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venerdì 26 marzo 2010

Passione di nostro Signore Ges Cristo secondo Luca

Come di consueto, anche quest’anno durante la domenica delle Palme, si legge il racconto della passione e morte di Gesù. A differenza però degli altri anni e del modo consueto di commentare le letture delle domeniche dell’anno liturgico, quest’anno preferisco lasciare ampio spazio al testo. Anche perché esso non ha bisogno di nessuna aggiunta e – dopo la sua lettura per intero (che consiglio vivamente a tutti) – non lascia spazio che ad un denso silenzio. Mi permetto allora semplicemente di mettere – nel testo – i passaggi che più di tutti a me, oggi, paiono significativi, quelli che più di tutti fanno vibrare le mie corde interiori, così, proprio per far posto – qualche volta – più alla pancia che alla testa.

Dal libro del profeta Isaìa (Is 50,4-7)
Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési (Fil 2,6-11)
Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.

Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Luca (Lc 22,14-23,56)
Quando venne l’ora, [Gesù] prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse loro: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio». E, ricevuto un calice, rese grazie e disse: «Prendetelo e fatelo passare tra voi, perché io vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non verrà il regno di Dio». Poi prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: «Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me». E, dopo aver cenato, fece lo stesso con il calice dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi».

Anche se forse non tutti saranno d’accordo… leggendo questo testo mi è capitato più di una volta di immaginare la medesima situazione di Gesù e dei discepoli all’ultima cena, riadattandola con i personaggi della mia vita, con le persone che amo o, addirittura, come se fossi io a pronunciare le parole di Gesù.
Forse non tutti saranno d’accordo, perché – insomma – non si fa… Chi può avere l’ardire di mettersi nei panni di Gesù e pensare di riuscire a vestirli? Chi può mettere al posto di Gesù qualcuno che ama, senza scadere nell’idolatria? Ecc…
Eppure, se è vero che la conoscenza di Lui, l’incontro con Lui e l’amore per Lui non può avvenire che in maniera mediata (dalla storia, dal volto degli altri, dalla struttura antropologica dell’amare, del pensare, del decidere, ecc…), allora forse il tentativo – magari un po’ infantile – di immedesimazione, fa comprendere molto bene le dinamiche affettive in gioco in quei terribili momenti: la consapevolezza dell’imminente morte, la paura di morire, il dramma del lasciare chi si ama… e dentro lì, la scelta di morire donandosi…
E dal punto di vista dei discepoli: l’incomprensione, la paura, l’annientamento del futuro, l’orrore della solitudine…
E la domanda: Perché se metto qualcuno che amo al posto di Gesù o se mi metto io stessa, lasciando i miei amati nel ruolo dei discepoli, mi si agghiacciano di angoscia le interiora e mi sale il magone del terrore in gola, mentre se non faccio questa associazione, mi sembra solo il racconto scontato – perché mille volte già ascoltato – del superuomo Gesù, molto più ectoplasma cosmico, che uomo da amare come gli altri!?!??



«Ma ecco, la mano di colui che mi tradisce è con me, sulla tavola. Il Figlio dell’uomo se ne va, secondo quanto è stabilito, ma guai a quell’uomo dal quale egli viene tradito!». Allora essi cominciarono a domandarsi l’un l’altro chi di loro avrebbe fatto questo. E nacque tra loro anche una discussione: chi di loro fosse da considerare più grande. Egli disse: «I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori. Voi però non fate così; ma chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve. Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove e io preparo per voi un regno, come il Padre mio l’ha preparato per me, perché mangiate e beviate alla mia mensa nel mio regno. E siederete in trono a giudicare le dodici tribù di Israele.

Luca colloca a questo punto la discussione su chi fosse da considerarsi più grande… Agghiacciante che la collochi proprio qui… Segno forte della solitudine di Gesù, non ancora a livello concreto (ha ancora intorno i suoi), ma indubbiamente esistenziale: solo Lui infatti sta capendo bene ciò che accade. E solo Lui, dentro agli eventi, mantiene quella lucidità che ridà ai fatti il significato autentico, continuamente falsato da tutti gli altri attori in scena (qui e fino alla fine) e rivela un’incommensurabile capacità leggere in trasparenza le dinamiche umane.
«Voi però non fate così»...


Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli». E Pietro gli disse: «Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte». Gli rispose: «Pietro, io ti dico: oggi il gallo non canterà prima che tu, per tre volte, abbia negato di conoscermi».

Anche Pietro fa una lettura falsata della realtà… addirittura una lettura falsata di se stesso… che Gesù, senza giudizio né rimprovero, semplicemente smonta, per riportarlo alla carne e al sangue… molto più veri di tanti nostri propositi… Perché è molto più vera la paura, che la baldanza; la trepidazione, che l’ostentata sicurezza… siamo molto più un grumo di sangue impaurito, che dei valorosi combattenti indomiti.
Ma la cosa interessante è che mentre noi passiamo una vita a cercare di nascondere a noi stessi e agli altri questa verità, Gesù la vede da sempre e non se ne fa proprio problema. Anzi… La guarda con trasparenza e naturalezza, benevolenza e fiducia: quel grumo di sangue impaurito è il suo grumo di sangue impaurito! E sarà sapere questo (questo suo sguardo, questo suo amore) che renderà quel grumo di sangue impaurito – che pure resterà un grumo di sangue impaurito – così libero da saper davvero a sua volta amare fino a dare la vita!


Poi disse loro: «Quando vi ho mandato senza borsa, né sacca, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?». Risposero: «Nulla». Ed egli soggiunse: «Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così chi ha una sacca; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. Perché io vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: “E fu annoverato tra gli empi”. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo compimento». Ed essi dissero: «Signore, ecco qui due spade». Ma egli disse: «Basta!». Uscì e andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono. Giunto sul luogo, disse loro: «Pregate, per non entrare in tentazione». Poi si allontanò da loro circa un tiro di sasso, cadde in ginocchio e pregava dicendo: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà». Gli apparve allora un angelo dal cielo per confortarlo. Entrato nella lotta, pregava più intensamente, e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadono a terra. Poi, rialzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza. E disse loro: «Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione».

Cade in ginocchio, il suo sudore diventa come gocce di sangue che cadono a terra… c’è una lotta… è la fatica, tutta umana di Gesù di tirar dietro al suo cuore, alla sua mente, alla sua “determinata determinazione” («non sia fatta la mia, ma la tua volontà») anche la sua carne, il desiderio di vita che si sprigiona da ogni sua fibra, la paura di morire che corre lungo le sue midolla, il terrore del nulla che gela le sue viscere…
È così che Dio agisce nella storia! Nella lotta, tutta sudore e sangue, di una libertà che si decide per Lui, per l’amore, per la vita degli altri, per il primato dell’uomo! Il resto è coreografia folkloristica (spesso di cattivo gusto)…


Mentre ancora egli parlava, ecco giungere una folla; colui che si chiamava Giuda, uno dei Dodici, li precedeva e si avvicinò a Gesù per baciarlo. Gesù gli disse: «Giuda, con un bacio tu tradisci il Figlio dell’uomo?». Allora quelli che erano con lui, vedendo ciò che stava per accadere, dissero: «Signore, dobbiamo colpire con la spada?». E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio destro. Ma Gesù intervenne dicendo: «Lasciate! Basta così!». E, toccandogli l’orecchio, lo guarì. Poi Gesù disse a coloro che erano venuti contro di lui, capi dei sacerdoti, capi delle guardie del tempio e anziani: «Come se fossi un ladro siete venuti con spade e bastoni. Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete mai messo le mani su di me; ma questa è l’ora vostra e il potere delle tenebre».

«Come se fossi un ladro…»: la grande menzogna… Mentre tutti si costruiscono la verità (il “come se”), Gesù riporta sempre all’autenticità della realtà (al “come è”)...
L’uomo infatti ha bisogno di mentire, di falsare, di mascherarsi… altrimenti non rimarrebbe di lui che un grumo di sangue impaurito… che nessuno degnerebbe di uno sguardo, che nessuno terrebbe in alcuna considerazione… a cui nessuno riconoscerebbe una qualche autorità, o a cui darebbe un qualche potere… che nessuno dunque ammirerebbe, stimerebbe e amerebbe…
La trasparenza dello sguardo di Gesù si fonda invece sull’incontrovertibile onorabilità del grumo di sangue. E della sua verità. Questi è l’uomo. Questi è la creatura di Dio. Questi è chi Lui ama.


Dopo averlo catturato, lo condussero via e lo fecero entrare nella casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano. Avevano acceso un fuoco in mezzo al cortile e si erano seduti attorno; anche Pietro sedette in mezzo a loro. Una giovane serva lo vide seduto vicino al fuoco e, guardandolo attentamente, disse: «Anche questi era con lui». Ma egli negò dicendo: «O donna, non lo conosco!». Poco dopo un altro lo vide e disse: «Anche tu sei uno di loro!». Ma Pietro rispose: «O uomo, non lo sono!». Passata circa un’ora, un altro insisteva: «In verità, anche questi era con lui; infatti è Galileo». Ma Pietro disse: «O uomo, non so quello che dici». E in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro, e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detto: «Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte». E, uscito fuori, pianse amaramente.

Pietro è l’emblema di questo ritorno alla realtà… Per lui basta uno sguardo… Dopo la grande menzogna, dopo l’invenzione della verità, dopo la maschera, gli occhi dell’amico lo riportano a chi lui è veramente… un grumo di sangue impaurito e mentitore per paura!
Ma la scoperta di Pietro è che – al contrario di quanto gli suggeriva la sua paura, per cui mostrarsi nella sua verità lo avrebbe condotto alla morte, alla non accettazione, al disprezzo, alla solitudine – lo sguardo di Gesù che lo vede per quello che è veramente, è sempre quello di chi lo ama, di chi da sempre lo vedeva come un tenero grumo di sangue, di chi lo tiene perché è suo!


