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lunedì 28 giugno 2010

Sbloccare il cervello perché il futuro abbia inizio


D’un tratto, come se la crisi economica cominciata nel 2007 non fosse passata da queste parti, è riapparsa nei vocabolari un’espressione molto usata negli Anni 80: «Non c’è alternativa». L’acronimo inglese, Tina (There is no alternative), caratterizzò i governi di Margaret Thatcher, e la fiducia che a quei tempi si nutriva nelle virtù indiscutibilmente razionali delle forze di mercato. Queste ultime non andavano regolate: si regolavano da sole, a condizione di esser lasciate senza briglie. Il dogma del mercato mise a tacere dissensi e recriminazioni spesso irragionevoli, ma finì col congelare il pensiero e le sue risorse multiformi. Il fallimento del comunismo accentuò questi vizi di immobilità, perché ogni idea diversa era considerata a questo punto una messa in questione radicale dell’economia di mercato. La stessa parola alternativa era in anticipo screditata, proscritta. Chi aveva l’ardire di pensare o immaginare alternative era accusato di avvelenare e addirittura sovvertire il grande idolo dei fondamentalisti che era il tempo presente.


La fiducia nel dogma ha trovato nel 2007 la pietra su cui è inciampata, e cadendo ha trascinato con sé le sicurezze che credeva di possedere, compresa la sicurezza che le forze di mercato non avessero mai bisogno di briglie politiche. Quel che è mancato e che manca, tuttavia, è un ricominciamento del pensare: troppo a lungo congelata, la mente avanza ancora a tastoni e nel buio acchiappa con le mani le parole che trova, senza sapere se appartengano al mondo nuovo o al vecchio.

Tra queste parole c’è l’acronimo della Thatcher, riutilizzato da governi, imprenditori ed economisti nelle più svariate occasioni: nel caso di Pomigliano, come nelle discussioni sui piani di rigore che i Paesi industriali si apprestano a varare. Non vengono riutilizzate senza ragione, perché non poche misure e decisioni sono obbligate, difficilmente confutabili: è vero, ad esempio, che in un’economia internazionalizzata si possono produrre automobili solo in fabbriche dove i costi di lavoro siano abbastanza bassi e la produttività abbastanza alta da poter competere con le produzioni in Europa orientale o Asia. Da questo punto di vista non c’è alternativa, in effetti. Se si vogliono fabbricare automobili in Italia o in Francia o in Germania, bisogna per forza adottare nuove condizioni di lavoro: grosso modo, quelle indicate dal piano Marchionne.

Essendo un momento di verità, la crisi consiglia tuttavia prudenza, quando si esprimono certezze razionali così granitiche, impermeabili alle controversie e alle alternative. Soprattutto, essa insegna ad aguzzare lo sguardo, e anche ad allungarlo e differenziarlo. Una cosa che è senza alternativa nel breve termine, può rivelarsi del tutto sterile e più che bisognosa di alternative se esaminata con lo sguardo, molto più lungo, delle generazioni che verranno e di quelli che saranno i loro bisogni, le loro domande, i loro stili di vita. Una produzione che sembra oggi vitale e prioritaria può essere, nel lungo termine, non così centrale come lo è stato fino a oggi.

È questo il momento in cui il dogma del mercato tende a divenire l’ortodossia del tempo presente, dell’hic et nunc. L’automobile è un prodotto essenziale della nostra esistenza, oggi. Ma non è detto che lo sarà sempre allo stesso modo, che i modi di vita e le abitudini degli uomini non subiranno metamorfosi anche profonde. Il clima che si degrada rapidamente, il costo del petrolio, la scarsità delle risorse: tutti questi elementi non garantiscono all’automobile il posto cruciale che ha avuto per gran parte del ‘900, e non saranno gli aumenti della produttività e le più severe condizioni di lavoro in fabbrica a migliorarne le sorti. Un’auto resta un’auto, anche se consumerà meno energia, e sulla terra ce ne sono troppe. Nell’immediato non c’è alternativa a costruire auto in un certo modo a Pomigliano. Nel medio-lungo periodo l’enorme numero di veicoli programmati non troverà forse acquirenti.

Gli studiosi dibattono la questione da anni. Lo stesso Sergio Marchionne ha più volte fatto capire, in passato, che la domanda di automobili sta declinando in maniera strutturale, indipendentemente dalle crisi congiunturali. Già si studiano possibili riconversioni, alternative, che vanno ben al di là delle automobili a basso consumo. I piani alternativi non mancano e tutti raccomandano di investire nei trasporti comuni più che nell’auto individuale, nelle rotaie più che in ragnatele sempre più invasive di strade asfaltate, nei motori destinati a produrre energie alternative più che in motori che dilapidano risorse in diminuzione al servizio del singolo individuo. «I trasporti pubblici e le energie rinnovabili saranno il fulcro industriale della prossima generazione nell’economia globale», afferma Robert Pollin, economista all’università del Massachusetts. Secondo alcuni autori (James Kunstler è il più pessimista, nel suo libro intitolato The Long Emergency) il declino dell’auto diverrà visibile quando non sarà più conveniente costruire, in epoca di petrolio raro e caro, le città satelliti lontane dai centri-città e dai luoghi di lavoro (i suburbia).

Il modo di vita e di convivenza dei terrestri è in mutazione: a causa del clima, del diradarsi di risorse del pianeta, di catastrofi come quella nel Golfo del Messico. Muteranno bisogni, aspirazioni, influenzando sempre più i mercati. È una prospettiva alla quale conviene pensare, fin d’ora, cominciando a costruire le fabbriche e i lavori che saranno necessari nel mondo futuro. Anche mondo futuro è un concetto in metamorfosi costante: non è qualcosa che ideologicamente viene sovrapposto alla realtà, sostituendola alla maniera di un villaggio Potemkin che prima inganna e poi delude. È una realtà che molto semplicemente succederà, e sulla quale tuttavia potremo incidere con una condotta o con l’altra. L’unico vero problema è che le forze che saranno protagoniste di nuovi stili di vita e nuovi consumi esistono in maniera flebile, non dispongono di lobby per far ascoltare la propria voce, non hanno possenti rappresentanze. Non l’hanno soprattutto nei sindacati e nei partiti di sinistra, il più delle volte sordi alle esigenze di chi non ha il posto fisso, di chi vive in condizioni di mobilità continua, di chi non è protetto da reti di sicurezza ed è già attore di nuovi stili di vita e di consumi. Ma c’è arretratezza anche nel mondo degli imprenditori, dove a dominare sono spesso forze gelose del posto occupato dalle produzioni classiche: forze timorose del futuro, e delle conversioni mentali e produttive che il futuro comporta.

Vale la pena dunque pensare le alternative, e abbandonare le parole-mantra di Margaret Thatcher. E vale la pena pensare il mondo contraddittoriamente, tenendo sempre presenti i due sentieri che abbiamo davanti. Il sentiero del qui e ora, con i suoi stati di necessità non eludibili. E il sentiero del domani e dopodomani, con i suoi non meno eludibili vincoli energetici e climatici. Può darsi che nell’immediato sia corretto ricordare che non esistono alternative. Ma di alternative c’è un enorme bisogno per il futuro, ed è un bene che vengano pensate, vagliate, scartate, non domani ma già oggi.

domenica 27 giugno 2010

Il Paradiso non può attendere...

L’uomo, fin dall’alba dei tempi, ha sempre creduto che per andare a Dio dovesse uscire da sé. Fino a sacrificare se stesso, fino a sacrificare la propria vita, il proprio corpo… Fino a sacrificare la propria storia e di quelli che incontrava sul proprio cammino… La verità è trascendente, si dice, supera l’uomo, e quindi se è trascendente – lo dice la parola – va cercata oltre l’uomo, va cercata fuori dall’uomo.

Per anni, per secoli, per millenni, fin dall’uomo dell’età della pietra e fino all’ultimo uomo del futuro, cercare Dio è sempre stato – e sempre umanamente sarà – un tentativo dell’uomo di cercare Dio “in cielo”, tra le nuvole, sulla montagna, nel tempio. In un paradiso oltre il tempo, oltre la storia, oltre la vita… insomma l’eccelsa verità, il sommo bene, il bello supremo che è Dio, variamente interpretato dai filosofi e dalle religioni… è un Dio dell’aldilà… E in nome di questo aldilà si poteva, che dico, si doveva sacrificare tutto l’aldiquà… Amori, affetti, vita… La vita terrena perde così significato, uccidere un uomo, se fatto per Dio…, dare la vita, se fatto per Dio… era (è!?) il massimo di gloria possibile per un uomo… Dopo tutto, non era poi un gran sacrificio, vista l’insofferenza che abbiamo verso la vita che siamo costretti a vivere… infatti molti si danno la pena per rendersela più comoda anche a costo di dannare quella degli altri e di perdere la propria (purché futura!). Noi queste persone le condanniamo solo per invidia, infatti l’attesa di un premio nell’aldilà, con cui conduciamo la nostra vita nell’aldiquà, se ci pensiamo, non esce da quella stessa logica…

C’è il rischio allora di reinterpretare tutte le parole di Gesù e della Chiesa, che parlano di abnegazione e di sacrificio e persino di “premio eterno”, in questa chiave usurata: quasi che il Dio di Gesù Cristo, anche se finalmente scoperto Padre, in fondo non sia poi molto diverso dalla nostra idea primitiva di Dio. Il Dio di Gesù Cristo, sarà anche più buono, sarà anche più misericordioso, sarà anche meno giustizialista di quello che credevamo, ma è sempre un Dio a cui tutto va sacrificato!… Se non altro perché gli dobbiamo la vita: non questa terrena, che ci delude ogni giorno di più, ma almeno quella futura (sperando che sia migliore di quella di adesso…). E così con quella terrena paghiamo il dazio per avere in dono quella eterna. Capite? Non diciamo più che è una conquista, come dicevano i farisei; non è più un Dio cattivo, come affermavano i pagani… ma la sostanza in fondo non cambia: per incontrarlo devo uscire da me, dalla mia umanità, dai miei limiti, dai miei peccati.

