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venerdì 30 luglio 2010

XVIII Domenica del Tempo Ordianrio: Sopraffatti o consegnati?

Le letture che la Chiesa ci propone per questa diciottesima domenica del tempo ordinario mostrano con evidenza quella che è una prerogativa di tutto il vangelo, e cioè la sua perenne attualità, la sua capacità di interpellare ogni generazione, di parlare all’uomo di ogni tempo, anche al nostro. Anzi, in questi testi, sembra addirittura intercettata la problematica vera dell’uomo del nostro tempo (ma forse solo perché – anche se in contenitori culturali diversi – è la problematica dell’uomo di tutti i tempi): e cioè il senso della vita, a fronte della morte… il “cosa siamo qui a fare?”, se poi dobbiamo morire… il “come dunque spendere questo breve tempo che ci è dato?”, “come impegnarlo?”, “in cosa impegnarci?”, “a cosa attaccare il cuore, dare le nostre energie, affidare il nostro tempo?”, “quale senso sposare, per cosa vivere, a cosa credere?”, “a chi dar retta, da chi imparare, chi seguire per non buttar via questa vita e noi stessi con essa?”…
Con il ritornante e sempre mai sopito ritornello amaro del libro del Qoelet: «tutto è vanità. […] Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità!». Cioè, con la tentazione/consapevolezza (paura) agnostico atea, per cui, quelle, rimarranno domande senza risposta; tanto che non val neanche la pena affannarsi per pensarci… ma piuttosto smagarsi dall’illusorio incontro/ricerca di una sensatezza, per vivere da uomini/donne maturi, che sanno fronteggiare l’abissalità della morte, che ci riserva il niente («Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”»).
Solo che poi la morte sopraggiunge davvero
 – e non solo nel nostro immaginario, più o meno esorcizzato con ironia, sarcasmo, acidità o presunta maturità e superiorità quasi indifferente – e ci porta via chi amavamo di più, chi non era giusto che morisse (perché troppo giovane, troppo bello o troppo importante), chi non ha fatto in tempo nemmeno ad affacciarsi in questo nostro tempo (perché troppo fragile, troppo scomodo, troppo piccolo), chi non aveva ancora trovato il “lieto fine” delle sue vicende (perché troppo solo, o troppo ingarbugliato, o troppo poco amato)… chi – semplicemente – avremmo voluto fosse stato ancora un po’ a farci compagnia… e allora si fa esperienza di come tutte le risposte (o rispostine) che ci siamo dati con la testa, che abbiamo messo lì per placare/sfidare l’angoscia, non tengono, non sos-tengono la realtà di una vita inconsistente, in cui «Tutto ciò che esiste, ma, ancor peggio, tutto ciò che è umano e ci è caro, è destinato a morire. Non ha in sé capacità di tenere insieme i pezzi fisici o vitali di cui è composto. Questo vuol dire in/consistenza!»… e allora davvero «Non possiamo reprimere quella parte di noi che si commuove e si ribella. Le bestemmie di Giobbe, come gli incubi dei santi e dei dannati sono sacre, sono quelle di ogni uomo pensoso, per l’ingiustizia del dono di una vita “da morire”»! [Giuliano]
È dentro qui – dentro a questa condizione in-consistente dell’uomo (addirittura “da dentro” questa condizione) – che si innesta la vicenda storica di Gesù e in particolare questo brano del vangelo di Luca che la liturgia oggi ci propone. E che parla di vita e di morte, appunto…
Innanzitutto l’incipit – sempre sorprendente: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?»… Come “Chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?”? Non era mica Dio, il Figlio di Dio, il Figlio dell’uomo?! Insomma il Messia? Dunque il giudice e mediatore sopra di noi? No! No, almeno nel senso che quest’uomo intendeva/pretendeva, che noi uomini intendiamo/pretendiamo… quando «vorremmo trascinare il vangelo nelle nostre questioni e non ci accorgiamo che esso invece va alla radice e le sconvolge tutte» [MAGGIONI, il racconto di Luca]: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede»!
Ecco la “radice” della questione: non chi ha ragione o torto, quanto spetta a questo e quanto a quello… ma “da cosa dipende la vita?”, il suo senso?… Che – come dicevamo – è il problema dell’uomo.
Gesù, all’uomo disperso nelle ragioni per aver ragione, nella misurazione di sé e degli altri per aver un po’ di più (di eredità, di soldi, di amore, di lucidità, di cultura, di simpatia, di attenzioni, ecc…) degli altri e “sentirsi sicuro” (e a ben guardare tutta la nostra vita la misuriamo così!), dice: la vita non dipende da ciò che si possiede… c’è da cambiare sguardo, pena il rimanere «consumati nel farsi dar retta» [De Andrè, Verranno a chiederti del nostro amore], cioè nel «primo più ingenuo tentativo di sfuggire alla morte, come privazione di ogni bene, che è la bramosia di accantonare più beni possibile… come sicurezza per sé!» [Giuliano]. C’è da fare un passo indietro – come guardare dal di fuori – tutte queste dialettiche sulle cose, che ci rendono più simili a un pollaio che ad una famiglia… e intravvedere in esse – e nella passione che ci mettiamo (per aver ragione appunto – dunque per sentirci giustificati, sicuri, “apposto”) – quanto siano intrise della logica dell’affermazione di sé, per niente libere – come credevamo e pretendevamo di imporre – ma sempre inserite nel meccanismo: paura della morte – bisogno di affermazione di sé (a scapito degli altri)… come a dire… in un regime di “si salvi chi può”… mors tua, vita mea
A guardarle così… le nostre “ragioni” (religiose, politiche, economiche, affettive, relazionali, ecc…) si sgonfiano proprio, perché ci appaiono non così nobili come volevamo farle apparire, ma meschine tanto quanto quelle degli altri… perché votate non a rispondere al problema del senso, ma a fintarne uno di cui convincersi e convincere, con lo scopo non di Vivere, ma di sopravvivere (più degli altri)…
È da qui che Gesù si tira fuori e vuole tirarci fuori, per fissare lo sguardo altrove: «“Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio». Dove il nodo centrale è quel “per sé” – così evidente anche dal monologo che il ricco della parabola si fa tra sé e sé («Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!») – contrapposto al “per chi?” di Gesù («Quello che hai preparato, di chi sarà?”») e al suo “presso Dio” («Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio»).
Un po’ scostati allora (è la preghiera!) dal pollaio delle pretese di possedere le giuste ragioni, orientati dallo sguardo stesso con cui Gesù – anch’egli scostato («stava in preghiera») – ha guardato la nostra storia, si può intravvedere che forse c’è differenza tra morire – perché non si è vinta l’ennesima battaglia della lotta per la sopravvivenza e si è stati sopraffatti da qualcuno/qualcosa più forte di noi – e morire – perché ci si è consegnati alla Vita, che è poi l’A/altro… già durante la vita!
Per arrivare – in pace – alla consegna finale…

