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venerdì 30 ottobre 2009

Santo secondo il calendario o secondo il vangelo?

Le letture che la Chiesa ci propone in questa trentunesima domenica del tempo ordinario, non sono quelle consuete, riportate cioè dal messale alla voce “XXXI domenica del tempo ordinario”, bensì quelle che fanno riferimento alla festa di tutti i santi. Tale solennità infatti – che quest’anno ricorre proprio di domenica – è una delle poche, ritenute talmente importanti, da sostituire l’abituale liturgia domenicale.
Tale importanza, è presto spiegata, ricordando come questa festa implichi la memoria di tutti i santi che la storia della Chiesa ha prodotto, dunque la convocazione di tutto l’insieme di “uomini perfetti” che 2000 e più anni di vicenda cristiana hanno visto sfilare sul palcoscenico dell’umanità.
Questa ampia schiera di gente riuscita – le cui gesta e irreprensibilità sono ben note a tutti – suscita immediatamente grande reverenza e timoroso rispetto, soprattutto perché richiamano – almeno per come li presentano gli agiografi – toni eroici e note sovra umane (tipo super-man, il super-uomo appunto) per noi assolutamente impensabili e di certo irraggiungibili…
Paradossalmente però, a fronte di questa grande ammirazione, proprio la loro irraggiungibilità, li rende in qualche modo “fuori dalla realtà”, superflui, quasi inutili: se non possiamo far molto altro che venerarli, perché somigliargli è difficile ed eguagliarli impossibile, ad un certo punto non resta che appenderli a qualche muro, metterli su qualche mensola e lasciarli lì a prender polvere…
Rispetto alle nostre storie contorte e travagliate, problematiche e a volte tragiche, faticose e indaffarate, hanno infatti davvero poco da dire…
Inoltre – sempre che questo possa essere detto di un santo, anzi di tutti i santi – hanno il piccolo difetto di non suscitare nemmeno più grandi entusiasmi… Non solo la loro irraggiungibilità ha fatto rinunciare i più a incamminarsi sulla via della loro sequela, ma – tra le nuove generazioni – le loro scelte risultano quasi incomprensibili, le loro storie strane… fanno quasi ridere e di certo non accendono l’ardore di imitarli in nessuno…
Sarà colpa dei santi? Incartapecoriti nel loro perbenismo?


O forse sarà colpa di quel lento, ma progressivo scivolamento verso l’imbalsamazione affettiva che le loro storie, in realtà pienamente umane, carnali, fatte di sudore e sangue, come le nostre, hanno lentamente subito quando si è deciso di innalzarli agli onori degli altari?
Perché, stando all’effettività della storia, uno non diventa mai santo da solo: e non semplicemente nel senso che la santità è un dono di Dio, che uno per diventare santo deve aver avuto genitori santi, ecc… ecc… ecc… Ma molto più concretamente, perché, per finire sul calendario, ciascun santo ha avuto bisogno di almeno un altro uomo che gli riconoscesse questa sua santità.
In altre parole: chi ha vissuto accanto a quegli uomini e a quelle donne che noi domenica ricordiamo come i santi e le sante della storia della Chiesa, non può averne ricevuto il rimando asettico che spesso le loro storie – riviste e corrotte da chi le ha redatte – suscitano in noi. Questi sono uomini e donne capaci di dare la vita, di pensare modi inediti di vivere il vangelo, di scontrarsi con le gerarchie, di essere lasciati soli, di smuovere la coscienza di intere generazioni (pensiamo all’immensa diffusione della proposta di vita di san Francesco, con lui ancora vivente; o al pullulare di monasteri carmelitani riformati con santa Teresa di Gesù; o all’adesione alla cura per i giovani suscitata da san Giovanni Bosco, per citare solo i più famosi)… Nelle diversissime modalità della loro santità, questi sono quindi uomini e donne che hanno creato intorno a sé fervore e passione, ardore e coraggio, amore e dedizione… almeno in quelle persone che – alla loro morte – hanno iniziato a dire: “Questo merita davvero di essere additato come esempio di vita cristiana”…
Tra l’altro – come sta a ricordarci il vangelo delle beatitudini di Mt 5 («Beati i poveri in spirito… Beati gli afflitti… Beati i perseguitati per causa della giustizia) – non perché risultassero “riusciti” (quanti sono morti soli, uccisi, senza vedere i frutti del loro spendersi… quanti hanno indossato stracci, dormito per strada, saltato i pasti… quanti sono stati incompresi, reietti, processati…), ma perché – guardati dall’impensabile sguardo amoroso di Dio – hanno iniziato a guardare con gli stessi occhi anche la gente e il mondo… e qualcuno se n’è accorto…
Infatti, quando Gesù chiama beati quelli che ha di fronte e attribuisce tale “titolo” ai diseredati della terra, sta dicendo qualcosa di molto lontano da quello che le rivisitazioni e agiografie pie dei santi ci insegnano… e sta invece dicendo qualcosa a cui le vite reali di questi uomini e donne che noi chiamiamo santi, si approssima molto: nelle beatitudini infatti Gesù sta presentando il mondo come Dio lo vede…
Il problema infatti sta tutto nella logica che conduce a chiamare uno “santo” o “beato”. È evidente che se per me “beato” è uno che ha tanti soldi, sto usando una logica diversa che se chiamo “beato” uno che di soldi non ne ha nemmeno mezzo… così come è diversa la prospettiva di chi chiama “santo” uno che passa l’esistenza a mortificare le sue passioni, rispetto a quella di chi attribuisce tale qualifica a uno che si dedica ai drammi dei derelitti della terra…
In questo senso, non possono avere alle spalle la stessa logica, i santi presentati nei nostri calendari, con i beati che sta individuando Gesù sulla montagna… Ma la domanda vera è: i santi veri – non il racconto della loro vita che ne hanno fatto poi – assomigliano di più alla logica di Gesù o a quella del calendario? E soprattutto perché si è preferito portare avanti la prospettiva “da calendario”, nel raccontare le loro vite, piuttosto che quella evangelica, che invece incarnavano (preferenza che nessuno può negare e che sarebbe immediatamente dimostrabile uscendo per strada e intervistando sul concetto di “santità/beatitudine” le prime persone che si incontrano)? Perché, cioè, si è preferito l’ideale stoico a quello del discorso della montagna?
Forse perché ad un certo punto insegnare che per Gesù (dunque per Dio) “beati” fossero gli incompiuti è sembrato davvero troppo paradossale; troppo difficile da comprendere; troppo immorale da proporre… si è di certo pensato che Gesù, lì, ragionasse “per iperbole”, che usasse cioè queste categorie estreme, per dare invece ben più applicabili consigli morali… e pian piano si è iniziato a depotenziare – quasi senza accorgersene – il carattere eversivo della proposta evangelica.
Gesù infatti, con quel suo discorso, ben più che dare consiglietti morali, voleva invece rompere con la logica mondana, per cui i “beati” sono i ricchi; ma anche con la logica religiosa, per cui i “beati” sono gli irreprensibili, gli stoici, gli im-passibili, i pii… esattamente quelli che invece tutti abbiamo presenti perché continuamente ripresentati su quelli che – non a caso – si chiamano “santini”… quegli uomini e donne con l’aureola, il giglio bianco e le mani congiunte in preghiera…
Gesù cioè, sia verso il mondo, sia verso la religione (che è solo una riproposizione indorata/incensata della logica del mondo), ha rotto con la prospettiva per cui “beato” è chi riesce a tirarsi fuori dalla condizione umana: o perché – mondanamente – è fuori dalla viscosità fangosa in cui stanno gli altri (i ricchi, i potenti, i dominatori…); o perché – spiritualmente – si “elevano”, cioè si tolgono dalla condizione in cui tutti gli altri si trovano (gli asceti, gli eremiti, i sacerdoti…).
Per lui piuttosto, “beati”, sono coloro che nella loro condizione umanamente umana ci stanno; coloro che non vogliono tirarsi fuori da ciò che sono; che non vogliono essere ciò che non sono; essere dei per dominare sugli altri. Ma che riconoscono che nel loro essere uomini e donne non manca niente per essere beati!
E Gesù ha creduto talmente questa cosa, che lui –che era Dio – si è immerso in questa umanità umana… insegnando all’uomo che per fare l’uomo non c’è bisogno di diventare dio; e che “essere Dio” – quello vero – vuol dire far essere l’uomo, uomo!
E i santi sono santi precisamente perché hanno colto ed incarnato questo! Non perché erano “santini”, come voleva ridurli una certa prospettiva ecclesiastica, che in questo modo disinnescava il detonatore della proposta evangelica di Gesù che metteva in discussione il loro essere fuori dalla storia, sopra gli altri; ma perché – immersi nella storia del loro tempo – l’hanno saputa guardare e abitare con lo sguardo del Padre.

