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sabato 28 novembre 2009

Le radici leghiste

L’ombra delle lobby
L’emendamento sopravviverà solo qualche ora. Inammissibile a prima vista, il Parlamento saprà respingerlo subito. Ma sarà durato comunque troppo. Il solo fatto che si proponga di limitare un diritto soggettivo come la cassa integrazione a lavoratori che pure hanno contribuito al relativo fondo – per la semplice ragione che sono nati altrove – appare aberrante. Di eccezione in eccezione, sul piano pratico, si rischia di smontare tutele e diritti. Fino a renderli nulli per tutti. Soprattutto, però, una tale proposta è espressione di quella mentalità che, nel compagno di lavoro come nel cittadino che ci passa accanto, non vede una persona ma un "qualcosa" diverso da sé. E non riconoscere nell’altro se stessi è l’aprirsi di un abisso nel quale tutto diventa possibile. in Avvenire.it

Verranno giorni nei quali realizzerò le promesse…

…la liturgia ci fa girare d’improvviso lo sguardo dalla visione finale dell’anno liturgico, concluso domenica scorsa (“Cristo Re dell’universo”) – che nelle varie epoche storiche della cristianità, è stato il culmine di esaltanti costruzioni teologiche / spirituali / ideologiche / politiche della fede – e ci prepara a sovrapporre alle immagini del cristo glorioso quella di un bambino in fasce, deposto in una mangiatoia di animali, perché non c’era posto per lui nell’ospizio per gli uomini. Mistero, che nella tradizione è stato rivestito di poesia e leziosità, ma che nel racconto evangelico è invece già offuscato dall’ombra tragica della persecuzione e desolazione di un qualsiasi profugo, condannato fin da piccolo alla fuga dell’esilio. Ma nello stesso tempo, è lui,colui che dovrebbe rispondere all’attesa millenaria e fare “giudizio e giustizia sulla terra”. E qui sta il paradosso liturgico sacramentale: che Dio ha già pronunciato la sua parola finale comunicando a noi se stesso, nel suo volto di misericordia apparso nel tempo e nello spazio umano… “nella storia”! Ma questo misteriosa immersione di Dio nella nostra carne, per essere percepibile alla coscienza degli uomini, va continuamente riproposta e assunta nella vita personale e comunitaria. Ancora oggi, anche per noi come all’inizio, il salvatore arriva sotto il segno drammatico di una scelta di vita o di morte: “per la caduta e la resurrezione di molti” (Lc 2,34). Il suo arrivo, la sua venuta, la sua presenza in questo tempo ultimo, oltre il quale Dio non ha più niente da dire (non c’è altro tempo!)” è crisi” su noi e sul mondo! È giudizio inevitabile … non tanto perché lui venga per giudicarci moralmente, ma piuttosto perché il modo “scandaloso” della sua immersione nell’avventura umana tra di noi, sconvolge il nostro sentire, la nostra consapevolezza di noi stessi e di Lui/Dio. Perché ha scelto di esser ancor più impotente delle nostre impotenze, ancor più povero delle nostre povertà. Per questo, molto prima che aprisse bocca, subito l’ombra del rifiuto, della persecuzione e della morte incombe su di lui … Ma è così che viene a noi la salvezza del mondo! Per questo forse la chiesa ci fa leggere gli stessi testi apocalittici, che nel loro linguaggio oscuro e ostico denunciano e insieme consolano le ambiguità e le difficoltà del nostro vivere, sia nelle ultime domeniche dell’anno, che preparano al Cristo trionfante, che nelle prime del Cristo piccolo e impotente, insignificante. Fino a farci trepidare per il futuro della nostra fede : “Temo sempre di essere sommerso dalla disperazione che il Regno non venga mai più. Non è una disperazione che escluda la fede: non sono insidiato dal dubbio che Dio non sia, che non abbia senso sperare in lui, ma dal terrore che il Signore possa definitivamente fallire, perdere la sua guerra (1Cor 15,24)” (Quinzio). Le apocalissi del Nuovo Testamento hanno dentro una spina che Gesù stesso ha messo in loro: “ il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà ancora la fede sulla terra? (Lc 18,8)” .

… in Gesù è sfociata la corrente calda del messianesimo profetico
: sembrò, infatti, avverarsi in lui finalmente la promessa che corre dai patriarchi … fino a Isaia o Geremia, e ai loro amici e discepoli, inguaribili annunciatori di un nuovo tempo, una nuova alleanza, un cuore nuovo, una nuova giustizia sulla terra. Gesù perde la vita per annunciare questo Regno, nel silenzio di Nazareth, nell’insegnamento pubblico, nei segni liberatori che la compassione gli strappa dal cuore … quasi sempre incompreso, - fino alla autosentenza di estraneità (una regalità altra), destinata perciò ad essere spazzata via dal cinico realismo politico della regalità mondana impersonata nel potere assoluto del procuratore imperiale, Pilato: il mio Regno non è da questo mondo! … se Gesù aveva concentrato la sua vita sull’annuncio nella storia di questo Regno ezxtramondano, i discepoli annunciano Gesù, che dopo lo scandalo della croce è apparso ed è riconosciuto come “il Signore” – e li manda “con la forza dello Spirito” ad essere “testimoni di Lui” fino ai confini del mondo e della storia. Da allora “la condizione cristiana”, e la sua consapevolezza teologica, segue le sorti di questo doppio centro del messaggio evangelico: siamo dentro una tensione bifocale – come lacerati tra il Signore Gesù potente e glorioso ed il suo Regno piccolo e fragile, che sembra non imporsi mai! I nostri occhi (e il cuore!) sono malati di una sorta di insuperabile strabismo tra la redenzione totale già avvenuta per tutti, in Cristo crocifisso e risorto, che connosciamo con l’occhio della fede e la persistente insensata sofferenza dell’umanità in attesa di pace, giustizia ed amore, che vediamo con l’occhio della storia … Nella quale anche noi (singoli e chiesa) siamo immersi, mentre i miraggi delle profezie bibliche vanno sempre più lontani e spariscono dall’orizzonte di troppa gente. Ecco il rischio dell’insignificanza della fede che si insinua nel cuore dei credenti. A noi, in questa nostra situazione, tentati dall’angoscia, dall’ansia e dalla paura … per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra, si rivolge l’annuncio bello di Luca 21.
anzitutto nella prima parte della sua piccola apocalisse (Lc 21,1-25 tralasciata dalla liturgia):
… Gli domandarono: Maestro, quando accadranno queste cose e quale sarà il segno che staranno per compiersi? Rispose: badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: «Sono io» e: «Il tempo è vicino»; non andate dietro a loro! … non vi terrorizzate, perché prima devono accadere queste cose, ma non sarà subito la fine» (7s). Si tratta dunque di cercare non la scadenza (la fine): ma il fine (il senso) degli sconvolgimenti cosmologici (sole, luna, stelle, terremoti … sconvolgimento della terra, naturale o provocato dalla stoltezza dell’uomo) e antropologici (gli uomini muoiono e si divorano dalla paura e dall’ansia del degrado morale e politico …) ed ecclesiali (metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno … perfino genitori, fratelli, parenti ed amici) , ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto (18). Perché? qual è la chiave di lettura di questa tragedia in cui viviamo … tanto da dire: con la vostra perseveranza salverete la vostra vita (19)? Eccola:
“Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con potenza e gloria grande” (27).
Si tratta del fatto centrale, risolutore del senso della storia, quando la presenza di Dio è apparsa nella sua massima gloria e nella sua totale umiliazione, sulla croce - insieme nella stessa ora - l’ora di sempre! Nell’immediato solo il centurione se ne accorse, ma questo dramma continua a ripetersi – perché questa è la “nube” biblica, che manifesta e nasconde la gloria di Dio, nell’esodo da ogni schiavitù, verso la trasfigurazione del corpo di carne (e della sua storia dolorosa)- nostra e di tutti. 28 Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina». “Queste cose” sono già cominciate, sono la nostra storia cristiana, dibattuta tra “la potenza e gloria grande” (perché così dice la nostra fede in Cristo crocifisso e risorto) – e la sofferenza inconsolabile della nostra “umanità”, nella quale oggi continua la passione di Cristo. Dunque: State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita…(34). Rischiamo infatti troppe volte, come persone e comunità, di esorcizzare l’ansia e la paura annegandole in falsi obiettivi che dis/perdono l’amore e intristiscono il cuore e abbandonano i poveri. Come custodirsi?
Vegliate e pregate in ogni momento (36)… “Vegliate” non è più il verbo di prima (34: vigilate - state attenti) ma Agrupnèite, strano verbo: come dire “dormite nel campo” “vegliate dormendo”… in costante implorazione o perché (se traduciamo letteralmente): “bisognosi di avere la forza di scansare ciò che vi viene addosso per travolgervi, e stare “in piedi” davanti al Figlio dell’uomo. Dunque il discepolo non deve fuggire dal mondo e dagli altri uomini (tentazione apocalittica). Neanche deve credere di dominare il mondo (tentazione teocratica). Nell’attesa terrena, talora drammatica, siamo tentati di disperderci o ubriacarci … Ma “«Guardate il fico e tutte le piante; (30) quando già germogliano, guardandoli capite da voi stessi che ormai l’estate è vicina…”.Dobbiamo discernere i germogli (il Regno che viene), per non schiacciarli o trascurarli, ma accudirli. Il futuro che ci è promesso non è immaginario, non è fuori della storia, anzi fermenta già il presente, già sta radicandosi come un germoglio come l’attesa o il timore dell’arrivo di una persona può salvare o rovinare il presente di chi l’attende. È la certezza di questo arrivo che provoca la tenerezza appassionata di Paolo, che dilaga attorno a lui …“Il Signore vi faccia riempire e’ straripare’ di amore gli uni verso gli altri … così come siamo noi verso di voi!” per rendere saldi i vostri cuori … (1Ts 3,12). La premura affettuosa per l’uomo è l’espressione più autentica della fede cristiana. Una fede ormai disincantata da ogni fascino di potere: umile (siamo fatti di terra, come tutti …): laica (senza particolari ricette o poteri sacrali – se non la parola che ci è stata affidata – e l’eucaristia che la rinnova in sua memoria; solidale (noi siamo solo primizie simboliche della salvezza di tutti); fedele (al Signore, al suo Vangelo e ai poveri in cui egli vive … pregando sempre, perché ci trovi intenti ad accudire la sua “piccola” presenza e preparare la sua futura grande venuta.

Delle cose ultime... Secondo Luca

Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa prima domenica di Avvento (C) è tratto dal capitolo 21 di Luca, l’evangelista che accompagnerà l’anno liturgico che proprio oggi si inaugura.
Commentare questo testo però risulta assai difficile: innanzitutto per l’intrinseca difficoltà legata al linguaggio apocalittico che lo caratterizza; inoltre per il fatto che esso appare del tutto simile al vangelo commentato solo quindici fa, nella trentatreesima domenica del tempo ordinario (B), dove era presentata precisamente la versione parallela al nostro brano, secondo l’evangelista Marco…
Per ovviare a queste difficoltà, ed evitare di ripetermi da un lato, e di omettere indicazioni utili solo per paura di ridire sempre le stesse cose dall’altro, scelgo di rifarmi a quanto scritto in quell’occasione per quanto riguarda l’inquadramento teologico-biblico del testo (che altrimenti risulterebbe incomprensibile o – peggio – rischierebbe di essere frainteso), e di proseguire invece in maniera originale per quanto riguarda lo sviluppo delle specificità caratterizzanti l’odierna liturgia della Parola.
Per quanto riguarda il primo versante della questione, è allora innanzitutto utile ricordare che la tematica del vangelo, quella “delle cose ultime”, dell’escatologia, di ciò che deve accadere, era stato definito “tema arduo”, tanto che «J. Schmidt – come ricordava don Bruno Maggioni ne Il racconto di Marco –, scrive: “quello che viene chiamato il discorso della parusia, l’apocalisse sinottica, figura tra i passi più incomprensibili del Nuovo Testamento e, di conseguenza, tra i più contestati di tutta la tradizione sinottica” [J. SCHMIDT, L’evangelo secondo Marco, Brescia 1956]. J. Schmidt ha ragione – proseguiva Maggioni –: non è facile comprendere il genere letterario a cui il discorso appartiene (il genere apocalittico) e non è facile ricostruire le situazioni che sembra supporre. […] Non possiamo [quindi] fare a meno di una premessa teologica e letteraria riguardante l’escatologia e l’apocalittica: il discorso s’inserisce infatti in questo filone teologico e letterario.