Come Gesù… e tanti dietro a Lui…

Come ci insegna Carlo Molari con i suoi “criteri della morte”: «Le riflessioni antropologiche non possono essere compiute senza un serio confronto con la morte. La morte, infatti, non è un incidente, bensì il traguardo ultimo di ogni impresa vitale e quindi è il criterio supremo della vita: noi siamo in questa fase di esistenza per diventare capaci di uscirne. Partiamo da una metafora chiara. Il feto resta nel seno della madre finché diventa capace di venirne fuori in modo vitale. Per lui la nascita è la fine di uno stadio. Il che significa che tutto ciò che capita al feto è valutabile secondo il rapporto che ha con la fine che lo attende. Ciò che favorisce la sua uscita dal seno materno è bene per lui. Ciò che, invece, la impedisce è male. Analogamente noi siamo in una situazione che è destinata a finire. Ciò che nella vita ci consente di finire bene è giusto, ciò che ci impedisce di morire bene è male per noi. Importante perciò è sapere che cosa la morte chiederà ad ogni uomo, perché egli sappia viverla.
La morte chiederà a tutti 1) di avere consolidato la propria identità al punto da saperne abitare il nome senza ricorrere ad altri riferimenti; 2) di avere imparato il distacco da tutte le cose 3) di avere interiorizzato così gli altri da sapere partire senza tenere nessuno per mano; 4) di avere imparato ad amare in modo così oblativo, da sapere donare se stessi senza rimpianti; 5) di avere imparato a fidarsi così della vita da saperla perdere per ritrovarla».

Come Elisabetta, morta “in mano” a qualcuno, con tutte le sue figlie intorno, dicendo: "siate buone le une con le altre, perché è l'unica cosa importante al mondo!".

sabato 24 luglio 2010

Giuliano Bettati


Se qualcuno ha delle foto e vuole mandarmele, farà cosa molto gradita!
Indirizzo email e postale, nel profilo dell'Eremo. Grazie!
NB: Tutte le foto, se scaricate in originale al sito di riferimento (Picasa, cliccare sull'angolo destro in basso) sono state da me elaborate per portarle ad almeno 300dpi definizione, necessaria per la stampa fotografica.
Mi stanno arrivando delle foto che progressivamente aggiungerò.
Avrete notato che qualche didascalia ha un "?": se mi aiutate a sostituirlo con dati certi... Grazie


...
Andate avanti!
Senza spaventarvi se ci vorrà un lungo rodaggio e il momento è intenso di impegni.
Auguri, Giuliano.
(Questa frase è tutta una sua e-mail: corta, essenziale, "paraclita")
...

Testimonianze:

Messaggio di p. Saverio Cannistrà, Preposito Generale dell’Ordine dei Fratelli Scalzi della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo

Caro P. Attilio,
pur nella distanza geografica che ci separa, sono spiritualmente con te e con tutta la Provincia Lombarda per pregare per il nostro fratello Giuliano. Nella fede sappiamo che non lo abbiamo perso, ma che il rapporto con lui e solo cambiato, si e fatto più interiore ed essenziale. E tuttavia, qualcosa mancherà inevitabilmente alla nostra sensibilità.
Di Giuliano ricordo innanzitutto la semplicità del fratello e la generosa dedizione e disponibilità del padre. E poi la profondità delle sue analisi, che aprivano interrogativi, più che fornire risposte già fatte. Mi sembra che abbia vissuto fino in fondo le inquietudini e la ricerca appassionata di una intera generazione di carmelitani scalzi, quella dell'immediato postconcilio. Se oggi la generazione successiva può muovere passi in avanti, nel tentativo di interpretare i nuovi segni dei tempi, lo si deve anche a quelle fatiche e a quel coraggio. Sono certo che Giuliano continuerà ad accompagnarci con la sua fraternità ed intelligenza, ora pienamente illuminate e purificate nella fiamma viva dell'amore e della misericordia di Dio.
Fraternamente

P. Saverio

Testimonianza di P. Attilio, Provinciale:
Provo ad esporre cosa ha significato per me la vicinanza di P. Giuliano come fratello e padre. Ho sempre trovato in P. Giuliano una passione vera, un desiderio continuo con cui cercava di coniugare insieme quello che diceva il Vangelo, o meglio il suo Signore, e quello che passava nel cuore degli uomini e delle donne che incontrava. I fatti, gli eventi, le situazioni, i conflitti, i germi di bene e di speranza erano continue provocazioni in lui per amare il suo Signore, che aveva scelto criterio della Sua vita. E dentro questa provocazione riusciva a leggere i criteri fondanti della vita di fede e di disponibilità ai fratelli e alle sorelle. Ed è proprio per questo che non sempre è stato compreso, accolto, perché la ricerca della verità che c’è nel vangelo e il comando del Signore ad amarci creava in lui una persona tenace, sempre in ricerca della verità e nello stesso tempo capace di comprendere i limiti, gli errori delle persone e di accompagnarle verso il bene. In questi giorni non ho trovato nessuna persona che non abbia ricevuto da lui del bene o che non dicesse che la sua morte rimanesse una grossa perdita. Giuliano non si fermava all’esteriorità, al già dato, al già scontato o alle situazioni di comodo ma c’era sempre un “oltre”, un’esigenza di vita che lo spingeva a credere e amare sempre. Anche nel momento della prova ci ha insegnato come viverla nella serenità e nell’obbedienza anche se gli è costata una grossa sofferenza. Grazie Giuliano per questo spirito di fede, di disponibilità verso tutti e per questa tua voglia di vivere. Che il Signore renda questa voglia di vivere che hai sempre avuto tra noi, piena, libera, sciolta da ogni ostacolo in comunione con Lui e con i santi del Carmelo e i fratelli e sorelle che ci hanno preceduto.

Grazie Giuliano! (Lessolo 20 Aprile 2010)

Testimonianza di Chiara:
Dal Diario di Etty Hillesum:
«Una volta ho scritto che volevo leggere la tua vita fino all’ultima pagina. Ora l’ho fatto. Provo una gioia così singolare, per tutto quanto, per com’è stato e perché è stato certamente un bene – altrimenti non potrei sentirmi così forte, lieta e sicura.
Ecco, ora riposi, tu caro, grande, buono. Una volta ti ho scritto: il mio cuore volerà sempre e da ogni luogo di questa terra verso di te, come un uccello, e sempre ti troverà. E un’altra volta ho scritto: sei diventato talmente parte del cielo che s’incurva sopra di me, che mi basta alzare gli occhi per esserti accanto. E se anche mi trovassi in una cella sotterranea, quel pezzo di cielo si stenderebbe dentro di me e il mio cuore volerebbe a lui come un uccello, ed è per questo che tutto è così semplice, sai, straordinariamente semplice e bello e ricco di significato.
Avrei ancora mille cose da chiederti e da imparare da te, ora mi toccherà far tutto da sola. Sai, mi sento così forte e sono certa che me la caverò. Sei tu che hai liberato le mie forze, tu che mi hai insegnato a pronunciare con naturalezza il nome di Dio. Sei stato l’intermediario tra Dio e me, e ora che te ne sei andato la mia strada porta direttamente a Dio e sento che è un bene. Ora sarò io l’intermediaria per tutti quelli che potrò raggiungere.
Ora sotterreremo i tuoi poveri resti mortali. Sai com’è, queste cose devono pur succedere, è una consuetudine igienica degli uomini. Ma siamo qui tutti quanti insieme e chissà come sei felice a vederci qui uno accanto all’altro, tu che hai cercato Dio dappertutto, in ogni cuore umano che ti si è aperto – quanti ce ne sono stati –, e dappertutto hai trovato un pezzetto di lui.
Quanto a me… voglio continuare a portarti in me e ti trasmetterò ad altri in un semplice, tenero gesto che una volta non conoscevo».
Caro Giuliano, amandoci – così come ci hai amati – hai aperto spazi impensabili dentro di noi e c’hai aperto i canali dell’amore… dell’amore autentico, libero, dedito, appassionato e dolce… il “di più dell’amore”… senza paura, senza mai tirarsi indietro, per tutti, fino alla fine… Dicevi infatti: “ma cosa c’è altro da fare nella vita? Questo è il vangelo”.
E a me mi hai convinto.