Ma siamo sicuri che le cose stiano proprio così? Gli apostoli, sulla cui testimonianza noi fondiamo la nostra fede, ci parlano del comportamento di Dio in Gesù, che ci spinge a rivedere fino in fondo il nostro giudizio e quindi, il nostro cammino per incontrarlo.

Vorrei fissare l’attenzione non tanto su “chi è Dio”… ma su cosa la liturgia di oggi mi ha insegnato sulla struttura di questo incontro: sul “modo” di cercarlo e oserei dire, sul “luogo” in cui incontrarlo: ci chiediamo “dove e come incontrarlo?”, “dove e come cercarlo?”…

Non mi interessa quindi sapere ora chi è questo Dio, se è il vero Dio e se è il Dio di Gesù Cristo… Quello che mi interessa è cercare di cogliere la “struttura” di un possibile ipotetico incontro. Per poter finalmente provare ad essere strutturalmente cristiani… Papa Giovanni Paolo I, quando era ancora cardinale di Venezia, predicando ai suoi sacerdoti li invitava proprio a insegnare alla gente a incontrare Dio… e poi da questo incontro – diceva – ciascuno ne scoprirà il vero volto…

Ebbene io credo che da quando Gesù ha “preteso” di essere quel Dio che ha deciso di mostrarsi all’uomo con un volto di uomo (il suo!), gli schemi non possono essere più gli stessi e questo fatto non può essere senza conseguenze sulla modalità del nostro incontrarlo. Perché il ragionamento primitivo sopra descritto viene radicalmente capovolto. Per la prima volta l’uomo, in Gesù Cristo, fa la scoperta che Dio non è oltre la storia, oltre la vita, oltre la morte, oltre l’umanità, oltre l’uomo… E nei Vangeli, le donne per prime e poi gli altri discepoli, scoprono di poterlo incontrare proprio nel mezzo del loro peccato, finalmente perdonato, senza bisogno di sacrificio e mortificazione alcuna. A partire da Gesù Cristo, tutto allora cambia, tutto viene stravolto, e ciò che fino a ieri credevamo fosse la strada per incontrare Dio, si rivela una strada che lo smarrisce, che fallisce l’incontro e il Dio che credevamo di incontrare si rivela nient’altro che il fantasma delle nostre idee e il silenzio dei nostri cimiteri dove quel Dio preteso trascendente si rivela immanente nella mortificazione della vita.

Invece a partire da Gesù Cristo l’uomo, diventa il luogo dove io posso incontrare Dio: non tanto nel santo, non nel guru, non nel “perfetto” che fa i miracoli… Questo può anche accadere, ma solo pedagogicamente, perché io impari a incontrarlo nella morte e nella malattia (non oltre la morte, non oltre la malattia)…

Questo è il vero senso dei miracoli di Gesù: infatti tutti i miracolati si sono riammalati e sono morti… Perché io impari a incontrarlo nel mio peccato, nell’accettazione del mio limite: questo è il senso del perdono e dell’invito a non peccare più… Perché proprio questo è il peccato: il rifiuto del proprio limite, ad ogni livello… nell’amore, nel coraggio… e ridursi ad avere paura delle proprie paure. Perché io impari a incontrarlo in ogni uomo: anche nel soldato che mi costringe a fare mille miglia con lui, anche in colui che mi perseguita, anche in colui che mi odia: ecco perché il cristiano non ha nemici, non perché è buono, ma perché scopre che anche nel nemico, nel vivere un rapporto subalterno nei suoi confronti, mi è data la possibilità di incontrale Colui che ho sempre cercato: la verità di un Dio Padre…

Il “sacramento” di Dio è l’uomo in tutto quello che fa… nel bene e nel male! Per questo l’olio, il pane, il vino (dell’uomo!) diventano dono dello Spirito, luogo della presenza di Dio e diventano segno di una comunione tra di noi, nel bene e nel male, nella buona e nella cattiva sorte…
Perché si incontra Dio Padre solo ce ci si fa figli come Gesù, che si fa fratello anche di chi lo crocifigge.

In nome del Dio trascendente, i samaritani rifiutano ospitalità a Gesù e agli apostoli… In nome del Dio trascendente, i cristiani in Galazia, si divorano tra di loro, perché ciascuno vuole essere e restare fedele alle proprie tradizioni religiose… anche a costo di – per usare le parole dure di Paolo – divorarsi il fratello (proprio come Satana – direbbe Pietro – «che va in giro cercando chi divorare»…). Che è come dire che a furia di obbedire a Dio sacrificando il fratello, non si può che incontrare Satana, o se volete, la massima menzogna è difendere la verità con la spada del disprezzo… e infatti Gesù dirà di riporla nel fodero, perché la violenza uccide sempre la verità. Non a caso Gesù è «il mite» e Maria è la «piccola serva»: solo così la verità è vera.

E allora tutto diventa secondario, anche la ricerca della verità trascende… perché essa esiste solo in ciò che viviamo (per questo Cristo è la Verità: perché la fa!)… E noi viviamo quella concreta, immanente, nelle nostre rinnovate relazioni di un perdono sempre reciproco e sempre offerto…  E allora – p.es. – se per amore del fratello, per la custodia di questo rapporto, non devo mangiare la carne degli animali immolati per tutta la vita, me ne astengo con gioia…

Ecco allora quello che mi dicono le letture di oggi:
Dio si fa incontro attraverso una voce, un volto, un mantello gettato sulle spalle… nella storia quotidiana. Nella quale e per la quale tutto allora può essere sacrificato! Persino il nostro Dio (nell’Eucarestia che celebriamo Gesù ci ordina proprio questo: sacrificare Lui e noi con lui per fare comunione!). Perché non è sacrificato ma è investito per la comunione e si fa «centuplo», nel tesoro di un amico in più: i buoi di Eliseo diventano, come la sua chiamata, festa per tutti…
Allora non c’è più un Paradiso da attendere, perché il Paradiso è già qui, perché c’è già tutto per fare festa: c’è Dio, c’è il pane, c’è il vino, e il lavoro di chi ce li ha procurati e ha tutto imbandito e ci siamo noi per fare comunione… e ci sei tu col quale io posso fare comunione!

Cosa ci resta ancora da fare? Donare agli altri quello che qui abbiamo ricevuto… perché i morti la smettano di seppellire morti e la vita torni a rifiorire nella nostra vita.

giovedì 24 giugno 2010

Un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso»

Le letture che la Chiesa ci propone in questa tredicesima domenica del tempo ordinario, sono molto dense: seguire tutti gli spunti di riflessione che esse suscitano è impossibile in breve tempo (ci vuole una vita!), ma rintracciare in qualche modo un punto prospettico è invece più fattibile, soprattutto grazie alla felice associazione dei brani scelti dalla liturgia.