Il significato più ovvio di “escatologia” è quello di discorso sulle ultime e definitive realtà. Certo si tratta – anche se questa convinzione è maturata lentamente e faticosamente – di realtà che vanno oltre la storia, ma ciò non significa che esse non si preparino dentro la storia. In effetti l’escatologia biblica è un discorso sulla storia, un modo di leggerla e di assumerla».
Questa indicazione è molto interessante, libera infatti il campo da quelle interpretazioni banali e infondate che leggono nei testi biblici di genere apocalittico un tentativo di penetrare i segreti di Dio o di cedere alle curiosità “del quando e del come”. Niente di tutto questo!
Anzi, fondamentale per la corretta interpretazione di questi brani, è un’ulteriore annotazione teologico-letteraria: sempre Maggioni infatti ci ricorda che «il linguaggio di questa letteratura è tipico: descrive gli ultimi tempi come tempi di guerre e di divisioni, di terremoti e carestie, di catastrofi cosmiche, e tutto questo nel segno di una grande subitaneità. Questo linguaggio è ampiamente presente nel discorso di Luca: non è il messaggio, ma semplicemente un mezzo espressivo che tenta di comunicarcelo. In nessun modo queste espressioni devono essere intese alla lettera».
Ma, dunque, se sono vere le annotazioni preliminari cha abbiamo fatto (se cioè l’escatologia biblica è un discorso sulla storia, un modo di leggerla e di assumerla e se il linguaggio apocalittico non coincide con il messaggio, tanto che in nessun modo queste espressioni devono essere intese alla lettera), sorge immediata la domanda riguardo a quale sia allora il messaggio sulla storia che – attraverso questo linguaggio sulle cose ultime – Luca sta proponendo…
In questo senso due paiono le certezze che emergono dal testo: innanzitutto il fatto che Gesù preveda tempi difficili e disorientanti per i suoi discepoli («Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte»); ma, d’altro canto, che questi tempi saranno accompagnati dalla venuta del Figlio dell’uomo («Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria»).
Rispetto ai “tempi difficili e disorientanti” non è necessario soffermarsi a lungo: tutti hanno ben presente quanto la storia dell’umanità e la storia della propria vita personale siano caratterizzate da difficoltà e disorientamenti, paure e angosce, fallimenti e trepidazioni, fatiche e sofferenze, assurdità e rassegnazione… E in questo senso risulta immediata la comprensione di quanto si diceva in precedenza sul genere letterario apocalittico: esso sembra parlare del futuro, ma in realtà sta interrogando il presente; il presente di ciascun uomo, fatto appunto di “tempi difficili e disorientanti”… è la vita dell’uomo di sempre infatti ad essere difficile e disorientante!
Il problema allora diventa quello di come guardare a questo presente difficile e disorientante che ogni uomo – a qualunque generazione dell’umanità egli appartenga – incontra. Il suggerimento del vangelo è quello di farlo a partire dalla fine, di provare a guardare – appunto – il presente a partire dal futuro, a tirarsi come fuori da esso e guardarlo come se fosse un film in cui noi ci poniamo alla fine.
Precisamente questo è il senso del giudizio divino paventato da queste pagine: se oggi dovesse darsi il giudizio del Figlio dell’uomo sulla tua vita, che cosa direbbe del tuo presente? Si ipotizza dunque un futuro imminente, ma per attirare l’attenzione sul proprio oggi, sulla vita che si sta conducendo, su che cosa stiamo facendo di noi stessi, ecc: «State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».
Questa certezza del giudizio, questo inevitabile “comparire davanti al Figlio dell’uomo” nel giorno che ritornerà, va però compreso bene. Esso infatti è abitualmente collocato tra due estremi, entrambi inaccettabili: da un lato l’identificazione di Gesù con un severo giudice dalle caratteristiche totalmente umane, che premia e punisce a seconda del comportamento morale di ciascun uomo e, di conseguenza, spedisce all’inferno (i più) o in paradiso (i pochi eletti)… dall’altro – precisamente in contrapposizione alla mentalità precedente, spesso rilanciata dalla Chiesa preconciliare e ormai rifiutata per totale inconciliabilità col vangelo (cfr. Mt 5,4348; Mt 20,1-16; Lc 15,11-32; Lc 23,34; ma in generale tutta l’intelligenza del vangelo nel suo insieme) – la censura e l’esclusione del giudizio, per cui andrebbe comunque sempre tutto bene.
Il dato evangelico è invece la certezza di questo ritorno giudicante del Figlio dell’uomo. Diventa perciò importante cercare di sapere sulla base di quale criterio avverrà tale giudizio: «il ritorno del Figlio dell’uomo in potenza e gloria non significa in alcun modo che Dio, alla fine, abbandonerà la strada dell’amore (la logica della Croce) per sostituirvi quella della potenza. Se così fosse, la Croce non sarebbe più il centro del piano di salvezza e la sequela del Crocifisso non sarebbe più l’elemento decisivo: lo stesso comportamento di Dio darebbe ragione, in ultima analisi, a tutti coloro che affermano che l’amore è inutile, incapace di completa liberazione. Nulla di tutto questo. Il ritorno del Figlio dell’uomo sarà il trionfo del Crocifisso, la rivelazione che l’amore (e non altro) è il vero fatto che costruisce la salvezza» [B. MAGGIONI, Il racconto di Luca, Cittadella editrice, Assisi 2001, 357].
Il criterio del giudizio dunque, il punto prospettico con cui guardare dal futuro al nostro oggi è quello che nel linguaggio di Paolo suona in questo modo: «Fratelli, il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi». L’irreprensibilità è posta dunque sulla santità così come l’essere immacolati sull’amore: «Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità » (Ef 1,3-4).
Il “metro” dunque con cui saremo giudicati e il “metro” dunque con cui dobbiamo guardare al nostro oggi, per quanto difficile e disorientante, è l’amore con cui ci si sta dilatando l’anima… per farci star dentro tutti quelli che ne hanno/avranno bisogno…
Precisamente questo annuncio – che coincide con tutta la vita di Gesù – è ciò che dischiude nuovamente – e nonostante tutte le disillusioni e i fallimenti della nostra Vita – la possibilità di un affidamento al senso, la possibilità del credere, la possibilità della fede… di quel dar credito che permette di guardare ai “tempi difficili” come a sequenze di un film, di cui non diventano mai l’anima. Esse possono far temere, trepidare, scoraggiare… ma non saranno mai la chiave interpretativa dell’interezza della vita, il cui polo gravitazionale – il senso – sta altrove… e cioè precisamente in quegli sprazzi di umanità amante e amata che si sono sperimentati. Su quello sarà giudicata la nostra vita e quella dell’umanità tutta…

domenica 22 novembre 2009

Siamo ciò che vogliamo essere

«Amo l’Italia ma mi rende triste. Perché è un paese in cui i padri divorano i figli, si prendono tutto senza lasciar nulla e i giovani devono andarsene per avere un’opportunità» (Francis Ford Coppola)
Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? La domanda, antica, può produrre pensiero profondo oppure ottusità, veggenza oppure cieco affanno.

Ci sono momenti della storia in cui la domanda secerne veleni, chiusura all’altro. Uno di questi momenti fu la vigilia delle prima guerra mondiale: nella Montagna incantata, Thomas Mann parla di Tempi nervosi. Anche oggi è uno di questi momenti. La fabbricazione di un’identità con ferree e univoche radici è piena di zelo in Francia, Inghilterra, e nervosamente, astiosamente, in Italia. In Italia un partito xenofobo è al governo e addirittura promette «Natali bianchi», liberati dagli immigrati che saranno scacciati ­ parola del sindaco di Coccaglio, presso Brescia ­ profittando dei permessi di soggiorno in scadenza. Come in certi film tedeschi (Heimat, Il Nastro bianco) è un villaggio-microcosmo che genera mostri. Genera anche irrazionalità, come ha spiegato un medico del lavoro di Bologna, Vito Totire, in una bellissima lettera inviata il 19 novembre al direttore della Stampa: non sono gli italiani a compiere oggi le bonifiche dell’amianto, «ma gli immigrati, per pochi euro, in condizioni di sicurezza incomparabilmente migliori di quelle di anni fa ma non del tutto immuni da rischi».

In Francia un collettivo sta preparando un giorno di sciopero, intitolato «24 ore senza di noi»: quel giorno gli immigrati resteranno a casa, per mostrare cosa accadrebbe se smettessero di lavorare e consumare.

Ma non sono solo economiche, le ragioni per cui l’immigrato è prezioso, indispensabile. Specialmente in Italia ha una funzione più segreta, più vera. Gli immigrati anticipano la risposta alle tre antiche domande, prefigurando quel che saranno in avvenire i cittadini italiani. Sono un po’ i nostri posteri, che contribuiranno a forgiare la futura identità dell’Europa e delle sue nazioni. Saremo quel che diverremo con loro, mescolando la nostra cultura alla loro. D’altronde le radici d’Europa son fatte da Atene, Gerusalemme, Roma, Bisanzio-Costantinopoli. Il culmine della civiltà fu raggiunto dalla res publica romana: un impasto meticcio di molte lealtà.

Gli immigrati, nostri posteri, sono proprio per questo scomodi. Perché entrando nelle nostre case ci porgono uno specchio in cui scorgiamo quel che siamo, il senso del diritto e della giustizia che stiamo perdendo. Esistono comportamenti civici che l’immigrato, accostandosi all’Europa con meno stanchezza storica, fa propri con una naturalezza ignota a tanti italiani.

Gli esempi si moltiplicano, e quasi non ci accorgiamo che la nostra stanchezza è rifiuto di preparare il futuro, e generalmente conduce al collasso delle civiltà. Il regista Francis Ford Coppola, intervistato per La Stampa da Raffaella Silipo e Bruno Ventavoli (19-11) descrive il possibile collasso: «Amo l’Italia ma mi rende triste. Perché è un paese in cui i padri divorano i figli, si prendono tutto senza lasciar nulla e i giovani devono andarsene per avere un’opportunità».

È significativo che lo dica un italo-americano, nipote di nostri emigranti. Che evochi, con l’immagine dello sbranamento cannibalico, una crudeltà radicale verso il prossimo: la crudeltà del padre che usurpa figli e futuro, convinto che fuori dal suo recinto non c’è mondo. Anche Stefano Cucchi, il ragazzo pestato a morte il 16 ottobre nei sotterranei di un tribunale a Roma, è un figlio sbranato. In alcune parti d’Italia la vita non vale nulla, uccisa dall’apatia ambientale più ancora che dalla lama. Anche qui, come nei lavori pericolosi, l’immigrato agisce spesso al nostro posto, con funzione vicaria. Nel caso di Cucchi c’è un unico testimone, anche se parla confuso: un immigrato detenuto del Ghana, addirittura clandestino, che rischia tutto rivelando la verità.

Allo stesso modo sono immigrati africani a insorgere contro camorra e ’ndrangheta. Prima a Castel Volturno, il 19 settembre 2008, dopo una carneficina che uccise sei cittadini del Togo, Liberia, Ghana. Poi il 12 dicembre 2008 a Rosarno, presso Reggio Calabria, dopo il ferimento di due ivoriani. Regolari o clandestini, gli immigrati hanno una fede nello Stato di diritto che gli italiani, per paura, rassegnazione, sembrano aver smarrito. Roberto Saviano rese loro omaggio: «Le due più importanti rivolte spontanee contro le mafie, in Italia, non sono partite da italiani ma da africani. In dieci anni è successo soltanto due volte che vi fossero, sull’onda dello sdegno e della fine della sopportazione, manifestazioni di piazza non organizzate da associazioni, sindacati, senza pullman e partiti. (...) Nessun italiano scende in strada». (Repubblica, 13-5-2009).

