogma, letto male, ha contribuito a far pensare) – ci ha preceduto lassù in tutto quello che è stata la sua persona, la sua umanità, la sua storia (anima e corpo), allora davvero questa può essere una traccia di credibilità alla buona notizia (vangelo) di Gesù: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via» (Gv 14,1-4). Perché se è stato promesso per tutti e in lei si è realizzato, allora davvero può essere vero per tutti… e anche per me.
Maria – dunque – con la sua assunzione (vittoria sulla morte), come segno (traccia) dell’affidabilità della parola di Gesù, della parola di Dio… Proprio come – a suo tempo – le era stata “traccia” Elisabetta. Infatti l’episodio che la liturgia ha scelto per questa festa e che noi tradizionalmente chiamiamo “visitazione” (spesso interpretato come l’ulteriore esempio morale – caritativo, in questo caso – che Maria può darci – va infatti ad aiutare la cugina incinta) in realtà, ben al di là che rappresentare un quadretto esemplare di “aiuto al prossimo bisognoso”, va in un’altra direzione: perché Maria va da Elisabetta?
Certo per aiutarla… Ma soprattutto perché dentro all’intuizione promettente che l’angelo le ha posto in cuore, l’unico appiglio razionale, tangibile, rintracciabile era il riferimento a Elisabetta: «Le rispose l’angelo: “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio”. Allora Maria disse: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. E l’angelo si allontanò da lei. In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda», da Elisabetta – appunto –, la sua “traccia”.
“Curiosamente”, proprio Maria – da sempre cantata come l’esempio della fede di ciascun cristiano – a fronte di una rivelazione di Dio, di un “farlesi” incontro di Dio, di un imbattersi in Dio, si appiglia all’unica “traccia” che l’angelo le ha lasciato per andare a constatare se effettivamente l’esperienza che ha vissuto ha una sua attendibilità. Il problema di Maria è infatti quello di ciascuno: “Questa rivelazione, questa lieta notizia, questo vangelo, – in ultima analisi –, questo Dio, è un Dio affidabile, è un Dio credibile, è un Dio degno di fede, della mia fede? Vale la pena dedicargli la vita, instaurare con Lui una relazione che diventi l’orizzonte di senso in cui comprendere il reale, incarnare la sua logica che conduce al dono della mia vita per amore dei fratelli? È un Dio che mi salverà la vita?”.
L’angelo aveva parlato di Elisabetta… E Maria, «in fretta», va da lei!
Ecco perché questo testo è coraggioso, perché non ha paura di mostrare come – per entrare in relazione con Dio – non ci sia affatto bisogno di uscire dalla carne, di censurare i nostri dubbi, di spegnere la nostra razionalità, ma anzi si possa (si debba!) rispettare la nostra umana natura che prevede che per “farci” uomini, diventare uomini, ci si immerga nella storicità…
Maria – donna a tutti gli effetti, fatta di carne e sangue, sudore e fatica, gambe per andare in fretta da Elisabetta, “voce forte” per salutarla, entusiasmo e trepidazione per l’annuncio dell’angelo in cui le è capitato di imbattersi, tenerezza per il figlio che porta in grembo, desiderio di dirlo a qualcuno (a qualcuna…) –, l’esempio di fede dei cristiani di ogni generazione, non risulta affatto l’eterea semi-dea a cui spesso purtroppo ancora oggi è spesso ridotta dalla devozione popolare, ma ci appare – aprendoci ad un sorriso compiaciuto e tenerissimo – la ragazza a cui è capitato di tenere in pancia Dio, colma di paura e trepidazione, sospetti e incomprensioni, che non ha avuto paura di andare a vedere se davvero quell’angelo diceva il vero su Elisabetta! Perché forse – se diceva il vero su Elisabetta – diceva il vero anche a lei…
E così Luca ci regala l’indimenticabile pagina della rivelazione del Signore (Elisabetta è la prima che chiama Gesù con questo titolo nel vangelo di Luca), chiusa fra le quattro mura di una casa normalissima, con protagoniste due donne – una ragazza madre e una donna sfiorita – e le loro pance (con i rispettivi abitanti) che si parlano di una gioia incontenibile: è il Signore che viene, nel mondo laico delle donne, nella quotidianità di quelli che non contano, nel cuore dell’umanità.
Anche noi allora, spesso così increduli alla notizia (che ci appare troppo bella per essere vera) che il Signore ha sfondato la porta degli inferi e l’ha resa percorribile per tutti, possiamo trovare in Maria che l’ha già percorsa, la nostra affidabile traccia che può confermare il tentativo di una consegna disarmata tra le braccia del Padre, in vita e in morte, e festeggiare in pace la festa dell’assunzione, che qualcuno ha ribattezzato “la festa dell’impazienza”:

«LA FESTA DELL’ASSUNZIONE: la festa dell’impazienza

…sogno le diverse reazioni dei vari personaggi implicati nell’avventura più importante della storia dell’umanità, cioè la gioiosa promessa (o il vangelo!) della salvezza del nostro mondo e del nostro corpo, pur destinato alla morte: una sfida lanciata all’impazienza di chi, amico o nemico dell’uomo, non si rassegna e vuol sapere in anticipo, a tutti i costi, come il racconto andrà a finire…

 … l’impazienza di Adamo, anzitutto, che è l’uomo di ogni paese e di ogni storia, che si sa condannato a correre angosciato verso la morte senza senso, con una invincibile (e insaziata) voglia di vita.

 … l’impazienza del secondo Adamo che, nella pienezza dei tempi, si dà alla morte come un boccone avvelenato (1Cor 15, 54), e la disinquina dal suo potere malefico, per tutti noi, aspettando e intercedendo per noi di fronte al Padre, ora, nell’attesa che la sua missione sia accolta e si compia, per riconsegnare finalmente il Regno pacificato e compiuto.

 … l’impazienza del drago (il serpente della genesi … diventato drago a forza di mangiar uomini… è il meccanismo diabolico del potere mondano) che si è piazzato con le sue infinite bocche fameliche di fronte al bimbo “nuovo” che sta per nascere da una donna finalmente vestita di sole… per divorarlo e chiudere la partita per sempre.

 … l’impazienza di Dio, perché è proprio l’amore di Dio per l’uomo che si fa tanto “urgente” da non resistere … e così anticipa agli uomini la sorpresa finale, che è questa : “il corpo umano, il campo della coltivazione (o umanizzazione) dell’uomo (anche del corpo umano di Dio!), non è destinato alla consunzione definitiva dei cimiteri, ma invece misteriosamente si trasformerà in vita ridonata per sempre”… (come dicesse di Maria: “ecco, vedete… ho già provato!”).

 … l’impazienza di Maria… il suo inno, il Magnificat, è infatti la profezia dell’impazienza. Maria era già partita da casa sua, in fretta, avendo intuito che il Signore sta preparando grandi cose, in lei e con lei, per la salvezza del mondo. E contagia con la sua fretta umile e impaziente anzitutto il bimbo che sussulta di gioia nel seno di Elisabetta. La quale, a sua volta, è contaminata e capisce che il nucleo esplosivo della fede è proprio “credere nell’adempimento”, proprio adesso, della promessa antica.

Allora Maria se ne lascia tanto convincere che vede tutto già fatto, in anticipo. Proclama già avvenuto, oggi, ciò che di generazione in generazione pian piano dovrà “compiersi”: i potenti rovesciati, mentre sulle loro poltrone si son seduti i poveri, gli affamati ricolmi di beni e i ricchi a mani vuote. Finalmente, come era stato promesso ai nostri padri erranti, ogni dolore è risolto nella misericordia, la quale è ormai l’unico ricordo nella memoria di Dio. E’ tanta la partecipazione di Maria all’impazienza dolorosa e gioiosa del Figlio, per la salvezza di tutti… che il suo corpo, che già l’aveva generato, ne rimane intriso per sempre.

 … l’impazienza dei cattolici. Anche loro, ci si sono messi… a precorrere le cose: come i bimbi più grandi che non riescono a non sussurrare ai piccoli, in anticipo, come va a finire la favola. E si son messi a proclamare il dogma dell’Assunta (un evento di fede, su cui tutti da secoli, in modo diverso nelle varie confessioni cristiane, già avevano riposto la loro speranza, alcuni di loro con l’angosciosa trepidazione di chi ha paura che forse il finale è troppo bello!