La seconda lettura, infatti, contiene un’espressione talmente esplosiva, da risultare sintetica forse dell’intero NT, sicuramente dei testi odierni. Paolo infatti scrive: «Tutta la Legge trova la sua pienezza in un solo precetto: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”», dove ciò che interessa di più non è tanto “ciò che c’è” (che magari ad una prima veloce lettura non avevamo neanche notato, tanto è “scontato” nel cristianesimo l’amore al prossimo), quanto “ciò che non c’è”. Manca infatti la prima parte del duplice comandamento dell’amore, che invece – solitamente – è sempre ricordato (cfr. Mt 22,36-40: «“Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?”. Gli rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento". Il secondo poi è simile a quello: "Amerai il tuo prossimo come te stesso". Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”»): manca cioè il richiamo all’amore per Dio…
Indubbiamente non si tratta di un cambiamento di prospettiva di Paolo rispetto a Gesù (quasi che Paolo volesse correggere Gesù) e certamente è necessario contestualizzare l’affermazione paolina (collocata in una lettera – quella ai Galati – dove i problemi comunitari iniziavano a farsi sentire con veemenza), ma rimane il fatto che l’Apostolo sottolinei volutamente – per un ebreo come lui non si può infatti pensare ad una dimenticanza – come, la sintesi di tutta la Legge, coincida esattamente con l’amore per il prossimo.
E in questo non è certo il solo, né nella tradizione cristiana, né nel NT stesso; Giovanni infatti al capitolo 13, versetto 34, riporta questa frase di Gesù: «Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri»; ribadendo il concetto al capitolo 15, versetti 12-13: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici»; e nella sua prima lettera: «Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20)…
Anche Santa Teresa di Gesù – dottore della Chiesa – 1500 anni dopo si ritrova sulla stessa lunghezza d’onda, quando, nel Castello interiore, scrive: «Per noi la volontà di Dio non consiste che in due cose: nell’amore di Dio e nell’amore del prossimo [5M 3,7]. Il segno più sicuro per conoscere se pratichiamo questi due precetti è vedere con quale perfezione osserviamo quello che riguarda il prossimo. Benché vi siano molti indizi per conoscere se amiamo Dio, tuttavia non possiamo mai esserne sicuri, mentre lo possiamo essere quanto all’amore del prossimo. Anzi, più vi vedrete innanzi nell’amore del prossimo, più lo sarete anche nell’amore di Dio: statene sicure. Ci ama tanto Dio, che in ricompensa dell’amore che avremo per il prossimo, farà crescere in noi, per via di mille espedienti, anche quello che nutriamo per Lui. E di ciò non v’è dubbio [5M 3,8]».
Fino ad arrivare ai giorni nostri, quando un biblista come P. PEZZOLI in AAVV., Scuola della Parola 2002, Diocesi di Bergamo, commenta Gv 13,31-35 dicendo: «è interessante anche un altro aspetto di questo comandamento: “Così come io vi ho amato, amatevi gli uni gli altri”. Secondo una certa logica, avrebbe dovuto dire: “Così come io vi ho amato, voi amate me”. L’amore di Dio scende su di noi, ma il movimento inverso non è quello di risalire, bensì il diffondersi nel mondo. Certo, poi la risposta ha sempre una dimensione verticale, ma il Nuovo Testamento è molto parco nel parlare di amore nostro per Dio»…
In questo senso trova luce anche il vangelo di Luca, quando – di fronte ai discepoli così appassionati nella difesa del loro Signore («Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?») – Gesù riporta “in squadra” il loro errore di parallasse: «Si voltò e li rimproverò»! Con la tristezza, forse, di chi proprio non si sente capito: perché “seguire” Lui, “difendere” Lui non può che voler dire difendere l’altro, il prossimo, chiunque si imbatta sulla nostra strada, foss’anche samaritano, oppositore, nemico.
«Le reazioni dei discepoli – invece – continuano a nutrirsi della logica mondana di competizione per l’affermazione dell’io personale e collettivo – con le inevitabili conseguenze di conflitto violento… con i concorrenti… ("Maestro, abbiamo visto un tale scacciare i demoni in tuo nome … e glielo abbiamo impedito, perché non è dei nostri!” 49). La comunità (la chiesa) fa ancor più fatica del singolo a rinnegarsi, a farsi piccola, a dare la precedenza… perché pensa addirittura che sia giusto affermare il proprio potere e la propria grandezza con il pretesto della missione ricevuta… Ma la chiesa non è il centro o il fondamento di sé stessa : “nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già si trova, che è Gesù Cristo stesso” (1 Cor 3,11) e questi crocifisso (1 Cor 1,23; 2,2). Il centro della chiesa è sempre fuori di lei, perché Gesù, uscito dal Padre, è sempre dono “fuori di sé”… Discepolo è colui che accetta e resiste – cioè si schiera … con questo volto umile e rifiutato, vincendo la tentazione sempre rinascente di farsene un proprio potere, monopolizzando la salvezza – ed escludendo chi non si sottomette! Mentre l’amore di Gesù, presto o tardi, non può che rivelarsi come impotenza disarmata – pane offerto alla fame della gente. Il fuoco che lui porta non è quello che distrugge, ma quello che toglie il peccato del mondo, assumendosene il peso sulle proprie spalle… Solo Dio è davvero mosso da viscere di misericordia per l’uomo e vuole salvarlo… I discepoli vogliono salvare anzitutto se stessi…» [Giuliano].
Quanto è vera anche quest’oggi – per noi, per me, per ciascuno – questa fatica a mettersi davvero “dietro” a un Signore così, che – per amore dell’altro, per la preferenza della faccia dell’altro, per la custodia del volto dell’altro – non concede spazi alla ricerca dell’affermazione del nostro “io”… che invece in noi – continuamente e in molti modi (gratificazioni, potere, ricchezze… essere al centro, aver ragione, riuscire…) – torna a rispuntare, mai domi – come siamo – di fronte ad un Signore che di sé dice: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo», dove ciò che è indicata come la vera identità di Gesù «non è semplicemente la povertà, né semplicemente la fatica di una vita pellegrinante, ma l’insicurezza e la precarietà» [B. MAGGIONI, il racconto di Luca]. Insicurezza e precarietà di cui invece noi abbiamo terribilmente paura – incapaci – di far nostro ciò che Lui sostituisce alla nostra affannosa ricerca della sicurezza nel possesso, che è l’incondizionata fiducia nel Padre…
«Ecco, comunque, le istruzioni per non soccombere e prepararsi, almeno, alle insidie del viaggio di fede nella nostra povera storia:
1. … quando gli dici: “ti seguirò dovunque tu vada”, sappi che non andrai in nessun posto… (adesso sappiamo che, a seguirlo, non vedremo gratificazioni, né potere, né ricchezze… e neanche un posto dove sbatter la testa. Perciò sappiamo che lo tradiremo! Perché noi, e la nostra chiesa, tutte queste cose continuiamo a cercarle lo stesso, rinnegando il maestro!)
2. … ma il Signore, ostinato, ribadisce: “seguimi!”: non spegnerti nel passato, dove i morti accudiscono solo morti… annuncia e coltiva i germogli vivi del Regno, guardando avanti con i tuoi fratelli e sorelle, che vogliono vivere…» [Giuliano].
3. … con la preziosa associazione del testo di 1Re 19 – dove Elia permette ad Eliseo di andare a salutare quelli di casa – a ricordarci che, pure queste “istruzioni” se diventano rigidi moralismi fondamentalisti, ricadono nella logica di tradimento del Maestro… per il quale nulla è mai stato più importante che la faccia di quello che aveva davanti (e dietro… e nascosto… e perso chissà dove…).

domenica 20 giugno 2010

Contra stultos

Fa veramente impressione la lettura attenta del contratto che il capitalismo italiano sta imponendo agli italiani…
Perché non dico Fiat e lavoratori? Perché se questo contratto si impone come modello (come vorrebbero gli stolti: cfr Salmo 92,6) esso va oltre la Fiat e va oltre i lavoratori di Pomigliano e va oltre i soli operai italiani…
Qui si tratta di un “modello” su cui, nelle intenzioni, si intende plasmare l’Italia futura e l’uomo futuro: sul modello originale “cinese” e fotocopie “polacche”.

Se è vero che l’uomo fa il lavoro è anche vero che il lavoro fa l’uomo (cfr G.P. II). E allora non possiamo fare a meno di constatare che questo modello di lavoro, ha come intento di foggiare un anthropos nuovo, un uomo nuovo… Ci domandiamo, quale? Quale typos di uomo, quale idea, quale concetto, quale forma di uomo emerge da un contratto simile? quale filosofia, quale ideologia, quale credo c’è nel modello di uomo che si sottende in una tipologia contrattuale del genere?
Ciò che conta è l’efficienza, la produzione, la domanda del mercato, a cui tutti, capitale e lavoratore gli sono sottomessi… il resto è, appunto, secondario! Il capitale, pur di accrescersi, fagocita se stesso e il lavoratore… Se non è cannibalismo questo che cosa è?

Le giustificazioni non mancano.
Si ha fame, si dice, (di soldi, di lavoro, di tutto), e si omette di dire “chi” ci ha portati alla fame: coloro che tanto si premurano di volerci ora saziare!
Si dice anche che alcuni ne hanno approfittato: scioperi selvaggi, assenteismo ingiustificato. E così per colpire gli abusi di alcuni, si abusa di tutti! La violazione della legge, non autorizza nessuno a violare la legge!