Altre seguiranno...

venerdì 23 luglio 2010

XVII Domenica del Tempo Ordinario: «Signore insegnaci a relazionarci con Dio»

Le letture che la Chiesa ci propone per questa diciassettesima domenica del Tempo Ordinario, hanno come evidente tematica centrale la preghiera. Innanzitutto il brano tratto dalla Genesi: esso contiene la famosa “contrattazione” tra Dio ed Abramo, riguardo alla sorte di Sodoma e Gomorra. Un dialogo che di primo acchito stride con il volto di Dio proposto da Gesù e tramandato nei Vangeli, perché il risultato finale è quello della distruzione delle due città. Ma tenendo conto del fatto che, nel leggere i testi biblici, non bisogna mai dimenticare che si tratta sempre della rilettura che gli uomini fanno della storia (della salvezza) e non di una “presa diretta” dei fatti così come si sono svolti (dunque che si tratta di un racconto a posteriori della distruzione di Sodoma e Gomorra – cioè di un racconto che a partire dal dato storico della fine di queste città, prova a rileggerlo teologicamente, con una teologia legata alla cultura e mentalità del tempo – che prevedeva un Dio retributivo!), ciò che di questo testo risulta fondamentale non è tanto l’episodio “storico” (anche perché poi – di fatto – quanto sia c’entrato Dio con Sodoma e Gomorra è davvero difficile dirlo), quanto piuttosto la convinzione ad esso soggiacente che con Dio si può parlare! «Il nostro Dio – infatti – non è il Fato, un destino irreversibile, già tutto predestinato, contro il quale ogni domanda o anelito o lacrima è senza senso. È questa la grande scoperta di Abramo, l’uomo collettivo che condensa la sofferenza di tutti i samaritani feriti dalla compassione per gli uomini! Ha scoperto che con Dio si può discutere» [Giuliano].

Un’evidenza (?!) forse, per i più, ma anche una grande chiave orientativa: perché per le nostre orecchie di uomini e donne postmoderni fa una certa differenza sentirsi dire “Con Dio si può parlare/discutere”, rispetto al più tradizionale “Si può pregare Dio”. Perché, pur essendo frasi che indicano la medesima possibilità di relazione, esse in realtà evocano istintivamente orizzonti diversi. Troppo spesso infatti oggi il “pregare Dio” rimanda al mero “dire preghiere” (che non sono certo da svilire, ma che a volte rimangono formulazioni vuote, quasi magiche, senza che riescano a coinvolgere la libertà personale dell’orante); mentre la notizia che a Dio si può parlare, riesce – oggi – forse a dire meglio la possibilità di coinvolgere realmente la vita con Lui, con Qualcuno dunque che, per definizione era separato, e invece – liberamente – ha deciso di rendersi accessibile, incontrabile, “im-mischiato” con noi: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4). Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé» (DV 2).
Si tratta dunque dell’inaudita e insperata possibilità di poter parlare a Dio, di avere una relazione con Lui, di pensarsi in relazione a Lui. Ecco perché i discepoli, che diverse volte avevano visto Gesù vivere (di) questa relazione, ad un certo punto gli fanno la domanda diretta: «Signore, insegnaci a pregare»: perché avevano intuito che il volto di Dio che Gesù – vivendo – mostrava non poteva non andare a con-vertire anche le strutture tradizionali del relazionarsi a Lui. Come scriveva H. Küng infatti «La preghiera è il test pratico della comprensione di Dio: come viene espresso Dio, così viene praticata la preghiera. E come si prega, così viene anche compreso Dio. [Ma anche] Da come uno prega si capisce che uomo egli è» [H. KÜNG, Preghiera e problema di Dio, in G. MORETTO (ed.), Preghiera e filosofia, Morcelliana, Brescia 1991, 42]. E di fatti Gesù, nel “test pratico” della preghiera che dice in risposta alla domanda dei suoi («Quando pregate, dite: “Padre”»), conferma la comprensione di Dio che aveva già fatto emergere nella sua vita e cui manterrà fede fino alla fine («Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito», Lc 23,46) e anche che «uomo egli è».
A chi – dunque – scopre che a Dio si può parlare e chiede come a Lui ci si deve rivolgere, Gesù risponde: “A Dio si parla, chiamandolo Padre”! Dove – appunto – il “chiamarlo Padre” non è il suggerimento su quale titolo sia più appropriato usare, per evitare di toppare col galateo… ma è il dar credito alla possibilità reale di accedere ad una relazione filiale con Lui. “Chiamare Dio col nome di Padre”, cioè rivolgersi a Lui in questo modo, fa già la relazione. Come insegna l’analisi linguistica infatti «È chiaro che la sempre particolare maniera in cui all’inizio della preghiera si fa appello alla relazione tra chi parla e il suo destinatario, stabilisce anche il restante momento della preghiera. Ciò vale chiaramente in particolare per le affermazioni del postulante sulla sua situazione e sui suoi derivanti bisogni e necessità. Il mendicante davanti alle porte delle chiese può formulare questa affermazione in una maniera del tutto anonima, per esempio attraverso un cartello con la scritta “fame”. Lo straniero che cerca una strada, invece, dapprima saluterà i passanti a cui vuole chiedere informazioni, per porre poi la sua domanda, collegandola magari alla dichiarazione di aver perso l’orientamento in una città a lui sconosciuta. Il rivolgere la parola e la descrizione della situazione indica che qui non ci si riferisce a una relazione anonima, neanche a un caso che cade sotto una regola, bensì a una situazione individualmente dipinta, che deve essere affidata a un individuo per la sua soluzione. Molteplici sono le possibilità per la preghiera ad un amico fedele. Qui la descrizione della propria situazione di emergenza può avere il carattere di una comunicazione confidenziale che chi parla non farebbe mai ad un altro; essa si può limitare anche ad allusioni e lascia all’ascoltatore di farsi un’idea personale della situazione presente, sulla base della sua conoscenza della persona e dei rapporti con chi parla. Ma soprattutto in questi casi le affermazioni di chi narra la sua situazione personale saranno sostenute dalla fiducia, che l’amico comprenda ciò che significano per lui le condizioni di vita di cui parla e in quale modo esse dipingano una situazione nella quale egli ha bisogno di aiuto» [dalla mia tesi… sulla preghiera come luogo di accesso a Dio e all’io].
Il chiamare Dio col nome di Padre è allora molto più che imbroccare il titolo esatto con cui rivolgersi a Lui per evitare di farlo irritare, ma è il dar credito a chi ci ha detto che Dio è proprio così e che davvero possiamo costruire con Lui una relazione di figliolanza, di abbandono, di fiducia. Perché tra l’altro – prosegue il vangelo – questo è un Padre che ascolta: «Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto». Ma noi facciamo fatica a crederci… perché tante volte la storia a mostrato che le cose non vanno proprio così… che non è vero che le preghiere sono ascoltate… neanche quelle di fronte alle quali “non c’è santo che tenga”… Come la mettiamo allora con le preghiere di richiesta inesaudite?!? O addirittura con la consapevolezza dell’orante di porre una richiesta che non verrà esaudita? Ha senso pregare per chiedere qualcosa, accettando contemporaneamente l’eventuale non soddisfazione della nostra richiesta?
Mi pare che spesso – parlando di preghiera – ci si incarti un po’ in questi ragionamenti che paiono smentire la logica e dunque fanno cadere un’ombra di sospetto su Dio, sulla nostra relazione con Lui, sulla sua sensatezza… portandoci a rinunciare a pensare troppo (per evitare di non riuscire più ad uscirne) o gettandoci nello sconforto del dubbio e nell’angoscia anti-evangelica, quella cioè per cui la verità non è la buona notizia di un Dio che ci è Padre, ma la cattiva notizia di un dio disinteressato o addirittura inesistente.
Da questo punto di vista le ultime righe del vangelo di oggi, risultano invece illuminanti («Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!), dove «il suggerimento di Gesù di insistere fino alla sfacciataggine (11,8) finisce in un’affermazione curiosa : la bontà del Padre si rivela sollecita e smisurata, ma insieme “da conquistare”, proprio nel dono dello Spirito – “a chi glielo chiede!” A questo si riferiva l’insistenza: chiedete, bussate, cercate… Chiedere lo Spirito al Padre è come essere convinti dell’insufficienza del nostro spirito piccolo, a sbilanciarsi oltre la nostra storia, i nostri confini visibili, l’orizzonte percorribile con il nostro occhio… per aprirsi invece alla gratuità inventiva del suo Amore. Per credere che il suo disegno non è limitato nei miseri dati biografici personali, che ci precedono, o nel conteggio dei giusti che salveranno la città, ma nella forza dello Spirito che, attraverso la nostra ostinata incessante implorazione al Padre, ci impregna del suo Nome e ci immerge nel suo Regno» [Giuliano]. Che era quanto esprimeva anche Bonhoffer nella sua felice intuizione per cui «Dio non esaudisce le nostre domande, ma le sue promesse».
A dire – ancora una volta – che ciò che è implicato nella preghiera non è mai un mero scambio di favori, o di informazioni, o di consolazioni… ma in gioco c’è una relazione vera e propria, come tra una mamma e il suo bimbo, come tra due amici o come tra innamorati, dove – certo – ci sono anche tante cose e parole e situazioni, ma tutto come sostenuto dall’esserci dell’altro e per l’altro. Per questo – nella relazione con Dio (che è la preghiera) – non può non esserci un de-cidersi, un decidere di sé a suo favore, un rompere gli indugi per entrare nell’orizzonte di senso per cui Lui c’è ed è così, senza continuamente tenere un piede dentro e uno fuori, facendo come se ci fosse, ma poi magari non c’è… E questo non perché è una consolante auto illusione, ma perché Gesù, il Figlio che solo conosce il Padre, ce lo ha voluto raccontare (Mt 11,27).