 … l’impazienza dei poveri… proprio quelli cui si riferisce Maria nel suo inno all’impazienza. Il loro corpo martoriato, violentato o affamato, o ignudo o incatenato, ammalato e abbandonato … rimarrà sempre sotto i letamai o nei forni dei lager o sotto i bombardamenti… a marcire senza fine e senza speranza? (quanti corpi di donne uomini bambini nei millenni: Ez. 37)… Ecco allora che la loro devozione e la loro frustrazione, l’assimilazione del Signore Gesù alla loro vita e alla loro sorte, la consuetudine a carezzare ed accudire i brandelli sporchi di umanità senza cure né diritti… ha affinato il loro intuito evangelico e ha sopravanzato il passo lento dei teologi. In Maria e nel suo corpo hanno visto e desiderato la profezia e la sorte … dei loro corpi svuotati di vita».

[Giuliano]

sabato 7 agosto 2010

XIX Domenica del Tempo Ordinario (C): una minoranza disomogenea

I testi che la Chiesa ci propone per questa diciannovesima domenica del Tempo Ordinario, sono assai densi, ed anche meno immediati di altri… è come richiesta una certa fatica “nell’entrarci”…

Mi pare però che un’illuminante chiave di lettura possa essere quella proposta da don Bruno Maggioni, quando scrive: «Dopo le direttive sull’uso dei beni, le parole che Luca ha qui raccolte entrano più direttamente nel tema della vigilanza, che non è anzitutto un elenco di cose da fare, ma una tensione dello spirito, un orientamento di fondo nei confronti delle situazioni di vita. Ma prima di precisare i contorni della vigilanza (un atteggiamento complesso, dalle molte sfaccettature), occorre una parola sui destinatari, che Luca designa con un’espressione insolita: “piccolo gregge”. Chi sono? L’espressione è una variante di un’altra più frequente coniata dai profeti dell’Antico Testamento: “il resto di Israele”. Si tratta di quella “minoranza” di autentici fedeli che nell’abbandono generale delle leggi del Signore rimangono ostinatamente attaccati alla loro fede. La loro prima caratteristica è dunque la minoranza, cosa che può far sorgere in alcuni il dubbio e la frustrazione. Ma a torto: la storia di Israele, di Gesù e della chiesa dimostra al contrario che la forza di Dio passa proprio attraverso minoranze. La seconda caratteristica è la fedeltà ostinata: in un mondo dove i più – o per comodità o per paura – si accodano agli ideali del momento, il piccolo gregge mantiene vive le promesse del Signore. E la terza caratteristica è il servizio: il piccolo gregge mantiene in vita valori che poi torneranno a vantaggio di molti, e in nessun modo si isola dal mondo, ma rimane giù nella piazza, dove gli uomini si incontrano e si scontrano. […] Si tratta di un gregge che è “piccolo” e tuttavia è da intendere bene. Minoranze sì, ma che si incontrano dovunque: nella chiesa, nelle altre religioni, in tutte le razze, in ogni popolo. Sono la forza di Dio: non confidano nell’odio o nella violenza o nella potenza. Confidano in Dio, nel rispetto di ogni uomo, nella libertà, nell’amore. Desiderano servire e hanno fame e sete di un mondo più giusto. E per costruirlo sono pronti a rimetterci. È a costoro che il discorso sulla vigilanza è particolarmente rivolto» [il racconto di Luca, 244].
La citazione è un po’ lunga, ma mi pare serva davvero a capire il senso di quanto Gesù dice… perché di quella “minoranza” spesso ci sentiamo parte anche noi (magari incapaci di restare fedeli al suo lato ruvido – a quell’“essere pronti a rimetterci” – o al suo lato inclusivo – a volte infatti il nostro sentirci “minoranza” è chiuso e aggressivo verso gli altri – ma questo non toglie la realtà del nostro appartenervi). E mi pare molto interessante il fatto che Gesù scelga di destinare questo tipo di parole a chi si sente (o è) solo (i più fortunati sono in – troppo – pochi) a portare avanti una logica disomogenea di benevolenza, fraternità, tenerezza, rispetto alle classiche dinamiche umane che ripropongono invece continuamente competizione e sopraffazione (fuori e dentro la chiesa / fuori e dentro noi stessi).