Ma queste sono scuse e lo sappiamo noi come lo sanno loro (Marcegaglia, Marchionne, Mammona), servono solo a chi detiene il potere economico per nascondere la propria avidità… Ci sono gli strumenti e se non ci sono si creano, per colpire chi da semplice operaio si sente in diritto di comportarsi come un deputato al Parlamento o come un dirigente della Confindustria: che diamine stia al suo posto! E non faccia, lui, il mafioso, che già ce ne sono troppi di furbi tra i sindacalisti stupidi e gli imprenditori arroganti…

Ma c’è poco da ironizzare… Le conseguenze vanno forse al di là delle già poco buone intenzioni: non è un ritorno a 50 anni fa, come si legge in alcune analisi seppur fortemente critiche… è un ritorno all’uomo pre-biblico: è come bruciare tutte le bibbie! (altro che Fahrenheit 451!)… Quello che emerge è un’idea di uomo, di vita, di lavoro, che uccide l’uomo: è un ritorno all’Egitto (biblico), là dove è iniziata la nostra storia.
Siamo alla ri-nascita del non-uomo: il tentativo del potere mammonico di creare l’uomo a sua immagine e somiglianza. Perché se vince il capitale, muore l’uomo in quanto umano! E se è un uomo senza capitale, muore anche fisicamente come la manovra berlusco-tremontiano-bossiana insegna: tartassiamo i poveri, tanto quelli ci sono abituati! E poi ce lo chiede l’Europa, che – Vandana Shiva dixit – per salvare l’euro uccide gli europei: Come sempre il capitale mira al capitale ed esige lavoro anche a costo della vita di chi lo fornisce.

Siamo anche all’antitesi di quello che ha espresso ed esprime da anni tutto il magistero ecclesiale e non ultimo l’appello di ancora ieri di Benedetto XVI: occorre salvare il capitale umano (solo così si fa pace tra capitale e lavoro: Tremonti impari!).

È l’annullamento tout-court di migliaia di anni di progresso umano. Non è soltanto l’abolizione di alcuni diritti sanciti dalla Costituzione e dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo o di qualsivoglia altro pezzo di carta seppur solenne foss’anche sacro: è la nullificazione di quel processo di riconquista di sé e delle relazioni con l’altro (liberazione) che dalla “fuga” di Abramo dalle false sicurezze del proprio villaggio, ha portato un frammento di umanità derelitta (schiava!) a costituirsi “Popolo” che via via sotto la guida di Mosè fino a oltre l’avvento di Gesù di Nazaret ha costruito la propria identità nel riconoscersi depositaria e creatrice di un futuro nuovo (promessa) che va oltre se stessa: prima di ogni altro possibile immediato progresso. Perché il progresso non è progresso se non custodisce l’uomo. O per dirla con Carlo Clericetti: Resta da capire a cosa mai possa servire la crescita, se comporta un peggioramento delle condizioni della maggior parte dei cittadini.

Non è inevitabile tutto questo, si può e si deve rifiutare… non per dire no e basta, ma per ritornare a un futuro veramente nuovo per tutti…
Troveranno sempre un popolo disposto a vendersi anche l’anima per molto meno di 30 monete d’argento… ma non possiamo accettare di farlo anche noi “perché se no lo fanno loro”… perché la dignità umana non ha prezzo. Perché la vita a qualunque costo non vale più di un morire per difenderla… Se c’è una testimonianza (martyria) cristiana da vivere oggi, è questa!

Sarebbe un calcolo e un pensiero, cieco e sordo agli insegnamenti della storia (non solo biblica), ingoiare il rospo, non eviterebbe il peggio, ne accelererebbe l’arrivo.
Si deve vomitare a qualunque costo, altrimenti ci avvelenerà… per incominciare ad aiutare anche l’uomo cinese a liberarsi di un modello che lo porterà e ci porterà per paura di morire di fame, alla morte per eccesso di lavoro (se ancora si può chiamarlo così!)…

venerdì 18 giugno 2010

Ma voi, chi dite che io sia?

Il brano di vangelo che la Chiesa ci propone per questa dodicesima domenica del tempo ordinario è un brano molto noto, anche perché presente in tutti e tre i sinottici. In tutti, in qualche modo, è presentato come un momento fondamentale (un momento di svolta) nella vita di Gesù: in essi è infatti raccontata – resa narrazione – la problematica di Gesù rispetto al suo impatto sugli altri (sulla gente, prima; sui suoi, poi). Dopo cioè che ha iniziato la sua vita pubblica (battesimo nel Giordano, 40 giorni nel deserto), dopo che ha iniziato a predicare il Regno di Dio (con parabole e con i segni della liberazione dal male), dopo che ha iniziato a raccogliere intorno a sé diversa gente (discepoli e folle), dopo che ha iniziato a suscitare le prime resistenze nel potere costituito, ora è il momento del fermarsi un attimo a guardare… cosa la gente ha capito di lui… cosa pensa… cosa vede…

E al di là della risposta, talmente conosciuta da poter essere citata a memoria da molti («Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto»), e sulla quale potremmo fare anche varie considerazioni (per esempio quella di Bruno Maggioni nel suo Il racconto di Luca: «L’errore della gente è di pretendere di capire Gesù confrontandolo con le figure del passato già conosciute. È questa una strada inadeguata. La strada giusta è sforzarsi di capire Gesù partendo da lui stesso, da quanto dice e fa. I confronti si potranno fare, ma solo dopo. E si capirà che Gesù non rinnega il passato, ma è oltre»), ciò che veramente merita attenzione – o per lo meno ha suscitato la mia – è il fatto che Gesù senta come il bisogno di “misurare” la comprensione che gli altri hanno di lui. A dire che allora forse una visione un po’ troppo frettolosa e riduttiva di un Gesù che non vive un’autentica drammatica umana (perché tanto sapeva già tutto, perché tanto era Dio, perché tanto muore ma sa che poi risorge, ecc…) non è certo in consonanza col testo evangelico… Dal quale piuttosto emerge come sia vero ciò che diciamo ogni domenica nel Credo: «Si è fatto uomo», che non si riferisce solo al momento puntuale dell’incarnazione (di cui per altro il Credo ha già parlato: «Si è incarnato e si è fatto uomo»), ma anche al lento percorso che l’ha portato a prendere consapevolezza della sua identità e a decidersi per essa (come due film, per altri versi criticabili, mostrano invece molto bene: I giardini dell’Eden di D’Alatri e L’ultima tentazione di Cristo di Scorsese). E in questo senso quanto sia contato anche il confronto con la vita altrui (emblematico in questo senso il brano della donna siro-feinicia, Mt 15,26 e paralleli: la donna che ha fatto cambiare idea al Figlio di Dio!). Come a dire che nemmeno Gesù si è tirato fuori da quella dinamica che, molto più laicamente, Povia ha descritto nella sua canzone I bambini fanno oh, quando dice che «senza qualcuno nessuno può diventare un uomo».
E i “qualcuno” con cui Gesù è diventato un uomo, in questo brano (e nei versetti seguenti) sono come chiamati a raccolta: la gente (che di lui dice: “è un profeta”), il discepolo (“è il messia”), il Padre (“il Figlio del Padre”)… E dentro a questo gioco di rimandi e rispecchiamenti, la sua parola su di sé: «Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno».

La “voce” che “manca” – oggi – è quella del lettore, è la nostra, è la mia. Dove l’importanza di dire una parola su chi sia Gesù per noi – se è vero quanto detto finora – non va solo nel senso di rispondere noi – per noi – a questa domanda (nell’unico senso cioè per cui dire chi è lui, è importante perché ci fa contemporaneamente anche dire chi siamo noi), ma anche in quello di far sì che lui possa essere sé; esattamente come un padre è padre, quando ha un figlio che lo riconosce tale; un marito è marito, quando ha una moglie, ecc… Quasi che non solo ci sia chiesto di cogliere l’importanza di Dio nella nostra vita, ma anche l’importanza nostra nella sua.
Perché se è vero che l’amore è amore anche quando non è corrisposto (e cioè che Dio resta Dio anche quando non è riconosciuto, così come un padre resta padre anche quando il figlio lo rifiuta, e un innamorato resta innamorato anche quando non è corrisposto e comunque il suo amore è sensato perché umanizza lui per primo) è altrettanto vero che la pienezza della relazione si ha in una reciprocità e corrispondenza, con tutte le gradualità e fragilità che essa può avere.
Ecco perché allora è importante, di fronte ad un vangelo come questo, fermarci un attimo anche noi – dopo che abbiamo già vissuto un pezzo della nostra vita e della nostra relazione col Signore – a chiederci “Chi dico che lui sia?”, “Chi dico che lui sia se mi fermo un attimo a rifletterci / pregarci su?”, “Chi dico che lui sia con la vita che conduco?” e infine: “Cosa / Chi lo sto facendo essere?”.
E inevitabilmente la risposta non può essere totalmente avulsa da quanto lui dice di se stesso… o meglio: può esserlo, ma con l’onestà di fondo di “parlare per aria”, senza alcun criterio orientativo. Mentre, per quanto resti il problema di una non fruibilità immediata della persona di Gesù, delle vie di accesso percorribili a lui ci sono e sono quelle che il NT stesso e poi la tradizione della Chiesa presentano ai cristiani di tutti i tempi: la Parola di Dio (e in particolare i vangeli, come ricorda DV 18: «A nessuno sfugge che tra tutte le Scritture, anche quelle del Nuovo Testamento, i Vangeli possiedono una superiorità meritata, in quanto costituiscono la principale testimonianza relativa alla vita del Verbo incarnato»), i sacramenti (e in particolare l’eucaristia, come ci ricorda LG 11, per cui il «sacrificio eucaristico [è] fonte e apice di tutta la vita cristiana»), i volti degli altri (in particolare i poveri, come dice Paolo, che mentre fa il resoconto del suo incontro con gli apostoli, si premura di annotare: «Ci pregarono soltanto di ricordarci dei poveri, ed è quello che mi sono preoccupato di fare», Gal 2,10).
È allora dentro a queste vie d’accesso (insostituibili e non aggirabili) valide per tutti che deve trovare fondamento la risposta di ciascuno, che sarà comunque – appunto – “per ciascuno la sua” e non invece una posizione omologabile; perché appunto dentro ci (si) gioca la libertà singolarissima di ogni individuo, che agli occhi di Dio, benché non sia l’unico è però sempre unico!

mercoledì 16 giugno 2010

Pomigliano: l'illusione della libertà!