Una moltitudine innumerevole… e gridavano: la salvezza vien da Dio… e dall’Agnello!

…già fin d’ora siamo figli di Dio!
Vorrei tentare di trovare una risposta a una grave domanda che ci vien posta dal nostro tempo: «È possibile esser santi oggi?» e se sì: «Qual è la forma di santità possibile nel nostro tempo?». Comincio col precisare il concetto di santità e di santo, seguendo, naturalmente, quello che l’esperienza vissuta del Mistero divino può dirci. In tutti i tempi si è sempre ritenuto che Dio potesse compiacersi di qualche mortale, colmarlo di doni e favori speciali, così da separarlo dai suoi simili e da porlo in una situazione più vicina a Lui stesso. Anzi, si finì per ritenere il prescelto come un valido intercessore presso la divinità; si pensi, per rimanere nell’ambito della nostra religiosità, alle figure di Abramo, di Mosè, di Elia.
Questa scelta fatta da Dio nei confronti di un mortale fu chiamata santificazione, e santità la qualità peculiare che lo rendeva differente, separato, in una posizione di privilegio, dai suoi simili. A seconda dei tempi, delle idee religiose, le qualità che rendevano preferito un mortale di fronte alla divinità sono differenti. Uno Sciamano è differente da un Profeta, uno Stregone da un Santo indù; con il raffinarsi dell’intelletto d’amore, del senso morale, il concetto di santità fu individuato nella virtù, nella dedizione all’affermazione dei diritti dello spirito sopra la materia, nello sforzo costante e tenace per esprimere più e meglio l’interiore somiglianza divina, impressa in ogni uomo come un sigillo di predestinazione. Vale a dire: l’uomo deve compiersi in Dio, deve ascendere a Dio per poter assumere fino a Lui la materna materia. La santità è perciò la separazione dalla natura bruta. L’uomo è per sua natura predestinato alla santificazione e alla santità. Lentamente, ma sicuramente, assurgerà ad esse, anche suo malgrado. «La parola di Dio non torna alla sua sorgente senza aver recato i suoi frutti» (Is 55, 10)
[G. Vannucci].

… l’uomo – dunque – deve compiersi in Dio, deve ascendere a Dio per poter assumere fino a Lui la materna materia nella quale è nato e cresce… Che lo sappia o meno, questo è l’anelito che lo preme da dentro, che non lo lascia in pace, che lo spinge a cercare fuori di sé (che non è altrove dall’intimo di sé) ciò che soddisfi il suo desiderio senza confini. Bisogna che si accorga e si convinca attraverso dolorose frustrazioni, che nessuna “materia”, fatta di spazio e di tempo e di energia, nessun oggetto, neanche vivo e umano come lui, può chiudere l’orizzonte della sua fame di essere … perché bramerà sempre altro ancora, e dopo ancora altro, e ancora più compiuto. Una tensione viva e incoercibile sgorga dalle sorgenti profonde dell’uomo di carne e materia e lo affama di trascendenza o di ascesa o di compimento di sé. Alla responsabilità del singolo, ma in comunione intensa e solidale con ogni vivente, Gesù ha annunciato, davanti ad una folla di gente povera e semplice, le sue BEATITUDINI, le linee guida per leggere la santità nella storia, impregnate del lungo cammino biblico, ma inestirpabili dal cuore pur devastato di ogni uomo. Ed ha così sconvolto per sempre ogni schema o modello religioso o filosofico di “santità”! Queste situazioni esistenziali scelte o accolte sono adesso la “santità” nel Regno del Padre, che abita e si respira nella storia. Non sulle vette del pensiero o della ascesi eroica, ma dentro lo spessore pesante dell’umile storia delle faccende e sofferenze quotidiane sta il crinale basso dove si incontrano o si scontrano le scelte operative, le relazioni affettive, religiose, politiche, sociali, educative, professionali … di umilissima qualità divina, proposte da Gesù e inventate e suggerite dal suo Spirito dentro la nostra vita. Riguardano tutti noi fragili e incompiuti … ma sono l’augurio del Padre che ci coinvolge nel suo progetto di pienezza donata, sono le sue congratulazioni per la strada intrapresa, sono la sua empatia per le situazioni di dolore redentore. E dentro di loro che emerge l’invincibile spinta propulsiva del bene (o dell’essere), nel cuore dell’universo, ma soprattutto – data la sua consapevolezza e la sua libertà di unico vero interlocutore di Dio – nel cuore dell’uomo, come benevolenza del Padre, che vuole salvi, cioè “compiuti”, tutti i suoi figli, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Una benevolenza operativa che, nel cammino del tempo, ci preme dal presente al futuro, dal desiderio al compimento, dalla sofferenza alla pienezza della gioia. Da qui provengono le beatitudini! Seme e fermento, dono e conquista, profondamente umane e dono inaccessibile alle sole nostre forze … Le condizioni fertili della vita storica dell’uomo, secondo Gesù, che le ha sperimentate nella sua vita e ne ha fatto la proposta esistenziale per i suoi discepoli, non solo per sé (non è possibile una compiutezza per sé senza amore di relazione), ma per un coinvolgimento di salvezza di tutto il mondo: L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo (Rom 8,19ss).
… ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato.
Questa attesa di tutto l’universo, che attraverso la redenzione del corpo dell’uomo, spera nella propria liberazione, è dunque scandita dalle Beatitudini. “Santo” (cioè, nel vangelo, discepolo di Gesù!) è colui che si apre ad esse, perché in lui è scoccata la scintilla “divina”, la mozione dello Spirito che animava Gesù, il germe della seconda nascita, il punto impercettibile di contatto con l’assoluto, di cui magari neppure s’accorge, mentre si libera dalla paura di morire, propria della carne, con tutti i suoi residui di egocentrismo competitivo e aggressivo che la natura e la cultura del mondo in cui siamo cresciuti ci ha istillati, come legge universale di difesa armata della propria vita. Seguire Cristo vuol dire tendere ad una giustizia differente da quella della carne e del sangue. Esistono infatti due giustizie: quella della materia (o ‘carne’, direbbe S. Paolo) che è la legge del taglione, sempre comunque la sopraffazione del più forte; e la giustizia del cielo (quella del Padre), che è lo slancio dell’Amore, che reinventa le relazioni dell’uomo nella storia: la via crucis feconda delle beatitudini. Non è una via per specialisti della mistica o dell’ascesi: il regno di Dio è il rovesciamento radicale e quotidiano del mondo in cui viviamo, dover domina il “Principe di questo mondo”, che ne fa il regno del potere omicida di Mammona. Tuffarsi nel primo vuol dire emarginarsi dal secondo, dove il “cittadino” del mondo è invece accolto e applaudito. Non vi è legge, devozione, penitenza, virtù, non vi è miracolo che muti questa dinamica. Il vangelo di Gesù è micidiale per le forme mondane, che quindi reagiscono e si oppongono, come dice l’ultima beatitudine. E, addirittura, la sconfinata libertà che Cristo ci ha donato, il rifiuto di adorare e onorare gli idoli di questo mondo sarà considerata un’ingiuria al buon senso o addirittura all’ordine costituito.
Chi sono costoro… avvolti in veste candida?
Oggi il santo è chiamato alla solitudine del suo interiore laboratorio, ove può sperimentare che la trasfigurazione spirituale del corpo e la corporificazione dello spirito non sono un concetto ma una possibilità. Orgoglio? Più probabilmente coraggio e fedeltà al divino che è in ogni uomo (Vannucci). Le Beatitudini segnano il cammino del laborioso travaglio che ci porta all’assunzione della materia nella dinamica gratuita e creatrice dello Spirito. Raggiungere la santità significa ripartire dalle profondità interiori spesso intricate, ferite e poco conosciute, di ogni uomo e di ogni sua relazione. Perciò la costruzione instancabile di tessuti di fraternità è il necessario complemento della personale ricerca interiore. Lavoro faticoso, non conosciuto da altri che da Dio, lavoro di discesa nei propri personali inferi, perché l’Uomo vero risorga in ognuno. Chi sente l’appello a quell’aggiunta di apertura all’essere che è la santità, deve inoltrarsi per la via della sua personale liberazione, con generosità, senza speranza o desiderio di ricompensa alcuna, se non il dono di poter giungere alla perfetta statura di Cristo: l’Uomo vero. Il premio è il compimento perfetto dell’opera, nella libertà sconfinata e consapevole dei Figli di Dio che, partecipando all’esistenza, se ne sentono indipendenti, che, di fronte a tutte le sollecitazioni di intrupparsi sotto qualche vessillo, rimangono se stessi, liberi da ogni richiamo idolatrico, promotori di una nuova storia che questa nostra che viviamo non riesce a contenere – e durerà per sempre: … chi sono costoro, e da dove vengono?... «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello. Per questo … Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro. Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi».

mercoledì 28 ottobre 2009

Oltre Kunta Kinte: progettare sradicandosi



Al di là delle scelte politiche, che staremo a vedere a cosa ci porterànno... trovo interessanti le molteplici provocazioni.