Ecco, dentro a questa solitudine o esiguità numerica (a volte irrisoria ed irrisa) si annida il pericolo che Gesù denuncia e – con la sua parola («Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno») – vuole disinnescare: il “prendere paura” di una solitudine che a differenza dei padri (che come dice il libro della Sapienza «sapevano bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà») non riesce più a riconoscere «degno di fede colui che gli aveva promesso» che “c’abbiamo ragione noi!” (come diceva don Primo Mazzolari, davanti allo specchio con un bicchiere di vino in mano!)… perché questa disomogeneità frustrante, che scava dentro un vuoto angoscioso, troppo spesso dimentica che non si tratta di un’assenza muta, ma di un’attesa amante («Siate pronti…», «siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze…», «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli…», «E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!», «Anche voi tenetevi pronti…», «Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così…»)… proprio come quella disposizione interiore che abbiamo quando aspettiamo il ritorno di qualcuno che amiamo davvero (un figlio, il nostro amato, qualcuno che abbiamo proprio piacere di avere tra noi…), trepidando, sognando, sorridendo…
In questo «Una processione di padri e di madri ci fanno da testimoni [cfr. la lettere agli Ebrei, cap. 11]… Talora si vedono, talora si intravedono soltanto. Ci vogliono tante parole ed esempi, a noi piccoli, per cercare di dirsi, raccontarsi … la fede. Ma ognuno ha dentro di sé (ma che fatica accoglierli!) i minuscoli indizi persuasivi di un volto “velato” che chiama, che spinge, che provoca… ad imbarcarsi, nonostante la paura, nel viaggio, a tentoni, nell’attesa / scoperta di cose e situazioni e vicende impreviste, che il Signore ha preparato, chiamandoci a reinventare con noi, adesso… un modo nuovo di stare, nella vita e nella morte. Nella fede morirono tutti costoro, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati di lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra. Noi, piccoli discepoli di Gesù, viviamo simultaneamente nell’antica e nella nuova situazione del credente, privilegiati di aver toccato in Cristo l’adempimento della promessa del regno “vicino, in mezzo a noi”, ammaliati dalla certezza che stiamo camminando verso una città diversa, il cui architetto è Dio – ma anche lacerati (delusi!?) dalla conclamata irreperibilità di questa città, feriti dall’innegabile distanza della salvezza, nostra e di troppi disperati abbandonati» [Giuliano].
Dentro qui credo che siano due i modi evangelici per vegliare: innanzitutto una sorta di alleanza con chi ci è fratello nell’attesa: «I figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto e si imposero, concordi, questa legge divina: di condividere allo stesso modo successi e pericoli»… un po’ come Gesù, che nell’agonia cercava la “compagnia dei fratelli”: «Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate”» [Mc 14,33-34].
Con la consapevolezza sorda però – ed è quella che apre al secondo modo di vegliare – che «li trovò addormentati»… cioè che c’è una soglia oltre la quale si è da soli davvero, nella propria nudità radicale, a decidersi per il restare svegli nella propria disomogeneità. «La vocazione cristiana trova qui la sua appassionante e difficile dimensione quotidiana compresi i ritmi del dinamismo psicobiologico, i momenti di stanchezza e di angoscia, di speranza e di confidenza, di intontimento e di sonno, con relative pulsioni e ritorsioni su chi ci sta attorno. Ma la fede matura così, umilmente, nei passi della vita: strana misteriosa miscela, tra una ferita “dentro” e una “vocazione” ad uscire fuori, cioè una “debolezza” chiamata a compimento. Attratti e accompagnati da un’inafferrabile colonna di fuoco e di nebbia, in una luce chiaroscura, che vuole uno sbilanciamento verso di “lui” che, se un poco soltanto ti inoltri, già rimani comunque senza vedere né sapere cos’avverrà nel cammino – e dove si va… Però, vale la pena comunque di andarci!» [Giuliano].
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