Provate a leggere fino in fondo questa schifezza di contratto... Gli operai sono oramai merce di scambio continuo (adesso capisco perché Quello-là parlava di superamento del conflitto tra capitale e lavoro: si è soppresso il lavoratore!): niente domenica per il turno di 4 giorni e praticamente invivibile per gli altri; niente possibilità di sottrarsi a straordinari e turni notturni; niente possibilità di partecipazioni alla vita civica o sociale se lede la produzione senza l'ok dell'azienda...

Mi chiedo se per una dignità umana così calpestata non sia preferibile morire di fame e chiudere l'azienda... sarebbe più dignitoso comunque andare a battere i marciapiedi per campare. La mia proposta è che una FIAT così è meglio che chiuda tutti gli stabilimenti in Italia e vada pure in Polonia o ci schiavizzerà tutti. D'ora in avanti non comprerò e sconsiglierò di comprare auto FIAT anzi rifiuterò persino di guidarle e se qualcuno le ha le butti via!

1) Orario di lavoro
La produzione della futura Panda si realizzerà con l’utilizzo degli impianti di produzione per 24 ore giornaliere e per 6 giorni la settimana, comprensivi del sabato, con uno schema di turnazione articolato a 18 turni settimanali.

L’attività lavorativa degli addetti alla produzione e collegati (quadri, impiegati e operai), a regime ordinario e ferma la durata dell’orario individuale contrattuale, sarà articolata su tre turni giornalieri di 8 ore ciascuno a rotazione, secondo i seguenti orari:
•primo turno dalle ore 6.00 alle ore 14.00, con la mezz’ora retribuita per la refezione dalle ore 13.30 alle ore 14.00;
•secondo turno dalle ore 14.00 alle ore 22.00, con la mezz’ora retribuita per la refezione dalle ore 21.30 alle ore 22.00;
•terzo turno dalle ore 22.00 alle ore 6.00 del giorno successivo, con la mezz’ora retribuita per la refezione dalle ore 5.30 alle ore 6.00.
La settimana lavorativa avrà pertanto inizio alle ore 6.00 del lunedì e cesserà alle ore 6.00 della domenica successiva.

Lo schema di orario prevede il riposo individuale a scorrimento nella settimana.
L’articolazione dei turni avverrà secondo lo schema di turnazione settimanale di seguito indicata: 1° – 3° – 2°

Il 18° turno, cadente tra le ore 22.00 del sabato e le ore 6.00 del giorno successivo, sarà coperto con la retribuzione afferente la festività del 4 Novembre e/o con una/due festività cadenti di domenica (sulla base del calendario annuo), con i permessi per i lavoratori operanti sul terzo turno maturati secondo le modalità previste dall’accordo 27 Marzo 1993 (mezz’ora accantonata sul terzo turno per 16 turni notturni effettivamente lavorati pari a 8 ore) e con la fruizione di permessi annui retribuiti (P. A. R. contrattuali) sino a concorrenza.

Le attività di manutenzione saranno invece svolte per 24 ore giornaliere nell’arco di 7 giorni la settimana per 21 turni settimanali. L’attività lavorativa degli addetti (quadri, impiegati e operai), a regime ordinario, sarà articolata su 3 turni strutturali di 8 ore ciascuno, con la mezz’ora retribuita per la refezione nell’arco del turno di lavoro a rotazione e con riposi individuali settimanali a scorrimento.

L’orario di lavoro giornaliero dei lavoratori addetti al turno centrale (quadri, impiegati e operai) va dalle ore 8.00 alle ore 17.00, con un’ora di intervallo non retribuito.

Per i quadri e gli impiegati addetti al turno centrale si conferma l’attuale sistema di flessibilità dell’orario di lavoro giornaliero (orario in entrata dalle ore 8 alle ore 9 calcolato a decorrere dal primo dodicesimo di ora utile). In alternativa, su richiesta delle Organizzazioni Sindacali nel caso in cui intendessero avvalersi della facoltà di deroga a quanto previsto dal D. Lgs. 66/2003 e successive modifiche e integrazioni in materia di riposi giornalieri e settimanali.

Lo schema di orario per lo stabilimento prevede, a livello individuale, una settimana a 6 giorni lavorativi e una a 4 giorni. L’articolazione dei turni avverrà secondo lo schema di turnazione settimanale di seguito indicata: 3° – 2° – 1°
Nella settimana a 4 giorni saranno fruiti 2 giorni consecutivi di riposo secondo il seguente schema:
- lunedì e martedì
ovvero
-mercoledì e giovedì
ovvero
-venerdì e sabato.

Preso atto delle richieste da parte delle Organizzazioni Sindacali dei lavoratori, al fine di non effettuare il 18° turno al sabato notte, lo stesso viene anticipato strutturalmente alla domenica notte precedente. Pertanto il riposo settimanale domenicale avviene dalle ore 22 del sabato alle ore 22 della domenica.

2) Lavoro straordinario
Per far fronte alle esigenze produttive di avviamenti, recuperi o punte di mercato, l’azienda potrà far ricorso a lavoro straordinario per 80 ore annue pro capite, senza preventivo accordo sindacale, da effettuare a turni interi.

Nel caso dell’organizzazione dell’orario di lavoro sulla rotazione a 18 turni, il lavoro straordinario potrà essere effettuato a turni interi nel 18° turno, già coperto da retribuzione secondo le modalità indicate al capitolo orario di lavoro, o nelle giornate di riposo.

L’Azienda comunicherà ai lavoratori, di norma con 4 giorni di anticipo, la necessità di ricorso al suddetto lavoro straordinario e terrà conto di esigenze personali entro il limite del 20% con sostituzione tramite personale volontario.

Con accordo individuale tra azienda e lavoratore, l’attività lavorativa sul 18° turno potrà essere svolta a regime ordinario, con le maggiorazioni del lavoro notturno: in tal caso non si darà corso alla copertura retributiva collettiva del 18° turno.

Il lavoro straordinario, nell’ambito delle 200 ore annue pro capite, potrà essere effettuato per esigenze produttive, tenuto conto del sistema articolato di pause collettive nell’arco del turno, durante la mezz’ora di intervallo tra la fine dell’attività lavorativa di un turno e l’inizio dell’attività lavorativa del turno successivo. In questo caso la comunicazione ai lavoratori del lavoro straordinario per esigenze produttive saranno effettuate con un preavviso minimo di 48 ore.

3) Rapporto diretti-indiretti
Con l’avvio della produzione della futura Panda e in relazione al programma formativo saranno riassegnate ai lavoratori le mansioni necessarie per assicurare un corretto equilibrio tra operai diretti e indiretti, garantendo ai lavoratori la retribuzione e l’inquadramento precedentemente acquisiti, anche sulla base di quanto previsto dall’art. 4, comma 11, Legge 223/91. Inoltre, a fronte di particolari fabbisogni organizzativi potrà essere richiesto ai lavoratori, compatibilmente con le loro competenze professionali, la successiva assegnazione ad altre postazioni di lavoro.

4) Bilanciamenti produttivi
La quantità di produzione prevista da effettuare per ogni turno, su ciascuna linea, e il corretto rapporto produzione/organico saranno assicurati mediante la gestione della mobilità interna da area ad area nella prima ora del turno in relazione agli eventuali operai mancanti o, nell’arco del turno, per fronteggiare le perdite derivanti da eventuali fermate tecniche e produttive.

5) Organizzazione del lavoro
Per riportare il sistema produttivo dello stabilimento Giambattista Vico alle migliori condizioni degli standard internazionali di competitività, si opererà, da un lato, sulle tecnologie e sul prodotto e, dall’altro lato, sul miglioramento dei livelli di prestazione lavorativa con le modalità previste dal sistema WCM e dal sistema Ergo-UAS.