Sottolineo qui, per la riflessione che stiamo facendo sul "regno di Dio" la sua osservazione, quasi filologica, sul nuovo orizzonte culturale che la storia ci domanda (e sempre ci domanderà). Altro che abbarbicarsi sulle "radici" (cristiane o non) occorre invece "sradicarsi", per poter vivere una progettualità che crei la storia e non la uccida nel tentativo illusorio di farla rivivere, di ripeterla.

In fondo è la stessa logica evangelica e biblica cioè dell'uomo autentico. Occorre come Abramo abbandonare la propria terra, occorre come Mosé vivere un Esodo mai compiuto, occorre "uscire per andare verso" come chiede Gesù per i suoi discepoli, dopo averlo vissuta lui sradicandosi continuamente anche dalla propria culturale divinità e, sulla croce, della propria culturale umanità. Per il cristiano c'è una sola radice che non è una radice ma qualcosa che ti "sradica" perché è una persona concreta che "per caso", cioè per scelta, si è voluto incontrare sul proprio cammino...

È ovvio che su questo si gioca il futuro della stessa chiesa, non solo italiana, che si dimostra invece così "sovieticamente" arroccata a delle radici che ha perso da tempo: perché le vere radici sono lo sradicamento che il vangelo continuamente ci chiede: quanti comprendono che la vera fedeltà sta nella creatività?... È per questo che da tempo non progettiamo più ma "rieditiamo"!

lunedì 26 ottobre 2009

J'assume moi aussi!

Per non dimenticare...C'est parfaitement crétin (et j'assume le mot entièrement) de se fixer des objectifs chiffrés en matière d'expulsion. Au diable le cas par cas, l'appréciation individuelle de situation humaines complexes, on sacrifie des vies sur l'autel du chiffre, simplement pour dire qu'on a rempli les objectifs d'une politique. Abject, lamentable et honteux. Marwan H.

venerdì 23 ottobre 2009

Dalla fede di ragione… alla fede di adesione!

…il viaggio, che abbiamo percorso con i discepoli verso Gerusalemme nelle domeniche scorse, ci ha fatto prendere coscienza delle sconvolgenti proposte del Vangelo nel cuore delle grandi relazioni che costituiscono la nostra umanità : sessualità e fedeltà nell’amore – economia e condivisione dei beni – politica e competizione per il potere. Ma nello stesso tempo ci ha reso più consapevoli della nostra radicale incapacità di seguire Gesù (…se andò intristito!)… C’è una specie di fame e di sete di salvezza negli uomini che Gesù intercetta: chi domanda come fare nei conflitti affettivi e sessuali, chi vuol essere guidato nella divisione dei beni, chi… vuol essere il primo, a tutti i costi … Ma alla fine tutto finisce in una triste delusione, quando Gesù propone ad ognuno le sue sconvolgenti soluzioni “evangeliche”… Rimaniamo tutti abbagliati, sì! Ma per la vita quotidiana, troppa luce non serve… non ci si vede più. “. Davanti a questa luce … “essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?» (Mc 10,27).
…da una cecità all’altra! Il testo di Marco di oggi, è la conclusione della lunga istruzione di Gesù ai suoi discepoli (il 9° e 10°cap.), racchiusa tra due racconti di recupero miracoloso della vista (Mc 8,22-26 e 10,46-52). La guarigione del primo cieco (di Betsaida) fu laboriosa, come precedentemente quella del sordomuto: avviene fuori dal villaggio, sputandogli sugli occhi e imponendogli le mani: Vedi forse qualcosa? Il cieco si accorge di non percepire bene la realtà, nonostante una prima guarigione: vedo la gente, perché vedo come degli alberi che camminano. E allora gli impose di nuovo le mani... per aiutarlo a “vedere perfettamente e a distanza. La chiamata a camminare verso la verità e la luce, sintetizzata qui nel miracolo faticoso del cieco di Betsaida, è passata dunque attraverso un laborioso percorso di maturazione “cristiana”, per arrivare davvero a riconoscere il Cristo come nostra speranza e ripromettersi di seguirlo... Ma capita poi di trovarsi , oltre ogni nostra previsione, a mani vuote, nel fallimento più o meno consapevole di quelle nostre speranze, per aver scambiato o confuso il “salvatore” con tante fascinazioni umane. Fino all’esperienza del dubbio angoscioso (quando ci morde in cuore un minimo di lucidità autocritica) se lo avevamo individuato per davvero, Gesù il Cristo, al di là della ortodossia formale della nostra fede – e quindi chi abbiamo seguito! È un’avventura davvero difficile la seconda guarigione della cecità dei discepoli, pur già conquistati alla sua sequela. Ma è proprio il mistero della croce che irrompe nella sua (e nostra) vita, a farci scoprire la seconda cecità. Ecco il significato delle due guarigioni che aprono e chiudono la lunga istruzione di Gesù ai suoi discepoli, sul senso del sua preannunciata passione, morte e risurrezione. Solo passando da una iniziale vocazione, che insegnandoti a distinguere correttamente le persone e le situazioni, ti inoltra un poco nel cammino della fede “vitale”, tra consensi e fallimentri, rifiuti e fraintendimenti, scopri il senso totalizzante della croce di Cristo e le sue conseguenze per la vita di chi vuole seguirlo. Infatti solo alla fine di questo “insegnamento” che comprende tre annunci della passione, morte e risurrezione di Gesù, e tre tentativi drammatici di convincere i suoi discepoli a entrare decisamente in questa ottica, si può arrivare alla guarigione totale e luminosa, del cuore e della mente, del secondo cieco, Bartimeo. Il quale in qualche modo doveva appunto essersi “riaccecato”, nel cammino della vita, se adesso è cieco… e alla fine “vide di nuovo” e riprende a seguirlo lungo la strada. Si era ormai ridotto, infatti, a passare la sua vita seduto ai bordi della strada (tanto, non vede dove andare), senza poter intervenire nel frastuono della vita degli uomini che passano, sperando soltanto in qualche briciola di elemosina per sopravvivere. Un mendicante cieco. Mendicante perché cieco, e nessuno può farci niente. Cosa c’è di più inutile alla vita e alla storia della gente di Gerico di uno che non vede cosa succede e non sa cosa fare, se non mendicare? Ma tanti di noi, quando scopriamo davvero chi siamo davvero – dentro! – andremmo a sederci volentieri vicino a lui, falliti come lui, ne avessimo il coraggio!
Un giorno, proprio da quella strada, passa Gesù… La folla e i discepoli (e noi!) da tempo stanno intorno al Signore, ma solo il cieco sussulta, “al sentire che passava Gesù Nazareno”. Anzi, gli altri, a cominciare dai discepoli, si inquietano quando si mette a gridare invocandolo, e lo zittiscono, non certo per malevolenza, ma stizziti per l’inutile disturbo. Cosa si può fare a un cieco? Questo incontro casuale diventa così la parabola del tipico “incontro con Gesù”, per tutti quelli a cui la propria cecità comincia a pesare tanto da sbloccare l’orgoglio o la vergogna o la tristezza rassegnata… per lasciar emergere il gemito che ognuno ha dentro: figlio di Davide, GESÙ, abbi pietà di me! I discepoli ci impiegheranno una vita per capire, per confrontarsi tra loro, cercare nelle Scritture … chi era davvero questo amico maestro, di cui avevano sperimentato il mistero di fragilità umana e potenza divina, mescolate insieme. È “figlio di Davide”! – dunque il vero erede spirituale delle promesse “eterne”, fatte alla casa di Giacobbe; la mèta delle speranze nutrite per secoli nell’esilio… finché sarebbe venuto il Signore “a salvare il suo popolo”, anche se divenuto nel frattempo, lungo il cammino, “un resto” di popolo… zoppo, cieco… I discepoli di allora (come noi adesso) non capiscono il senso del viaggio, il segreto delle parole e dei gesti di Gesù dentro la nostra storia, dentro la nostra umanità (sono ciechi, appunto!). E vorrebbero che stesse zitto proprio l’unico che ha capito! Fortuna che il suo intuito è più forte e nessuna autorità lo può smentire! “Figlio di Davide, GESÙ, abbi pietà di me!” Gesù invece, in mezzo alla folla, si sente chiamare per nome , si gira e si rivolge proprio a lui! E dice loro Chiamatelo”… e finalmente chiamarono il cieco dicendogli: “Coraggio! Alzati, ti chiama”.
Quasi a malincuore e con fatica (ancora oggi), i “ministri cristiani” che sono attorno a Gesù, vedono qui “raccontato” il loro ministero pastorale; forse ritenendosi degradati da “sacerdoti” a cartelli indicatori… I discepoli infatti han dovuto prender atto che il cieco “sente” il Signore più di loro – “i vedenti” – i quali sono invitati da Gesù, invece che a zittirlo, a darsi da fare per condurlo non a sé, ma a Lui – alla Parola e all’Eucaristia – per poi stare lì a vedere come il Signore, guarendo il cieco, guarisce o ri/illumina anche i ministri stessi! Ai primi cristiani giudei dovette sembrare alquanto difficile identificare Gesù come il vero sommo sacerdote, perché non proveniva dalla tribù di Levi. Anzi arrivarono a capire che “se Gesù fosse sulla terra, egli non sarebbe neppure sacerdote” (Eb 8,4). Per questo non prendono come modello il sacerdozio di Aronne, ma piuttosto quello di Melkisedech : un sacerdozio laico, misterioso, che offre a tutta l’umanità di vedere e raggiungere la salvezza attraverso la ricerca e la vista del volto di Gesù…
Infatti, cosa succede, quando il cieco è lì, chiamato? (è lui il vero “chiamato”: tre volte!). “Gettò via il mantello, balzò in piedi, venne da Gesù”. C’è una serie di reazioni simboliche di una totale disponibilità all’incontro. Questo disabile è sicuro di essere finalmente di fronte alla sua salvezza – un volto! Ecco perché avviene l’inversione della domanda, lo scambio dei desideri “religiosi” – che legano cioè Dio e l’uomo! I discepoli, desiderosi del primo posto, avevano domandato poco prima a Gesù : noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo! senza neanche accorgersi del loro infantilismo evangelico. Qui è Gesù che, vista la disposizione “evangelica” del cieco, offre la sua completa disponibilità: Che vuoi che io ti faccia?. Teresa d’Avila diceva alle sue monache: Dio non può donarsi del tutto se non a chi si dona del tutto a lui. Non è più un legame di “bisogno reciproco” : sta diventando piuttosto la totale consegna di uno all’altro… Salvato e Salvatore (un volto di fronte a un volto) sono coinvolti in una situazione nuova, che è nata da un bisogno di salvezza, ma sta diventando gratitudine, affetto e amicizia – consegna della propria vita! È stupendo che la prima cosa che questo cieco vede, riacquistata la vista, è ciò che invocava, cioè il volto di Gesù (= Dio salva : il cieco è l’unico nel vangelo di Marco che chiama Gesù per nome – a parte i demòni)! Non se ne va a casa, pieno di gioia, come altri guariti. Riceve infatti, da Gesù, non semplicemente la vista, come ha richiesto esplicitamente, ma anche quello che aveva perso “di vista” : la garanzia che la sua fede è quella giusta, quella che giustifica tutto l’uomo: Và, la tua fede ti ha salvato. Ma lui non se ne va affatto, perché la fede che gli si è disgelata dentro si manifesta proprio in questo: prese a seguirlo nel cammino.
La fede “seconda” è dunque una liberazione che rompe le barriere della cecità, scioglie i lacci dell’immobilità, butta via le coperture della paura, spingendo verso il coinvolgimento nell’annuncio del Vangelo, al seguito di Gesù, in compagnia dei suoi discepoli. Non è una fede spiritualizzata, ma un coinvolgimento totale: orecchi che ascoltano, bocca e voce che gridano, mani che buttano il mantello, piedi e muscoli che scattano per accorrere da Gesù, occhi nuovi per vederlo… e tutta la persona reintegrata per seguirlo. Il discepolo “nuovo” è stato rigenerato dalla invocazione del nome di Gesù. Una tradizione antichissima e diffusa in oriente, come più recentemente in occidente, ne ha fatto la preghiera litanica forse più conosciuta, combinandola con l’invocazione del pubblicano: “Signore Gesù, abbi pietà di me peccatore”, perché nel suo nome il Padre ci concede tutto e non ci nega nulla (Rom 8,32; Gv 14,13).