E intanto gli uomini che avevano in custodia Gesù lo deridevano e lo picchiavano, gli bendavano gli occhi e gli dicevano: «Fa’ il profeta! Chi è che ti ha colpito?». E molte altre cose dicevano contro di lui, insultandolo. Appena fu giorno, si riunì il consiglio degli anziani del popolo, con i capi dei sacerdoti e gli scribi; lo condussero davanti al loro Sinedrio e gli dissero: «Se tu sei il Cristo, dillo a noi». Rispose loro: «Anche se ve lo dico, non mi crederete; se vi interrogo, non mi risponderete. Ma d’ora in poi il Figlio dell’uomo siederà alla destra della potenza di Dio». Allora tutti dissero: «Tu dunque sei il Figlio di Dio?». Ed egli rispose loro: «Voi stessi dite che io lo sono». E quelli dissero: «Che bisogno abbiamo ancora di testimonianza? L’abbiamo udito noi stessi dalla sua bocca». Tutta l’assemblea si alzò; lo condussero da Pilato e cominciarono ad accusarlo: «Abbiamo trovato costui che metteva in agitazione il nostro popolo, impediva di pagare tributi a Cesare e affermava di essere Cristo re». Pilato allora lo interrogò: «Sei tu il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici». Pilato disse ai capi dei sacerdoti e alla folla: «Non trovo in quest’uomo alcun motivo di condanna». Ma essi insistevano dicendo: «Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea, fino a qui». Udito ciò, Pilato domandò se quell’uomo era Galileo e, saputo che stava sotto l’autorità di Erode, lo rinviò a Erode, che in quei giorni si trovava anch’egli a Gerusalemme.
Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto. Da molto tempo infatti desiderava vederlo, per averne sentito parlare, e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui. Lo interrogò, facendogli molte domande, ma egli non gli rispose nulla. Erano presenti anche i capi dei sacerdoti e gli scribi, e insistevano nell’accusarlo. Allora anche Erode, con i suoi soldati, lo insultò, si fece beffe di lui, gli mise addosso una splendida veste e lo rimandò a Pilato. In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici tra loro; prima infatti tra loro vi era stata inimicizia.
Pilato, riuniti i capi dei sacerdoti, le autorità e il popolo, disse loro: «Mi avete portato quest’uomo come agitatore del popolo. Ecco, io l’ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in quest’uomo nessuna delle colpe di cui lo accusate; e neanche Erode: infatti ce l’ha rimandato. Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte. Perciò, dopo averlo punito, lo rimetterò in libertà». Ma essi si misero a gridare tutti insieme: «Togli di mezzo costui! Rimettici in libertà Barabba!». Questi era stato messo in prigione per una rivolta, scoppiata in città, e per omicidio. Pilato parlò loro di nuovo, perché voleva rimettere in libertà Gesù. Ma essi urlavano: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». Ed egli, per la terza volta, disse loro: «Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato in lui nulla che meriti la morte. Dunque, lo punirò e lo rimetterò in libertà». Essi però insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso, e le loro grida crescevano. Pilato allora decise che la loro richiesta venisse eseguita. Rimise in libertà colui che era stato messo in prigione per rivolta e omicidio, e che essi richiedevano, e consegnò Gesù al loro volere.

Pilato sa che Gesù è “una patata bollente”… e se ne vuole liberare. Ci prova con Erode… ricordando che Gesù è Galileo e che dunque Erode ne aveva l’autorità… Ma Erode glielo rimanda: non ha interesse per lui, quando si accorge che non ha niente del giullare di corte che coi suoi trucchetti fa divertire il pubblico… Pilato allora prova a tenere duro con i capi dei sacerdoti, le autorità e il popolo. Ma poi, la ragion di stato (quindi non una ragione vera, ma un’altra invenzione della verità, quella adatta a non far scoppiare una rivolta) prevale. E Gesù – nel teatro delle menzogne – diventa colpevole: condannato.

Mentre lo conducevano via, fermarono un certo Simone di Cirene, che tornava dai campi, e gli misero addosso la croce, da portare dietro a Gesù. Lo seguiva una grande moltitudine di popolo e di donne, che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. Ma Gesù, voltandosi verso di loro, disse: «Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: “Beate le sterili, i grembi che non hanno generato e i seni che non hanno allattato”. Allora cominceranno a dire ai monti: “Cadete su di noi!”, e alle colline: “Copriteci!”. Perché, se si tratta così il legno verde, che avverrà del legno secco?».

Strepitoso in tutto questo orchestrare la menzogna, il commento lucidissimo di Gesù: «Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli»… La verità infatti, anche se non riconosciuta da alcuno, se non da Gesù solo, è che quegli uomini e quelle donne – e non lui – sono nell’errore. Non solo nell’errore di valutazione sulla colpevolezza o l’innocenza di Gesù, ma nell’errore della postura esistenziale.

Insieme con lui venivano condotti a morte anche altri due, che erano malfattori. Quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno».
Poi dividendo le sue vesti, le tirarono a sorte. Il popolo stava a vedere; i capi invece lo deridevano dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei». Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso». Era già verso mezzogiorno e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio, perché il sole si era eclissato. Il velo del tempio si squarciò a metà. Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Detto questo, spirò.

Le tre cose che Luca fa dire a Gesù in croce sono insuperabili: lo sguardo trasparente sui suoi assassini («Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno»), a cui ridona la caratura umana di cui loro si stanno auto-privando; lo sguardo (la cura) al prossimo sofferente anche nel momento in cui lui stesso è il prossimo sofferente («Oggi con me sarai nel paradiso»), cui continua a guardare come si guarda ad un uomo, anche quando gli altri, la vita, lui stesso, lo hanno disumanizzato; e infine lo sguardo al Padre («Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito»), guardato fino in fondo come Padre.
Fra tutti, solo Gesù vede la verità, solo i suoi occhi riconoscono i veri volti di ciascuno…


Visto ciò che era accaduto, il centurione dava gloria a Dio dicendo: «Veramente quest’uomo era giusto». Così pure tutta la folla che era venuta a vedere questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto. Tutti i suoi conoscenti, e le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea, stavano da lontano a guardare tutto questo. Ed ecco, vi era un uomo di nome Giuseppe, membro del Sinedrio, buono e giusto. Egli non aveva aderito alla decisione e all’operato degli altri. Era di Arimatèa, una città della Giudea, e aspettava il regno di Dio. Egli si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Lo depose dalla croce, lo avvolse con un lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia, nel quale nessuno era stato ancora sepolto. Era il giorno della Parascève e già splendevano le luci del sabato. Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono il sepolcro e come era stato posto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo come era prescritto.

E infine, quando ormai Gesù non può guardare più e non può più dirci la verità facendoci guardare la realtà coi suoi occhi, ecco che rispuntano i suoi e soprattutto le sue… le quali – piuttosto che nulla – vogliono almeno avere tra le mani il suo corpo (morto), in un atteggiamento tutto femminile che è quello della cura, della custodia, dell’“in-grembamento”…

Il mio augurio, all’inizio di questa settimana santa, in attesa della domenica di risurrezione, è di vivere un po’ questo “in-grembamento”.

giovedì 25 marzo 2010

mercoledì 24 marzo 2010

Oscar Romero e il martirio continuo: massacro dei cecchini durante i funerali


Snipers from the National Army fire from the top of buildings during Romero's funeral in 1980 in the central San Salvador park. And yes, this is how OUR people suffered, thanks in part to the US' involvement in Salvadorian affairs! The US supported the then-bloodthirsty junta with financial aid and arms. They only stopped helping the Salvadorian junta after the 4 nuns were murdered, only to resume their aid a few days later. The US has been responsible for literally millions of deaths throughout the 20th century via illegal coups, establishing dictatorships in 3rd world countries and CIA-backed private wars. dall'Autore nella pagina del video
Grazie a Greg50 che ci ha ricordato l'anniversario del martirio di O. Romero

Né per caso, né per mano di Dio...

di Viviana Daloiso in Avvenire.it
Otto milioni di morti all’anno. Cinquemila bambini al giorno, uno ogni venti secondi. Nemmeno le guerre e le violenze che tormentano ogni angolo del Pianeta, messe tutte insieme, possono tanto. La mancanza d’acqua, sì. La tragedia silenziosa, che si lega a quella di risorse idriche non potabili – se non addirittura inquinate – si consuma lontano da telecamere e notiziari, ma è ormai letale quanto il più spietato dei virus.

I numeri del fenomeno, snocciolati dall’Onu in occasione della Giornata mondiale dell’acqua di ieri, fanno tremare. E non solo per i morti. Basti pensare che un abitante su due sulla Terra vive in case senza sistema fognario (circa tre miliardi di persone), uno su cinque non ha acqua potabile a sufficienza (oltre un miliardo), o che – tanto per fare un riferimento geografico – nell’Africa subsahariana fino a 250 milioni di persone rischiano di morire di sete.

Una situazione tanto insostenibile quanto l’abisso che separa il Sud del mondo dai Paesi più sviluppati. Dove, come ha ricordato il segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon presentando il rapporto dall’Unep, il programma sull’ambiente delle Nazioni Unite, «giorno dopo giorno si versano 2 miliardi di tonnellate di acque reflue non trattate e di rifiuti industriali agricoli nel sistema idrico mondiale, quando i poveri continuano a patire soprattutto a causa dell’inquinamento, della carenza idrica e della mancanza di igiene». Così, mentre la mancanza di acqua pulita nel Sud del mondo uccide ogni anno 1,8 milioni di bambini sotto i cinque anni d’età di tifo, colera, dissenteria e gastroenterite e la metà dei letti d’ospedale è occupata da pazienti che soffrono di malattie legate al consumo d’acqua contaminata, nei Paesi "ricchi" l’acqua abbonda e viene sprecata. Un cittadino americano ne ha a disposizione mediamente 425 litri al giorno (nemmeno uno in molti Paesi africani e asiatici), uno italiano 237.
Certo, l’emergenza "siccità", con la conseguente carenza d’acqua, negli ultimi anni si è affacciata anche in Occidente. È il caso dell’Europa dove, secondo dati diffusi da Bruxelles, tra il 1976 e il 2006 – anche a causa del surriscaldamento del Pianeta – almeno l’11% degli abitanti ha sofferto di carenza d’acqua, con un danno per l’economia di almeno 100 miliardi di euro. Tanto che l’altro allarme lanciato dall’Onu riguarda il futuro: nel 2030, stimano le Nazioni Unite, oltre 3 miliardi di persone rischiano di rimanere senz’acqua, con una pesantissima ricaduta anche sulla produzione agricola e alimentare, che nell’acqua trova il suo ingrediente essenziale.

L’Italia, pur essendo uno dei Paesi al mondo con maggiore disponibilità d’acqua, non se la cava meglio: al Sud e nelle isole il 15% della popolazione – ossia circa 8 milioni di persone – per quattro mesi all’anno (da giugno a settembre) è sotto la soglia del fabbisogno idrico minimo, fissato in 50 litri di acqua al giorno a persona. Senza contare il problema degli sprechi, della dispersione d’acqua (anche oltre il 30%, secondo il rapporto Onu, a causa delle reti idriche fatiscenti) e dei reati ambientali, sulla cui gravità non a caso ieri ha insistito anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. All’Accademia dei Lincei, in un convegno sulle frane e il dissesto idrogeologico, il capo dello Stato ha detto: «Occorre contrastare comportamenti di irresponsabile superficialità e ripetute violazioni delle norme poste a tutela del territorio, troppo spesso causa di danni irreparabili che depauperano l’ambiente e compromettono il delicato equilibrio dell’ecosistema, con effetti catastrofici, per le persone, per i loro beni, per l’intera nazione». E il pensiero va a un altro incubo legato all’acqua, stavolta tutto italiano.

martedì 23 marzo 2010

Soli!