Ci sono video che dicono queste cose inconfutabilmente. Il video che ritrae l’indifferenza di decine di passanti quando venne ucciso, il 26 maggio, il musicista rumeno Petru Birlandeanu, nella stazione cumana di Montesanto. Il video che mostra l’assassinio di Mariano Bacioterracino, lo svaligiatore di banche ucciso l’11 maggio da un camorrista a Napoli. Anche qui i passanti son lì e fanno finta di niente. Difficile non esser d’accordo con Coppola: l’Italia mette tristezza, e a volte in tanto buio non ci sono che gli immigrati a emanare un po’ di luce.

Ai potenti non piacciono i film noir sull’Italia. Roberto Maroni, ad esempio, ha criticato la diffusione del video su Bacioterracino, predisposta dal procuratore di Napoli Lepore con l’intento di «scuotere la popolazione che per sei mesi non si era mossa». Insensibile alla pedagogia civica del video, il ministro s’indigna: «Hanno dato l’idea di una città, Napoli, ben diversa dalla realtà». D’altronde fu sempre così, nella storia della mafia.

Nel 1893, quando in un treno che lo portava a Palermo fu ucciso Emanuele Notarbartolo, un uomo onesto che combatteva la mafia nel Banco di Sicilia, il senatore mandante fu infine assolto perché non si voleva trasmettere un’immagine ignobile della Sicilia e dell’Italia. Durante il fascismo, il prefetto Mori combatté una battaglia che molti ­ nel regime, nei giornali ­ interpretarono come denigrazione della patria. Cesare Mori fu allontanato perché non imbelliva la nostra identità ma l’anneriva per risanarla.

Dice ancora Coppola che un film come Gomorra l’infastidisce. Non racconta una storia, tutto è freddo, terribile: «E’ spaventoso vedere Napoli rappresentata con tanto realismo. Quei delinquenti non sono più esseri umani». È vero, il film non è fascinoso e chiaro come il Padrino. È inferno, caos. Ma è tanto più reale. Viene in mente Salamov, il detenuto dei Gulag, quando critica il crimine troppo imbellito da Dostoevskij, «falsificato dietro una maschera romantica» (Salamov, Nel Lager non ci sono colpevoli, Theoria 1992).

Tra Dostoevskij e Salamov c’è stato il Gulag, che solo una «scrittura simile allo schiaffo» può narrare. Tra Coppola e Gomorra c’è il filmato che ritrae Bacioterracino atterrato senza schianto. È ancora Saviano a scrivere: «Il video decostruisce l’immaginario cinematografico dell’agguato. Non ci sono braccia tese a impugnare armi, non ci sono urla di minaccia, non c’è nessuno che sbraita e si dispera mentre all’impazzata interi caricatori vengono riversati sulla vittima inerme. Niente di tutto questo. La morte è fin troppo banale per essere credibile. L’esecuzione è un gesto immediato, semplice, poco interessante, persino stupido. Ma è la banalità della scena, quella assurda serenità che la circonda e che sembra ovattarla e relegarla al piano dell’irrealtà, che mette in dubbio l’umanità dei presenti. Dopo aver visto queste immagini è difficile trovare giustificazioni per chi ritiene certi argomenti diffamatori per Napoli e per il Sud».

Le tre domande dell’inizio restano. Impossibile rispondere, se la realtà del nostro divenire non la guardiamo assieme agli immigrati. Se non vediamo che non solo per loro, anche per noi e forse specialmente per noi valgono i versi di Rilke: «Ogni cupa svolta del mondo ha tali diseredati, cui non appartiene il passato né ancora il futuro più prossimo. Poiché anche il più prossimo è lontano per l’uomo».
di BARBARA SPINELLI su LaStampa.it

venerdì 20 novembre 2009

Cristo re

In questa trentaquattresima domenica del tempo ordinario, ultima dell’anno B, la Chiesa celebra la festa di Cristo, re dell’universo. Questo titolo, “re”, pur avendo una storia assai articolata, risulta però essere – associato a quelli di “profeta” e “sacerdote” – un’espressione fondamentale e sintetica dell’interpretazione che la Chiesa ha fatto lungo i secoli della funzione salvifica di Gesù: Cristo è il mediatore della salvezza in quanto profeta, re e sacerdote.
Evidentemente la panoramica dei titoli attribuibili a Gesù è assai più vasta, ma precisamente questi tre, soprattutto a partire dal XVI secolo in poi, sono stati privilegiati come elementi di sintesi della missione/identità di Gesù, tecnicamente, definiti i tria munera, i tre “uffici” di Cristo.
Ma cosa vuol dire che Gesù è re? E soprattutto: In che senso è re?
Innanzitutto è utile ricordare che l’applicazione della qualifica “regale” a Gesù, ha evidenti provenienze neotestamentarie: Egli infatti, per un verso, è descritto come colui che porta a compimento la figura del re di Israele e il suo significato nella storia dell’alleanza tra Dio e il suo popolo; per l’altro, è colui che annuncia e insieme incarna il Regno di Dio che viene…
Come mette in luce il mai sufficientemente compianto G. Moioli nella sua Cristologia, la domanda inevitabile che sorge diventa allora: «Quale sarà la ragione ultima per cui Gesù è la verità del “re” israelitico, in quanto presenza, attualizzazione reale del “regno” di Dio?». Ed evidentemente la risposta non può che essere: il fatto che «Gesù è il Figlio»!
Questa è precisamente la ragione per cui in Gesù si ritiene compiuta, o meglio, compiutamente rivelata la regalità, la signoria di Dio sul mondo. Ma appunto, precisamente per questo, la qualità di questo “dominio” non può essere semplicemente evinto dalla categoria linguistica di “re” – come a volte purtroppo anche la teologia o il Magistero hanno fatto: piuttosto dire che in Gesù si rivela compiutamente la signoria divina sull’universo, vuol dire che per sapere in quale modo Dio è re, devo guardare a come questa regalità è stata esercitata da suo Figlio, dal determinarsi storico dell’uomo Gesù, nei trent’anni di vita trascorsi su questa terra.
Come già accennato, sono soprattutto due le modalità in cui nel NT, ci si riferisce a Gesù in chiave regale: o in quanto compimento della regalità israelitica; o in associazione alla venuta del Regno di Dio. E ciò che in entrambi i casi i testi evangelici (ma anche paolini) trasmettono, è letteralmente un rovesciamento di quello che le nostre orecchie abitualmente associano al termine “re”, quando lo sentono: per quanto riguarda l’annuncio del Regno infatti ciò che salta subito all’occhio è la continua dialettica tra regalità e servizio («Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi però non sia così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti», Mt 20,25-28); mentre per quanto riguarda il compimento della regalità in Israele, il ribaltamento avviene sulla qualificazione della crocifissione, come intronizzazione-esaltazione di Gesù («Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: “Gesù il Nazareno, il re dei Giudei”. Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco. I capi dei sacerdoti dissero allora a Pilato: “Non scrivere: ‘Il re dei Giudei’, ma: ‘Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei’”. Rispose Pilato: “quel che ho scritto, ho scritto”», Gv 19,19-22).
Uno strano re, dunque: un re che serve, un re che ha il suo trono su una croce… un re inedito, un re diverso… un re di cui non si è invidiosi… Come dice il brano di Giovanni, un re, il cui regno «non è di questo mondo»…
Ma appunto… non nel senso che il suo Regno è identico a quelli del mondo, solo che sta “in un altro mondo”, quello celeste, quello venturo, quello “dell’alto dei cieli”… Come se la distanza tra regni umani e Regno di Dio fosse solo temporale, cronologica… ma di fatto incarnasse le stesse modalità di dominio delle potenze terrestri (come a qualcuno piacerebbe…) e semplicemente – per ora – le stesse rimandando al giorno del giudizio universale…
L’essere di “un altro mondo” indica piuttosto l’obbedienza ad un’altra logica, ad un’altra prospettiva, ad un’altra mentalità… quella di Dio appunto… per indicare la quale si usa la medesima parola “regno”, ma precisamente per rovesciarne dall’interno il significato, proprio come con un calzino!
Il problema però non è tanto ribadire quale sia la qualità di questa diversa e inaudita logica (l’amore incondizionato per l’altro come criterio unico e definitivo per porsi nella vita), di cui spesso – penso e spero – abbiamo sentito parlare… Il problema infatti è piuttosto come vincere quel meccanismo inconscio per cui noi di tutte queste cose, semplicemente, non ci ricordiamo… Sentir parlare di “Cristo re”, per esempio, ci rimanda istintivamente col pensiero a immagini ben diverse da quelle del servizio o della croce; sentir parlare della signoria di Dio, suscita immediatamente una reazione di timore e tremore, piuttosto che una consolazione viscerale per la qualità amorosa di quella signoria…
Il problema cioè diventa quello del perché, pur sapendo molte cose e avendo sentito molte parole sull’identità inequivoca di Dio come Padre, automaticamente la prima immagine che abbiamo in cuore di lui è quella di un padrone, di un tiranno, di un re al modo umano, appunto… Perché questa e non l’immagine evangelica che Gesù, senza alcuna ambiguità, traccia del volto del Padre, è quella che più di tutte ci è penetrata nella carne, nelle fibre, nelle congiunture del nostro essere? Perché negli sprazzi di immediatezza, di inconscio, di istintività, vince sempre la paura di dio e non l’affidamento al Padre?
Certo, secoli di discutibile educazione cristiana hanno sicuramente fatto la loro parte (come anche il senso dell’istituzione della festa odierna, sta lì a mostrare…), ma forse in gioco c’è anche la nostra radicale fatica a sbilanciarci verso una relazione personale col Signore, con la sua Parola, che – senza ombra di dubbio – ci rimanderebbe all’incondizionata paterna dedizione di Dio per noi, ma che invece evitiamo per la fatica di superare lo scoglio dell’affidamento, del lasciare davvero la signoria della nostra vita ad un altro, del rimetterci alle sue mani…
Ma io credo che questo sbilanciarsi in una fiducia, in un darGli credito, in un intraprendere finalmente una relazione dove darsi del “Tu”, sia davvero l’unico modo perché pian piano la Sua verità (che coincide con la vita di Gesù) penetri nei meandri profondi della nostra intimità e – goccia dopo goccia – arrivi a corrodere le paure e le durezze, le rigidità e le intransigenze, i timori ed i tremori… che l’immagine falsa che ci siamo fatti o che ci hanno dato di lui, continuamente rilancia, avvelenandoci il sangue e riversandosi sulle persone che compongono la nostra vita…
Perché solo questo è il criterio per sapere se il Dio che abbiamo in testa (in cuore) è quello di Gesù: se ci apre alla dedizione incondizionata per la vita degli altri (fino a saper donare la nostra per loro), o se ci chiude in uno sguardo gretto e impaurito (le cose sono sempre connesse) sugli altri.