giovedì 22 ottobre 2009

Il “paradigma” di Bartimeo: per vedere e non soltanto guardare

L’episodio del cieco Bartimeo che la Chiesa ci propone nel vangelo di questa trentesima domenica del tempo ordinario è particolarmente significativo: ad una prima lettura infatti esso potrebbe apparire come uno dei tanti miracoli di Gesù raccontati dai testi evangelici, che per lo più noi abbiamo già sentito, riconosciamo e di cui magari sappiamo anche rinarrare la vicenda, ma che assolutamente non sapremmo collocare né geograficamente, né “cronologicamente” (tra virgolette, perché si fa evidentemente riferimento alla cronologia della ricostruzione evangelica).
In realtà invece è molto importante tentare di indagare perché l’evangelista collochi il racconto di un determinato evento (nel nostro caso questo miracolo) proprio a quel punto della narrazione: episodi e vicenda complessiva infatti si richiamano e rimandano al fine di formare il volto di Gesù che l’evangelista vuole annunciare.
Questo discorso assume ancor maggior rilievo nel nostro caso, poiché l’episodio del cieco Bartimeo è l’ultimo dei miracoli di Gesù che la narrazione del vangelo di Marco riporta ed è collocato immediatamente prima dell’inizio del racconto della passione. Non a caso siamo ormai in terra di Giudea, precisamente sulla strada che da Gerico porta a Gerusalemme (la medesima in cui Luca collocherà la parabola del buon samaritano, Lc 10,29-35).