giovedì 15 luglio 2010

XVI Domenica del Tempo Ordinario: Un'altra donna che sta seduta ai piedi di Gesù

In questa sedicesima domenica del tempo ordinario, la Chiesa ci propone (nuovamente!) l’immagine di una donna «seduta ai piedi di Gesù». E già questo merita un’annotazione: perché se la chiesa – storicamente così legata ad una tradizione maschile (-ista) (come si evince bene da alcune simpatiche espressioni di Teresa di Gesù, che scriveva «Voi siete giudice giusto, e non come i giudici della terra, i quali, figli di Adamo come sono e in definitiva tutti maschi, non vi è virtù di donna che non tengano in sospetto. Sì, ci deve essere un giorno, o mio Re, in cui tutti appaiano quali sono; Non parlo per me, ché già conosce il mondo la mia miseria, e ho piacere che sia palese, ma perché vedo tempi siffatti che non è ragionevole rigettare animi virtuosi e forti, quantunque siano di donne») – se questa chiesa, dunque, si ritrova a “dover” ripresentare (nuovamente!) quest’immagine così “eterogenea” rispetto ad un certo impianto religioso (l’aveva fatto solo qualche domenica fa con il brano di Lc 7,36 ss), è indubbiamente perché questa ricorrenza c’è nel vangelo stesso… e non si può tacerla…