Simile a un figlio d’uomo …il suo regno non sarà mai distrutto

Alla fine dell’anno liturgico siamo invitati a raccogliere tutto quanto è esprimibile del sogno di Gesù sulla storia, che abbiamo meditato e celebrato nel mistero della parola, dell’eucaristia e della vita quotidiana nelle 52 domeniche che sono passate! Ma le parole poco possono raccontare di questo mistero. C’è il mondo della realtà fisica, chimica, biologica, psichica … affettiva, economica, politica, che noi viviamo dentro l’immenso cantiere cosmico, terrestre, umano. A questo nostro mondo s’interseca “il mondo della storia divina”, anzi ormai ne è la forza propulsiva, fermento di altra vitalità, il germoglio dei cieli nuovi e delle terre nuove, che tacitamente e irreversibilmente espande la sua operosa verità nella coscienza umana, scelta come sua dimora privilegiata … Un mondo “altro”, (insieme? parallelo? dentro … a questo?.) Un mondo spirituale (perché è lo Spirito che lo gestisce), evangelico (perché è il vangelo di Gesù che lo ha inaugurato, spiegato e lanciato nella storia), cristiano (perché è la chiesa, corpo di Cristo, che deve esserne il fragile segno levato tra i popoli). Ma sono tutte indicazioni insufficienti e inadeguate, magari anche fuorvianti, se pensate e rinchiuse in etichette. Forse è meglio tornare a chiamarlo “regno di Dio”, come diceva Gesù, e continuamente sondarne e purificarne il senso e accoglierne la proposta nella vita concreta, sulla testimonianza della sua Parola. Per cui, affinati e confortati dal suo insegnamento, non stona neanche tanto alle nostre orecchie poco monarchiche, chiamare Gesù “re dell’universo”, se è per dirne la centralità in questo misterioso alveo vitale che tutto coinvolge – il regno non mondano di Cristo! … a partire dal suo dimorare nel nostro cuore, come direbbe la Bibbia, o nell’intimo della nostra coscienza, come diremmo noi moderni – e da lì coinvolgere tutta la creazione. “Mi sembra di un’importanza unica la sollecitazione che ci viene dalla Liturgia a pensare alla natura e all’affascinante nobiltà del Regno non mondano di Cristo, a sognare il suo grande sogno. Tornando poi nella dura terra, qualcosa rimarrà in noi del sogno, e sarà germe di vita meno banale e dispersiva. Noi crediamo che Cristo sia l’Alfa, la lettera iniziale, e l’Omega, la lettera che chiude la vicenda dell’universo creato; il primo Adamo, l’Uomo protologico, e l’ultimo Adamo, l’Uomo escatologico che in sé attua e compie l’Immagine divina dell’uomo” (Vannucci).
Cristo si dichiara re solo nella sua passione
Quando volevano farlo “re” per il suoi poteri prodigiosi, si era rifiutato. Sarebbe stato solo un grave malinteso. Gesù se ne fuggi solo, a pregare. Adesso, arrivato alla soglia della sua passione e crocifissione, abbandonato da tutti, non c’è più pericolo di quell’equivoco. Pilato, che più si fa domande, non comprende l’essenza della sua ‘signoria’, e nessun altro lo capisce, a parte i soldati, espressione spesso inconscia e brutale delle voglie perverse dei loro capi, che ci giocano attorno un teatro tragico, deridendo la sua pretesa regalità. Ma in questo momento di massima umiliazione, egli insiste: tu lo dici, io sono re! perche sono venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità. La verità è l’amore del Padre per il mondo, amore che il figlio rappresenta e ci rivela nel suo vivere, nel suo morire, nel suo risorgere. La croce è l’apice del dramma insondabile di sofferenza e consenso, di lontananza e di amore, di rifiuto e di perdono, che lega indissolubilmente il Padre alla sua creazione. Proprio lì, sul legno maledetto, Gesù, umiliato fino alla morte, con la sua risurrezione, viene instaurato in una gloria che possedeva da sempre, come re – che vuol dire centro di vita, di salvezza, di gloria – per tutto il mondo. Tanto che la stessa creazione del mondo non avrebbe avuto luogo senza la previsione della sua croce: un re crocifisso : Voi sapete … che foste liberati … con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi … (1 Pt 1,19s).
lui, che ci ama, ci ha liberati dai nostri peccati …
Nato e cresciuto nella storia empirica dei regni fascinosi di questo mondo, l’uomo di oggi, meno che mai può avere una visione approfondita della sua esistenza e del compito che è chiamato a svolgere. Tutto gli è presentato come così urgente che a malapena riesce a percepire, in taluni momenti privilegiati, che dentro di lui c’è qualcosa di più grande di lui. Ma del “vero regno” e del “re” della sua vita, cosa sa? E chi glielo annuncia? Eppure era il primo mandato di Gesù ai discepoli (Lc 9,2)! I più si riferiscono ad un ipotetico misterioso «dopo morte», senza peraltro sapere che dirne. Una corsa dalla nascita alla morte … è la vita, per la maggior parte degli uomini, anche cristiani! Ma le grandi domande sull’inizio, sulla morte, su un dio (ed un destino) personale ed eterno, sono in genere domande cui non si osa dare risposta. Eppure ogni desiderio o frustrazione, ogni gioia o male, ogni amore o paura, non può che domandare di Lui. Chi è stato battezzato da bambino, se non ha mai avuto la grazia di una conversione, di uno scossone interiore, per qualche evento della sua storia personale, forse coglie meno cosa significa “entrare in questo regno”, come in un’esperienza trasformatrice, un coinvolgimento personale, che gli fa scoprire in sé il germe della vita eterna, la vita vera già di qua, la propria personale partecipazione all’essere divino, che non viene dalla carne e dal sangue, ma da Dio (solo l’amore umano, nei suoi momenti più gratuiti, è qualcosa di simile!). Allora, al di là delle diverse, non sempre felici, esperienze ecclesiali, l’uomo comprenderà di non essere ‘solo’ nella sua storia, ma che la vera storia è in lui, perché, come dice Pietro nel suo primo discorso (alle folle ed a ognuno di noi): Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso (At 2,36). In lui, attraverso la sua avventura umana che gli diviene contemporanea, a ognuno è misteriosamente “proposta la storia del suo esodo dal mondo divino a quello terreno e la storia del suo ritorno al principio incandescente dal quale promana (cfr Gv 17,1ss). Il ritorno è certo, ma lento e faticoso; l’uomo, come il seme del loto, deve radicarsi nel fango oscuro della materia se vuol risalire e germogliare nella luce. Pur essendo nel mondo, deve continuamente ricordarsi di possedere una perla preziosa che gli è stata affidata dal Re del mondo, della Verità e della Vita” (id).
ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre …
L’avventura carnale è determinante, perché questo è “essere umani”. Perciò anche Gesù ci è passato, sprofondandosi con tale consegna di sé da divenire il cuore pulsante del “ Regno” del Padre. E ne è stato temprato come nuovo modello antropologico, il nostro alfa e il nostro omega, con dentro tutto l’alfabeto umano: Nei giorni della sua vita di carne egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchìsedek (Eb 5,7ss). In lui si è fatta la prova suprema dell’essere uomo, del compimento cioè del desiderio infinito che abita paradossalmente la debolezza della carne umana. E nonostante l’insuperabile lontananza (Dio mio, perché mi hai abbandonato!?), Dio ha dato ascolto totale a questa voce collettiva della carne umana. In essa si è decisa la vita e la morte di ognuno. La Verità che è in Dio, si è fatta carne, ma i suoi non raccolsero. Molti non ascoltano, occupati in altre faccende. Altri domandano: cosa è la Verità? Lo stesso Pilato la mostrò alla gente dichiarando: ecco l’uomo! Generazioni innumerevoli hanno preceduto l’Incarnazione, altre la seguiranno. E nel frattempo la nostra avventura nella carne e nel sangue sarà decisiva. In essa è l’incrocio della nostra storia quotidiana e della presenza divina nella storia impercettibile, ma vera, punto d’incontro della carne e dello Spirito, del regno umano con la sua dinamica senza futuro, e del regno di cui Cristo è la via, la verità e la vita. “Se la nostra personale carne riuscirà a mangiare la Parola che diviene carne, diverrà il supporto della immanenza divina nella materia stessa, e sarà un centro che irradia la vita, come lui ha predetto: Avevo fame e mi hai dato da mangiare, ero malato e mi hai curato” (id). Parteciperemo da protagonisti al suo regno, diverremo con lui sacerdoti di una nuova offerta. Anche se la nostra storia, la nostra carne opaca si lascia troppo faticosamente assorbire nella logica del regno, questa resistenza della carne non va giustificata, ma va sostenuta con misericordia. Tutto infatti può essere sop/portato nella tensione del sentire in grande di Dio (macrotimia 2 Pt 3,9) – entro la quale siamo introdotti nel “tempo di Dio”, che è il respiro del regno, nel quale i cristiani debbono vivere. Non si tratta di un tempo diverso cronologicamente o fisicamente dal tempo della storia. Il tempo di Dio è piuttosto il modo stesso con cui Dio sostiene il tempo degli uomini, cioè la sua grazia. Infatti, il contenuto ultimo del tempo di Dio è l’accoglimento sovrano dell’uomo peccatore, nella croce di Gesù Cristo. Egli ci ha amato mentre eravamo ancora peccatori. Nella croce Dio abbraccia ciò che è ancora lontano e distante da lui: in questo abbraccio affettuoso del nostro tempo, resistente all’abbraccio e tuttavia sostenuto mentre cerca di liberarsene, sta la segreta potenza salvatrice del regno di Dio (G. Ruggeri). Il carattere escatologico del regno non è dato dal fatto che Dio mette fine alla storia degli uomini, ma dal fatto che questa storia, sostenuta dall’amore di Dio così come si è rivelato in Gesù il Cristo, verrà condotta alla sua fine – quando, il Padre solo lo sa ma è già accolta e amata adesso nella sua diversità reale, nella sua dolorosa distanza … da Dio!

lunedì 16 novembre 2009

Per molti, troppi, Gesù non è stato crocifisso

Ancora oggi si prende in giro Gesù Cristo, solo che i modi sono più sofisticati e molti devoti si prestano al gioco
Rispondo con un post all’intervento di Angel al post precedente, perché credo che abbia sollevato un tema sempre attuale, importantissimo e decisivo per i cristiano e il carmelitano (e quindi per la chiesa e il carmelo) e mi dà occasione di spiegare ancora una volta il senso di questo blog!

Carissimo Angel, ti ringrazio per il tuo contributo all’approfondimento di questo blog. E grazie per i consigli che evidentemente i miei stessi superiori di oggi come di ieri avevano scordato di darmi…
Potrei citarti Benedetto XVI, o tanti altri (tra cui lo stesso card. Giacomo Biffi per non parlare dei Padri Generali dell'Ordine Camelitano Scalzo e Calzato), che parlano di annunciare il Cristo nella concretezza della vita (leggi questo post che riporta ampi strati di un’omelia del Papa) perché la spiritualità carmelitana come di qualunque ordine religioso della chiesa se pretende di essere cristiana deve avere in sé le “strutture” del Cristo: prima di tutto l’incarnazione (senza la quale non c’è Pasqua) e la resurrezione (senza la quale l’incarnazione à vana): tra questi due poli (che poi sono un solo punto di gravità esistenziale) strettamente uniti si costruisce una santità concreta come Teresa d’Avila in primis ci ha testimoniato.

Per aiutare te e i nostri “amareggiati e delusi” lettori a “com-prendere”, permettimi di mostrarti un’applicazione concreta di questa prospettiva cristiana – per quanto sia possibile con uno scritto in un blog! – partendo da una frase di Gheddafi detta ieri: «Gesù non è stato crocifisso...». L’espressione, invece di farmi arrabbiare o ridere, mi ha illuminato: Se ha ragione! Per molti Gesù non è stato affatto crocifisso!...