Come si tentava di dire in precedenza, tutte queste annotazioni non sono marginali, e bisognerà dunque rendere ragione del fatto che l’ultimo miracolo che Marco decide di raccontare è la guarigione di un cieco, proprio mentre Gesù sta ormai entrando a Gerusalemme, dove sa di incontrare la morte.
Dunque la guarigione di un cieco… o meglio la guarigione di questo cieco.
Questa sottolineatura non è irrilevante, perché se, in chiusura della parte centrale del vangelo e in apertura della sua sezione finale, siamo di fronte a un episodio che fa da sintesi a quanto lo precede e da ingresso a quanto segue, assume un ruolo del tutto significativo il fatto che di questo cieco, siano ricordati il nome e la famiglia: Bartimeo, figlio di Timeo.
Ciò infatti – proprio in chiave sintetica dell’annuncio finora portato avanti da Gesù, nella sua vita pubblica – ribadisce un primo elemento essenziale: quello dell’individualità mai negata di coloro che Gesù incontra. L’ultimo miracolo infatti è “fatto” non a un uomo qualunque, ma a questo cieco: Bartimeno, non chiunque, viene sanato: ciò ribadisce per l’ennesima e ultima volta (“ultima”, almeno in questi termini) che nell’incontro con Dio non è la genericità che salvaguarda l’universalità (non perché Gesù ha salvato un cieco, allora può salvare tutti i ciechi), ma precisamente la singolarità: proprio nella vicenda personalissima tra Gesù e Bartimeo si inquadra la possibilità per ciascuno di instaurare la stessa relazione col Signore. La “stessa” che però non è la “medesima”! Elemento essenziale di quel rapporto è infatti l’unicità dei soggetti in campo. La relazione con Gesù allora ha nella sua “struttura universale” l’immancabile implicazione personale. Non può essere dunque chiamato “modello” quello che si può evincere dall’ultimo e sintetico miracolo narrato da Marco: non siamo infatti di fronte a una struttura semplicemente da ripetere o mimare, senza implicazione personale; come se chiunque potesse sostituire – a prescindere – Bartimeo. Piuttosto potremmo parlare di “paradigma”: e cioè di quella struttura originaria che per essere ripercorsa necessita l’adesione del singolo.
Ciò diventa immediatamente evidente se si prosegue nell’individuazione di tale “paradigma” che la vicenda personale di Bartimeo pone in atto e che identifica gli altri elementi sintetici di questo episodio, appunto, “paradigmatico”, data la posizione che occupa.
Mi riferisco in particolare al fatto che come sempre nei miracoli di guarigione, l’avvenuto risanamento sia attribuito da Gesù alla fede degli uomini o delle donne che gli stanno di fronte: «Va’, la tua fede ti ha salvato».
Questo delinea chiaramente il “paradigma” della relazione con il Signore. Essa non avviene attraverso una certificazione intellettualistica: non così si conosce la verità; ma nemmeno attraverso una fede cieca: un’adesione a dogmi o precetti su cui l’uomo non può esercitare alcuna razionalità.
Piuttosto organo di conoscenza del reale – dunque della verità – anche la propria (che è l’identità) – è la fede: è cioè quel credito dato a qualcuno o qualcosa, sulla base di un’affidabilità riconosciuta.
Questa è la modalità in cui sempre si disvela la realtà di Gesù a chi lo incontra e riconosce. Questa è anche la via paradigmatica di Bartimeo, che avendo avuto notizia di Gesù e ritenendo quest’ultima affidabile, aveva iniziato ad urlare, incurante dei rimproveri, finché non lo avevano ascoltato: «Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”. Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”. Gesù si fermò e disse: “Chiamatelo!”. Chiamarono il cieco, dicendogli: “Coraggio! Àlzati, ti chiama!”. Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù».
Che le cose stiano così è rivelato anche dal fatto che proprio su questa affidabilità del messaggio di Gesù – o più precisamente dell’uomo Gesù, coincidente col suo messaggio – erano andati in crisi i discepoli stessi. Ciò che aveva creato infatti – a partire dal capitolo 8 – l’incomprensione degli apostoli, traghettata fino al brano precedente al nostro (cfr. il vangelo di domenica scorsa, ventinovesima del tempo ordinario) e che sarà uno degli elementi decisivi dei racconti di passione (Gesù abbandonato dai suoi), è precisamente il fatto che l’annuncio (prima) e la realtà (poi) di un messia crocifisso risulta in-credibile, non credibile, appunto, non degna di fede.
Non a caso – come dicevamo – viene posto come elemento sintetico finale, un miracolo in cui viene sanata la cecità: per comprendere quanto infatti è stato finora annunciato e quanto sta per accadere sotto gli occhi di tutti, serve essere guariti dalla cecità che impedisce di leggere in quegli eventi l’attestazione affidabile della messianicità di Gesù e in essa della paternità di Dio.
Cecità dalla quale i discepoli della prima ora saranno guariti solo a fatti compiuti. Solo a posteriori.
Marco scrive infatti proprio quando questa cecità degli apostoli è stata ormai sanata, ma consapevole che i loro occhi nella croce non vedevano la rivelazione della salvezza.
Proprio perché alla prima Chiesa è invece così chiaro il fraintendimento/cecità di chi era là, quando Gesù passò su questa terra – tanto che i vangeli con grande coraggio non tacciono sulla debolezza dei testimoni della prima ora –, l’evangelista pone un miracolo di guarigione degli occhi in apertura del racconto di passione: per vedere la passione e morte di Gesù – e non per guardarla soltanto – c’è bisogno di tornare a percorrere la strada di Bartimeo: attaccare il cuore all’esperienza di un uomo la cui vita, il cui messaggio e la cui pretesa sono ritenute credibili – cosa che, come il nascere e il morire, l’innamorarsi e il perdonare, non possono che essere vissute da noi in prima persona.
Forse proprio perché siamo in una società in cui l’autocoscienza è sempre più osteggiata nel suo formarsi, consapevolizzarsi e fortificarsi (la morte è allontanata dalla consapevolezza dei cittadini; il dolore è anestetizzato; il lavoro serializzato; l’uomo reso banalmente un caso fra i molti – “uno dei tanti”; ecc…), proprio le esperienze in cui è implicato l’esserci coinvolto (l’amare, il morire, il credere…) sono quelle che siamo sempre meno capaci di vivere.

Il potere nella Chiesa

In questa ventinovesima domenica del tempo ordinario il brano di vangelo che la Chiesa ci propone, va a completare l’itinerario che l’evangelista Marco – prima di addentrarsi nell’ultima parte del suo vangelo – sta facendo fare ai suoi lettori all’interno delle dinamiche profonde che costituiscono l’uomo di sempre: la sessualità (XXVII domenica del tempo ordinario: Mc 10,1-16) – l’economia (XXVIII domenica del tempo ordinario: Mc 10,17-29) – il potere (la tematica odierna).
Ciò che è interessante in questa scansione, è il fatto che proprio quest’ultimo elemento sia lasciato alla fine, precisamente a ridosso del racconto della passione di Gesù; tale interesse ha origine in un doppio ordine di motivi: da un lato, il fatto che questo posizionamento, sottolinei una preoccupazione prioritaria, di chi organizza il materiale evangelico, proprio per questa problematica. E la storia della Chiesa non può che confermare tale intuizione originaria… Il potere è il vero pericolo del discepolo.
Dall’altro, e più radicalmente, la posizione di questa pericope, fa intravedere come in essa sia anticipato il problema del riconoscimento del crocifisso come messia; in altre parole nel nostro brano odierno, starebbe in qualche modo l’incipit narrativo, la chiave di lettura, anche di quanto segue: precisamente il dramma della morte in croce di Gesù.
In essa infatti è all’opera esattamente il problema capitale del cristianesimo: e cioè l’inaudito potere impotente di Dio… qui infatti sta precisamente l’incomprensione radicale – di allora e di sempre – dei discepoli del Signore: che non a caso è tematica che emerge anche in prossimità di ogni annuncio della passione che Gesù fa.
Ma che cosa, propriamente, è oggetto di incomprensione, fraintendimento, scandalo per i discepoli?