Soli!
C’è un pensiero triste – triste come la morte – che spesso può attraversare la mente di un genitore: quello di non credere più alla possibilità di educare e di saper educare i propri figli.

Non c’è niente di peggio per un genitore, e non c’è niente di peggio per un educatore…

In quella grande istituzione anche “educativa” che è la Chiesa, questo è un cancro mortale che gli impedisce di essere Chiesa, missionaria, annunciatrice, di un volto nuovo di Dio…

Quando un genitore arriva a quel punto, o “scomunica” il figlio cacciandolo di casa, o lo denuncia ai carabinieri, per farlo “internare”. In ogni caso gli nasconde il suo volto.

Per alcuni può essere una extrema ratio… Dovrebbero chiamarla però extrema irratio in quanto figlia della disperazione. Sintomo che il dialogo tra educatore e educando si è interrotto da tempo e rivela l’incapacità dell’educatore di perderci di persona per ricomporlo. Di perderci la faccia!

Più che la scacciata del figlio, è la morte del padre, che il padre mette in atto! Perché uccide la speranza, l’unica “cosa” che ci tiene in vita: padri e figli. E uccidendola in sé, il padre la distrugge anche nel figlio!

Una non-paternità, la negazione stessa della propria maternità! Sottraendo il proprio sguardo, al figlio.

Qualcosa del genere accade da tempo in una “pastorale” della Chiesa italiana, in cui la “madre” delega al braccio potente della politica il suo compito di “custodire”, con-vertire, accogliere, dialogare, annunciare… Una Chiesa che chiede al potere secolare di aiutarla o almeno non ostacolarla è diversa da una Chiesa che chiede al potere secolare di sostituirsi alla sua missione educativa.

Chiedi a tutti di aiutarti ad esercitare al massimo il tuo ruolo di educatore, padre, madre, fratello, sorella, ma non delegare a nessuno il tuo essere padre, madre, fratello, sorella!

La legge contro l’aborto che lo limita a casi ben specifici è stata approvata nel lontano 22 maggio 1978 e confermata anche dai cattolici italiani che hanno respinto il doppio referendum che ne chiedeva in parte l’abrogazione (sia in senso permissivo, sia in senso restrittivo) il 17 maggio 1981.

E siamo ancora a quel punto? Ma non è questo il punto…

Affermare, anche indirettamente, come fa Bagnasco nella sua prolusione, che ci vuole un politico pro-life per impedire l’aborto, è un’aberrazione di una madre che ha paura di farsi madre. Che non crede più nelle proprie capacità di convinzione, di annuncio, di formazione delle coscienze… È una Chiesa che rinuncia a farsi missionaria parlando al “cuore” delle persone, prendendone veramente a “cuore” i destini. In tutti questi anni la Chiesa non ha convinto perché non ha parlato al cuore, e non ha parlato al cuore, perché per parlare al cuore, occorre veramente farsi carico delle angosce dell’altro e morirci, come ci muore una madre.

E allora si delega al rappresentante politico, al potere forte della legge e della giustizia il compito che le spetta come Madre.

Quando poi si parla di giustizialismo si sa che cosa si sta dicendo? Il vero giustizialismo non è forse la rinuncia ad essere fratello, sorella e madre? Le relazioni affettive sono sostituite da quelle “contrattuali” della legge! All’astrazione di una legge, che mai può tener conto della “fatica” nell’osservarla!

L’astrazione… si vede anche nel modo in cui si argomenta: dai principi primi ai i principi secondi… Prima viene la vita, dice Bagnasco, in ogni sua dimensione, soprattutto estrema, poi viene la l’oikonomos, la fatica di viverla…
Niente di più falso, niente di più astratto, niente di più antievangelico! Non a caso Gesù mette il rapporto col denaro a fondamento del rapporto con Dio e con gli uomini (e le donne!).

Nel Vangelo Mammona non è il potere, Mammona è il denaro con il quale si raggiunge e si conserva il potere di ogni Faraone, di ogni Erode, che si divorano i nostri feti e i nostri nonni non più “efficienti”.

C’è un vuoto di riflessione nella Chiesa sul denaro e sul suo potere ammaliante sulle coscienze. Che consegna la Chiesa tra le braccia di Mammona.

Anche la pedofilia, per fare una parentesi che parentesi non è: è possibile esercitarla solo da una posizione di “potere”, al quale credo non sia del tutto estranea la dimensione del potere economico che prende la forma del turismo sessuale e della corruzione con regali del minore… Forse sarebbe interessante approfondire anche questo aspetto: «Il potere dei soldi nella corruzione di tutta la morale (non solo sessuale) dell’Occidente e Oltre». Un buon tema, per la prossima prolusione del nostro caro monsignor Bagnasco. Che ci provi almeno, ne scoprirà delle belle!

E la “precisazione ligure” arrivata nelle ore in cui riflettevo su questo scritto, non sposta di una virgola la prospettiva. Anzi, spostando le pedine del gioco, ne conferma il gioco.
Al politico chiedo che faccia bene il suo mestiere di amministratore della polis senza appropriarsi di beni che son di tutti… ma è a mia madre che, senza giudicarmi, domando di tenermi la mano che mi aiuti a sentirmi meno solo.

E allora… A che serve dire, senza dirlo, di non votare Emma Bonino o Mercedes Bresso, ma di votare “gli altri”, se poi la donna quando deve fare la scelta sulla “vita della sua vita” è lasciata sola, illudendosi colpevolmente che le basti un “consultorio” per toglierle il dramma della solitudine?…

A che serve… al disoccupato, forse anche con famiglia a carico, che non ritrova il lavoro, se poi concretamente, i “fratelli e sorelle nella fede”, chiusi nella loro attività parrocchiale lo lasciano solo con i suoi problemi di sopravvivenza, delegando quasi tutto all’istituzione della Cassa Integrazione o all’Ufficio di Collocamento o alla Caritas?…

A che serve… al morente solo col suo dolore, attorniato da extraterrestri in camice bianco che gli fanno capire quanto è di peso, a loro, alla società e ai familiari?…

Servisse a niente! sarebbe già qualcosa. Ma a qualcosa purtroppo serve… a sentirsi ancora più abbandonati, ancora più “usati”, ancor più soli…

lunedì 22 marzo 2010

La lezione di Stefano


La spoglia di Stefano Cucchi, tumulata nel cimitero di San Gregorio, ha finalmente pace. La nostra coscienza no. Ci resta negli occhi, non meno che l’immagine del suo corpo larvale nelle foto d’autopsia, lo stupore e l’angoscia di quella sequenza di vita e di morte, ora che la Commissione parlamentare d’inchiesta ha depositato la sua relazione. Un arresto, una notte in caserma, la consegna in carcere, il sotterraneo del tribunale, l’aula giudiziaria, la convalida dell’arresto, l’ospedale, di nuovo il carcere, ancora l’ospedale, e il volto tumefatto e la schiena lesionata in due vertebre, e i giorni senz’acqua e senza cibo, rifiutati, e la morte. L’hanno votata tutti, quella relazione che chiude l’indagine sul versante sanitario: Stefano aveva lesioni quando entrò in ospedale, ma non è morto di botte, è morto per disidratazione.

Questa fine, tremenda nel suo svolgimento, non chiude certo il conto dei quesiti che questa morte ci rovescia addosso, ma ne apre di nuovi, semmai taluno ci dicesse che una fine così è una "morte naturale". Certo è naturale che senza cibo e senz’acqua si muore. Ma il come si muore non è la stessa cosa del perché. Non ci basta il racconto di un rifiuto, ci preme la ragione del rifiuto, è questo che spiega o nega il senso dell’accaduto. Di che il ragazzo voleva «richiamare su di sé l’attenzione del mondo esterno e dei suoi legali». Allora quel rifiuto è l’estremo grido di una disperazione traboccata, e tragicamente inascoltata.

Il lavoro della Commissione ci rassicura che quando lo scandalo avviene nessun uomo è ritenuto così miserabile da patire ingiustizia "come se nulla fosse" (si direbbe in corpore vili), e che si devono fare i conti e colpire le responsabilità; ma non ci basta. Ci preme di ripercorrere l’intera via dolorosa e i momenti in cui Stefano ha incontrato volti e mani protese sulla scandalosa "insignificanza" della sua sventura. Il peggio dell’esser corpo vile non sono le lesioni che gonfiano gli occhi o incrinano le vertebre, sono le orecchie sorde all’invocazione di un contatto con la famiglia, con il legale, con l’amico della comunità di recupero; sono le braccia inerti di fronte ai giorni dello sconforto, sfida o invocazione in faccia alla morte, alla tremenda agonia della disidratazione.

C’è un processo penale in corso. Non mi intrometto nelle tecniche giuridiche, e poi niente di quanto accadrà ridarà la vita a Stefano. Ma sul piano di una civiltà minima sul senso della vita e della relazione umana, mi parrebbe massima ipocrisia dire che si è lasciato morire da sé, è lui che l’ha deciso, era un suo diritto, la nutrizione e l’idratazione non si fanno senza il consenso informato. E il grido che invoca il soccorso di un ascolto e di un incontro dell’anima giocando sul tavolo del rischio del disfacimento del corpo, non val nulla per un medico? Sei medici hanno girato via gli occhi? Noi non gireremo via i nostri.

Dopo l’indignazione incanalata contro il "sistema" (quale scacco per tutti gli apparati dello Stato coinvolti, questa morte ingiusta) dovremo interrogare la deriva culturale che va sfigurando il senso umano del soccorso, proprio a partire dal cuore della professione medica. Fra l’uomo sofferente e l’uomo che lo cura c’è un’alleanza, o una grigia negoziazione indifferente? Lo stesso gesto può chiamarsi aiuto oppure intrusione, la stessa omissione può chiamarsi rispetto oppure abbandono. A tenere in salvo l’umanesimo di un minimo amore il criterio è la verità del "prendersi cura" dell’uomo, rispetto alle mille falsificazioni della nostra indifferenza. Alla fine, è l’indifferenza che dà la morte.

Piazza montata

Ps: Verdini? eravate solo tra i 120.000 e 140.000... Bastava chiederlo a Maroni!

Libertà (per tutti e non solo per qualcuno)

Avevo scritto un post dal titolo Extra chorum, in cui constatavo con una certa amarezza di essere “solo” nel difendere il principio che, non ammettere alle elezioni chi non si dimostrava nemmeno “capace” di presentare una lista elettorale – per quanto rappresenti milioni di potenziali elettori – non era un vulnus alla democrazia, ma al contrario una forma alta e nobile di difenderla dall’arroganza del potere: il vulnus ci sarebbe (stato) se fossero (stati) ammessi violando le “regole” valide per tutti (gli altri)!... Fa piacere ora constatare che non ero poi così “marziano”... L’articolo è stato pubblicato qualche giorno dopo il mio post dal Corriere, ma non avevo avuto il tempo di presentarvelo, lo pubblico ora nella speranza che, a mente fredda o quasi, possa essere oggetto di riflessione comune...