Si può sfumarla, smaterializzarla, renderla evanescente (come ha fatto… leggendo per esempio questi testi sempre e solo in chiave simbolica – che è un procedimento che avrà anche una sua verità, ma che nel momento stesso in cui si stacca dalla realtà della narrazione – dal genere letterario vangelo – perde di consistenza…), ma non può censurarla… soprattutto perché è proprio rispetto ad uno di questi testi che Gesù stesso – come riporta Matteo 26,13 – ha detto: «dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che ella ha fatto». Come per l’eucaristia!
Dunque, una donna «seduta ai piedi di Gesù»… un’altra donna «seduta ai piedi di Gesù»… Quasi che vien da dirGli davvero – sempre con la Santa Madre Teresa – che «Quando eravate su questa terra, lungi d'aver le donne in dispregio, avete anzi cercato di favorirle con grande benevolenza. Avete trovato in esse tanto amore e fede più grande che negli uomini» (CV 3,7)… Come a dire – con un linguaggio un po’ più vicino al nostro di cinquecento anni dopo – che a Gesù piaceva proprio stare in compagnia delle donne, le guardava con simpatia e le incontrava con tenerezza e libertà, in maniera sempre pulita, senza temerle, né farsi da loro temere…
E chissà dove e quando, noi abbiamo disimparato (o non siamo stati capaci di imparare… o non abbiamo voluto imparare…) questa sua libertà di starci accanto – fratelli e sorelle che vivono insieme e pensano insieme e insieme crescono e costruiscono e si donano reciprocamente la vita…
Certo… tanti motivi storici, culturali, tradizionali… Eppure anche questo era un cordone essenziale dell’esperienza storica di Gesù… che doveva con-vertire (come è successo per tanti altri versanti) la storia, la cultura, la tradizione…
Senza contare che in più – in questo caso – lo stare di Maria «seduta ai piedi del Signore» mentre «ascoltava la sua parola» aveva anche un’ulteriore “eterogenea” valenza per quei (?!) tempi. Come annota infatti don Bruno Maggioni nel suo il racconto di Luca «Marta assume nei confronti dell’ospite un ruolo tipicamente femminile: tutta affaccendata prepara la tavola. Maria, al contrario, si intrattiene con l’ospite, assumendo un ruolo che la mentalità del tempo riservava agli uomini: un fatto insolito che neppure Marta condivide, prigioniera come tutte della mentalità corrente. Maria che si “siede ai piedi del Maestro” e ascolta la Parola è la tipica figura del discepolo. E questa è una novità. I rabbini infatti non usavano accettare le donne al proprio seguito, e divenire discepolo era riservato agli uomini. Per Gesù non è così». E per la chiesa? Chissà…
Su questo forse gli uomini (di chiesa) dovrebbero un po’ mettersi a pensare… (ma certo anche le donne)…
Eppure, il testo odierno non è solo questo… perché accanto all’immagine di Maria «seduta ai piedi di Gesù» – anzi forse proprio (dal punto di vista narrativo, ma non solo) per portare tale immagine in primo piano – c’è anche l’indaffararsi di Marta (i suoi «molti servizi»), la distrazione che questo le provoca («Marta era distolta»), la sua recriminazione («Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti»)… con in gioco – forse – un versante che dovrebbe “dar da pensare” più alle donne e alle loro dinamiche… (ma certo anche agli uomini).
Non va dimenticato, infatti, come sia Marta ad accogliere in casa Gesù («In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò»). È dunque lei che attua la fede migliore: «La nostra fede migliore [infatti] è accogliere in casa Gesù! Consegnare la propria vita ad un ideale di dedizione, di servizio, di gestione della propria vita … “per” qualcuno. Ma finiamo poi [come Marta – appunto] per volere gestire in proprio la nostra fede (la vita!)… Inevitabilmente il rapporto diventa contrattuale, moralistico, intento a soppesare la propria generosità e dedizione, con conseguente giudizio e ritorsione su chi non ci ascolta o si comporta diversamente… Allora si fa di tutto, a livello affettivo, politico, economico, teologico (perfino liturgico!) perché le proprie posizioni siano riconosciute e approvate… Finché emergono invidia, amarezza, ritorsioni, delusioni… il peccato dell’io moralista, che cova sempre dentro di noi. E si disistima “l’operaio dell’ultima ora”, “il fratello minore” ritornato dopo la fuga dissipatrice, ... i peccatori e pubblicani amati dal Signore… il profeta ambiguo che si lascia “toccare” dalle donne. Il rapporto di Marta con Gesù diventa disagevole, scontento, si consuma non in dolcezza compiacente, ma nell’insofferenza gelosa, e nella pretesa che tutti facciano come lei. Un rapporto infelice, che invece di unificarla armonicamente la lascia “distratta”, nel giro del molteplice servizio!”…
Maria invece «ascoltava la sua parola». Ecco invece il rapporto che si nutre di se stesso, non si misura, dà gioia e pacificazione… E perfino… pazienza comprensiva dell’insofferenza altrui (tace, non reagisce: sapendo che la spiegazione non serve e sarebbe comprensibile solo a chi ha provato!). Nasce una dinamica interiore che è possibile solo se sostenuta dall’esperienza già percepita (almeno qualche barlume, chi non l’ha avuto?!) che l’ascolto della Parola di Dio è l’opportunità più immediata (alla portata di tutti) non di … smettere di parlare per essere ascoltati. Ma invece di imparare ad ascoltare… Dio, nel suo modo di manifestarsi e agire nella nostra storia! Scoprire che Dio ha cercato infinite volte, in tanti modi, nei millenni, attraverso santi grandi e piccoli, attraverso profeti, mistici, poeti, i disperati dell’umanità… di farsi ascoltare… E ultimamente attraverso il figlio, mandato nel mondo, uomo con gli uomini, a fare amicizia, a nome del Padre (Gv 15,15)!
Questa donna segna nel vangelo l’esperienza più viva del nuovo ascolto “diretto” della Parola, in persona! viva e presente in Gesù, amico affettuoso, che non solo parla, ma trasforma e colma il cuore… Certo che tutto diventa secondario, per lei, in questo momento! E non si ricorda neanche della cena e dei preparativi necessari… Non toglie lo sguardo da questo ospite che la coinvolge come nessun altro! Gesù ne è coinvolto, fino a definire questo atteggiamento della sua amica “la parte buona, che non le sarà tolta”, perché è incancellabile. Infatti le ha segnato il cuore, per sempre!» [Giuliano].
Il problema allora non è tanto quello dello stabilire cosa sia più importante tra il servizio e l’ascolto – o tra vita attiva e vita contemplativa – come spesso invece si tende a fare in riferimento a questo brano (anche perché non va dimenticato che esso è messo in stretta relazione – viene subito dopo – alla parabola del buon samaritano, che – su questo piano – dice il “contrario”, perché i due “contemplativi” – sacerdote e levita – passano oltre, mentre il samaritano si ferma a servire il moribondo… e lui, non gli altri, là, era in primo piano!)… il punto è (nuovamente!) la centralità del volto dell’A/altro a fronte delle molte cose che distraggono! Dice infatti ancora Maggioni: «Persino il troppo “dare”, anche per amore, rischia di togliere spazio alle relazioni», che invece sono le uniche “cose” che contano per il Signore e – dunque – le uniche che dovrebbero abitare il centro del cuore del discepolo, che dovrebbero essere il suo tesoro («Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore», Lc 12,24)… diventando in qualche modo lucidi e benevoli verso le proprie e altrui dinamiche (maschili e femminili), ma per evangelizzarle, perché esse – seguendo le logiche della carne, dunque della competizione – dis-traggono (cioè “traggono fuori”) dalla «parte migliore»… che invece è proprio quella che rende abitabile questa vita, rendendola – nella relazione cristica con l’A/altro – Vita… che non sarà tolta!

venerdì 9 luglio 2010

XV Domenica del Tempo Ordinario: il “tutti accoglie”

Il brano di vangelo che la Chiesa ci propone per questa quindicesima domenica del tempo ordinario, è il famosissimo dialogo tra Gesù e un dottore della Legge, nel quale è inclusa la parabola – cosiddetta – del buon samaritano.

Data la notorietà del testo, il rischio da cui immediatamente guardarsi è quello di darne per scontato il contenuto, riducendone magari il senso ad una bonaria esortazione ad essere un po’ più buoni – che purtroppo è ciò che spesso si pensa della proposta evangelica…
In realtà – a ben guardare – già l’incipit di questo dialogo, colloca tutta la questione in un contesto ben preciso e per niente banale: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». In gioco c’è, quindi, non tanto o non semplicemente la richiesta di un buon consiglio per il quieto vivere, ma la domanda delle domande: “Cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”, che – detto in termini a noi un po’ più familiari – sarebbe come chiedere: “Maestro, qual è il senso della vita?”, “Cos’è che le restituisce una compiutezza?”, “Come si fa ad arrivare sul letto di morte, guardarsi indietro, ed essere contenti della vita che si è condotta?”… Quello che i nostri ragazzi, un po’ brutalmente sintetizzano nel “Come si fa ad essere felici? E ad esserlo per sempre?”…