Scrive P.A. Sequeri ne Il Dio affidabile: «La reazione sconcertata dei discepoli di fronte al progressivo delinearsi della ‘fine’ di Gesù è tema di cospicuo rilievo nella testimonianza. Lo sconcerto è direttamente – e significativamente – legato alle parole e ai gesti di Gesù che esprimono, insieme con la consapevolezza di tale fine, la propria decisione di non sottrarvisi in alcun modo. È questo che i discepoli propriamente non comprendono: ciò a cui cercano in tutti i modi di resistere. In verità, i discepoli non possono avere dubbi sul fatto che i capi giudaici rifiutano il radicalismo con il quale si assume la rappresentanza della verità di Dio; e cercano di contrastare con ogni mezzo l’autorevolezza con la quale egli esercita la sua anomala missione tra il popolo. Non possono aspettarsi dunque che Gesù venga accettato come suprema autorità religiosa: in una forma come quella alla quale sembra dare corpo Gesù, che appare con i tratti e le pretese del rifondatore messianico della religione giudaica. L’opposizione e il rifiuto, di cui Gesù è così acutamente consapevole, sono per così dire scontati. La paura della contrapposizione e della eventuale rappresaglia d’altra parte non spiega tutto: c’è anche chi è disposto ad accettare l’eventualità di una lotta cruenta. Nemmeno la mancanza di fede in Gesù è indicata dai testi come la radice dello sconcerto e della crisi: nessun cenno troviamo ad una qualche ritrattazione della professione di fede nella messianicità di Gesù di cui riferiscono i testi. La cosa veramente sconvolgente – realmente incomprensibile – per i discepoli è un’altra: Gesù manifesta anticipatamente la propria convinzione che la reazione dei sacerdoti e dei capi avrà successo; che essi riusciranno ad avvallarla con una pubblica condanna; e che la sua eliminazione avrà la forma pubblica di una oggettiva smentita della sua pretesa rappresentanza di Dio. Il quadro delineato dall’atteggiamento con il quale Gesù ‘punta pericolosamente’ su Gerusalemme non sembra includere l’intenzione di dare battaglia per la rivendicazione della propria pretesa. E l’epilogo previsto da Gesù esclude il suo insediamento al vertice di una struttura politico-religiosa entro la quale i suoi discepoli sostituiranno gli attuali detentori del potere di rappresentare Dio presso il popolo».
Esattamente questo insediamento invece hanno ancora in testa Giacomo e Giovanni… ma non solo loro… stando a quanto emerge dal vangelo…
La reazione alla loro richiesta («Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra») infatti, a fronte di un Gesù non per niente indispettito, è per gli altri discepoli di indignazione. Immaginando la vicenda, però, tale reazione appare più determinata dal nervosismo suscitato dall’esplicitazione di alcuni del desiderio inespresso di tutti (per vergogna o pudore; o per il tacito accordo che il “primo” lo avrebbe scelto il maestro o lo avrebbe fatto emergere la vita, la qualità della vita), che per un’interiorizzazione autentica della prospettiva di Gesù espressa dalla sua risposta: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Prova di questo è appunto il fatto che Gesù morirà da solo! Quelli che si indignano con Giovanni e Giacomo infatti non sono fuori dalla medesima logica di quelli. Infatti – continua Sequeri – «lo sconcerto – ma poi lo ‘scandalo’ – dei discepoli dipende propriamente dal fatto che essi vivono la passione e la morte di Gesù [o – per stare al nostro testo – il fatto che il Figlio dell’uomo sia venuto per servire] nella forma di una contraddizione ‘teologica’ decisiva. Essi sono sicuramente ‘dalla parte’ di Gesù di Nazaret, ‘contro’ io rappresentanti ufficiali della religione giudaica, ma continuano a credere esattamente nella teologia messianica alla quale questi ultimi fanno riferimento. La forza del dominio storico è anche per i discepoli la rappresentazione ovvia della potenza di Dio. E la legittimità della rappresentanza storica della verità di Dio fa circolo con quella rappresentazione. Essi perciò, proprio perché sono convinti della legittimità della rappresentanza di Gesù, non riescono a concepire che egli preveda e accetti l’impossibilità di affermare tale legittimità: imponendo storicamente l’evidenza del suo buon diritto ed esercitandolo nella forma del dominio. L’eccezionale potere taumaturgico e l’irresistibile autorevolezza profetica esibiti da Gesù sono soltanto anticipazioni – essi ne sono convinti (“abbiamo visto un profeta potente in parole ed opere”) – della irresistibile potenza di cui egli può disporre da parte di Dio in vista dell’affermazione di sé. Il punto critico di ‘differenziazione’ fra la fede di Gesù e quella dei discepoli» consiste invece nella smentita delle convinzioni dei discepoli e nell’identificazione che essi sono chiamati a fare tra Gesù e il Crocifisso.
«Il criterio ermeneutico di saldatura [di tale identificazione] fra Gesù e il Crocifisso è l’interpretazione della dedizione incondizionata di Dio come rifiuto delle forme storiche del dominio». Questo è il consenso che i discepoli – per il momento – non riescono a pronunciare; forse, per ora, nemmeno a comprendere.
«La forma del dominio storico potrebbe infatti anche essere intesa – in perfetta buona fede – come la garanzia inevitabile della dedizione, per lo meno nel momento in cui viene in gioco la sopravvivenza della sua verità di fronte alla tenacia della reazione opposta dall’incredulità. […] Ma secondo Gesù la richiesta e la ricerca di tale garanzia sono l’estrema tentazione della fede: la sollecitazione del Satana, che si serve della parola di Dio per legittimarsi. […] Nella prospettiva di quella tentazione la fede testimoniale è destinata a perdere il proprio sostanziale rapporto con la scena originaria: nella quale non si rivela un nuovo e più affidabile ‘padrone del mondo’: bensì la fine di ogni ‘padronato’. Dunque è proprio la buona fede che trae argomento dalla efficacia della testimonianza, la debolezza pericolosa in ordine alla fedeltà richiesta. La fede cioè disposta alla esibizione del potere di liberare dal male a proprio vantaggio, anche contro l’altro. La fede che mira a legittimarsi seducendo con segni prodigiosi, indiscutibilmente seducenti. La fede insomma che sarebbe disposta a lasciarsi definitivamente persuadere della irresistibile violenza del potere di Dio, ma resiste invece alla rivelazione della sua disarmata dedizione. Essa va respinta, da essa è necessario prendere irreversibile distanza: perché alla radice di quella fede, anche quando essa pronunci il nome di Dio e difenda i diritti della sua verità, c’è il peccaminoso assenso accordato alla identificazione tra la signoria della verità trascendente e la forma del dominio prevaricatore, tra l’affermazione di sé e la negazione dell’altro».
Ma è proprio a questo che i discepoli – di allora e di oggi – fanno fatica ad accedere: essi infatti «ormai conquistati dal successo di Gesù, si vedono proiettati sul ‘dopo’: nel momento della sua definitiva acquisizione di un ‘potere religioso’ che gli spetta di diritto. E che ora è invece indegnamente detenuto dai capi del popolo. Ma il punto è proprio questo: Gesù mostra di non avere la stessa ‘fede’ dei suoi discepoli. E si consegna ‘volontariamente’ a quella morte, dove sembra scomparire persino la memoria del potere e dell’autorevolezza fino a quel momento esibiti e rivendicati come connaturali alla sua persona.
La testimonianza evangelica conferma che questa è obiettivamente l’alternativa – la prova/tentazione – che l’esercizio effettivo della sua missione e la percezione dell’imminenza della sua fine violenta hanno posto anche a Gesù di Nazaret. Essere fedele alla missione della rappresentanza storica della verità di Dio, e consegnarsi ad una fine ormai costruita come rappresentazione storica dell’inattendibilità di quella pretesa, sono gli elementi del conflitto angoscioso vissuto da Gesù di fronte a Dio. La morte di Gesù sta per essere consegnata alla storia come evento che falsifica la pretesa della sua assoluta rappresentanza: può egli stesso accettare di essere tolto di mezzo in quel modo?
Il modo in cui effettivamente Gesù ha vissuto la sua passione e la sua morte davanti agli occhi dei suoi stessi discepoli conferma che egli accettò l’ambiguità della sua stessa eliminazione, a fronte del loro stesso ‘teismo’, per rimanere assolutamente fedele alla inaudita verità di Dio che era oggetto della sua ‘rivelazione’. Nessun miracolo per salvare se stesso. Nessuna esibizione di potenza destinata a colpire i suoi persecutori. Nessuna maledizione divina destinata a sigillare la fine di ogni rapporto con la storia che lo respinge. La verità di Dio rappresentata da Gesù rimane quella che coincide con l’implacabile tenacia della dedizione: e unicamente nella forma della dedizione può essere rappresentata sulla scena storica. Nemmeno l’interesse per l’affermazione della particolarità storica di colui che a quella verità rende testimonianza. Anzi, proprio questo è il caso in cui la forma della verità di Dio e la forma della testimonianza devono assolutamente coincidere».
Per questo un altro grande teologo del Novecento – Bruno Maggioni – può scrivere: «nella misura in cui i modi coi quali i discepoli esercitano la loro autorità assomigliano a quelli delle altre autorità, insospettitevi» [in Il racconto di Marco]!

Distrazione

Mentre qui da noi si spera nel superamento della crisi, nello "scoprire" di che colore sono i calzini di un giudice o cercare immunità più o meno varie, in altre parti del mondo (volutamente ignorati dai mass media) si continua a soffrire veramente in modo indegno:
  1. Devastante carestia in Kenya (leggi qui) e paesi limitrofi che sta portando alla morte milioni di persone;
  2. In Congo si continua a morire per la guerra civile (leggi qui);
  3. L'assordante silenzio sul genocidio ancora in atto in Darfur (leggi qui) di proporzioni inimmaginabili;
  4. Le altre 24 guerre/guerriglie esistenti tuttora nel mondo che non sono Afghanistan ed Iraq (leggi qui).
Ognuna di queste catastrofi, porta con sè oltre che i morti, tanta sofferenza che spinge molti sopravvissuti a lasciare, loro malgrado, tutto quello che hanno (familiari e casa) per intraprendere i cosiddetti "viaggi della speranza" verso i paesi più ricchi con quello che poi veniamo a sapere sui giornali sotto forma di barcone o immigrato irregolare.

Con questo non voglio gettare discredito sul nostro mondo ma soltanto riflettere più ampliamente e in profondità che tutto quello che noi vediamo e giudichiamo, a volte nasconde problematiche e gridi d'aiuto che non immaginiamo nemmeno...