Una mia parente, da bambina, aveva appiccicato sulla porta della sua stanza un foglio di carta con la scritta: «Rispettare le regole». Era una bambina tutt’altro che docile e riguardosa, bensì avventurosa e vivace. Forse proprio per questo aveva istintivamente capito, senza aver letto alcun libro di diritto, che delle regole non si può fare a meno, se si vuole star bene insieme. La regola non ha mai goduto di buona stampa. È una delle prime vittime della retorica sentimentale che falsifica il profondo sentimento della vita e delle sue contraddizioni. Non c’è poetastro che non vanti la propria sofferta e appassionata fantasia insofferente di norme stilistiche, anche se il suo collega Dante Alighieri ha dimostrato che rispettare la metrica, l’ordine della terzina e della rima e il numero di sillabe del verso può essere efficace per rappresentare il caos delle passioni, il mistero del mondo e di ciò che sta oltre.
La vita è un continuo confronto con la regola, che essa si dà per non dissolversi nell’indistinto e che essa creativamente muta, per renderla più adeguata ad affrontare la realtà sempre nuova, costruendo incessantemente nuove regole. Le creative rivoluzioni artistiche infrangono alcune leggi dei loro linguaggi, scoprendo così nuove forme del mondo e della sua rappresentazione, che a loro volta obbediscono a criteri rigorosi. Faulkner o Kafka, che sconvolgono l’ordine tradizionale del romanzo, ne creano un altro, non meno inesorabilmente cogente e proprio perciò creativo. Nessuna regola è un idolo, nemmeno la regola per eccellenza, la legge. Le leggi possono e talora devono cambiare, come avviene. Ma il cambiamento, anche sostanziale e radicale, deve avvenire secondo modalità e regole precise. Ciò che oggi è impressionante nel nostro Paese e contribuisce a degradare Stato e società ad accozzaglia confusa, non è la violazione delle leggi, che è sempre esistita, bensì la crescente indifferenza nei loro confronti. Più che barare al gioco – il che presuppone comunque tener conto, sia pure con intenti truffaldini, delle regole – si mescolano le carte da poker con quelle dello scopone, se un avversario tira già una scala reale si risponde facendo briscola.
Nella vicenda delle liste presentate dal Pdl in vista delle prossime elezioni nessuno ha barato, perché non si bara con l’intenzione di perdere. Si è trattato di una goffaggine, poco importa se dovuta a risse interne o a inettitudine, fondata sulla consapevole o inconsapevole convinzione che regole e leggi possano venire tranquillamente disattese. Questa disinvoltura alla fine autolesionista è offensiva in primo luogo nei confronti dei potenziali elettori del Pdl (e sono molti) che rischiano di perdere, per colpa del Pdl, il loro diritto di votare per esso. L’indecoroso ruzzolone ha creato, come è noto, un problema: la necessità di conciliare il rispetto della legge con la possibilità di molti cittadini di votare, come è loro diritto, per il Pdl, partito maggioritario che masochisticamente si toglie di mezzo. Per i maldestri autori dell’autogol, comprensibilmente desiderosi di porvi rimedio, sembra che quella violazione delle regole non conti nulla. Si sente gridare al cavillo, al giochetto; si accusa di arido e astratto formalismo chi cerca di risolvere il dilemma senza violare la legge. Sembra non ci si renda conto che ogni violazione ne tira dietro un’altra e che considerare uno sfizio l’esigenza di rispettare la legge significa minare alla radice i fondamenti della vita civile. Una società che si abitua a disattendere le norme non è più una società; non è nemmeno il branco di lupi di Kipling, che si fonda su una legge.
L’unica via era e rimane, come ha detto fra gli altri il Presidente emerito Scalfaro, il rinvio delle elezioni, sola soluzione atta a consentire il voto di tutti i cittadini a tutte le liste senza calpestare il diritto. Ma l’insensibilità all’osservanza delle leggi sembra diffondersi come un liquame gelatinoso; la sua sorgente è la classe politica, ma non so se a quest’ultima si contrapponga un Paese reale più sano e meno inquinato. In questo caos è sempre più difficile distinguere guardie, ladri e derubati. Certo, siamo tutti insofferenti di leggi e di regole, sempre impari, nella loro inevitabile convenzione, al fluire della vita. La maturità di un individuo e di una società consiste nell’armonia con cui si sanno conciliare giustizia ed equità, rispetto delle leggi e capacità di risolvere umanamente i conflitti che in certi casi la loro rigidezza può provocare, senza passare disinvoltamente al di sopra di esse, ma trovando una modalità anche formale di risolvere quel conflitto. Talvolta il summum ius può diventare summa iniuria, massima ingiustizia, e allora si pone un conflitto che va risolto. Ma se non c’è nessun ius, c’è sempre e soltanto la massima iniuria, il trionfo dell’ingiustizia ovvero dei più forti privi di freni nella loro oppressione dei deboli. Nessuno può amare la legge, perché essa esiste in quanto esistono i conflitti e ognuno di noi vorrebbe vivere in un mondo in cui non ci fossero conflitti né contraddizioni, in una beata innocente età dell’oro in cui ogni pulsione e desiderio potessero essere appagati senza ledere nessuno.
L’amicizia, l’amore, la contemplazione del cielo stellato non richiedono codici, giudici, avvocati o prigioni e nemmeno regole precise come quelle del golf o del calcio. Ma codici, giudici, avvocati e prigioni diventano necessari quando qualcuno impedisce con la forza a un altro di amare o di contemplare il cielo stellato. «Il dominio del diritto – scriveva il grande poeta romantico tedesco Novalis – cesserà insieme con la barbarie». I meandri della legge possono incutere angoscia e paura, come testimonia tanta letteratura. Ma la barbarie non cessa e c’è bisogno di diritto. E anche di regole nei rapporti umani; regole, in questo caso, non certo codificate o imposte né rigide, ma tacitamente presenti nel tono, nella modalità, nella musica ossia nella sostanza umana di ogni relazione, anche di amicizia e di amore. Pure il quotidiano vivere civile ha bisogno di regole non scritte, ma fondanti, che esprimano il rispetto dell’altro; un senso immediato e spontaneo che nasce dall’osservanza di regole intimamente accettate e divenute naturale modo di essere. Non è questo lo stile di chi oggi ci governa. Mi auguro che chi lo desidera possa votare per il partito che ha rischiato di impedirglielo con quell’improvvida sciatteria, purché ciò avvenga senza violare le leggi.
Quel partito usurpa il nome di liberale; sarebbe paradossalmente più coerente se usurpasse il nome di democratico, perché ha assai poco di quell’illuminato sistema di leggi, pesi e contrappesi, poteri e contropoteri che il liberalismo ha elaborato per tutelare umanamente le libertà. Il Pdl appare piuttosto talvolta una versione scivolosa della democrazia: l’appello al Popolo, l’investitura plenaria, la concezione della politica quale rapporto privilegiato, unico e permanente del leader con una specie di assemblea generale degli italiani ricordano – in forme abnormi – piuttosto Rousseau che Stuart Mill; si richiamano al mareggiare della folla in piazza più che alla divisione dei poteri. Anche quello che è avvenuto con le liste elettorali sembra fatto più in nome del «Popolo» (disinvoltamente identificato col proprio partito o con la propria fazione) che in nome delle garanzie, delle distinzioni e della legalità liberale. Che i due maggiori partiti italiani, reciprocamente avversi, debbano scambiarsi il nome?
Claudio Magris, 15 marzo 2010

venerdì 19 marzo 2010

Quando "ciascuno" diventa "qualcuno"

Il brano del vangelo di Giovanni che la Chiesa ci propone per questa quinta domenica di Quaresima, è un testo molto conosciuto – la sua parte centrale è divenuta addirittura proverbiale («Chi è senza peccato, scagli la prima pietra») –, ma forse la familiarità con cui ci accostiamo ad esso rischia di farci perdere qualche sfumatura, o peggio travisarne il contenuto.
Infatti, di fronte alla frase «Chi è senza peccato, scagli la prima pietra» – frase tra l’altro piuttosto diversa dalla nuova e più corretta traduzione che la CEI ha proposto nei mesi scorsi («Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei») – la riflessione è inevitabilmente orientata verso un amaro prendere coscienza della generalità del peccato e della sua diffusione che accomuna tutti: come se il problema del testo fosse questo, cioè ricordare a tutti che siamo peccatori, e che dunque tutto va inevitabilmente male, e che il mondo in cui viviamo fa schifo, ecc… ecc… ecc…
In realtà questa maniera immediata con cui ci viene da leggere il brano è assolutamente riduttiva. Per comprenderlo basta far un poco la fatica di collocarlo all’interno del contesto letterario in cui Giovanni lo pone. Il rischio è altrimenti quello di prenderlo come un fungo solitario spuntato non si sa bene da dove…
Innanzitutto la collocazione: siamo al capitolo ottavo del vangelo di Giovanni. Gesù si trova a Gerusalemme dove – come ci informa Gv 7,1-10 – è salito con i suoi fratelli per la festa delle Capanne. Nonostante vi si fosse recato «non apertamente, ma quasi di nascosto» (7,10) – dato che dopo l’ultima volta che vi era stato «non voleva più percorrere la Giudea, perché i Giudei cercavano di ucciderlo» (7,1) – suscita subito un certo vespaio: «I Giudei intanto lo cercavano durante la festa e dicevano: “Dov’è quel tale?”. E la folla, sottovoce, faceva un gran parlare di lui. Alcuni infatti dicevano: “È buono!”. Altri invece dicevano: “No, inganna la gente!”. Nessuno però parlava di lui in pubblico, per paura dei Giudei» (7,11-13).
In mezzo a questo rincorrersi di voci e pareri sul suo conto, Gesù pensa bene di recarsi al Tempio e mettersi ad insegnare (7,14): «I Giudei ne erano meravigliati e dicevano: “Come mai costui conosce le Scritture, senza avere studiato?”» (7,15); altri dicevano: «Non è costui quello che cercano di uccidere? Ecco, egli parla liberamente, eppure non gli dicono nulla. I capi hanno forse riconosciuto davvero che egli è il Cristo? Ma costui sappiamo di dov’è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia» (7,25-27); fino a giungere al commento dell’evangelista stesso, che dopo i vari tentativi di risposta di Gesù, annota: «Cercavano allora di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettere le mani su di lui, perché non era ancora giunta la sua ora» (7,30).
La situazione si ripete diverse volte, fino all’ultimo giorno della festa, quando sacerdoti e farisei sgridano le guardie per non aver condotto da loro Gesù in catene: «“Perché non lo avete condotto qui?”. Risposero le guardie: “Mai un uomo ha parlato così!”. Ma i farisei replicarono loro: “Vi siete lasciati ingannare anche voi? Ha forse creduto in lui qualcuno dei capi o dei farisei? Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!”. Allora Nicodèmo, che era andato precedentemente da Gesù, ed era uno di loro, disse: “La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?”. Gli risposero: “Sei forse anche tu della Galilea? Studia, e vedrai che dalla Galilea non sorge profeta!”. E ciascuno tornò a casa sua» (7,45-53).
Proprio a questo punto inizia il nostro capitolo 8, con Gesù che si reca «verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro » (8,1-2). È a questo punto che scribi e farisei gli conducono la povera donna «sorpresa in flagrante adulterio» (8,4), che – come ormai dovrebbe essere chiaro – non è affatto il centro del brano, non è il problema dei farisei, ma mero espediente per colpire Gesù: «La posero in mezzo e gli dissero: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo» (8,4-6).