Le soluzioni ergonomiche migliorative, derivanti dall’applicazione del sistema Ergo-UAS, permettono, sulle linee a trazione meccanizzata con scocche in movimento continuo, un regime di tre pause di 10 minuti ciascuna, fruite in modo collettivo, nell’arco del turno di lavoro, che sostituiscono le attuali due pause di 20 minuti ciascuna. Sui tratti di linea meccanizzata denominati «passo – passo», in cui l’avanzamento è determinato dai lavoratori mediante il cosiddetto «pulsante di consenso», le soluzioni ergonomiche migliorative permettono un regime di tre pause di 10 minuti ciascuna, fruite in modo collettivo o individuale a scorrimento sulla base delle condizioni tecnico-organizzative, che sostituiscono le attuali due pause di 20 minuti ciascuna. Per tutti i restanti lavoratori diretti e collegati al ciclo produttivo le soluzioni ergonomiche migliorative permettono la conferma della pausa di 20 minuti, da fruire anche in due pause di 10 minuti ciascuna in modo collettivo o individuale a scorrimento.

Con l’avvio del nuovo regime di pause, i 10 minuti di incremento della prestazione lavorativa nell’arco del turno, per gli addetti alle linee a trazione meccanizzata con scocche in movimento continuo e per gli addetti alle linee «passo-passo» a trazione meccanizzata con «pulsante di consenso», saranno monetizzati in una voce retributiva specifica denominata «indennità di prestazione collegata alla presenza».

L’importo forfetario, da corrispondere solo per le ore di effettiva prestazione lavorativa, con esclusione tra l’altro delle ore di inattività, della mezz’ora di mensa e delle assenze la cui copertura retributiva è per legge e/o contratto parificata alla prestazione lavorativa, per tutti gli aventi diritto, in misura di 0,1813 euro lordi ora. Tale importo è onnicomprensivo ed è escluso dal TFR, dal momento che, in sede di quantificazione, si è tenuto conto di ogni incidenza sugli istituti legali e/o contrattuali e pertanto il suddetto importo forfetario orario è comprensivo di tutti gli istituti legali e/o contrattuali.

6) Formazione
È previsto un importante investimento in formazione per preparare i lavoratori e metterli in condizioni di operare nella nuova realtà produttiva. Le attività formative si svolgeranno contemporaneamente alla ristrutturazione degli impianti e saranno fortemente collegate alle logiche WCM. I corsi di formazione saranno tenuti con i lavoratori in cigs e le Parti convengono fin d’ora che la frequenza ai corsi sarà obbligatoria per i lavoratori interessati. Il rifiuto immotivato alla partecipazione nonché l’ingiustificata mancata frequenza ai corsi, oltre a dar luogo alle conseguenze di legge, costituirà a ogni effetto comportamento disciplinarmente perseguibile.

Non sarà richiesto a carico Azienda alcuna integrazione o sostegno al reddito, sotto qualsiasi forma diretta o indiretta, per i lavoratori in cigs che partecipino ai corsi di formazione.

7) Recuperi produttivi
Le perdite della produzione non effettuata per causa di forza maggiore o a seguito di interruzione delle forniture potranno essere recuperate collettivamente, a regime ordinario, entro i sei mesi successivi, oltre che nella mezz’ora di intervallo fra i turni, nel 18° turno (salvaguardando la copertura retributiva collettiva) o nei giorni di riposo individuale.

8) Assenteismo
Per contrastare forme anomale di assenteismo che si verifichino in occasione di particolari eventi non riconducibili a forme epidemiologiche, quali in via esemplificativa ma non esaustiva, astensioni collettive dal lavoro, manifestazioni esterne, messa in libertà per cause di forza maggiore o per mancanza di forniture, nel caso in cui la percentuale di assenteismo sia significativamente superiore alla media, viene individuata quale modalità efficace la non copertura retributiva a carico dell’azienda dei periodi di malattia correlati al periodo dell’evento. A tale proposito l’Azienda è disponibile a costituire una commissione paritetica, formata da un componente della RSU per ciascuna delle organizzazioni sindacali interessate e da responsabili aziendali, per esaminare i casi di particolare criticità a cui non applicare quanto sopra previsto.

Considerato l’elevato livello di assenteismo che si è in passato verificato nello stabilimento in concomitanza con le tornate elettorali politiche, amministrative e referendum, tale da compromettere la normale effettuazione dell’attività produttiva, lo stabilimento potrà essere chiuso per il tempo necessario e la copertura retributiva sarà effettuata con il ricorso a istituti retributivi collettivi (PAR residui e/o ferie) e l’eventuale recupero della produzione sarà effettuato senza oneri aggiuntivi a carico dell’azienda e secondo le modalità definite.

Il riconoscimento dei riposi/pagamenti, di cui alla normativa vigente in materia elettorale, sarà effettuato, in tale fattispecie, esclusivamente nei confronti dei presidenti, dei segretari e degli scrutatori di seggio regolarmente nominati e dietro presentazione di regolare certificazione. Saranno altresì individuate, a livello di stabilimento, le modalità per un’equilibrata gestione dei permessi retribuiti di legge e/o contratto nell’arco della settimana lavorativa.

9) Cigs
Il radicale intervento di ristrutturazione dello stabilimento Giambattista Vico per predisporre gli impianti alla produzione della futura Panda presuppone il riconoscimento, per tutto il periodo del piano di ristrutturazione, della cassa integrazione guadagni straordinaria per ristrutturazione per due anni dall’avvio degli investimenti, previo esperimento delle procedure di legge.
In considerazione degli articolati interventi impiantistici e formativi previsti nonché della necessità di mantenimento dei normali livelli di efficienza nelle attività previste, non potranno essere adottati meccanismi di rotazione tra i lavoratori, non sussistendone le condizioni.

10) Abolizione voci retributive
A partire dal 1° gennaio 2011 sono abolite le seguenti voci retributive, di cui all’accordo del 4 maggio 1987 Parte III (Armonizzazione normativa e retributiva):
-paghe di posto
-indennità disagio linea
-premio mansione e premi speciali.

Le suddette voci, per i lavoratori per i quali siano considerate parte della retribuzione di riferimento nel mese di dicembre 2010, saranno accorpate nella voce «superminimo individuale non assorbibile» a far data dal 1° gennaio 2011 secondo importi forfettari.

11) Maggiorazioni lavoro straordinario, notturno e festivo
Sono confermate le attuali maggiorazioni comprensive dell’incidenza sugli istituti legali e contrattuali.

12) Polo logistico di Nola
È confermata la missione del polo logistico della sede di Nola.
Eventuali future esigenze di organico potranno essere soddisfatte con il trasferimento di personale dalla sede di Pomigliano d’Arco.

13) Clausola di responsabilità
Tutti i punti di questo documento costituiscono un insieme integrato, sicché tutte le sue clausole sono correlate ed inscindibili tra loro, con la conseguenza che il mancato rispetto degli impegni eventualmente assunti dalle Organizzazioni Sindacali e/o dalla RSU ovvero comportamenti idonei a rendere inesigibili le condizioni concordate per la realizzazione del Piano e i conseguenti diritti o l’esercizio dei poteri riconosciuti all’Azienda dal presente accordo, posti in essere dalle Organizzazioni Sindacali e/o dalla RSU, anche a livello di singoli componenti, libera l’Azienda dagli obblighi derivanti dalla eventuale intesa nonché da quelli derivanti dal CCNL Metalmeccanici in materia di:
-contributi sindacali
-permessi sindacali retribuiti di 24 ore al trimestre per i componenti degli organi direttivi nazionali e provinciali delle Organizzazioni Sindacali
ed esonera l’Azienda dal riconoscimento e conseguente applicazione delle condizioni di miglior favore rispetto al CCNL Metalmeccanici contenute negli accordi aziendali in materia di:
-permessi sindacali aggiuntivi oltre le ore previste dalla legge 300/70 per i componenti della RSU
-riconoscimento della figura di esperto sindacale e relativi permessi sindacali.
Inoltre comportamenti, individuali e/o collettivi, dei lavoratori idonei a violare, in tutto o in parte e in misura significativa, le presenti clausole ovvero a rendere inesigibili i diritti o l’esercizio dei poteri riconosciuti da esso all’Azienda, facendo venir meno l’interesse aziendale alla permanenza dello scambio contrattuale ed inficiando lo spirito che lo anima, producono per l’Azienda gli stessi effetti liberatori di quanto indicato alla precedente parte del presente punto.