Mentre lui era sul Golgota ad agonizzare per tutti noi, molti continuavano col loro tran-tran quotidiano, altri, non pochi, continuavano – tranquilli e al fresco – con le loro preghiere al tempio. Offrendo sacrifici, continuavano beati a costruire la loro santità nel culto del Dio vero, del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe… dello stesso Dio di Gesù Cristo… e nostro! Loro nel tempio! Mentre il sacrificio di “quello stesso” Dio, che loro si illudevano di servire, si consumava sulle strade del mondo, fuori dalla città santa, fuori da ogni barlume di sacralità… Evidentemente Gesù aveva un altro concetto di santità, un’altra idea di “servizio”. Ancora oggi, molti cristiani, si beano – anche nelle penombre delle sacrestie e dei monasteri – mentre miliardi, dico miliardi, di persone, tra uomini donne e bambini rende culto a Dio nei bassifondi dell’umanità morendo semplicemente e banalmente di fame, di sete, di freddo, di malaria, di aids, o ammazzati perché “diversi”… e di ogni altra miseria, perché l’industria farmaceutica, le S.p.A., la finanza internazionale, i governi e le loro diplomazie insieme ad ogni altro organismo di potere (sostanzialmente sempre “gli stessi” che hanno crocifisso Gesù) non trovano ancora “conveniente” investire tutto quello che si deve investire per sradicare il male alla radice (diventerebbero disoccupati!?)…

A questo punto io mi fermo… ma ti dico con tutta la forza del “carisma carmelitano” e con tutta la carità (poca) infusa che mi anima: fino a quando non capirai cosa ci stia a fare l’appello di Saviano in questo blog, non capirai mai veramente cosa sia venuto a fare Gesù Cristo (e Teresa d’Avila) in questo mondo! Perché l’una è strettamente connessa all’altra! Come cerco di spiegare anche qui e qui e soprattutto qui e qui (l'insieme degli articoli li trovi qui)... Buona conversione!

domenica 15 novembre 2009

oh la vacca!

La storia della società umana non è poi così difficile da comprendere... A volte i massimi sistemi si capiscono meglio con esempi terra-terra.... Basta una piccola comunità di due mucche: Cosa succede se hai due mucche?

FEUDALESIMO:
Hai 2 mucche. Il tuo padrone senza fare niente si prende parte del latte.

SOCIALISMO PURO:
Hai 2 mucche. Il governo le prende e le mette in una stalla insieme alle mucche di tutti gli altri. Tu devi prenderti cura di tutte le mucche. Il governo ti dà esattamente il latte di cui hai bisogno.

SOCIALISMO BUROCRATICO:
Hai 2 mucche. Il governo le prende e le mette in una stalla insieme alle mucche di tutti gli altri. A prendersi cura di loro è un gruppo di ex allevatori di polli. Tu devi prenderti cura delle galline prese agli ex allevatori di polli.
Il governo ti dà esattamente il latte e le uova di cui i regolamenti stabiliscono che hai bisogno.

FASCISMO:
Hai 2 mucche. Il governo le prende entrambe, ti assume perché te ne prenda cura e ti vende il latte.

COMUNISMO PURO:
Lo stato ti dà 2 mucche. I tuoi vicini ti aiutano a prendertene cura e tutti insieme vi dividete il latte.

COMUNISMO RUSSO:
Lo stato ti dà 2 mucche. Tu devi prendertene cura, ma il governo si prende tutto il latte.

DITTATURA:
Hai 2 mucche. Il governo le prende entrambe e ti tassa perché dice che sono tue.

DEMOCRAZIA URBANA:
Hai 2 mucche. Il governo ti multa per il possesso non autorizzato di due animali da stalla in un appartamento.

REGIME MILITARE:
Hai 2 mucche. Il governo le prende entrambe e ti arruola nell'esercito così continui a prendertene cura.

DEMOCRAZIA PURA:
Hai 2 mucche. I tuoi vicini decidono chi si prende il latte.

DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA:
Hai 2 mucche. I tuoi vicini nominano qualcuno perché decida chi si prende il latte.

DEMOCRAZIA AMERICANA:
Il governo promette di darti 2 mucche se lo voti. Dopo le elezioni, il presidente è messo sotto impeachment per aver speculato sui "futures" bovini. La stampa ribattezza lo scandalo "Cowgate".

DEMOCRAZIA INGLESE:
Hai 2 mucche. Le nutri con cervello di pecora e loro impazziscono. Il governo le ammazza.

DEMOCRAZIA ITALIANA: Se dichiari 2 mucche e hai propri 2 mucche sei un fesso! Se hai 2 mucche è perché ne hai cento... Naturalmente paghi le tasse solo sulle 2 mucche che dichiari se proprio non riesci ad evadere il fisco... in ogni caso - per le 98 che ti mancano - riceverai i finanziamenti europei con cui giri in mercedes e ti costruisci una bella villa alle Canarie e berrai solo champagne perché il latte devi far finta di non averlo e in ogni caso ti dà le vertigini...

DEMOCRAZIA BERLUSCONIANA: Hai 2 mucche ma se lo dici sei un antiitaliano allora devi dire che ne hai almeno 4 e che presto con i finanziamenti del governo sarai il primo produttore di mucche al mondo... Naturalmente le mucche - per essere italiane DOC - devono essere sempre sorridenti e mai tristi... Inoltre col latte ci devi fare il bagno per restare giovane e ottimista così potrai anche esportare in tutto il mondo il formaggio così ricavato perché più "genuino"... Diventerai allora il primo produttore alimentare del mondo dopo Puttin e ben presto superereai anche l'Inghilterra (visto che gli inglesi notoriamente non amano lavarsi).

BUROCRAZIA:
Hai 2 mucche. All'inizio il governo stabilisce come le devi nutrire e quando le puoi mungere. Poi ti paga per non mungerle. In seguito le prende entrambe, ne uccide una, munge l'altra e ne butta via il latte. Alla fine ti costringe a riempire alcuni moduli per denunciare le mucche mancanti.

ANARCHIA:
Hai 2 mucche. O le vendi a un prezzo equo, oppure i tuoi vicini provano a ucciderti per prendersi le mucche.

CAPITALISMO:
Hai 2 mucche. Ne vendi una e ti compri un toro.

CAPITALISMO FINANZIARIO:
Hai 2 mucche. Ne vendi tre alla tua società per azioni, usando le lettere di credito aperte da tuo cognato presso la banca. Poi avvii uno scambio debito azioni con un'offerta pubblica, e riesci a riprenderti tutte e quattro le mucche con uno sgravio fiscale per il mantenimento di cinque mucche. I diritti sul latte di sei mucche sono trasferiti tramite un intermediario panamense a una compagnia delle Isole Cayman di proprietà dell'azionista di maggioranza, che rivende alla tua Spa i diritti sul latte di tutte e sette le mucche. Il bilancio annuale afferma che la società è proprietaria di otto mucche, con un'opzione sull'acquisto di un'altra. Nel frattempo tu uccidi le due mucche perché il latte è cattivo.

AMBIENTALISMO:
Hai 2 mucche. La legge ti vieta sia di mungerle che di ucciderle.

POLITICA PER LE PARI OPPORTUNITA':
Hai 2 mucche. Loro si sposano e adottano un vitellino.

TOTALITARISMO:
Hai 2 mucche. Il governo le prende e nega che siano mai esistite. Il latte è messo fuori legge e tu devi bere olio di ricino.

POLITICAL CORRECT:
Sei in rapporto (il concetto di "proprieta'" è offensivo verso la dignità animale, ohps, diversamente umana) con due bovini di diversa età (ma altrettanto preziosi per la società) e di genere non specificato...

venerdì 13 novembre 2009

Delle cose ultime...

In questa trentatreesima domenica del tempo ordinario, la Chiesa – attraverso la liturgia della Parola – ci invita a riflettere sul tema delle “cose ultime”, dell’escatologia, di ciò che deve accadere. Tema arduo, tanto che «J. Schmidt – come ricorda don Bruno Maggioni ne Il racconto di Marco –, commentando il c. 13 di Marco scrive: “quello che viene chiamato il discorso della parusia, l’apocalisse sinottica, figura tra i passi più incomprensibili del Nuovo Testamento e, di conseguenza, tra i più contestati di tutta la tradizione sinottica” [J. SCHMIDT, L’evangelo secondo Marco, Bresci 1956]. J. Schmidt ha ragione – prosegue Maggioni –: non è facile comprendere il genere letterario a cui il discorso appartiene (il genere apocalittico) e non è facile ricostruire le situazioni che sembra supporre. […] Non possiamo [quindi] fare a meno di una premessa teologica e letteraria riguardante l’escatologia e l’apocalittica: il discorso s’inserisce infatti in questo filone teologico e letterario. Il significato più ovvio di “escatologia” è quello di discorso sulle ultime e definitive realtà. Certo si tratta – anche se questa convinzione è maturata lentamente e faticosamente – di realtà che vanno oltre la storia, ma ciò non significa che esse non si preparino dentro la storia. In effetti l’escatologia biblica è un discorso sulla storia, un modo di leggerla e di assumerla».
Questa indicazione è molto interessante, libera infatti il campo da quelle interpretazioni banali e infondate che leggono nei testi biblici di genere apocalittico un tentativo di penetrare i segreti di Dio o di cedere alle curiosità “del quando e del come”. Niente di tutto questo! Anzi, fondamentale per la corretta interpretazione di questi brani, è un’ulteriore annotazione teologico-letteraria: sempre Maggioni infatti ci ricorda che «il linguaggio di questa letteratura è tipico: descrive gli ultimi tempi come tempi di guerre e di divisioni, di terremoti e carestie, di catastrofi cosmiche, e tutto questo nel segno di una grande subitaneità. Questo linguaggio è ampiamente presente nel discorso di Marco: non è il messaggio, ma semplicemente un mezzo espressivo che tenta di comunicarcelo. In nessun modo queste espressioni devono essere intese alla lettera».
Ma, dunque, se sono vere le annotazioni preliminari cha abbiamo fatto (se cioè l’escatologia biblica è un discorso sulla storia, un modo di leggerla e di assumerla e se il linguaggio apocalittico non coincide con il messaggio, tanto che in nessun modo queste espressioni devono essere intese alla lettera), sorge immediata la domanda riguardo a quale sia allora il messaggio sulla storia che – attraverso questo linguaggio sulle cose ultime – Marco sta proponendo…