Il problema in gioco, dunque, non è una mera questione teorica fra teologi (Gesù e il dottore della Legge), ma è il problema dei problemi, quello contro cui ogni uomo (e donna) che nasce su questa terra inevitabilmente si imbatte, senza scrollarselo mai di dosso per tutta la vita (anche quando cerca di far finta di niente… o di scordarselo): “Come si fa ad avere la vita oltre la morte?”. «Una domanda curiosa, perché sembra sottintendere un certo diritto acquisito ad averla (è naturale, mi spetta, come a un figlio l’eredità!) ma anche una trepidazione misteriosa (quali condizioni per poterla ricevere e usufruirne?). Ci sembra così difficile, arduo, lontano… imprendibile, il senso della vita» [Giuliano].
Eppure… per la risposta (apparentemente) così difficile alla questione delle questioni, Gesù non fa altro che rimandare a ciò che “da sempre” si sapeva, perché già contenuto nella Legge: «“Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?” […]: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. […] “Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai”» (in eterno, ovviamente, dato che proprio questo chiedeva la domanda iniziale…).
Ma il dottore delle Legge sa che – nonostante questa risposta non sia per niente inedita, anzi sia molto vicina («è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica», «non è nel cielo, perché tu dica: “Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Non è di là dal mare, perché tu dica: “Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”») – essa appare muta.
«L’uomo sa, dunque, come si dovrebbe amare, ma non ne è capace, come la sua storia infinita dimostra! L’umanità nel suo interminabile cammino verso la pienezza di sé – si è persa, mezza morta nella fatica, nella schiavitù, negli ospedali, nelle guerre, lungo la strada … non riesce più a camminare» [Giuliano].
Ecco il perché della nuova domanda del dottore della Legge… che cerca in questo modo di far tornare a parlare quell’antica legge (che diceva che il senso della vita era l’amore), ma che giaceva dimenticata dai cuori degli uomini: «E chi è mio prossimo?».
Ancora una volta Gesù non risponde direttamente, ma racconta una parabola: la storia di un uomo che «scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto». «Per caso, un sacerdote [un prete – per fare il parallelo coi giorni nostri] scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta [un seminarista], giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano [un rumeno – per intenderci – sempre col nostro linguaggio di oggi…], che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo [letteralmente “nel tutto accogli”] e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore [al tutti accogli], dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno».
Le tematiche sfiorate (come attraverso rapide pennellate) da Gesù in questa storia sono molte e – come aiuta a vedere il parallelismo col nostro mondo odierno messo tra parentesi quadra – anche molto provocatorie: c’è infatti la forte critica ad una religiosità che antepone le regole al volto dell’altro (il sacerdote / il levita); c’è la curiosa audacia per cui si prende a modello un eterodosso malvisto dalla sensibilità culturale del tempo (sacerdote – levita / samaritano); c’è la possibile identificazione di Gesù col malcapitato aggredito dai briganti (quasi che qui Gesù raccontasse la sua autobiografia) o – quella più evidente – col samaritano stesso… ma al di là di tutti questi possibili sviluppi del discorso (fondamentali, ma non qui percorribili, se non perché poi tutti ri-com-presi dal nucleo del discorso, perché tutti lì convergono…), il centro rimane la domanda finale di Gesù, col suo ribaltamento della problematica iniziale del dottore della Legge: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?».
Ecco la chiave di lettura della realtà propria di Gesù: non tanto “Chi è mio prossimo?”, quanto “il farsi prossimo degli altri”, la “prossimità” come colonna vertebrale dell’esistenza. Questa è la sua risposta!
Ecco infatti (ripresa – la tematica del) l’autobiografia di Gesù: «All’umanità ferita, mezzomorta, lungo il suo millenario cammino tante volte interrotto, ormai senza meta… Dio è venuto a “farsi prossimo”, in Gesù. Una prossimità nata dalle viscere di misericordia del nostro Dio… La prossimità non è uno stato misurabile in maggiore o minore distanza ideologica affettiva razziale religiosa politica… Prossimità è aver compassione – smuoversi nelle viscere “farsi vicino” a chi è lontano, per l’urgenza del cuore. È questa la storia “cristiana” della salvezza: Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna (Gv 3,16). Dunque, c’è davvero un’eredità di “vita eterna” da accogliere, nel viaggio di avvicinamento o “approssimazione” di Gesù a noi, lungo le nostre strade, per vedere come lui agisce e imparare da lui come ci si comporta! E allora si capisce bene “chi è il mio prossimo!” e qual è la vera soluzione per avere in eredità la vita eterna! È scritto in questa parabola: è la sua vita! Perché il prossimo è Gesù – ed esser suo discepolo vuol dire farsi prossimo come lui, ad ogni uomo, in sua memoria e con la forza del suo Spirito, che ci ha infuso nel cuore – come un gemito di invocazione di soccorso» [Giuliano].
Ecco il nuovo nome della Chiesa (e di ciascun cristiano): il “tutti accoglie”!

Con l’inevitabile presa di coscienza dello scarto tra una realtà spesso divisoria (le norme di purità dividono puri e impuri, peccatori e giusti; gli stati di vita dividono tra con-sacrati e non, abilitati a Dio o no… ecc… ecc... ecc… tutte cose necessarie, deve accadere così, ma qualcuno ci deve piangere), cioè inevitabilmente discriminante – che è una parola terribile, perché ha una radice semantica che suggerisce che di là ci sono i criminali (!)… lo scarto con la prossimità, l’onniaccoglienza, l’amore, che invece quelle divisioni, le supera… Ecco la critica – non poi così velata – che Gesù nella parabola porta al formalismo, legalismo, moralismo religioso – germe che purtroppo non infettava solo Israele, ma si è diffuso anche nel “tutti accoglie”, che doveva essere la Chiesa… o che è la Chiesa… perché se il protagonista è un samaritano, vuol dire proprio che, anche là dove non te lo aspetti (più), invece il germoglio evangelico può spuntare… e nella Chiesa – seppur spesso così ancorata a fare il “tutti divide” (credenti/atei; cristiani/non cristiani; cattolici/ non cattolici; chierici/laici; santi/peccatori; sposati/separati; etero/omosessuali; maschi/femmine…) – ci sono davvero persone e luoghi che “tutti accolgono”!

E infine, viene in mente la domanda che i servi di Namaan gli posero dopo che Eliseo gli aveva suggerito cosa fare per guarire dalla lebbra e lui se ne era andato sdegnato per la banalità del gesto da compiere (2Re 5,1ss): «Padre mio, se il profeta ti avesse ordinato una gran cosa, non l’avresti forse eseguita?»…

Ecco mi pare la domanda giusta da porsi alla fine di questo testo… Se per “conquistare” la vita eterna ci avessero messo in mano spade e corazze, saremmo (siamo) stati capaci di partire per grandi imprese, grandi avventure, grandi spargimenti di sangue… Siccome invece la “ricetta” è un’altra, spesso ce ne andiamo sdegnati… perché a noi il dio della guerra, del più forte, del più sanguinolento (dove a morire son sempre gli altri, cattivi, ovviamente) “ci” piace di più… Quello invece che “tutti accoglie” e ci chiede di “tutti accogliere”, dà un po’ troppo poco risalto al nostro io – sempre in cerca di affermazione (per illudersi di esserci – di non morire appunto, quindi di avere la vita – eterna) – perché, appunto, al centro mette l’altro… l’inevitabile necessità di “uscire da sé” per farsi prossimo…

Eppure – se vogliamo dare credito a Gesù – e nella vita diverse volte l’abbiamo potuto sperimentare… – la strada per la Vita, il suo senso, la sua pienezza, la sua eternizzazione… è “sprecarla” per gli altri, mettergli l’olio sulle ferite, accudirlo, coccolarlo, consolarlo, farlo crescere… includerlo nel circolo dell’amore che «riconcilia tutte le cose».

venerdì 2 luglio 2010

Lectio Magistralis


Non lasciatevi intimidire da chi grida di più perché ha più denari e più forti clientele... Non vi seduca la voce della popolarità a qualunque costo: a qualunque costo c’è soltanto il proprio dovere. Non potete fare molto, perché non fu data, con il suffragio, l’onnipotenza... Molto sarà perdonato a chi, non avendo potuto provvedere a tutti i disagi degli altri, si sarà guardato dal provvedere ai propri. Ridurre lo star male del prossimo non è sempre possibile: non prelevare per noi sulla miseria dei poveri è sempre possibile.
don Primo Mazzolari, ai neo eletti parlamentari Dc nella consultazione elettorale del 18 aprile 1948
(citato da Gian Carlo Cavazzoli, nella lettera al direttore di Avvenire del 18 febbraio 2010)

Il rischio di un futuro già scritto


Le meditate dichiarazioni del Presidente Napolitano suonano come un ultimo, grave monito per quelle forze di governo, che guidate dallo stesso Berlusconi, sembrano aver scelto la strada di uno strappo politico e istituzionale dalla portata imprevedibile, pur di realizzare un proposito che pare non intendere ragioni.