Gioco antico, questo del sacrificio del piccolo, del povero, del diverso, della donna, dello straniero, per logiche di potere altre… antico e però ancora molto attuale. Gioco, il cui capro espiatorio è necessariamente un signor “nessuno”, senza volto, senza nome, senza storia, senza possibilità di parola. Capro espiatorio che per forza deve essere “nessuno”, perché se fosse “qualcuno”, potrebbe esserci chi lo riconosce, chi lo reclama come suo, chi lo difende… Questa donna invece non è nessuno. Nessuno dice come si chiama, chi sono i suoi genitori, chi era suo marito e perché lo tradiva (molte donne nella Palestina del tempo erano lapidate come adultere perché, in realtà, violentate dai soldati romani – ma contro Roma i farisei non si mettevano…), se aveva figli a casa che la aspettavano… Niente: un mero espediente anonimo per arrivare a “stanare” Gesù – minaccia del potere costituito. Proprio come le masse degli espedienti anonimi di oggi…
Un esempio su tutti: i famosi rimpatriati in Libia… meri espedienti anonimi del fantomatico bisogno di sicurezza degli italiani, ingenerato dalle paure disseminate maliziosamente e con molte manipolazioni nell’opinione pubblica. Rimpatri sbandierati come soluzione per il problema reale dell’immigrazione e dell’integrazione… Peccato che i rimpatri siano minimi (pensate per esempio al fatto che se un membro delle forze dell’ordine ferma oggi un clandestino, deve portarlo in Questura per le pratiche necessarie – perdendo diverso tempo… – e poi deve farsi carico di condurre il “delinquente” in luoghi atti al successivo rimpatrio – dopo ovviamente il processo per direttissima e solo se ha un documento di riconoscimento, perché se non ce l’ha dopo il processo per direttissima gli viene dato il foglio di via e lasciato andare da solo a rimpatriare –, di solito un CPT. Ovviamente il CPT più vicino. Per esempio c’è a Milano. Ma se questo è pieno, l’altro più vicino, per esempio in Emilia Romagna. Ma se è pieno, l’altro più vicino. Fino al paradosso che agenti lombardi portino i clandestini a Barletta o in Sicilia… Ora, considerando che per andare e tornare nel sud Italia ci vogliono almeno due giorni, che di solito le forze dell’ordine hanno famiglia, che spesso gli si consiglia di non fare straordinari, perché i soldi son pochi, che altrettanto di frequente gli si consiglia di non sprecare troppa benzina, credete davvero che siano molti quelli che seguano questo iter!??!?!); e oltre che minimi i rimpatri sono spesso tragici (e per questo vi rimando ai servizi postati da Mario in questo blog il 2 febbraio 2010 “I frutti del respingimento” e il 18 marzo 2010 “La salvezza viene sempre da fuori…”, dove – soprattutto nel filmato – si vede bene in cosa consistano i “respingimenti” che – quando vengono proclamati – pacificano le nostre notti trepidanti per paura dei ladri…).
Dunque questi “respinti” – almeno per certi aspetti – sono proprio simili a questa “donna-fantoccio” di cui non interessa niente a nessuno, se non per l’occasione che dà per sopprimere chi minaccia con la sua verità l’ordine costituito…
Gesù si accorge subito della situazione in cui lo vogliono trascinare, della scelta a cui vogliono costringerlo – o entra nella loro logica dis-umanizzante, (nel senso che toglie umanità – carne, storia, volto, nome) che tratta con legalismo le persone, rendendole appunto “numeri”, “casi”, “anonimi”, per salvare se stesso; o si scontra, armando la mano di chi vuole ucciderlo – e decide di tacere: «Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra» (8,6).
«Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra» (8,7-8).
La “donna-fantoccio” diventa improvvisamente “qualcuno”, diventa “lei”, un volto, un corpo, una storia, contro cui lanciare, a titolo personale e non nascosti nella mischia, una sassata, che deturperebbe quel volto, macchierebbe di sangue quel corpo, porrebbe fine a quella storia… Da caso legale anonimo a persona a cui è ridonata – con una semplice frase incastonata tra lo stare chinato di Gesù a scrivere per terra (cioè con gli occhi che guardano in giù!) – la pienezza della sua umanità riconosciuta.
Tant’è che i presenti capiscono subito che Gesù ha disinnescato la loro trappola maliziosa, e «cominciando dai più anziani, se ne andarono uno per uno» (8,9)… per lasciare sulla scena Gesù e la donna soli (almeno così sembra a questo punto del racconto) a riconfermare, nel dialogo breve ma intensissimo che hanno, il fulcro centrale della buona notizia che è l’incontro con Gesù: il fatto che lo sguardo con cui lui guarda è sempre quello di chi vede di fronte a sé “qualcuno” e mai “nessuno”! Questo è il lieto annuncio: che per Gesù ognuno è “qualcuno”! Con la sua storia, i suoi peccati, il suo volto, il suo nome, le sue bruttezze, le sue bellezze… Ciascuno è “qualcuno” agli occhi di Dio!
Mentre gli altri tipi di potere hanno sempre bisogno di tanti signor nessuno da macellare lungo la storia, da tritare nel loro procedere… masse di anonimi che l’istituzione ha schiacciato sotto la sua immensa macchina divoratrice… e che però erano padri e madri, amati e amanti, figli e figlie di qualcuno… proprio come i nostri “respinti”… che noi consideriamo massa anonima ed indesiderata, ma che è fatta di volti, di nomi, di storie… di gente che è nata da una donna specifica, che avrà sofferto nel generarli, che li avrà allattati, custoditi, mandati un po’ a scuola se si poteva o a cui comunque ha insegnato tante cose… e che magari è ancora lì ad aspettarli… loro che invece – abbandonati nel deserto – muoiono in posizione fetale invocando il suo nome… proprio come i nostri soldati nelle Guerre Mondiali… proprio come chissà quanti dimenticati…

Un’ultima cosa… il capitolo ottavo di Giovanni – dopo che sulla scena ricompaiono dei “loro” a cui Gesù rivolge nuovamente la parola e fa un lungo discorso (8,12-58), che si conclude con la pretenziosa frase «In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono» – finisce così: «Allora raccolsero delle pietre per gettarle contro di lui» (8,59), a sottolineare che chi fa di “ciascuno” “qualcuno”, è scomodo al potere costituito, che si nutre di “signori nessuno”, e diventa bersaglio delle medesime pietre da cui aveva scampato “qualcuno”, anzi “qualcuna”…

sabato 13 marzo 2010

È questione di sguardi

In questa quarta domenica di Quaresima, che la Chiesa tradizionalmente chiama laetare perché sospende il cammino di penitenza dei quaranta giorni prima di Pasqua, anche il vangelo sembra rimandare a quel clima di allegrezza che si mostra a livello liturgico (i canti della Messa non parlano che di gioia e di consolazione; si fa risentire l'organo, rimasto muto nelle tre Domeniche precedenti; è consentito sostituire i paramenti violacei coi paramenti rosa, colore che pur rimanendo legato al viola della penitenza, è alleviato dal bianco dell'imminente solennità; ecc…): il capitolo 15 di Luca è infatti uno dei più inequivocabili nel trasmettere la letizia dell’essere figli di questo Padre.
La cosiddetta parabola del padre misericordioso, più conosciuta come quella del figliol prodigo, mette in gioco infatti – al di là delle altre molteplici cose che si potrebbero dire – un gioco di sguardi sul personaggio del padre. È interessante guardare a questo racconto ponendosi come uno spettatore che osserva lo svolgersi della scena con in testa una domanda fondamentale: A partire da ciò che fanno e dicono i vari personaggi, qual è l’idea del padre che hanno in testa? Il primo figlio che immagine ha di suo padre? E il secondo? E il padre stesso, come si propone sulla scena? Cosa dice di sé, agendo e parlando?
Le domande evidentemente sono fondamentali, perché in ultima analisi è la stessa questione che il lettore stesso è chiamato a porsi: Io che idea ho di questo padre? E fuor di metafora: Qual è la mia idea di Dio? Senza dimenticare che la parabola è raccontata in un particolare contesto, quello in cui vedendo Gesù circondato da pubblicani e peccatori, «i farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”».