In questo senso due paiono le certezze che emergono dal testo: innanzitutto il fatto che Gesù prevede tempi difficili e disorientanti per i suoi discepoli; ma, d’altro canto, che essi saranno accompagnati dalla venuta del Figlio dell’uomo.
A riprova di quanto dicevamo in precedenza, sull’attualità dell’annuncio escatologico (che parla del presente e non del futuro!), non possiamo negare che quella che il vangelo descrive come situazione “che deve avvenire”, “che accadrà in quei giorni”, in verità è la realtà della Chiesa di sempre, del presente di sempre della Chiesa, dell’umanità, di ciascuno: tempi difficili che mettono in discussione il senso dell’esistere – ma contemporaneo e cooriginario affidamento a un senso creduto certo! Quella che dunque immediatamente sembrava una riflessione per i tempi del dopo morte, diventa inaspettatamente un discorso sull’oggi, sulla struttura stessa della coscienza umana, del suo modo di stare al mondo… Essa infatti si trova sempre già ad avere a che fare con i “tempi difficili” e drammaticamente interrogata da essi sul senso del suo esserci, giocarsi, spendersi.
Questa è la trama di tutta la vita umana… l’aver intravisto una promessa di Vita a cui si è attaccato il cuore e l’imbattersi in continue e ripetute smentite di tale Vita… anche per Gesù è stato così. Non a caso Marco inserisce questo testo appena prima della passione di Gesù: lì infatti in maniera paradigmatica per tutta la storia della chiesa successiva, i tempi difficili si fanno intrinsecamente portatori del radicale interrogativo sul senso della vita, della vita di Dio!
Anche per la Chiesa sarà così – annuncia Gesù – anche per ciascun uomo che verrà dopo di Lui: la trama è la medesima…
Eppure in questo dramma, l’altro elemento che Gesù, con altrettanta forza, annuncia è la certezza della venuta del Figlio, la certezza dunque di un senso, di una verità, di una giustizia! Precisamente questo annuncio – che coincide con tutta la sua vita – è ciò che dischiude nuovamente – e nonostante tutte le disillusioni e i fallimenti della nostra Vita – la possibilità di un affidamento al senso, la possibilità del credere, la possibilità della fede… di quel dar credito che permette di guardare ai “tempi difficili” come a sequenze di un film, di cui non diventano mai l’anima. Esse possono far temere, trepidare, scoraggiare… ma non saranno mai la chiave interpretativa dell’interezza della vita, il cui polo gravitazionale – il senso – sta altrove… e cioè precisamente in quegli sprazzi di umanità amante e amata che si sono sperimentati.
In questo senso assume ancor maggior chiarezza l’indicazione preliminare che ponevamo rispetto al genere letterario apocalittico che caratterizza il vangelo di questa domenica: «L’escatologia biblica è un discorso sulla storia, un modo di leggerla e di assumerla. Questa è la sorprendente prospettiva biblica, interessante e concreta. Lo sguardo al futuro (cioè la rivelazione di ciò che sarà) rende importante il “presente” e offre un criterio di scelta e di valutazione. L’attenzione è, tutto sommato, rivolta al presente: il futuro offre un criterio di orientamento nel presente, ma è in questo presente che il futuro si gioca». Lo sguardo al futuro, è dunque solo un modo per parlare del presente, del mio decidere odierno di me stessa. Ma anche: per imparare a leggere il mio oggi, lo devo guardare come se lo guardassi dal domani; in qualche modo come se guardassi l’attuale scena del mio film, a partire dal finale, così come mirabilmente ha mostrato Henry David Thoreau, ripreso poi dal film “L’attimo fuggente”: Andai nei boschi perchè volevo vivere con saggezza e in profondità e succhiare tutto il midollo della vita, sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire in punto di morte che non ero vissuto.
E cos’è che alla fine, in punto di morte, ci eviterà di scoprire che non abbiamo vissuto? Io credo: che ci sia “lì” qualcuno che ci vuole bene… Tanto che forse, addirittura a pensarci bene, tutta la vita è la ricerca di due braccia che ci amano tra cui morire…
Chi ha vissuto in maniera esemplare questa intuizione di vivere guardandosi dalla fine, è ancora una volta Etty Hillesum, che mi permetto nuovamente di citare, soprattutto perché in questo caso ci si riferisce a testi inediti in italiano (non presenti – almeno non tutti – nella versione italiana del suo Diario) a cui lascio anche l’onere di concludere:
[Prima che Spier morisse] «Delle cose ultime, essenziali della vita e del dolore non si può parlare, la voce non ce la fa. Io comprendo tutto di te e tutto ciò che ti riguarda io lo porto con me ed ho ringraziato di nuovo Dio per il fatto che nella mia vita esista un uomo come te. Devi occuparti della tua salute; è il tuo primo sacro dovere se vuoi aiutare Dio. Un uomo come te, uno dei pochi ad essere una dimora autentica per un po’ di vita, un po’ di dolore, un po’ di Dio – i più infatti hanno tradito da tempo sia la vita che il dolore e Dio, per essi sono ormai soltanto suoni vuoti – ha il sacro dovere di mantenere, nel migliore dei modi possibili, il suo corpo, la sua “dimora terrena” in buono stato, per poter offrire a Dio ospitalità il più a lungo possibile. Manca ancora molto tempo alla fine. Anch’io mi occuperò di te. Ho così tanta forza, che tu puoi prendertela tutta e in me nasceranno nuove energie. Ti ho così infinitamente caro, la tua anima è così infinitamente cara alla mia. La mia anima di quando in quando vorrebbe giacere accanto alla tua, e questo a poco a poco non ha più nulla a che vedere col desiderio che una donna può provare per un uomo. A volte vorrei distendere il mio corpo nudo, così come Dio l’ha creato accanto al tuo corpo nudo, così come Dio ti ha creato, e ho soltanto la sensazione che la mia anima voglia coricarsi accanto alla tua. Se in questo periodo non si scoppia di tristezza, né dall’altro lato per autodifesa ci si indurisce e si diventa cinici o rassegnati, allora si diventa più dolci, più miti, più disperati, più comprensivi, più innamorati. Io so come tutto questo stia accadendo dentro di te e tu mi hai portata con te sul tuo cammino, ed io vivo insieme con te la stessa strada fino alla fine. La mia autenticità ed il mio amore hanno mille anni ed ogni giorno invecchiano di mille anni. Quest’epoca, come noi oggi la esperiamo, posso sopportarla, posso anche perdonare Dio per il fatto che vada come deve andare – il fatto è che si ha in sé tanto amore da riuscire a perdonare Dio!! E tu devi occuparti della tua salute e riposarti e riposarti, ora io non posso star molto vicina a te – col pensiero però sono sempre vicina a te – ma promettimi che avrai buona cura di te».
[Alla morte di Spier] «Ho scritto un giorno che volevo leggere la tua vita fino all’ultima pagina. È cosa fatta. L’ho letta fino in fondo. Mi sento colma di una gioia profonda: tutto ciò che è stato era sicuramente giusto, altrimenti non avrei dentro di me questa forza, questa gioia, questa certezza. Eccoti dunque coricato in questo piccolo bilocale, caro grande e buon amico. Ti ho scritto un giorno: il mio cuore volerà sempre verso di te come un uccello libero, ovunque io sia sulla terra, e ti troverà sempre. E c’è questo, che ho scritto sul diario di Tide: tu sei diventato un pezzo di cielo, nella mia vita, che si incurva sopra di me, e non devo far altro che alzare gli occhi al cielo per essere vicina a te. E anche se dovessi essere rinchiusa in una cella sotterranea, questo pezzo di cielo si dispiegherebbe in me, e il mio cuore, come un uccello, spiccherebbe il suo volo libero verso di lui, ecco perché tutto è così semplice, sai, terribilmente semplice, bello e ricco di significato». «Avevo ancora mille cose da chiederti e da imparare dalla tua bocca. Ormai dovrò cavarmela da sola. Sai, mi sento forte, sono persuasa di riuscire nella vita. Sei tu che hai liberato in me le forze di cui dispongo. Mi hai insegnato a pronunciare senza reticenza il nome di Dio. Hai fatto da mediatore tra Dio e me, ma adesso tu, il mediatore, ti sei ritirato, e il mio cammino porta ormai direttamente a Dio».
[Quando inizia a stringersi la morsa sulla comunità ebraica] «Sono accadute molte cose dentro di me, in questi ultimi giorni, ma esse hanno finito col cristallizzarsi attorno a un’idea: la nostra fine. L’ho guardata in faccia la nostra fine, probabilmente deplorevole, che si prospetta fin d’ora nelle piccole cose della vita ordinaria, e le ho fatto posto nel mio senso della vita, senza che questo ne sia uscito sminuito. Non sono né amara né ribelle, ho trionfato sul mio abbattimento e ignoro la rassegnazione. Continuo a progredire di giorno in giorno, senza più tanti ostacoli come una volta, pur considerando la prospettiva della nostra eliminazione… Affermo spesso di aver saldato i miei conti con la vita, perché l’eventualità della morte si è integrata nella mia vita. Guardare in faccia la morte e accettarla come parte integrante della vita, significa allargare questa vita. Al contrario, sacrificare fin d’ora, anche solo un pezzetto di questa vita alla morte, perché si ha paura e ci si rifiuta di accettarla, è il modo migliore per non conservare altro che un povero pezzettino di vita mutilata, che meriterebbe a malapena il nome di vita. Questo può sembrare paradossale: escludendo la morte dalla propria vita non si vive in pienezza, e accogliendo la morte, al centro della propria vita, si allarga e si arricchisce la propria esistenza».

Sembra la fine… ma è l’inizio di un mondo nuovo!

quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte
Linguaggio ‘apocalittico’ o libri ‘apocalittici’ sono chiamati dagli esegeti tutti quei testi che, al di là del significato etimologico della parola (togliere il velo, rivelare le cose nascoste) si riferiscono genericamente alla fine del mondo e ai segni, alle paure, ai giudizi divini … a tutto ciò che è connesso con la fine imminente di tutto. Nella Bibbia tali testi sono nati in momenti di persecuzione e conseguente crisi di senso e di identità del popolo di Israele, soprattutto nell’esilio babilonese (Geremia ed Ezechiele), nella persecuzione ellenista (Daniele) e nel tempo successivo alla distruzione di Gerusalemme (l’Apocalisse e alcune pagine dei nostri Vangeli). Anche il Vangelo di Mc, prima del racconto della passione di Gesù, ci presenta una sua piccola “Apocalisse”. La liturgia ha scelto di leggerne la seconda parte, ove si racconta che il Figlio dell’uomo verrà sulle nubi “dopo la grande afflizione …”: è la tribolazione di cui parlava Marco nei versetti precedenti: quei giorni saranno una tribolazione, quale non è mai stata dall’inizio della creazione, fatta da Dio, fino al presente, né mai vi sarà (19); quando vedrete l’abominio della desolazione stare là dove non conviene, – chi legge capisca (14) – … in quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà – e la luna non darà più il suo splendore – e gli astri si metteranno a cadere dal cielo – e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte( 24-25). … Parole oscure, perché, oltre al linguaggio apocalittico, sullo schermo della visione profetica, manca la prospettiva storica. Non c’è, infatti, distanza cronologica tra eventi che sono assemblati non per il loro svolgersi storico, ma perché hanno lo stesso significato di giudizio divino sulla storia. Così si sovrappongono, come implose in un unico dramma, diverse grandi tribolazioni di “questa generazione”, che ha visto in vario modo “l’abominio della desolazione stare dove non dovrebbe mai stare”! (14). Ha visto anzitutto la morte di Gesù (l’innocente “Figlio di Dio”, crocifisso sul legno maledetto); poi la distruzione di Gerusalemme e del Tempio (la città della pace e l’abitazione di Dio calpestate e dissacrate dagli eserciti pagani); quindi lo sgomento dei discepoli, sotto il peso della grande angoscia (la paura paralizzante al posto della fede vigilante…). Da qui il monito finale di Gesù, che illumina con la sua Parola la disperazione incombente sui discepoli: ma voi fate attenzione … a voi io ho predetto tutto (23). Non ha predetto il giorno della fine, perché quel giorno nessuno lo sa, non serve neanche saperlo! Ha predetto tutto ciò che ci serve per vivere il tempo presente, trasformando la grande tribolazione che ogni tempo contiene in opportunità di salvezza, in creazione nuova.
radunerà i suoi eletti dai quattro venti
Il Nuovo Testamento è infatti il racconto e la testimonianza della novità che è nata dalla grande tribolazione … C’erano comunità ebraiche e anche ebraico – cristiane che ritenevano la distruzione del tempio di Gerusalemme come la fine del mondo. E infatti essa determinò un collasso morale spaventoso, una ferita mortale. Gli Ebrei si dispersero nel mondo … cercando ancora fino ad oggi una loro difficile identità storica, una collocazione geografica, una sintesi culturale. I cristiani, illuminati dalle parole di Gesù, presero coscienza della loro diversità. Passeranno il cielo e la terra, cadrà il tempio, cadrà la legge, ma le parole del Signore Gesù non passeranno mai. La fine del sacerdozio, di cui dice la lettera agli Ebrei, per il mondo giudaico fu un vero sconvolgimento che segnò l’eclissi del tempio, dei sacrifici, della casta sacerdotale. I cristiani ne conclusero che in Gesù Cristo non c’è più bisogno di altri sacrifici, dopo il suo, che è l’offerta del suo corpo per noi – e del nostro, unito al suo. Il tempio di Dio si allarga ormai a tutto il mondo, che aspetta la liberazione totale dell’uomo, per essere liberato dalla sua intrinseca condanna alla corruzione. Questo è il tempo ultimo, non ne aspettiamo un altro, se non come compimento della “recente” venuta del Figlio dell’uomo… Nel nostro linguaggio ciò vuol dire che la salvezza avviene non per via di distruzione punitiva di questo mondo caduco, in vista di un altro purificato mondo di eletti, ma piuttosto che la salvezza è già avvenuta per via di un’incarnazione salvifica – ove la corporeità debole ed effimera del mondo è accolta e assunta dal Figlio dell’uomo, nella sua carne risuscitata, per fermentarla e trasfigurarla dal di dentro. I primi cristiani ne sono fermamente convinti:
. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. (Rom 8,19ss)
Cristo
sta aspettando ormai soltanto che i suoi nemici vengano posti sotto i suoi piedi …
Pur esprimendosi in termini apocalittici, ove anche le persone come gli astri e le potenze dei cieli sono spinte “fisicamente”(simbolicamente) ad adeguarsi alla volontà divina, il “vangelo” vede la storia che viviamo come un intreccio misterioso di tante “attese”. L’attesa impaziente del mondo che geme e soffre fino ad oggi … L’attesa di quelli che dormono nella regione della polvere e che si risveglieranno nel tempo della salvezza … L’attesa infine di Cristo stesso operante in noi – assiso alla destra di Dio, cioè nella certezza del compimento della sua missione – affinché tutti quelli che gli si oppongono nei sentieri difficili della storia, capiscano e si convertino a lui. Le attese sono tentate di trepidazione o anche delusione, per la sofferenza che il ritardo storico comporta. Ma questo è il prezzo della libertà umana, che ha bisogno di tempo per maturare l’accoglienza della “buona notizia”, il Vangelo, che ha fatto di questo nostro mondo il luogo e il tempo ultimo, quello della nostra salvezza. Non c’è “altro” e non c’è “dopo”… se non come compimento di quanto ci è donato già ora. Perché ormai il progetto di Dio è interno al mondo, seminato nel cuore di carne dell’umanità, come dice la stessa lettera agli Ebrei, nelle righe successive, riprendendo le promesse dei due grandi profeti dell’esilio: A noi lo testimonia anche lo Spirito Santo. Infatti, dopo aver detto: Questa è l’alleanza che io stipulerò con loro, dopo quei giorni, dice il Signore: io porrò le mie leggi nei loro cuori e le imprimerò nella loro mente, dice: e non mi ricorderò più dei loro peccati e delle loro iniquità – fratelli – poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente … accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, … Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso (Eb 10,15ss). L’apocalisse minacciosa diventa escatologia fiduciosa, cioè presenza attuale di ogni cosa ultima. L’entropia mortifera dell’universo si trasforma in gestazione del mondo nuovo, un travaglio nel quale noi dobbiamo essere protagonisti, ospitando nella nostra carne mortale, una tacita, pacifica e fraterna, “eucaristica” trasfigurazione del mondo e della storia, che tutta la creazione attende in empatia fremente per noi …
Imparate dal fico!
… perché non è tanto una fine, quest’inverno epocale che sembra paralizzare l’albero, ma l’accumulo laborioso di risorse e germogli per la primavera in arrivo: Gesù ci proibisce di affannarci a divinare i calendari del futuro per prevederne le scadenze distruttive (neanche il Figlio le conosce – conosce e annuncia solo la smisurata misericordia del Padre!). Ma ci invita a discernere con intelligenza premurosa, nel presente, i germogli anticipatori della salvezza, per accudirli e preparare la resurrezione promessa… Lo “impariamo” attraverso la vigilanza attenta a ciò che, già conquistato da Gesù, sta crescendo in fermenti di perdono, pace, fraternità … che Gesù chiamava Regno di Dio. Per il quale ha dato la sua vita. E sul quale ci ha comandato di giocare pure la nostra… Il momento presente, nonostante le angosce di tanti pessimisti, offre all’uomo maggiori possibilità di “ascesa” che il passato. Le applicazioni tecniche ci danno possibilità di tali e tante relazioni intense e contemporanee che ieri erano sognate solo nelle favole … per liberarci da ogni angustia di provincialismo, razziale e religioso, scoprendoci fratelli in ogni latitudine e sotto qualsiasi colore di pelle … per costruire con pazienza instancabile un mondo nuovo. Questo è il senso del messaggio apocalittico: le leggi inflessibili della coesione fisica, dell’armonia astronomica, della quiete invincibile dei cimiteri, dell’alterità insuperabile del sacro e del profano … le leggi che ci ingabbiano l’uomo nella necessità di “finire”, chiudendolo nella sua destinazione mortale, e lo tentano di disperazione e amarezza, sono messe drammaticamente in crisi, di fronte alla morte e risurrezione del Figlio dell’uomo … Nelle loro crepe nascono germogli profetici, impercettibili e misteriosi, ma esplosivi. Per cui Gesù raccomanda: “fate attenzione, vegliate” (Mc 13,33).