Il Presidente, doverosamente, non anticipa la sua valutazione, ma mette in guardia contro una deriva che, se non tempestivamente corretta, può portare verso un catastrofico epilogo legislativo.

Napolitano prende atto – e sarebbe difficile fare altrimenti – dei molti, troppi «punti critici» del disegno di legge così come approvato dal Senato. Punti critici che fanno di quel testo un’autentica mina. Ed è molto significativo che per la loro individuazione egli faccia riferimento a un contesto composito, che integra insieme il dibattito parlamentare, il giudizio dei giuristi, l’orientamento di una vigile opinione pubblica. È una scelta formale e sostanziale, di grande valore.

Perseguendola, il Presidente dimostra di eleggere a guida dei suoi comportamenti non la propria astratta capacità di giudizio, ma una opinione che emerge dall’intelligenza stessa del Paese, per come si manifesta nelle sedi della rappresentanza politica, della cultura del diritto, della formazione delle coscienze individuali, e di cui egli si fa interprete e portavoce. È una lezione di buona pratica costituzionale, di misura e di compostezza che dovrebbe far riflettere tutti, di questi tempi. Merita in pieno il rispetto.

Ed è importante la sintonia che ancora una volta si sta realizzando con il Presidente della Camera, che l’altro ieri aveva definito non altrimenti che un «un puntiglio» la decisione di accelerare i tempi, e di portare a tutti i costi il progetto di legge sulle intercettazioni al dibattito in aula prima dell’estate, e che ha appena ribadito la necessità, da lui fortemente avvertita, che la maggioranza si fermi a riflettere. In un periodo che si annuncia ogni giorno più carico di rischi e di pericoli, la saldatura di un asse che definirei di «lealismo costituzionale» ai vertici dello Stato è uno dei pochi elementi – ma decisivi, per fortuna – che inducono a non disperare.

C’è da chiedersi cosa stia spingendo Berlusconi verso questa inaudita forzatura. Temo che la risposta si trovi nella sua solitudine, che non può non avvertire, con sempre maggiore evidenza. Intorno a lui, tutti, anche quelli da sempre più vicini, parlano ormai altre lingue, che non capisce. Vedono cose che lui non vede. Questo non fa che aumentare la sua diffidenza, la sua impazienza, la sua voglia di rovesciare un tavolo che sente sfuggirgli sotto le mani.

È da tempo ormai che egli non ha più nulla da proporre al Paese, se non l’icona di un successo ormai invecchiato, che appartiene a un’altra epoca, imbalsamato nell’ossessiva ripetizione della sua messa in scena. Ma proprio l’inarrestabile declino della sua capacità di governo, spinge Berlusconi verso l’azzardo continuo dell’avventura, del sovversivismo istituzionale. Nulla gli resta più della pazienza dei forti. Ha ormai solo l’ansia febbrile di chi ogni giorno deve lottare in un mondo in cui non si riconosce. È possibile che a questo punto dei contenuti effettivi della legge gli interessi ben poco. Quello che cerca è la prova di forza, lo scatto che metta alleati e avversari in riga, che imponga l’alternativa fra se stesso e il diluvio, magari per preparare nuove elezioni.

E tanto più c’è bisogno – per fronteggiare tutto questo – di razionalità e di pacatezza. Di continuare a spiegare con calma che la legge in questione sarebbe una cattiva legge, che non risolverebbe alcun problema, ma ne creerebbe moltissimi, anche molto gravi e che – per come è formulata – comprometterebbe il diritto dei cittadini a un’informazione senza censure. Le buone leggi non nascono mai dall’arroganza di una parte sola. In esse il potere deve sciogliersi nel consenso e nell’emancipazione; la forza dei numeri nella ragione delle cose. Al di fuori c’è solo l’ombra del tiranno e della sua demagogia.

giovedì 1 luglio 2010

XIV domenica del Tempo Ordinario – Prima dite “PACE”

In questa quattordicesima domenica del tempo ordinario, la Chiesa ci invita a riflettere sul brano del vangelo di Luca (Lc 10,1-12.17-20) che segue immediatamente quello della settimana scorsa (Lc 9,51-62), seppur con una piccola cesura nel mezzo (Lc 10,13-16).