Ma andiamo con ordine. Innanzitutto, a partire dalla storia narrata nella parabola, proviamo a delineare le varie idee di padre che emergono nei cuori e nelle teste dei personaggi. In primo luogo quella del figlio più giovane, il primo a comparire sulla scena. Egli, dopo essersene andato ed essere caduto in disgrazia, ragiona più o meno in questo modo: suo padre non potrà certo riaccoglierlo come un figlio, ma se non altro lì a casa si può mangiare; suo padre – egli pensa – avrà perciò il buon cuore di accettarlo come suo servo. Ragiona cioè nella maniera che pare più logica anche a tutti noi, che infatti parte da un presupposto solitamente assai condiviso, quello della retribuzione/reciprocità. Il padre punirà i suoi misfatti (non lo può riaccogliere come figlio; anzi il figlio non spera nemmeno in questa eventualità, non gli salta nemmeno in mente come possibile), ma potrebbe riaccoglierlo come servo, in nome dell’antico affetto o per lo meno della pietà a cui spera di muoverlo. In qualche modo cerca da lui il dovuto, o poco più del dovuto.
Proprio in questa logica va rintracciata la prima identificazione cui la parabola di Gesù chiama colui che la ascolta: precisamente questo modo di ragionare del primo figlio, questo suo modo di pensare il padre, coincide col nostro modo di pensare Dio. Non un Dio cattivo, anzi un Dio che come servi ci riaccoglierebbe mosso a pietà dalla nostra miseria. Diremmo: un Dio giusto. Che dà il giusto. A ognuno il suo: anche il perdono ai pentiti.
Ma proprio qui la parabola fa scattare il suo meccanismo, creando uno stacco sorprendente, quasi incomprensibile: al lettore che segue annuendo al discorso che il figlio giovane si fa tra sé e sé («Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati»), si presenta una scena non prevista: il padre «quando era ancora lontano, lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Non lascia nemmeno finir di parlare il figlio, che tentava di ripetere il pensiero che aveva formulato nel suo cuore («Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”») «e cominciarono a far festa». Dove la cosa più interessante, più imprevista, quella che dovrebbe far sobbalzare l’ascoltatore è che – contrariamente all’immagine del padre che il figlio più giovane aveva in testa – questi non aspetta il suo pentimento e – solo a posteriori – gli concede di essergli servo, ma piuttosto preventivamente lo perdona e lo riaccoglie come figlio.
Il punto critico è perciò quello per cui lo sguardo con cui il figlio guardava al padre era sbagliato, falsificava la realtà, non era conforme all’identità del padre. Più precisamente ancora: lo sguardo con cui il figlio si sentiva guardato dal padre non corrispondeva alla realtà, allo sguardo con cui il padre lo guardava.
E questo è il punto interessante per gli ascoltatori, dunque anche per noi: Qual è lo sguardo con cui guardiamo a Dio? È conforme alla realtà (di Dio)? Alla sua identità? E soprattutto, come è lo sguardo con cui ci sentiamo guardati da lui? È in sintonia con questa parabola? Con questa scena in cui emerge, per esempio, che – ben al di là del luogo comune per cui Dio ci perdona se ci pentiamo – in realtà egli ci perdona a prescindere? Cioè continua a custodire la nostra identità di figli e a guardarci così, anche quando noi roviniamo o sfuochiamo questo nostro volto (Non a caso il salmista lo chiama «salvezza del mio volto e mio Dio» (Sal 42,6d) e un grande teologo come P.A. Sequeri ricorda che «L’uomo può confondere Dio con il serpente, e cedere alla suggestione che lo inclina ad apprezzare l’invito all’incredulità come un atto di amicizia. Ma, anche quando ciò accade, Dio non confonde l’uomo con il serpente»!)? È in sintonia con il resto del vangelo? Con lo sguardo con cui è necessario che Gesù guardi ai poveri, agli affamati, agli afflitti, ai perseguitati… agli incompiuti della storia, per chiamarli beati (Lc 6,20-23)? O allo sguardo che deve avere per proclamare e vivere come unica strada per la felicità l’amore ai nemici (Lc 6,27-38)? O la disposizione che deve avere perché a lui si avvicinassero «tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo»?
Perché questo è il Dio che Gesù rivela nel suo vangelo, esattamente come così è la vera identità del padre che emerge dalla parabola, al di là dell’idea dell’uno e dell’altro figlio…
…A proposito dell’altro figlio… il maggiore, quello che entra sulla scena solo nel finale… Anche la sua idea di padre non si scosta molto da quella del fratello: anche lui ha in mente un padre giusto, che dà il giusto, il dovuto, incapace del contrario, cioè del gratuito, delle cose gratis, dell’amore a perdere. Ma proprio qui sta l’inganno… Nel tentativo, suo e nostro (e dei farisei che occasionano la parabola, tanti simili a questo secondo figlio…), di bilanciare la vita sul dovuto: su ciò che mi è chiesto e ciò che è giusto io riceva… sul reciproco scambio, sul do ut des, sul tanto mi tanto, come se il dovuto potesse appagare il desiderio di Vita dell’uomo...
Il p(P)adre è altro rispetto a questo calcolatore e bilanciatore, sembra dire la parabola. Dio è altro, sembra dire il vangelo. La felicità è altrove, sembra dire Gesù: solo la verità dello sguardo con cui Dio guarda all’uomo senza dimenticarsi mai che è suo figlio, e solo l’acquisizione da parte dell’uomo di questo sguardo che vede l’altro senza mai dimenticarsi che è suo fratello, è Vita!

giovedì 11 marzo 2010

Extra chorum

C’è un luogo comune che gira come un fantasma in questi giorni ed è che senza il PDL, a milioni di cittadini sarebbe negato il diritto di scelta e quindi le elezioni in qualche modo sarebbero falsate!
Dal nostro amato presidente Napolitano, da autorevoli esponenti politici di destra e di sinistra, da autorevoli opinionisti del Corriere e Repubblica, passando per la Stampa e compagnia bella, è tutto un coro unanime su questa tesi. La differenza se c’è, sta solo nella contestazione del modo con cui si è voluto rimediare al cosiddetto pasticcio

Vorrei spiegare perché considero un’eminente balla una tesi del genere. Luogo comune, ove la mancanza di un minimo di posata riflessione ha impedito di cogliere la prospettiva giusta…

Il diritto di voto non è un diritto assoluto, senza regole e senza limiti.
Mi vengono in mente almeno tre casi (solo per esemplificare) in cui una persona non può essere votata (oltre al limite di età che permette o impedisce il diritto di voto attivo e passivo!):

1) Ad esempio: io non posso votare una persona che non ha costituito una lista, anche se io la ritenessi l’unica al mondo in grado di meritare il mio voto.
Così nessuno di noi potrebbe votare Adriano Celentano, tanto per fare un esempio banale: la mia scheda verrebbe annullata e il mio voto non conteggiato se non tra il numero dei votanti e tra le schede nulle.

2) Non solo, ci sono persone, che anche se volessero e potessero (nel senso che ne hanno le qualità), per legge è impedito loro di presentarsi alle elezioni come candidati. Ministri di culto, magistrati, membri delle forze armate, ecc. sono tra questi. Ma anche coloro che sono stati raggiunti da una condanna penale per certi reati che toglie loro, come pena ausiliaria e per un certo limitato numero di anni, il diritto di voce passiva nelle elezioni.

3) Ci sono inoltre alcune norme particolari, come quella che vieta esplicitamente il terzo mandato per un presidente di regione, o l’incompatibilità di cariche (es: sindaci e presidenti di regione) anche se questa persona sarebbe di per sé eleggibile perché rispetta tutte le altre condizioni…

Si dovrebbe ammettere a rigor di logica che anche in questi casi ai cittadini è tolto il diritto di votare una determinata persona o gruppo di persone. Certamente! E questo gli è tolto espressamente per legge: cioè chi non entra in determinate categorie e/o entra in altre, ha il diritto o gli viene negato il diritto, di presentarsi alle elezioni e per conseguenza, all’elettore viene concesso o negato il diritto di votarlo!
E nessuno grida allo scandalo. E giustamente nessuno dice che le elezioni sono falsate o meno democratiche! E se fate il conto, sono milioni le persone coinvolte!

Ma in questi giorni ha diritto di cronaca una quarta categoria (chiamiamola così anche se di per sé non è categorizzabile) a cui è negato il diritto di voto e io non vedo perché questo dovrebbe rendere meno democratiche o “falsate” le nostre elezioni.

Il rigore infatti con cui sopra si ammette o si nega a delle persone ad essere eleggibili (e quindi si nega o si ammette il diritto di voto, a queste persone, da parte del cittadino elettore) si riversa anche nel rigore con cui devono essere presentate le liste per la validità della eleggibilità! Questo proprio a difesa del diritto di voto del cittadino-elettore e alla democraticità delle elezioni onde evitare che dei furbi, si facciano passare per ciò che non sono.

Ora, se un partito, movimento o lista o quant’altro, per proprie ragioni, qualunque esse siano, non sono in grado, per propria colpa, di rispettare una qualunque di queste condizioni (perché è chiaro che devono essere rispettate tutte in quanto basta una per non essere eleggibile), non si sottrae ai cittadini il diritto di voto, ma anzi in tal modo il diritto è salvaguardato e semmai sono gli esponenti della lista che si negano il diritto (e lo negano anche ai loro eventuali elettori e/o aderenti) di presentarsi alle elezioni. In altre parole, nessuno nega loro il diritto, anzi il diritto viene protetto da abusi e prevaricazioni varie soprattutto da coloro che, con il rifiuto di sottomettersi alle verifiche necessarie, se ne autoescudono automaticamente.

Nessun partito, qualunque esso sia, ha dunque il diritto di presentarsi alle elezioni fino a quando non ha ottemperato alle condizioni che rendono i propri candidati eleggibili. E di conseguenza nessun elettore ha il diritto di votare un candidato fino a quando questo non risulti di fatto eleggibile.

È falso quindi affermare che si nega un diritto. Semmai lo sarebbe fare il contrario, ammettendo chi il diritto per propria responsabilità, l’ha perso!

È altresì falso affermare dunque che la non accettazione di una lista nel rispetto delle leggi vigenti che ne regolano il diritto, costituisca un vulnus (come afferma per es. Veltroni in un’intervista a repubblica) al sistema democratico. Il vulnus sarebbe semmai fare il contrario: ammettere chi questo diritto non ha o l’ha perso per propria incapacità o altro, esponendo così gli elettori a esercitare “indifesi” un diritto su una persona che di fatto non ha il diritto di riceverlo per le ragioni sopra esposte. La legge ha proprio questo scopo: difendere l’elettore da ogni forma di inganno facendo in modo cioè che un suo diritto così fondamentale come quello del voto, non si trasformi di fatto in una diminuzione di questo diritto a vantaggio dei potenti di turno!

Almeno fino a quando questa legge permane! Si può sempre cambiare una legge ovviamente, ma per quanto la si cambi, ci sarà sempre bisogno di porre dei filtri e dei paletti: ma ve lo immaginate se si permettesse a chiunque senza condizioni e senza un minimo di filtri che ne verifichi la serietà, di presentarsi alle elezioni? Sarebbe il caos! Saremmo alla giungla, dove prevale la legge del più forte e il grosso si mangia il piccolo. Guarda caso proprio quello che sta accadendo perché si vogliono ridurre (almeno per sé) i filtri di protezione posti a difesa del diritto di voto del cittadino.
Se quindi, degli elettori o aderenti a un partito si sentono esclusi dalla possibilità di voto dei propri candidati, devono prendersela esclusivamente con i propri incapaci rappresentanti (che evidentemente non meritano la loro fiducia), e non con una legge che ha il solo scopo di proteggere il loro diritto di voto da ogni tipo di abuso.
E litigare per “i posti in lista” è una di quelle forme di abuso più aberranti in quanto manifestano il più becero clientelismo partitocratico nel disprezzo più totale dei diritti di voto dei cittadini! Di cui un cittadino non può non tenerne conto, comunque vadano le cose.

Fino a quando non si capisce questo, ogni argomento di critica alle affermazioni berlusconiane sono prive di fondamento ed efficacia, perché restano all’interno della mentalità populista e antidemocratica di cui il berlusconismo è ideologicamente intriso.