Se eravate nati in quella parte del mondo, cosa avreste fatto? Avreste affrontato il viaggio da immigrati clandestini o rimasti nella terra natia a morire?
Nessuno dei paesi cosiddetti ricchi comprende che aiutare questi paesi non è un'azione benefica che va fatta per sentirsi bravi o da considerare (peggio) come una perdita di soldi... bensì un investimento ed un dovere morale altissimo affinchè OGNUNO e non alcuni "fortunati" possa vivere umanamente la propria vita.

sabato 17 ottobre 2009

Io sto in mezzo a voi come colui che serve! la politica di Gesù

Non sta a me concedere i primi posti …
I tre testimoni privilegiati dei momenti più intensi della manifestazione di Gesù – Pietro, Giovanni e Giacomo, che vedono la resurrezione della figlia di Giairo, la trasfigurazione, l’agonia nell’orto – non ne capiscono nulla, totalmente impregnati come sono della logica di “potenza e competizione” del mondo – come tutti. Marco ci racconta tre tentativi di Gesù di spiegare con sempre maggior trepidazione ed angoscia, almeno agli amici più cari, il vero mistero della sua vita, che si stava ormai concludendo. Dopo il primo tentativo, c’è lo scontro con Pietro. Dopo il secondo, c’è la totale incomprensione dei discepoli, che blocca in loro ogni voglia di domande e spiegazioni. Dopo il terzo, ecco l’esito: una specie di complotto dei due fratelli per essere primi di tutti gli altri, vicini al suo trono. Questa volta Gesù reagisce dolcemente, forse ormai convinto e consegnato al suo destino di totale solitudine, incomprensibile davvero non solo alla logica del mondo, ma anche ai suoi poveri amici, incapaci, adesso, di fargli compagnia – se questo vuol dire mangiare lo stesso pane, bere lo stesso calice, avere lo stesso battesimo. Capiranno dopo … È un Dio troppo diverso (dal loro!) quel Padre che l’ha mandato nel mondo. Un Padre nel quale, appunto, Gesù è rimasto l’unico a credere. Un Dio troppo diverso dal dio che ci hanno insegnato e che elaboriamo continuamente dentro di noi … anche dopo il Vangelo, a costo di manipolare e stropicciare continuamente la sua esperienza e le sue parole.
La maturazione della esperienza umana di Gesù, avvolta nel mistero della sua preghiera e del suo dialogo vitalendi totale dedizione e di libera adesione al Padre, dentro la storia che viveva, vicenda dopo vicenda, arriva al suo culmine, con una consapevolezza ormai compiuta del significato e della destinazione della sua vita, nel confronto con le profezie delle Scritture, che “parlavano di lui” – scrivendogli nel cuore, con tracce di gioia e di dolore, di adesione e di angoscia, la sua identità – la drammatica “gloria” che il Padre gli ha preparato. Con quanto struggimento Gesù si sarà specchiato nell’eletto – il servo del Signore – venuto per salvare (giustificare) i fratelli, diventato reietto e disprezzato, uomo dei dolori che ben conosce il patire… Lo Spirito, che l’aveva “spinto” (Mc 1,12) nel deserto, gli fa vedere ora come cresce una radice in terra arida, lungo un percorso umano sconvolgente anche per lui. Il cammino verso Gerusalemme, gli farà soffrire nella storia degli uomini, l’irrepetibile esplosiva intrecciata identità dei tre interlocutori del dramma della nostra salvezza (Lui, il Padre e lo Spirito). Un cammino di eventi, di delusioni, di intuizioni, di spiegazioni infruttuose… illuminato però dalla preghiera e dalla sua comprensione sempre più viva e drammatica del “compimento” delle Scritture. Sarà proprio questa l’esperienza centrale della sua vita: un’esperienza drammatica che gli fa comprendere e accogliere il compimento dell’Alleanza annunciato dai profeti. Questa esperienza vorrà poi insegnare ai suoi discepoli perché la possano vivere e ripetere anche loro, per sapere e capire chi è lui – e chi sono loro – e, quindi, come seguirlo: “Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni” (Lc 24,44ss).
Ma perché era (ed è!) impossibile capire Dio? Perché Gesù stesso l’ha capito “con forti grida e lacrime…”, “essendo stato lui stesso provato in ogni cosa”? Perché Dio non si può capire: c’è un solo modo per “capirlo”: affidarsi totalmente a lui. Questa è l’esperienza di Gesù – del suo cammino verso Gerusalemme, della sua agonia nel Getsemani, del suo corpo appeso alla croce. Invece noi abbiamo dentro – incancellabile e irreprimibile – una diversa domanda a Dio. É la domanda di Giovanni e Giacomo – qualunque nome abbia dio nelle varie culture: noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo! Un Dio che esaudisca finalmente i miei desideri é “il nostro Dio”! Lo scontro decisivo tra il desiderio dell’uomo e il desiderio di Dio si fa improcrastinabile di fronte alla croce del Signore. L’uomo, infatti, non è! Deve ancora diventare ciò che vuol essere – e vuol essere il primo. Non è una colpa: è la sua natura di bisogno, anche se questa fame lo fa diventare competitivo e spesso aggressivo e oppressore. Gli è congeniale un Dio dell’Onnipotenza, che giustifichi e protegga il suo progetto di primato su tutti, e questa è la sua religione. Questa religione si è lacerata sulla croce! Si è scontrata con un Dio che gli rovescia l’altare e la teologia – e finisce reietto e disprezzato sul legno maledetto. A questo punto non può che dirgli, con la parola dei teologi sotto la croce: scendi di lì, se no, non sei più il mio dio! Pietro, Giacomo, Giovanni … ogni uomo reagisce così, in modo più o meno mascherato. Fin dalle radici della “nostra storia, infatti, “rifiutiamo questo Dio, che non risponde alle nostre attese.
 Adamo ed Eva hanno creduto al serpente e si sono affidati all’immagine suggerita da lui: non alla Parola, che dice loro cosa mangiare, cioè come essere uomini – come soddisfare il desiderio insaziabile che li fa uomini! E subito la competizione conflittuale originaria ha avvelenato le grandi relazioni: uomo-donna, uomo-mondo, uomo-fratello…
 Il corpo di Cristo inchiodato alla croce è … il luogo dove va a finire Dio nella storia. È l’idea che ha Dio di sé nella storia (dare la sua vita in riscatto per molti!). È l’arresto dell’immagine di onnipotenza propria dell’uomo. Ogni altra nostra idea di Dio che non si rimodula alla luce della croce è fuorviante, o menzognera – o fuga, comunque, dalla Parola che si rivolge al nostro desiderio. É questo il trono di “gloria”, di fianco al quale ogni discepolo è chiamato a sedersi, a destra o a sinistra, più o meno vicino, secondo il disegno del Padre.
 Se l’immagine che l’uomo ha di Dio non si spezza contro questa manifestazione del Dio/Parola, non accederemo mai all’idea vera di “uomo” – come invece prevede la profezia di Gesù: “Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti».”.

Il servizio – esser schiavo di tutti – è l’asse centrale della fede di Gesù, e quindi di chi vuole ascoltarlo e seguirlo. É l’unico modo per conoscere il Padre, il Dio di cui Gesù ci ha rivelato i segreti. “Per affrontarli seriamente dobbiamo porci un problema preliminare. La vera conoscenza dei misteri di Dio passa attraverso la via dell’umiltà, cioè attraverso la partecipazione alla tribolazione degli umili, attraverso il rifiuto della via degli «intelligenti» e degli «onesti». Per poter entrare nella conoscenza del mistero di Dio vale più una reale, pratica partecipazione alla tribolazione degli esclusi che non anni di studio teologico. Se voi passate un’ora sola ad addossarvi la disperazione di un disperato, voi siete già entrati nel mistero di Dio, la cui conoscenza non è di tipo concettuale, ma vitale. I veri preamboli della fede non sono di tipo intellettuale, come insegnavano a me. I preamboli erano questi: che Dio esiste, che l’uomo è libero (c’è il libero arbitrio) e che l’anima è immortale. Partendo da essi si arriva a dimostrare che Cristo è Dio. È una via intellettualistica maliziosa, perché evidentemente vi sono uomini semplici che non possono sapere che cos’è l’induzione e la deduzione. Chi possiede questi strumenti logici si accaparra perfino la conoscenza di Dio. Non è questa la via evangelica. La via evangelica è quella della partecipazione alla sofferenza degli umili. Il passare del tempo con la gente tribolata è conoscenza di Dio. Capire che in questo mondo le persone più delicate, più pure, sono le più perseguitate, le più reiette, e i mascalzoni hanno successo, è un primo passo, il primo preambolo per conoscere Dio (E.BALDUCCI, l’uomo planetario).
C’è dunque un primato, una competizione evangelica (una politica del Vangelo) a cui Gesù esorta i suoi amici, e nella quale ci ha preceduti come capocordata (Eb 2,10), perché è storicamente l’unica forma di amore gratuito: infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve (Lc 22,27). “Il figlio dell’uomo è venuto non per essere servito, ma per servire e dare la vita in riscatto per molti”. Cosa vuol dire “in riscatto per molti”?
«Tu hai fatto del male? Io pagherò al posto tuo»
diceva Gandhi… Così ci ripete Gesù Cristo da duemila anni (...) chissà perché noi uomini siamo così sordi (...) Certo la sua voce è spesso piccola e silenziosa (...) ma poi Lui è nella celletta della nostra anima e non dovrebbe essere così difficile scendere laggiù ed abitare con Lui. Parole? No. Verità. Realtà.
L’uomo non buono, l’uomo incapace di perdono, l’uomo che ama ferire, l’uomo che vuole la vendetta, l’uomo falso non sono uomini cattivi, incapaci di perdono, falsi necessariamente. Lo sono perché non hanno incontrato sul loro cammino una creatura capace di comprenderli, di amarli, di farsi carico delle loro colpe...
[Annalena Tonelli]