14) Clausole integrative del contratto individuale di lavoro

Le clausole indicate integrano la regolamentazione dei contratti individuali di lavoro al cui interno sono da considerarsi correlate ed inscindibili, sicché la violazione da parte del singolo lavoratore di una di esse costituisce infrazione disciplinare di cui agli elenchi, secondo gradualità, degli articoli contrattuali relativi ai provvedimenti disciplinari conservativi e ai licenziamenti per mancanze e comporta il venir meno dell’efficacia nei suoi confronti delle altre clausole.

sabato 12 giugno 2010

Fermiamola!

di ROBERTO SAVIANO

La Legge bavaglio non è una legge che difende la privacy del cittadino, al contrario, è una legge che difende la privacy del potere. Non intesa come privacy degli uomini di potere, ma dei loro affari, anzi malaffari. Quando si discute di intercettazioni bisogna sempre affidarsi ad una premessa naturale quanto necessaria. La privacy è sacra, è uno dei pilastri del diritto e della convivenza civile.
Ma qui non siamo di fronte a una legge che difende la riservatezza delle persone, i loro dialoghi, il loro intimo comunicare. Questa legge risponde al meccanismo mediatico che conosce come funziona l'informazione e soprattutto l'informazione in Italia. Pubblicare le intercettazioni soltanto quando c'è il rinvio a giudizio genera un enorme vuoto che riguarda proprio quel segmento di informazioni che non può essere reso di dominio pubblico. Questo sembra essere il vero obiettivo: impedire alla stampa, nell'immediato, di usare quei dati che poi, a distanza di tempo, non avrebbe più senso pubblicare. In questo modo le informazioni veicolate rimarranno sempre monche, smozzicate, incomprensibili. L'obiettivo è impedire il racconto di ciò che accade, mascherando questo con l'interesse di tutelare la privacy dei cittadini.

Chiunque ha una esperienza anche minima nei meccanismi di intercettazione nel mondo della criminalità organizzata sa che vengono registrati centinaia di dettagli, storie di tradimenti, inutili al fine dell'inchiesta e nulle per la pubblicazione. Il terrore che ha il potere politico e imprenditoriale è quello di vedere pubblicati invece elementi che in poche battute permettono di dimostrare come si costruisce il meccanismo del potere. Non solo come si configura un reato. Per esempio l'inchiesta del dicembre 2007 che portò alla famosa intercettazione di Berlusconi con Saccà ha visto una quantità infinita di intercettazioni di dettagli privati, di cui in molti erano a conoscenza ma nessuna di queste è stata pubblicata oltre quelle necessarie per definire il contesto di uno scambio di favori tra politica e Rai.

La stessa maggioranza che approva un decreto che tronca la libertà di informazione in nome della difesa della privacy decide attraverso la Vigilanza Rai di pubblicare nei titoli di coda il compenso degli ospiti e dei conduttori. Sembra un gesto cristallino. E' il contrario. E non solo perché in una economia di mercato il compenso è determinato dal mercato e non da un calcolo etico. In questo modo i concorrenti della Rai sapranno quanto la Rai paga, quindi il meccanismo avvantaggerà le tv non di Stato. Mediaset potrà conoscere i compensi e regolarsi di conseguenza. Ma la straordinaria notizia che viene a controbilanciare quella assai tragica dell'approvazione della legge sulle intercettazioni è che il lettore, lo spettatore, quando comprende cosa sta accadendo diviene cittadino, ossia pretende di essere informato. Migliaia di persone sono indignate e impegnate a mostrare il loro dissenso, la volontà e la speranza di poter impedire che questa legge mutili per sempre il rapporto che c'è tra i giornali e i suoi lettori: la voglia di capire, conoscere, farsi un'opinione. Non vogliamo essere privati di ciò. Mandare messaggi ai giornali, mostrarsi imbavagliati, non sono gesti facili, scontati. Non sono gesti che permettono di sentirsi impegnati. Sono la premessa dell'impegno. L'intento d'azione è spesso l'azione stessa. Il dichiararsi non solo contrari in nome della possibilità di critica ma preoccupati che quello che sta accadendo distrugga uno strumento fondamentale per conoscere i fatti. La legge che imbavaglia, viene contrastata da migliaia di voci. Voci che dimostrano che non tutto è concluso, non tutto è determinabile dal palinsesto che viene dato agli italiani quotidianamente. Ogni persona che in questo momento prende parte a questa battaglia civile, sta permettendo di salvare il racconto del paese, di dare possibilità al giornalismo - e non agli sciacalli del ricatto - di resistere. In una parola sta difendendo la democrazia.

venerdì 11 giugno 2010

Il "mio" vangelo

«… ecco una donna, con un vaso di profumo…
… dove ha trovato questo coraggio, di sfidare un pubblico ‘perbene’ ed entrare già con l’intenzione di inondare Gesù della sua tenerezza? Perché questo, ovviamente, era il suo tormento: trovare qualcuno che si lasci davvero amare, curare e accudire, ma non a pagamento… Cercare qualcuno cui donarsi davvero “gratis”, per amore. È la sua unica possibilità di sapere che qualcuno la ama! Chissà quali parole o gesti di Gesù le hanno infuso questa fiducia di essere accolta e poter osare una libertà che sbalordisce il padrone di casa – e conquista la “scandalosa” connivenza di Gesù. E’ la prima persona veramente libera che Gesù incontra. Ha sperimentato in qualche modo che Gesù, a differenza di tutti gli altri, invece che schiacciarle addosso la pietra tombale del suo disgraziato mestiere, l’avrebbe accolta e amata, con tale fiducia e condiscendenza, da lasciarsi amare da lei con tutti i “sensi” dell’anima e del corpo… E proprio su questo Gesù richiama l’attenzione (vedi questa donna?), enumerando di nuovo i suoi gesti di tenerezza appassionata: con gli occhi (con lacrime irrorò i miei piedi); con i capelli (li asciugò); con le labbra (non smise di baciare i miei piedi!); con le mani (di profumo unse i miei piedi) … Lacrime e baci, carezze e capelli, profumo e contatto della pelle … che impregnano di sensualità amante i suoi piedi, lui tutto, … e l’intera casa. Le sono perdonati i molti suoi peccati perché ha molto amato!».
Giuliano

Ho voluto iniziare la riflessione sulle letture (bellissime!) di questa undicesima domenica del tempo ordinario con un pezzo significativo della lectio di Giuliano di tre anni fa… perché mi pare “metta lì” proprio bene quella che chiamerei l’ “icona” di questa donna, se “icona” non suonasse alle nostre orecchie occidentali come qualcosa di meramente simbolico, nel senso debole che si dà a questa parola oggi… “Icona” e “simbolo” sono invece parole forti, parole in cui non solo è evocata o rimandata una realtà, ma in cui essa è significata davvero. In questo senso la donna che Luca ci presenta in questo suo settimo capitolo è realmente icona, perché in lei si convogliano le esperienze storiche di tante donne di tanti tempi (oserei dire: di tutte le donne di tutti i tempi), ma non in una maniera che rende stereotipa, evanescente, meramente esemplificativa la sua vicenda: la sua storia, la sua esperienza, la sua relazione a Gesù è la sua… eppure è così vera che – avendo intercettato le coordinate fondamentali del suo essere donna – intercetta contemporaneamente quelle di ogni donna:

- Il bisogno di una visibilità pubblica dell’unicità del proprio amore;

- La “necessità” di sciogliersi in un’intimità che non ha ombre né paure;

- La condiscendenza dell’altro, «certezza di “indovinare”, questa volta, come amare».

- …

L’essere cioè guardata senza essere violentata, da quell’unico sguardo che permette di farsi vedere davvero, nella propria intimità più intima, senza dover costruire maschere, accettare etichette, fare continuamente i conti col “non essere come l’altro ti vuole/vorrebbe”… senza dover fare l’amore per soddisfare «le carezze di un animale» (De Andrè) o per ricatto o «per avercelo garantito» (De Andrè).

E questa qui è l’icona a cui Gesù chiede di guardare: «vedi questa donna?».
È dentro a questo specchio qui che il cristiano si deve guardare… Perché di fronte a quello che qui è raccontato (nel vangelo!!!) crollano tante (tutte?) le impalcature che ci siamo preconfezionati per scansare sempre – almeno un attimo prima – questo sguardo o l’intimità della gente… che così abbandoniamo e tradiamo veramente, rifugiandoci nelle nostre liturgie, nei nostri dogmi, nelle nostre banalissime pacche sulle spalle… senza mai entrare nei drammi veri della gente che ci vive accanto, nei suoi abissi, nelle sue disumanizzazioni… che anche noi – come figli di questo mondo – abbiamo contribuito a creare, o a rilanciare, o ad ignorare…

Quanta troppa poca gente rimandiamo in pace… come chiesa, come cristiani, come persone singole, impastate delle stesse paure e fragilità degli altri, dei loro stessi tradimenti e infedeltà, schifezze e meschinità, dimentichi che se appariamo solo po’ più bravini, lucidi, solidi, integerrimi, forti, è solo perché siamo dei privilegiati tra i derelitti della storia, ancora convinti che è per le nostre buone opere che siamo così (giusti!!?!?)… e non perché a noi è stata fatta una carezza e agli altri no; e non perché noi abbiamo da mangiare (tutti i cibi di cui si sazia l’uomo: pane, affetto, un tetto, un’istruzione, …) e gli altri no… Con una mentalità ancora anticotestamentaria per cui l’elezione (mia) è a scapito della non-elezione (di qualcun altro)… come se il nostro privilegio fosse un premio per le nostre opere buone e la loro dannazione (in terra) fosse figlia delle loro opere cattive (dei loro peccati, della loro ottusità, della loro malvagità o sfrenatezza)… Diceva un amico (il biblista Luca Moscatelli) in proposito: di fronte al mandato «tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16,19) dovremmo avere un sussulto di gioia perché a noi è dato di “sciogliere” tutti… e non dovremmo far altro che vivere per rimandare in pace la gente… e invece abbiamo fatto anche di questo un potere… sciogliendo qualcuno e non sciogliendo qualcun altro abbiamo inserito una discriminazione, su cui fondare il nostro potere…