Credendo a questa balla, Napolitano, prima ancora della firma e indipendentemente che potesse non firmare, ha di fatto “abdicato” all’ideologia berlusconiana, come dimostra la sua risposta alle lettere di due cittadini. E insieme a lui tutti coloro che lo difendono anche da sinistra ma anche coloro che lo accusano senza uscire dalla stessa logica come fa Di Pietro. Proprio come Eva che non uscendo dalla logica del serpente, aveva peccato, prima ancora di consumare!

Di questo passo, Berlusconi dorma sonni tranquilli! Che nessuno, né a destra, né a sinistra, dentro e fuori la chiesa, ha saputo proporre un’alternativa che sia autenticamente altra, alla logica che lo ha portato e lo mantiene saldamente al potere!

mercoledì 10 marzo 2010

¿Adónde va Italia?

L'Italia sull'orlo dell'abisso!La fiscalía de Florencia descubrió a principios de febrero una red de favores económicos y sexuales dirigida desde la cúpula de Protección Civil, una de las pocas instituciones que todavía gozaba de prestigio en la Italia de Berlusconi. No ha sido el único escándalo de las últimas semanas. Además, la Fiscalía Antimafia de Roma ordenó la detención de 56 personas, algunas de ellas con responsabilidades oficiales, por blanqueo de dinero. Y a raíz de las investigaciones sobre este asunto se descubrió, por último, que uno de los senadores del partido del primer ministro, Nicola di Girolamo, fue elegido con la ayuda fraudulenta de la mafia.

Tal vez no sean los casos de corrupción más graves y espectaculares a los que se ha enfrentado Italia, pero sí los que más parecen haber afectado a la conciencia de los ciudadanos. A ello ha contribuido la sensación de que ninguna instancia del Estado está a salvo de los modos de hacer de Silvio Berlusconi; también la de que el país vuelve a ser víctima de males conocidos, como la promiscuidad entre la clase política y la mafia. Y se empieza a abrir paso la idea de que la inmoralidad de la vida pública ha superado ya todos los límites.

El desasosiego al que se enfrenta el país se ve multiplicado por el hecho de que la oposición a Berlusconi se encuentra tan desarticulada como el sistema político del que forma parte. Si hasta ahora un alto porcentaje de ciudadanos italianos pensaba que el problema era tan sólo el Gobierno, en estos momentos es la República en su conjunto la que empieza a preocuparles. Las instituciones italianas están siendo carcomidas desde un flanco por la corrupción y, desde el otro, por unas reformas legales que se proponen invalidar el Estado de derecho como instrumento para hacerle frente.

Nadie parece saber a ciencia cierta adónde va Italia, un país fundamental en la construcción europea, incluido el rostro más visible de este deterioro político y moral sin precedentes, Silvio Berlusconi. La estrategia del primer ministro parece haber perdido cualquier otro horizonte que no sea garantizar su propia inmunidad, desviando periódicamente la atención hacia problemas muchas veces artificiales y suscitados con la sola intención de obtener réditos de las recetas populistas. Entre tanto, Italia sigue aproximándose a un abismo del que nadie parece saber cómo alejarla. Da ElPais

Ridere per non piangere...

Attenzione qualche parola gergale lessicalizzata (moralisti astenersi!)...


Chi modifica la Verità, ci priva della Libertà

È molto interessante seguire il discorso di Formigoni che risponde alla giornalista del Corriere.it (qui in fondo un mio riassunto e i link per gli originali).

Seguite bene l’intervista e imparerete cosa bisogna dire per manipolare i fatti e quindi la verità. Manipolazione smascherata con le stesse parole dell’avvocato del Pdl!

Formigoni comincia con una affermazione:
«Se avessimo fatto degli errori»: il messaggio è chiaro: Zero Errori, Zero scuse!
Non contento rincara:
«Se fossimo stati ammessi per ‘grazia ricevuta’…»! il messaggio si chiarifica: Tutto merito nostro!
Nel frattempo glissa una verità “berlusconiana” che mina i principi di uno Stato di diritto democratico e quindi di convivenza pacifica: “È giusto partecipare alle elezioni però…”.
Come dire: anche se avessimo fatto errori – si badi bene, errori nella legge che regola il diritto di voto – avremmo avuto il diritto di esserci! Comunque?

Per questa via non si può che arrivare rapidamente alla manipolazione dei fatti: «Il Tar ha sentenziato che non c’è stato errore».

Questo è palesemente falso (disinformato?). Infatti come potete seguire dalle dichiarazioni dell’avvocato del PDL, Bruno Santamaria: il Tar ha semplicemente sentenziato che non esiste un diritto di ricusazione (fatta dai Radicali) una volta la lista ammessa. Esiste solo per chi si sente escluso ingiustamente.

La dichiarazione - tutta da verificare - del rappresentante dei Radicali Marco Cappato è che la lista di Formigoni non aveva raggiunto il numero richiesto di firme legali (che quindi risultano false)! Ma per la legge, che il Tar non fa altro che applicare, non abbiamo il diritto di saperlo!

E osano chiamarle votazioni democratiche!

L’amaro che resta è vedere un rappresentante cattolico, che sembra amare la verità solo quando gli fa comodo.

L’altra chicca è il suo commento al “signore rispettabilissimo” (mons. Mogavero) che ha espresso una sua opinione personale e da cui la Cei ha prontamente preso le distanze.
Il discorso apparentemente non fa una piega, tanto ci siamo abituati…
Ma c’è una contraddizione e una “eresia”.

La contraddizione: Mi sanno spiegare i lor signori rispettabilissimi (Formigoni e ufficio stampa Cei) come mai Formigoni e lo stesso ufficio stampa Cei, non si turbarono quando la Cei non ritenne di fare altrettanto sulle altre leggi e decreti (vi ricordate il decreto su Eluana? per fare solo un esempio!…

Spero che esista ancora il diritto episcopale di dire la propria, in quanto vescovo! E che questo non sia limitato da argomenti decisi di volta in volta dalla opportunità politica e non invece come deve essere dalla difesa di quei valori (per dirla con Benedetto XVI), non negoziabili di cui - forse qualche cattolico non lo sa ancora - fa integralmente parte la democrazia (e il di diritto che la fonda) di una nazione!

Con questi due pesi e due misure i vescovi italiani mettono seriamente in pericolo la capacità di parlare con autorevolezza alle coscienze dell’uomo d’oggi, a qualunque uomo… e non solo a coloro che in un modo o nell’altro condividono già il loro credo sempre più politico.

L’«eresia»?
È tutta papista, tipicamente vetero-cattolica: la verità dipende da chi la dice ed è vera solo se la dice il Papa! Anche qui comunque c’è una contraddizione e una menzogna: si vada a leggere il caro Formigoni cosa la Cei scrive anche sulla democrazia di questa nostra povera Italia! E si accorgerà che il “rispettabilissimo signore” che ha osato parlare non ha fatto altro che darne voce e che quindi - contrariamente a quanto il discorso vuole insinuare - la Cei non smentisce un bel niente, a meno che non intenda smentire se stessa! Infatti il portavoce Cei, mons. Pompili, non dice che non condivide le parole del mons. Mogavero (e ti pare se potrebbe!) semplicemente la Cei non ritiene di dover dare ufficialmente la sua opinione (che evidentemente ha! E che ha già espresso in mille modi in mille documenti!). Evidentemente per ragioni di ipocrita opportunità partitica come ho evidenziato sopra.

Oltre al fatto che - tanto per restare alla logica eretica per cui la verità conta solo se la dice chi dico io - mons. Mogavero è anche un rispettabilissimo vescovo e competente in materia giuridica, visto il ruolo che ricopre alla Cei e uno dei relatori del documento di cui sopra! La dicitura di “signore” usata da Formigoni in questo contesto, seppur mitigata dal “rispettabilissimo” (che appare però ironico) appare quindi ancor più offensiva e spregiativa e dice anche la considerazione che ha dei “rispettabilissimi signori” e delle “rispettabilissime signore” che dovrebbero votarlo...

In ogni caso noi cattolici sappiamo che la verità non dipende da chi la dice, ma ha valore in sé: ha una sua cogenza propria. Almeno questo un “figlio” di don Giussani dovrebbe saperlo!
Peccato che per interessi politici Formigoni se ne sia dimenticato!

Riassumendo, in questa intervista di pochi secondi, Formigoni commette tutti questi passi falsi:
Menzogna (sul Tar)
Arroganza: (Zero errori (non dimostrabili: pare che la legge lo vieti), Zero scuse)
Contraddizioni (sì alla CEI quando fa comodo)
Eresia: (la verità è solo quella detta da chi mi piace e quando mi piace)
Arroganza: (“rispettabilissimo signore”)

Concludendo mi domando: A questo punto noi cattolici dovremmo votare un uomo così?
Chiunque altro sarebbe meglio e più coerente!





Ps: il titolo del post l'ho preso dal commento di franz eccel sul sito di repubblica
Il video di Formigoni qui
il video dell'avvocato del Pdl qui
il video della protesta a Milano con le gravi affermazioni del rapprensentante radicale qui

Fuori i vigliacchi!