giovedì 12 novembre 2009

Immunità? C'è già!

Pietro Perugino nel Collegio del Cambio a Perugia: Allegoria della Prudenza e della Giustizia
Ecco cosa dice la legge costituzionale attualmente in vigore (modificata con legge costituzionale del 29 ottobre 1993, n. 3)... Se questa non è immunità che cosa è? A meno che si voglia l'impunità!

Art. 68.
I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni.
Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell'atto di commettere un delitto per il quale è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza.
Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazione, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza.
(fonte LaStampa)

venerdì 6 novembre 2009

Atei per amore

Le protagoniste di questa trentaduesima domenica del tempo ordinario, sono due vedove, quella di Sarepta e quella che Gesù vede nel tempio di Gerusalemme; due donne dunque; due donne povere; due donne sole; due donne emarginate… eppure, proprio loro diventano i personaggi principali di alcuni dei passi fondamentali del racconto biblico (il ciclo di Elia, il vangelo…).
Anche se forse ormai siamo un po’ abituati a questi stravolgimenti che la prospettiva biblica insinua dentro alla logica consueta in cui l’uomo vive, ragiona e giudica, non possiamo non tener desta l’attenzione e cogliere – con immenso stupore – la radicalità della scelta proprio di questi personaggi come rappresentanti emblematici della storia della fede di un popolo (Israele, prima; l’umanità intera, poi) e soprattutto non possiamo non far la fatica di andare a tentare di capire cosa voglia dire porre la vedova che «gettò due monetine», come esempio di autentica vita umana, in contrapposizione allo stile degli scribi…
Ciò che in particolare colpisce è lo stretto legame tra gli episodi concreti di queste donne che vengono raccontati nel testo biblico e il riferimento alla totalità della vita e della morte che attraversa le narrazioni delle loro storie: la vedova di Sarepta infatti dice «Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo» dove in questo “e poi moriremo” è contenuta tutta la radicalità della situazione che sta vivendo, della tragedia che la attraversa, della totalità chiamata in causa, la vita, la morte, l’esserci il non esserci, l’esistere, il morire…; della vedova del tempio, Gesù invece sottolinea come mentre gli altri gettavano nel tesoro del loro superfluo, lei «vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere», letteralmente “tutta la sua vita”…
Questa capacità tipicamente femminile di dare “tutta la propria vita” per ciò che si ama, mi ha fatto venire in mente una frase che spesso ripete mio fratello: “Una donna quando ama, diventa atea”… intendendo con ciò sottolineare come, mentre una certa modalità maschile, tende sempre – in qualche modo ad approcciarsi al reale che vive con una mentalità calcolatrice – una donna – laddove ama e lo fa veramente – non trova nessuna norma superiore alla dedizione totale dell’amore: nemmeno dio… ecco perché atea…
Questo emerge in maniera evidente nel racconto della triste storia della maga Circe che Concita De Gregorio ha mirabilmente rinarrato nel suo Malamore: «Si sa che i bambini vogliono sentire sempre la stessa storia. Questa poi è magnifica: racconta di una donna bellissima e anche orribile, a pensarci bene, orribile perché faceva paura. Una maga triste. […] Era diventata cattiva perché non voleva più stare sola, era disperata, tutti le davano dei baci, le dicevano: come si sta bene con te, si sta proprio benissimo come in paradiso. Poi se ne andavano, però. Dopo un po’ la salutavano e partivano. A volte non la salutavano nemmeno, partivano di notte senza dirle niente, così la mattina lei si svegliava e non trovava nessuno. […] Così lei restava di nuovo sola e alla fine si arrabbiava tantissimo, ma tantissimo. Allora faceva le magie.
[…] Euriloco era talmente terrorizzato che non riusciva a parlare. Quando alla fine si era calmato e Ulisse gli aveva di nuovo chiesto chi ci fosse in quella casetta in mezzo all’isola dove erano approdati, Euriloco aveva detto poche e chiare parole: una maga orribile e cattiva. “E che genere di magie farebbe?” aveva domandato Ulisse. “Magie del genere sparizioni e misteriose trasformazioni”. “Ah!” aveva detto Ulisse. […] Siccome tutte le volte che aveva mandato in perlustrazione due uomini e l’araldo, che poi sarebbe l’ambasciatore, era finita che qualcuno se li era mangiati, stavolta Ulisse decise di fare due gruppi di uomini e di tirare a sorte. Il primo gruppo l’avrebbe comandato lui e l’altro Euriloco, il suo uomo migliore, il capitano in seconda. Un gruppo sarebbe rimasto a fare la guardia alla nave, l’altro sarebbe andato a vedere chi c’era nella casetta. Toccò a Euriloco. Non che ne fosse molto contento, però era andato. E il giorno dopo era tornato da solo in preda al terrore. Euriloco era arrivato alla casa con venti uomini, avevano visto i leoni e i lupi che ci giravano intorno ma la cosa strana è che le bestie feroci non li avevano aggrediti, anzi: gli scodinzolavano intorno, come cani addomesticati quando accolgono il padrone. Bussarono alla porta e chiesero permesso. Un’ancella molto bella gli venne incontro e aprì la porta. Poi andò a chiamare la padrona di casa. E arrivò Circe.
Questa storia che Circe fosse una maga orribile e cattiva non è che sia proprio esatta. Tanto per cominciare non era affatto orribile, anzi era molto bella. Ma molto bella. Euriloco e i suoi rimasero a bocca aperta non appena la videro. È questa la prima cosa che andrebbe detta di Circe, che era una donna bellissima. Talmente bella che i nostri non riuscirono a trattenersi dall’entrare in casa sua, non appena lei li invitò. Tranne Euriloco, che di donne belle ne sapeva qualcosa e quindi rimase in disparte, si nascose dietro la casa e osservò tutta la scena. Lei gli dà da bere una pozione e li trasforma! […] In maiali. […] Qualcuno grugnì, a qualcuno spuntarono delle setole al posto dei peli sulle braccia, poi gli uscì fuori una coda arricciata e un muso da maiale. La magia le era venuta alla perfezione, Circe era molto soddisfatta. Anche stavolta quegli uomini non l’avrebbero lasciata e, come gli altri, trasformati in lupi o leoni, sarebbero rimasti a proteggerla e a farle compagnia su quell’isola sperduta. Euriloco si era preso un bello spavento a vedere i suoi compagni tramutati in maiali. Era tornato di gran corsa verso la nave. E aveva raccontato tutto a Ulisse. […] Ora ci va lui.
Sentì un rumore alle sue spalle, come di foglie, come il fruscio di un paio d’ali. Allora si fermò, si mise in ginocchio e chinò la testa. Aveva capito che quello era Ermes, dio dei ladri, poeta e fingitore e, cosa più importante di tutte, messaggero di Zeus. […] “Dove vai così di fretta, Odisseo?” disse Ermes. […] “Da Circe, la maga, mio signore” rispose Ulisse. […] “È una maga pericolosa, Circe” disse Ermes dai sandali alati. “Ma non è cattiva, e nemmeno orribile. Anzi, vedrai che è molto bella, molto. Lei vorrà darti da bere una pozione magica per trasformarti in qualche bestia selvatica. Perché vuole che restiate qui. Si sente sola, tutti gli uomini che vengono da lei poi scappano. Forse perché è troppo bella, o perché è un po’ magica… va be’, comunque tu prendi questa erba e mangiala, vedrai che la sua pozione non funzionerà. Lei allora vorrà stare con te, vorrà amarti. Tu fallo, lei merita il tuo amore. Ma falle promettere che poi libererà tutti i tuoi compagni. Devi essere molto furbo e deciso con lei, ma nello stesso tempo devi volerle molto bene. E Ulisse va [e] bussa alla sua porta.
Circe era davvero molto bella. E non sembrava neppure troppo cattiva. Certo era una donna determinata e, come aveva detto Ermes, c’era qualcosa di magico in lei, qualcosa che può fare anche un po’ paura. Ulisse fece come aveva detto Ermes e la pozione magica di Circe non funzionò. Lei all’inizio rimase abbastanza stupita, poi cominciò a fare gli occhi dolci e a cercare di incantare Ulisse. Allora lui tirò fuori la sua spada e la puntò verso il petto di Circe. “Tu adesso” le disse “devi liberare i miei compagni e trattarci come ospiti di riguardo”. Lei lo guardò spiazzata, non era abituata ad avere di fronte uomini così determinati e sicuri di sé. Allora Ulisse vide che non era poi troppo cattiva, e vide che in fondo ai suoi occhi c’era una grande dolcezza. Lasciò cadere la spada e la baciò. Circe e Ulisse stettero insieme un anno intero. […] Stettero molto bene. Avevano da mangiare, da bere, andavano a caccia, giocavano a dadi e ogni tanto andavano anche al mare. Le ancelle di Circe accudirono con molta attenzione i compagni di Ulisse. E Circe accudì Ulisse. La sera, spesso lui andava a guardare il mare dalle scogliere. E pensava alla sua casa e a Itaca. Però dopo un po’ Circe lo raggiungeva e cercava di distrarlo, insieme passeggiavano per i giardini dell’isola e parlavano. Si stava bene con Circe, era una donna molto intelligente, ed era molto divertente parlare con lei, non ci si annoiava. Ulisse raccontava della guerra di Troia, Circe degli dei e delle loro storie, e parlavano finché il sole non si era del tutto nascosto dietro il mare color del vino. Erano felici.
[Ma] Ulisse se ne andò e Circe restò di nuovo sola nella sua isola…». Vedova, anche lei!
Certo la storia di Circe è molto diversa da quella delle altre due vedove, soprattutto da quella del vangelo… eppure a sentirla, anche questa fa venire un po’ di giramento di pancia nel notare quanto, colei che abbiamo sempre considerato la cattiva di turno, in realtà era solo una donna che voleva amare… che dunque voleva dare la sua vita… una vita che nessuno era disposto a prendere, ma che indubbiamente rimanda alla stessa disposizione interiore delle due vedove delle letture, a dare la loro vita per amore e a darsi in modo talmente radicale da risultare atee, senza nessun dio, se non l’amato!
E – inaspettatamente – Gesù addita proprio questo lato del cuore femminile come quello giusto con cui stare al mondo! Non a caso è lo stesso che incarnerà a sua volta solo poche pagine dopo, morendo in croce per amore dell’umanità, senza dio… Di un dio che norma l’incondizionata dedizione dell’amore anche lui infatti è ateo! Mentre di una donna che dà incondizionatamente la sua vita per ciò che ama… beh… in quella dedizione lì, Egli ha riconosciuto il “suo Dio”!