Dopo la prima parte (conclusasi in Lc 9,50), siamo dunque collocati in quella seconda parte del vangelo che era iniziata con la decisione di Gesù di dirigersi a Gerusalemme – «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme» (Lc 9,51) – e che si concluderà proprio a Gerusalemme con la passione, morte e risurrezione di Gesù: una seconda parte orchestrata seguendo il filo conduttore del viaggio verso Gerusalemme.
Mentre quindi il brano di settimana scorsa era l’episodio inaugurale di questo “secondo tempo” del vangelo di Luca, il brano di questa domenica tratteggia quello immediatamente successivo… il quale però si riferisce subito a quanto lo aveva appena preceduto: «Dopo questi fatti…», dopo cioè il rifiuto dei samaritani ad accogliere Gesù, la reazione dei discepoli (con annessa sgridata!) e le istruzioni di Gesù a chi vuole seguirlo.
È a questo punto che l’evangelista inserisce un episodio che gli è proprio, cioè che solo lui – fra tutti – racconta: è il cosiddetto “invio dei settantadue”. «L’intenzione, probabilmente, è di mostrare come la missione non è unicamente affidata allo stretto gruppo degli apostoli, ma anche alla cerchia più vasta dei discepoli. Il compito di annunciare Cristo rientra nella vocazione cristiana semplicemente. E deve estendersi a tutta la terra: il numero settantadue richiama infatti la tradizione giudaica che riteneva che le nazioni della terra fossero, appunto, settantadue» [B. MAGGIONI, il racconto di Luca, 206].
Il problema però è quello di intendersi…
Troppo spesso infatti la sottolineatura per cui la “missione” è prerogativa di tutti i cristiani, è stata usata da qualcuno per autoproclamarsi dispensatore di verità, o – peggio – per reclutare improvvidamente (per loro e per gli altri) turbe di persone (che in maniera efficace e geniale come sempre, Sequeri chiama “i pretoriani del vangelo”) a convertire chissà chi… un esempio su tutti: quando preti e catechisti invitano i ragazzini a essere “testimoni” presso i loro coetanei – che in sé sarà anche una cosa bella, ma non quando vuol dire mandarli a combattere (totalmente sprovveduti) “battaglie” da cui escono solo più bastonati, più frustrati e più soli … o peggio ancora, ritenendosi gli unici “santi” in un mondo di peccatori… che è l’anti-vangelo (ma loro non lo sanno… ancora). Anche perché aveva detto «vi mando come agnelli in mezzo ai lupi»… dunque i cuccioli è meglio lasciarli a casa…
Il punto è dunque intendersi… su cosa sia “missione”, “testimonianza”, “annuncio”… e in proposito qualcuna Gesù ne dice…
Innanzitutto: «li inviò a due a due»… forse perché – e mi pare già una bella delimitazione di campo per inserirsi in una prospettiva corretta – la missione non è questione di insegnare intellettualmente delle verità, o moralmente dei precetti, o spiritualisticamente delle preghiere, ecc… ma di mostrare la verità che è Gesù, che si traduce in una “morale” (cioè in una storia... fatta di gesti, parole, carezze, silenzi, vicinanza, accudimento… comportamento, plasmazione di sé…), nutrita dentro alla preghiera (la relazione intima col Padre…). E allora, quale il modo migliore di mostrare questa verità (Gesù e il suo vangelo), questa morale (la vita evangelizzata in tutti i suoi interstizi), questa preghiera (il farsi dire la propria identità di figli da uno che ci è Padre) – tutte cose che noi per primi abbiamo ricevuto in regalo (non sono nostre… conquiste!) – che quello di “farla vedere” a due a due – appunto: cioè in un “cantiere antropologico”, dove vivendo così, amando così, gli altri possano prima vedere e poi essere come tirati dentro ad una dinamica, ad una relazione… Non a caso Gesù pone come segno di riconoscimento dei suoi, proprio il bene che si vogliono (tra loro!), cioè la qualità (evangelica) della relazione che vivono: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35)!
Segue poi una constatazione… «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai»… «per chiarire subito l’impresa e gli attori : e prendere atto che c’è una sproporzione strutturale congenita tra le messi sterminate da mietere e i pochi contadini addetti! Bisogna assolutamente entrare in questo atteggiamento di piccolezza e insufficienza sproporzionata, a scanso di equivoci dolorosi, perché l’opera a cui siamo mandati il Regno – non è nostra… organizzata da noi: è sua! Siamo solo lavoratori nei suoi campi – e la tentazione subdola sarà [invece sempre quella] di inventarci mezzi nostri, illudendoci di riempire lo scarto incolmabile»! [Giuliano].
«Pregate dunque il signore della messe»… «la preghiera, [infatti] è l’unica preparazione proporzionata: proprio perché il Regno è del Padre, occorre entrare nelle sue intenzioni, nel suo animo, nella sua volontà…» [Giuliano]. E «non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada», «per togliere ogni occasione di conflitto, ogni apparenza di interesse, ogni materia di rivalità, nell’incontro tra discepolo di Gesù e gli uomini» [Giuliano].

Fino a qui le premesse… per arrivare al dunque… le istruzioni cioè per favorire quello che è il centro dell’annuncio, il senso della missione, l’oggetto della testimonianza: e cioè una buona notizia! E non le cattive notizie di cui invece spesso – più o meno inconsciamente – noi cristiani ci facciamo messaggeri (“Se fai così vai all’inferno!”, “Guarda che questo è peccato”, “Non si può fare questo, non si può fare quello”, ecc… ecc… ecc…). Che magari possono anche essere inevitabili, e giuste, e necessarie (pedagogicamente parlando)…
Ma prima… di tutto… dite: “Pace”: «In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”».
E che questo sia l’essenziale lo ribadisce il fatto che – nonostante Gesù stesso ponga la distinzione tra le “città che vi accoglieranno” e quelle che “non vi accoglieranno” – comunque “a tutti annunciate il Regno”: «Quando entrerete in una città e vi accoglieranno […] dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio” / Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno […] dite: “[…] sappiate però che il regno di Dio è vicino».
E il Regno – nel vangelo – è sempre e solo una buona notizia! Questo è, senza ombra di dubbio, l’inequivocabile del vangelo (eu = buon; anghello = annuncio): «i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo» (Mt 11,5). Proprio come aveva profetizzato Isaia: «Ecco, io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la pace; come un torrente in piena, la gloria delle genti. Voi sarete allattati e portati in braccio, e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati. Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore, le vostre ossa saranno rigogliose come l’erba. La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi»… come mano/sguardo di Padre e non di Giudice! Una mano/sguardo che sola può fare dell’uomo la “creatura nuova” di cui parla Paolo, per la quale davvero poi «la circoncisione non conta, né la non circoncisione»; né i voti, né i non voti; né l’essere Giudei o Greci; maschi o femmine, schiavi o padroni… perché – appunto – ormai si è nuovi, come ritessuti di una stoffa i cui fili si chiamano fiducia, consegna, dedizione, cura: «Il frutto dello Spirito infatti è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è Legge» (Gal 5,22-23).
E allora sì che “satana cade”… cioè: la storia si sdemonizza, le persone sono liberate e gioiose, la pace è accolta in comunione e tenerezza…
Ma c’era uno “scuotere la polvere”, che forse fa contraddizione (?!)… perché «“scuotersi la polvere dai piedi contro qualcuno…” è comunque sempre un fatto doloroso» [Giuliano]… Ma anche qui… bisogna intendersi… “scuotere la polvere” per quanto sia un riconoscimento del rifiuto della pace – e dunque un prendere le distanze dalla logica mondana che l’ha provocato – non è però certo un maledire quella casa, per la quale l’annuncio di pace si è rivelato precoce… basta ricordare la reazione aggressiva rimproverata da Gesù ai due fratelli, di domenica scorsa: Lc 9,54… si tratta allora piuttosto del rifiuto (visibilizzato in un gesto) del lasciarsi contaminare dalla stessa logica della contrapposizione competitiva… dunque – appunto – rilanciare ancora una volta la logica evangelica!

E a conferma le parole di Paolo Curtaz, tratte da una sua omelia: «Gesù ci indica con precisione lo stile e la modalità della missione. I discepoli vengono mandati a due a due, precedendo il Signore. Non dobbiamo convertire nessuno: è Dio che converte, è lui che abita i cuori. A noi, solo, di preparargli la strada. Non dobbiamo salvare il mondo: il mondo è già salvo, è che non sa di esserlo. In coppia veniamo mandati: l’annuncio non è l’atteggiamento carismatico di qualche guru, ma dimensione di comunità che si costruisce, di fatica dello stare insieme. Il Signore ci chiede di andare senza troppi mezzi, usando gli strumenti sempre e solo come strumenti, andando all’essenziale. Il Signore ci chiede di portare la pace, di essere persone tolleranti, pacificate. Nessuno può portare Dio con la supponenza e la forza, l’arroganza dell’annuncio ci taglia da Dio in maniera definitiva. Infine il Signore ci chiede di restare, di dimorare, di condividere con autenticità. Noi non siamo diversi, non siamo a parte: la fatica, l’ansia, i dubbi, le gioie e le speranze dei nostri fratelli uomini sono proprio le nostre, esattamente le nostre. Condividiamo la ricerca, portando nel cuore il Vangelo, senza facili verità da sbattere in faccia agli altri, ma nella serena certezza che il Signore ci conduce per mano».
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