Peggio di un mafioso? un vigliacco!
Scuoterà la Chiesa il documento della Cei sul Mezzogiorno? E scuoterà il Paese? Tre vescovi in prima linea ne discutono con passione e sperano che non faccia la fine di quello di vent’anni fa, che ha occupato gli scaffali delle biblioteche. Lo dice monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo: «Se dopo Pasqua nessuno ne parlerà più, avremo fallito».
Il testo è assai severo e lancia allarmi. Mette in fila questioni di importanza capitale per l’intero Paese e non solo per il Sud. Eppure, è qui che le preoccupazioni sono più elevate. Osserva monsignor Giuseppe Morosini, vescovo di Locri in Calabria: «Non abbiamo bisogno di solidarietà gratuita né da parte dello Stato, né delle Regioni, né delle altre diocesi. Questo documento servirà se ognuno farà la propria parte».
Ecco il punto, che monsignor Francesco Montenegro, vescovo di Agrigento, spiega così: «A volte manca il coraggio. Ci chiudiamo nelle chiese, non ci sporchiamo le scarpe a camminare nelle strade. Dobbiamo impegnarci a costruire comunità cristiane antagoniste, alternative alla cultura della rassegnazione, della violenza, dell’usura, del pizzo, del lavoro nero».
Ma c’è anche altro che il vescovo di Agrigento sottolinea: «Ci siamo occupati del sacro e non della fede. La gente ci chiede sacramenti e noi glieli diamo. Ma nascondiamo la parola di Dio e sosteniamo un’idea di Chiesa intrecciata attorno alle devozioni, che possono consolare, ma non incidono e non cambiano i comportamenti».
Mogavero teme che la Chiesa diventi icona dell’antimafia: «Tanto c’è la Chiesa che parla. È quello che mi dà più fastidio. Ma anche al nostro interno funziona così. Ci sono preti e laici contenti perché parlano i vescovi. E loro?».
Riprende l’autocritica della nota della Cei sul fatto di non aver accolto, fino in fondo, la lezione di Giovanni Paolo II alla Valle dei Templi e il suo grido contro le mafie: «Non tutti siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Non abbiamo avuto il coraggio di dirci la verità per intero, siamo noi i primi a non essere stati nemici della corruzione e del privilegio. Non va moralizzata solo la vita pubblica, ma anche quella delle nostre chiese. E la parola terribile «collusione» deve far riflettere anche nelle nostre comunità».
Il vescovo di Mazara propone una via: «Basta con le prese di posizione ovattate. Ogni comunità, ogni parrocchia, ogni diocesi scelga un argomento in relazione alla situazione del proprio territorio e agisca: pizzo, usura, corruzione della politica, mafia devota che offre soldi per le feste popolari. Però, bisogna essere pronti a pagare di persona». Montenegro sostiene che qualche provocazione può favorire la riflessione: «Io non ho messo i Re Magi nel presepe, spiegando che sono stati respinti alla frontiera come clandestini. È servito alla gente per rendersi conto in quale Paese stralunato dall’ossessione per la sicurezza stiamo vivendo. Proporrò di abolire ogni festa religiosa nei paesi dove si contano gli omicidi. Il sacro non basta per ritenersi a posto, se poi nessuno denuncia, e la cultura mafiosa è l’unica ammessa».
Spiega Morosini: «La nostra gente deve tornare a essere protagonista. E si diventa protagonisti con il voto e con volti nuovi». Il vescovo di Locri ha partecipato a una manifestazione contro la soppressione di 12 treni: «Proteste inutili, perché manca un progetto per la Locride. La nostra classe politica è inadeguata. Nel documento c’è una frase su questo tema. All’assemblea dei vescovi avevo chiesto di dedicare un capitolo intero». Morosini non accetta le critiche sull’azione troppo debole della Chiesa: «L’azione del vescovo Bregantini non può essere dimenticata. Di altri non parlo. Ma, forse, bisognava essere più chiari, anche nelle responsabilità di una Chiesa a volte troppo timida». Da Famiglia Cristiana (n° 11/2010) per leggere l'articolo per intero clicca qui

sabato 6 marzo 2010

Convertirsi è occuparsi di sè

I primi versetti del vangelo che la Chiesa ci offre in questa terza domenica di Quaresima, ci presentano la situazione sconcertante di alcuni «Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici». La notizia del fatto corre di bocca in bocca ed arriva fino a Gesù, il quale immediatamente associa questo desolante episodio con un’altra notizia tragica di cui aveva sentito parlare: quella di «quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise».
Sono fatti di cronaca nera – diremmo noi col nostro linguaggio moderno –, sono fatti in cui tutte le generazioni si imbattono, così simili a quelli che anche noi oggi possiamo trovare aprendo uno dei nostri quotidiani: tragedie, morti, sopraffazioni, inganni… Sono i fatti di sempre; fatti che in tutte le generazioni hanno ingenerato domande, urla, tentativi di soluzione, fallimenti: “Perché succedono queste cose?”, “Cosa bisogna fare perché non succedano più?”…
E come sempre – anche al tempo di Gesù – si cercano risposte. Risposte che spesso però saltano a piè pari la drammaticità della tragedia e la fatica del capacitarsene e vogliono arrivare rapide a dare ragione di ciò che ragione non ha… Al tempo di Gesù la soluzione più immediatamente a portata di mano (la risposta pre-confezionata) era quella del principio della retribuzione: se c’è una tragedia è perché dietro c’è un peccato; se un figlio nasce malato è perché i suoi genitori o chi per essi hanno peccato; se ad Haiti o in Cile c’è il terremoto è perché gli Haitiani o i Cileni hanno peccato…
Evidentemente è una risposta assolutamente senza fondamento (Gesù stesso – come vedremo – ma già anche l’A.T. la smentiscono), una risposta che a noi oggi ripugna, eppure: quante delle nostre risposte di oggi sono ancora fatte così? Di questo tipo? Risposte pre-confezionate, luoghi comuni, frasi fatte, che impediscono di pensare radicalmente ai problemi e ci consentono di perseguire una scorciatoia per non doverci davvero mettere faccia a faccia con le tragedie del nostro mondo, con le nostre, con quelle dei nostri fratelli e con il doveroso rendere e rendersi ragione di ciò che (ci) accade? Io credo (temo) siano tante…


Oggi come allora infatti di fronte alle esperienze del non-senso, di fronte a quei fatti che mettono in discussione il normale ordine delle cose, la loro sensatezza e giustezza, la risposta umana assomiglia sempre a un tentativo maldestro e mal riuscito di trovare balbettanti – se non ripugnanti – argomenti che non riescono mai a fronteggiare le cruciali domande che i problemi pongono: come allora infatti – solitamente – si fa un po’ di chiasso nei primi giorni della tragedia e poi si preferisce mettere a tacere le domande che essa ha sollevato, riprendendo la propria vita come se nulla fosse stato. Non a caso “La vita continua” è precisamente uno dei luoghi comuni più abusati di fronte alle tragedie del nostro tempo (siano essere personali, familiari, sociali…).
Come dicevamo Gesù fa diversamente. Esattamente come noi scardina la risposta preconfezionata che la sua cultura aveva partorito per le varie tragedie della sua storia (il principio della retribuzione) – dice infatti per due volte: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico» – ma non si ferma qui, non propone un altro luogo comune diverso, non si sottrae alla tragicità della questione. Il problema rimane ed egli lo fronteggia. Il problema infatti – al di là dei singoli episodi che lungo la storia cambiano nomi e scenari, ma mantengono la stessa drammatica trama – è quello del rimando di questi fatti alla più radicale insensatezza/incompiutezza della vita. Dice infatti Gesù: «perirete tutti allo stesso modo»; intendendo dire che il problema dell’insensatezza della vita è il problema che riguarda o può riguardare tutti, anche quelli che non fanno una fine tragica: è il problema della domanda che queste tragedie pongono a ciascuna singola persona, a me. Di fronte a questi fatti che rimandano in maniera inequivocabile alla precarietà della vita, alla sua durezza, al suo possibile triste esito (che non vuol dire che non tutti vanno in paradiso, ma che non tutti muoiono sereni nel loro letto circondati da chi li ama), il problema vero su cui Gesù vuol concentrare l’attenzione di chi lo ascolta è: ma tu perirai nel non senso? Che vuol dire: Ma tu stai vivendo sensatamente? Perché se la risposta è sì, non c’è morte tragica che ti possa togliere quella sensatezza; ma se la risposta è no, non c’è morte più tardiva e tranquilla che possa dartela!
Il problema di fondo dunque, il nocciolo della questione a cui Gesù va sempre, senza fronzoli e scorciatoie, è quello della vita individuale di ciascuno, della singolare ricerca del senso, della personale costruzione di sé che si sta attuando: di che qualità è?
Ecco perché immediato scatta l’invito alla conversione: «se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo»! Perché il rischio di “perire”, di “finire nel non senso”, di “non credere che ci sia un senso per me” è precisamente il dramma che si profila negli abissi di ciascun cuore umano. E lì bisogna convertirsi! Dove convertirsi evidentemente non è un problema di morale o una generica revisione dei propri peccati, ma è la domanda radicale che penetra fin nelle midolla e chiede: Dove è riposto il tuo senso? In chi è riposto?
Il senso di quella necessità di conversione è infatti specificato dalla parabola che compone la seconda parte del brano di vangelo odierno, dove l’attenzione è posta precisamente sulla cura cui il fico sterile verrà sottoposto, prima di essere nuovamente vagliato: «Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai». Convertirsi per non perire nell’insensatezza consiste allora precisamente nello zappare e concimare, cioè – fuor di metafora – nell’occuparsi di sé, nel prendersi cura della propria destinazione (i propri frutti), nel non lasciar scorrere la nostra vita nella genericità come se fossimo chiunque, nell’accudire la propria interiorità con quella tenerezza con cui una madre accudisce il proprio piccolo e lo guarda sorridente, anche quando sbaglia… solo così impareremo a non evitare i drammi della vita, ma a lasciarcene scavare l’anima orchestrando un senso, come la storia seguente suggerisce:
«M come MORTE.
La cronaca gli ha dato un nome di fantasia, Tommy. Ha otto anni, frequenta una scuola elementare di Sesto San Giovanni, alle porte di Milano. Non è un bambino fortunato: per lunghi mesi suo padre viene ricoverato in ospedale per un tumore. Purtroppo le condizioni del genitore peggiorano e Tommy, che gli è legatissimo, non sente ragioni: non lo vuole lasciare nemmeno un giorno, vuole stare vicino a papà fino all’ultimo. Tommy fa ovviamente molte assenze da scuola in quei tragici mesi. Poi il padre lo lascia. Tommy torna a scuola – gli insegnanti sanno tutto, da sempre – e viene bocciato. L’opinione pubblica della cittadina immagino abbia mugugnato, qualche quotidiano ha espresso un effimero sconcerto, gli insegnanti avranno addotto le loro brave ragioni, il direttore non avrà certo paura dell’ispettore che il ministro ha spedito a Sesto San Giovanni. E Tommy?
[…] Tante volte sono stato invitato in scuole dove un allievo era morto suicida o aveva perso la vita contro un albero all’alba di una domenica, pieno di alcol e pastigliette. Gli insegnanti volevano me in quanto “esperto”, perché troppi di loro non sanno parlare di morte, esattamente come non sanno parlare di vita. Mi sarebbe piaciuto che la scuola elementare di Tommy avesse organizzato brevi corsi suppletivi per lui, per stargli un poco vicino a casa o in ospedale: avrebbe sentito che gli adulti non sono tutti discendenti di Erode, che ve ne sono di capaci di empatia.
Ma quanto è ciecamente crudele questa cultura dell’efficienza che non accoglie, non accompagna il tempo del pianto, nemmeno per un padre: si deve essere perfetti, capaci di rimuovere malinconie e disperazioni in nome della produttività, anche quella di una scuola elementare.
Sarà in pace il direttore scolastico, lo saranno anche gli insegnanti: hanno applicato le regole, sono stati impeccabili, l’avrà ribadito anche l’integerrimo ispettore ministeriale. Di una cosa però sono certo: che Tommy, quando diventerà adulto, sarà molto meglio di tutti loro. Lui non ha rifiutato la morte, si è fatto coraggio e ha accompagnato il padre ad andarle incontro: conosce già quanto è fragile la vita e saprà per questo rispettarla. Tommy avrà un grande maestro cui dedicare tutti i suoi sforzi migliori, un uomo conosciuto per poco tempo ma infinitamente più importante per lui, pur nella morte, di tanti ignavi e impotenti burocrati vivi» [P.CREPET, Sfamiglia, Einaudi, Torino 2009, 131-134].
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