Il sogno di Gesù per la sua chiesa

Gesù sta avvicinandosi alla conclusione (l’esodo) della sua avventura umana, a Gerusalemme e, man mano che espone sempre più chiaramente alle folle il suo “vangelo”, – come abbiamo potuto ascoltare nelle ultime domeniche – il conflitto con gli scribi, i farisei e i capi del popolo si fa più violento, perché questi sono gli unici che ne capiscono bene la drammatica alternativa al loro insegnamento e ancor più al loro comportamento: Lo udirono i capi dei sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo di farlo morire. Avevano infatti paura di lui, perché tutta la folla era stupita del suo insegnamento (Mc 11,18). Gesù ha proposto con disarmata radicalità le esigenze “smisurate” del Regno nell’intimo delle dimensioni costitutive dell’uomo: dal conflitto sessuale si esce solo per fedeltà, dal conflitto economico si esce solo per comunione, dal conflitto per il potere si esce solo per servizio, come ha fatto il figlio dell’uomo …. Poi ha simbolicamente esautorato il tempio, divenuto un fico sterile e una spelonca di ladroni, indicando nel cuore dell’uomo la “casa” dell’incontro col Padre suo. Ha quindi ripreso e completato il comandamento “primo” sottolineandone la connessione essenziale col secondo: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza, e il prossimo tuo come te stesso (12,29s).É una questione di amore! Ma adesso, che il tempo del suo insegnamento è alla fine, davanti all’ostilità omicida della classe dirigente e all’incomprensione tonta dei discepoli, come spiegare cosa vuol dire “amare”?
Una donna, vedova e sola, gli viene in aiuto!
Lei non poteva neanche entrare nel tempio, ma solo nei dintorni consentiti alle donne. Chissà quante volte ha visto, sentito, sofferto che i capi preferissero passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti e … . divorare le case delle vedove, piuttosto che occuparsi dell’istruzione e assistenza al popolo. Era appunto anche lei una di queste vedove abbandonate e depredate, la categorie forse più ferita dalla precarietà estrema, priva di ogni sostegno! Dove avrà imparato una tale “totale” capacità di amore e affidamento? In lei si è condensato l’amore che Gesù andava inutilmente predicando da anni: In verità, vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri…. tutti gettarono dal loro superfluo, ma costei dalla sua miseria, gettò tutto quanto aveva, l’intera sua vita! È lei che ha esautorato il tempio da cui era esclusa e si e collocata nel cuore del Regno di Dio. Proprio una povera vedova, istituzionalmente “incompiuta” senza rimedio – come donna, come povera, come vedova, come analfabeta di cultura e di genere, incapace di valore testimoniale, inabile ad una autonoma preghiera o lettura delle Scritture … scopre che non in queste cose sta il cuore della nuova dinamica del Regno: ma nel donare tutt’intera la propria vita all’amore. L’amore è indivisibile, anche se l’apparenza aritmetica potrebbe suggerirne la parcellizzazione a settori (non a caso, infatti, aveva in mano due spiccioli, e avrebbe potuto darne uno al tempio e l’altro tenerlo per sé, ma dona tutt’e due!). Gesù ne è commosso. Aveva da poco detto a Bartimeo di Gerico, come a tanti altri e altre prima di lui: la tua fede ti ha salvato! Ma qui, chiamati a sé i suoi discepoli, vuol che assistano ad un evento nuovo: il suo amore “smisurato” l’ha salvata – e questo dovranno imparare se vogliono amare come lui ci ha amati!
… il sogno di Gesù
Lì, credo, di fronte a questa vedova, il Signore ha fatto il suo sogno più ardito, come vedesse realizzato l’anelito che in tutta la sua vita di messia e maestro non aveva ancora visto realizzare. In questa povera donna ha sognato la sua chiesa, presto vedova e spaventata, senza appoggi, dispersa come un gregge senza guida, magari in balia di pastori vili o incapaci, ma sempre umilmente irremovibile nel suo amore fedele, nell’affidamento totale al suo Signore – perché, pur dentro le prove e le ferite della storia, la sua vita tutt’intera rimaneva donata a lui! Affascinato da questa donna, Gesù vuol coinvolgere i discepoli in questo grande evento (pur impercettibile ai più). Come a dire: c’è qui davanti uno (una!) che è capace già adesso di ciò che dovrete imparare anche voi, per essere miei discepoli: “donare tutta la propria vita”. Questa povera vedova è dunque già sacerdote del nuovo tempio, non costruito da mani d’uomo. È protagonista di una nuova dinamica di salvezza, ignota agli uomini del tempio, perché è “amicizia” in Cristo che adesso verrà nella storia non solo e non più “in relazione al peccato”, ma, come suggerisce la lettera agli Ebrei, ormai spinto solo dalla predilezione di amore che lo coinvolge con noi! È la nuova alleanza predetta dai profeti! Gesù la scopre già in atto di fronte a Dio, nella vedova che ha davanti, discepola inconsapevole di quell’altra vedova di Sarepta (per di più straniera!), sua antenata spirituale, che offrì a Elia, il più grande profeta, la farina e l’olio della sua sopravvivenza. Gesù ha meditato, pregato e vissuto le Scritture, prima di spiegarcele (sa che parlavano di lui! “bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi” Lc 24,44). Ha capito il messaggio profetico di queste vedove che hanno donato tutto quanto avevano, tutta l’intera vita. Ancora di più: intuisce e sperimenta che, nelle mani della due vedove, il dono di tutto ciò che hanno (farina e olio, spiccioli e … la vita intera) fa diventare inesauribile ed eterno (cioè eucaristico) il dono stesso, per quanto piccolo e insignificante nella grande storia. Anzi, sarà questa dinamica che fermenterà la storia
“Se comprendiamo che questa è la legge profonda del mistero dell’esistenza, un rinnovarsi continuo, un andare avanti continuo, un gettare sempre oltre i confini la nostra vita, allora possiamo vivere con più pace, con più serenità e con più partecipazione al mistero di morte e di risurrezione che è il mistero cristiano, il mistero di Cristo e il mistero della nostra vita di uomini. Noi cristiani siamo chiamati a vivere la nostra vita con piena partecipazione e con una continua apertura alle realtà che avvengono nell’esistenza di cui facciamo parte. Perché noi ci possiamo chiudere, possiamo costruire tutti i nostri edifici, possiamo costruire le nostre società di assicurazione più perfette, possiamo costruire gli imperi più grandi e all’apparenza più duraturi, e poi improvvisamente si solleva un soffio misterioso nella coscienza di tutti gli uomini, che travolge tutte le nostre strutture più perfette. Quante cose abbiamo visto tramontare durante la nostra esistenza, e le credevamo permanentichi ritiene avidamente la propria vita, la perde; chi getta la propria vita, la trova, potenziata, per una risurrezione e per un rinnovamento di vita!”(G. Vannucci)
Il senso della chiesa … è nel dono/sfida di un amore nuovo, gratuito e indivisibile
Il cristiano che, per conoscenza delle Scritture, ma soprattutto per esperienza, ha capito e assaggiato il senso dell’eternità (eucaristica) a lui promessa e partecipata dal Signore Gesù, diviene capace di un’altro atteggiamento verso il tempo, lo spazio e le loro “egoistiche” esigenze di sopravvivenza a tutti i costi, sulle quali in genere l’uomo è ricattato! Solo colui che è fedele, umilmente radicato, ma con tensione inscindibile, all’avventura di Gesù e del suo vangelo, si sbilancia dal proprio baricentro, per tuffarsi nell’essenzialità del regno di Dio!senza farsi tanti perché,ma con tutto il cuore, l’anima, la mente, le forze … Qualcuno ci arriverà quasi inconsapevole, come il contadino ignaro che trova il tesoro nel campo. Altri invece per appassionata ricerca, come il mercante di perle. Solo un’esperienza del genere può comunque spiegare la radicalità e totalità della dedizione della vedova, che sorprende Gesù, perché ci vede la “propria” esperienza: Li amò sino alla fine. L’azione umana infatti ha una qualità diversa da ogni altro frammento di energia dell’universo: è capace di diminuire o dilatare l’amore, cioè di assorbire e storicizzare la benevolenza del Padre creatore, che impregna il mondo. Ogni azione umana, dunque, crea continuamente dei vuoti e dei pieni, apre spazi e possibilità nuove all’amore, a seconda che accoglie o frena le occasioni di amore. Meno l’uomo, dominato dalla paura di morire, tiene per sé, più fa un vuoto dentro si sé, che è subito occupato dall’amore: perché apre energie e risorse nel suo cuore e nei suoi beni, per la crescita dell’altro. “Se le nostre azioni, le nostre opere di cristiani – della chiesa – sono contrassegnate dall’apertura ad una assoluta gratuità, questa stabilirà un continuo flusso di bene e di grazia tra il cielo e noi. E ci libererà da tutte quelle solidificazioni create dall’ambizione vanitosa di porre una finalità alle nostre azioni, anche a quelle che riteniamo più conformi alle qualità cristiane. Amiamo «per», preghiamo «per», facciamo delle opere sociali «per»; motivare l’amore non è amare, avere una ragione per donare non è dono puro, avere una motivazione per pregare non è preghiera (id).
Infatti Dio ci ama perché ci ama – cioè perché ci vuol bene!
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