Ecco… è il volto di dio che fonda questa discriminante (perché lui discriminatorio per primo) che Gesù – per tutta la sua vita e la sua morte – ha voluto distruggere… per rivelare l’unico vero Dio, l’Abbà suo… e nostro… che si tiene lì tra le sue braccia una prostituta (resa tale dagli uomini, come è di ogni donna) perché lui ci vede solo una “piccola” da pacificare – inglobandola nella sua tenerezza.

venerdì 4 giugno 2010

Santissimo corpo e sangue di Gesù

In questa seconda domenica dopo Pentecoste, la Chiesa ci invita a celebrare un’altra grande solennità: quella del santissimo corpo e sangue di Cristo. Viene così a completarsi una parabola intensissima e altrettanto impegnativa (Tempo di Pasqua – Ascensione – Pentecoste – Trinità – Corpus Domini), che in qualche modo ci fa tornare al momento del suo inizio (Giovedì santo), quando – durante la messa in Coena Domini – avevamo ascoltato proprio la medesima seconda lettura che la liturgia ci propone anche oggi (1Cor 11,23-26).

All’interno di questa parabola “tenuta su” da queste due colonne – da queste due 1Cor 11,23-26 – “c’è dentro tanto”, “c’è stato dentro tanto” (sia a livello liturgico, che dal punto di vista dei misteri celebrati, sia per quanto ha definitivamente toccato le nostre vite…), quasi che a riguardarla ora sembra tanto intensa, tanto decisiva, eppure tanto contratta… davvero, infatti, ancora molto di quella parabola resta e resterà da dire, da com-prendere, da assimilare… I misteri che in essa si sono dati ci superano davvero… e solo una vita di immersione in essi potrà, forse, farci arrivare alla fine un pochino più “cristianizzati”, “evangelizzati”, “umanizzati”…

Se però quest’anno C mette il testo di 1Cor 11,23-26 come punto di inizio e di fine di questo itinerario liturgico, allora forse val la pena già oggi spenderci qualche energia, qualche pensiero, qualche parola…
La prima lettera ai Corinzi è una lettera tanto bella quanto difficile: Paolo infatti la scrive ai suoi di Corinto più che altro per muovergli qualche rimprovero… In questo senso, forse, alcuni passaggi appaiono alla nostra sensibilità odierna un po’ strani… E però – allo stesso tempo – contiene in sé anche sprazzi stupendi, che sono diventati pilastri nella cultura biblica dei cristiani di sempre, anche di quelli meno avvezzi a maneggiare i testi…
È proprio la sorte del nostro capitolo 11, versetti 23-26, la cui collocazione liturgica nella messa in Coena Domini, ne ha fatto un “classicone”: la quarta versione dell’istituzione dell’eucaristia, dopo le tre sinottiche. Anch’esso però – a ben guardare – non ha una collocazione così luminosa, come la lettura dei soli versetti che la seconda lettura di questa domenica propone, sembra lasciar intendere. Anzi: se si fa la fatica di leggere tutto il brano (1Cor 11,17-34), ci si accorge subito come esso coincida esattamente con uno di quei “passaggi duri” della 1Cor di cui si diceva prima: «Mentre vi dò queste istruzioni, non posso lodarvi, perché vi riunite insieme non per il meglio, ma per il peggio» (v. 17)!
E il problema di cui Paolo si lamenta è quello che attraversa tutta la lettera: «Vi sono tra voi divisioni», «Quando vi radunate insieme il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti quando siete a tavola, comincia a prendere il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco».
A questo punto allora Paolo fa memoria di quello che invece è (stata) – e dunque dovrebbe essere – la cena del Signore (vv. 23-26): «Il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”. Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga»; dove gli elementi centrali sono sostanzialmente tre:

- L’identificazione del corpo e sangue di Gesù col pane e col vino;

- La memoria di lui;

- La vita consegnata.

Egli infatti – pare dire Paolo ai suoi – in quella sua ultima cena non ha fatto altro che prendere del pane, del vino, identificarli col suo corpo e col suo sangue e dire che se avessero voluto fare memoria di lui, avrebbero dovuto farla così (fate questo / fate così in memoria di me): con un pane spezzato, segno del suo corpo donato e con del vino versato, segno del suo sangue sparso. Segni cioè della sua consegna, per amore, alla morte; della sua consegna, per fede, al rischio del non senso; della sua consegna per la Vita, disposto a perderla… per ritrovarla. Che è quanto Paolo riassume nel suo potentissimo commento al cosiddetto racconto dell’istituzione dell’eucaristia: «Ogni volta che mangiate si questo pane e bevete al calice voi annunciate la morte del Signore (finché egli venga)». La morte del Signore…
Questa è la solennità del Corpus Domini: non l’idolatrizzazione di un pezzo di pane, ma la memoria che il Signore è Dio così; è colui che vive di una consegna per la vita dell’altro; e di tutto quello che ha detto e fatto, e patito e pregato, ha voluto esplicitamente che questo fosse il gesto sintetico di ciò che lui è (stato): pane / corpo spezzato; vino / sangue versato per
In questo senso anche le parole di Paolo che seguono (e che sono spesso state storpiate e travisate lungo i secoli), trovano la giusta collocazione. Dice infatti l’apostolo: «Perciò chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore»; dove ciò che appare con radicalità è l’identificazione forte tra pane / corpo e vino / sangue, tanto che – davvero – chi mangia in modo indegno pane e vino, è colpevole verso il corpo e il sangue del Signore… Ma dove (anche) ciò che va ri-significato è quell’“indegno” che ha davvero martoriato “troppa tanta gente” (che non si dice, ma rende l’idea…).
Perché se è vero quanto detto in precedenza, il problema della degnità / indegnità, non è problema moralistico, ma capacità di accoglienza del mistero della donazione del Signore: cioè accettazione pacificata che il nostro Dio è Colui che si consegna alla morte per amore e che – dunque – se siamo suoi discepoli, quella è la via per cui ci instrada…
Ma questo – proprio perché contempla in sé un’inevitabile storicità (è infatti solo l’interazione tra “vita” e “pensare la vita” che permette tale com-prensione, affidamento, instradamento…) – non ha niente a che vedere con un’estrinseca analisi di sé per vedere se si può essere ammessi “a far la comunione” senza incappare in qualche condanna o nel far adirare un dio di cui feriremmo la dignità col nostro peccato (puntuale o duraturo). Questo dio – va continuamente ripetuto al nostro “io vecchio” – NON è il Dio di Gesù! E la conferma viene dallo stesso Paolo che parla sì di analizzare se stessi («Ciascuno dunque esamini se stesso e poi mangi del pane e beva del calice»), ma non alla ricerca di indegnità morali (peccati), ma alla ricerca dell’unico peccato a cui il Nuovo Testamento dà realmente un peso, che è il non ritenere degno di credito un Dio che ama i suoi figli fino a morirne: «perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore (che cioè del Signore si fa memoria vera quando lo si ricorda come colui che si consegna), mangia e beve la propria condanna».
Abbastanza inutile ripeterlo, ma forse ancora un po’ necessario nella Chiesa del terzo millennio: non si dice questo per sostituire semplicemente l’oggetto dell’analisi puntigliosa e angosciosa della propria vita… prima si andava alla ricerca dei peccati, oggi di quanto veramente sono consapevole / sto credendo che “lì dentro c’è Gesù”… Lo “scaravoltamento” è ad un altro livello! Perché l’analisi puntigliosa e angosciosa è ancora figlia di un altro dio, non di quello di Gesù, qualsiasi sia il suo oggetto… Piuttosto io credo che si possa proprio fare la comunione in pace con il corpo di quel Signore che è Colui che si consegna: nel momento cioè in cui – anche in maniera proprio iniziale, immatura, ingenua, non troppo consapevole, fragile, trepidante, e chi più ne ha più ne metta… – si dà un piccolo credito così al fatto che la vita è Vita quando si consegna per il bene dell’altro, si può star tranquilli che si sta facendo davvero e bene la memoria del Signore, che ha glorificato Dio nel suo corpo, come Paolo invita ciascuno di noi a fare: «Glorificate Dio nel vostro corpo!» (1Cor 6,20). Perché se qualcuno avesse ancora dubbi: «Il Signore è per il corpo” (1Cor 6,13)!
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