SU SPIRITUALITA’ E POLITICA
(da un incontro con don Giuseppe Dossetti : un cristiano in politica)
Non si può sostenere una compatibilità di principio tra esperienza di fede e politica, nè una incompatibilità assoluta; ci può essere invece un servizio episodico, più o meno lungo, ma sempre limitato nell’arco dell’esistenza. La realtà dei politici di professione, che sono tali da trenta o quarantanni, credo che non la si possa ammettere. Non si tratta di una ragione moralistica, ma di un princi¬pio. […]
La vita politica è una vita molto dispersiva. Ho fatto una grande fatica per tenermi in mano. Sono episodi personali, ma che parlano, proprio per questo, da sè. La vita politica è un servizio totale, globale, estenuante, con orari impossibili; anche se si disciplina seriamente, richiede una disponibilità ad lavoro che è logorante, logorante lo spirito. Accadeva, faccio un esempio, che il buon Gonella fissasse la direzione del partito alle dieci di sera; si cominciava e si andava avanti sfiniti, fino alla quattro del mattino […]. Ero estenuato anche dal merito dei problemi trattati. Al mattino andavo a messa, l’unica cosa che potevo fare era di piantarmi lì, nel banco, e ascoltare. Magari ascoltavo anche due o tre messe, ma proprio come un somaro, come il giumento del salmo. Pur tenendomi in mano così, non potevo resistere per molto tempo; a meno di non prendere tutto con una superficialità suprema. Allora si può vivere anche degli anni in politica, ma non si fa più politica.
Il pensiero, la responsabilità, il tormento, il ritorno continuo sui problemi supremi, tutto ciò si incrocia, si accavalla. Il Signore si può servire per un momento di noi. Dobbiamo appunto pensare che Lui fa come con i limoni spremuti, ci butta poi nel cestino. A questo dobbiamo essere prontissimi. La politica, per contro, educa a un bisogno di fare, a una necessità di comandare, ad una mentalità che sancisce il primato dell’azione e della gestione, che è contraddittoria con una vita spirituale comunque concepita. Però nonostante tutto dico: non c’è incompatibilità di principio tra fede e politica, può accadere che a volte siamo chiamati a fare politica, in una circostanza, in un determinato momento, per un certo breve periodo, episodicamente. È un servizio che in un certo momento può esserci chiesto, purché noi siamo ben convinti che il servizio deve poi durare poco. Ci sono amici in parlamento, che hanno pensato il loro servizio, anche per confidenze che ho avuto, come un servizio quarantennale.
Rispetto alla grande battaglia che si combatteva in quegli anni, io ho perduto. Non è questo che conta. Io ritengo che, per certi aspetti, anche politici, quello che è stato fatto, abbia avuto una certa efficacia in un certo momento. Non è stata la delusione per l’insuccesso personale a convincermi che dovevo andarmene. Questo l’ho detto più volte, e lo confermo oggi più a ragion veduta. A convincermi che dovevo andarmene sono stati dei giudizi storici su una certa situazione della politica in Italia. Essi non riguardavano soltanto l’inefficacia della politica che si stava facendo e alla quale non credevo di poter consentire. Vedevo già allora con chiarezza dove si poteva andare a finire, perché certi pericoli, che adesso sono diventati delle catastrofi, li avevo visti nettissimamente nel 1946.
Quando ho lasciato l’attività politica nel 1951 ero convinto che non si poteva operare diversamente in quelle condizioni del nostro Paese e del mondo cattolico italiano . L’ostacolo maggiore stava in una certa cattolicità che c’era in Italia; i motivi dell’insuccesso fatale venivano da lì.
Anche nella Chiesa non mi facevo illusioni. Per la mia professione di canonista sapevo cosa era la Chiesa e cosa poteva essere in determinate situazioni. Non c’è stata delusione, neanche lì, neanche nella Chiesa. Ne prendevo atto con semplicità, e non mi stupivo di niente. Di fatto non mi sono mai lamentato con nessuno. La decisione di smettere ogni attività politica è venuta dalla convinzione che bisognasse operare più profondamente, a monte, in una cultura del tutto nuova e in una vita cristiana coerente. Poi il passaggio è stato radicalizzato; è passata anche la cultura e rimasta solo la vita cristiana.
Spesso questo rapporto tra fede e politica diventa lacerante. Capisco come da una parte si senta una responsabilità immediata che non si può lasciare, dall’altra ci sia l’urgenza di una scelta diversa. Anche io, quando sono stato membro della commissione della Costituente, ho sentito questo bisogno. Fatta la Costituzione me ne volevo andare, però ho ricevuto l’imposizione di proseguire, di rinnovare il mandato, che non ho tuttavia portato a termine.
Viviamo in una crisi epocale. Io credo che non siamo ancora al fondo, neppure alla metà di questa crisi. Sempre più ci sto pensando. Sono convinto che lo scenario culturale, intellettuale, politico non ha ancora esplicitato tutte le sue potenzialità. Noi dobbiamo considerarci sempre di più alla fine della terza guerra mondiale; una guerra che non è stata combattuta con spargimento di sangue nell’insieme, ma che pure c’è stata in questi decenni.[…] Il rimescolio dei popoli, delle culture, delle situazioni è molto più complesso di quello che non fosse nel 1918. È un rimescolio totale. In più c’è la grande incognita dell’Islam, una incognita in qualche modo imprevedibile. [… ] Siamo dinnanzi all’esaurimento delle culture. Non vedo nascere un pensiero nuovo né da parte laica, né da parte cristiana. Siamo tutti immobili, fissi su un presente, che si cerca di rabberciare in qualche maniera, ma non con il senso della profondità dei mutamenti. Non è catastrofica questa visione, è reale; non è pessimista, perché io so che le sorti di tutti sono nelle mani di Dio. La speranza non vien meno, la speranza che attraverso vie nuove e imprevedibili si faccia strada l’apertura a un mondo diverso, un pochino più vivibile, certamente non di potere. Questa speranza, globale in un certo senso, è speranza per tutto il mondo, perché la grazia di Dio c’è, perché Cristo c’è , e non la localizza in niente, tanto meno in noi.
L’unico grido che vorrei fare sentire oggi è il grido di chi dice: aspettatevi delle sorprese ancora più grosse e più globali e dei rimescolii più totali, attrezzatevi per tale situazione. Convocate delle giovani menti che siano predisposte per questo e che abbiano, oltre che l’intelligenza, il cuore, cioè lo spirito cristiano. Non cercate nella nostra generazione una risposta , noi siamo veramente solo dei sopravvissuti.
(Brani di un’intervista che si trova ora in BAILAMME n. 18-1

1° Incontro sulla tematica del “Regno di Dio”


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martedì 13 ottobre 2009

E le dita dei bambini poveri?


Come sempre bastava pensarci... peccato che lo si faccia solo quando c'è da guadagnarci un sacco di soldi... Avrei voglia di qualche battuta... ma poi mi direbbero che le faccio sulle dita dei bambini poveri... e allora me la tengo per me! sic!

sabato 10 ottobre 2009

i poveri… l’economia … e la tristezza!

Nessuna pagina del vangelo, eccetto forse l’ultima cena, e così animata dall’intreccio dei volti che si cercano, si guardano, si amano, si chiamano, si rabbuiano, si rattristano, – davanti agli altri volti degli astanti, prima incuriositi, poi sconcertati, e poi ancor più sbigottiti – e Gesù che li “guarda bene in faccia” ...
…quanto è vero che – di fronte alla Parola che irrompe nella storia! – frigge e si consuma la fittizia coesione che tiene insieme giunture e midolla, spirito e anima, sentimenti e pensieri del nostro mondo personale e sociale... e le nostre intime strutture psichiche, che parevano assodate da una vita, rivelano la fragilità precaria della nostra fede...

Ecco “un tale”, che per Matteo è un signore ricco e, secondo Luca, ancor giovane, di certo devoto e di ottime intenzioni, un cosiddetto ‘notabile’ compito – tutto il contrario dei bambini di cui si diceva appena prima – che è affascinato dal giovane maestro e profeta, tanto che gli corse incontro e si inginocchiò di fronte a lui!. Ma che disastro, per il Regno! Infatti, è finita che, inorridito per la parola di Gesù, se ne andò rattristato! Cos’è capitato, che tutti e tre i sinottici lo ricordano con eccezionale attenzione? Entra in campo, nell’insegnamento di Gesù, qualcosa di altrettanto importante e coinvolgente per la vita dell’uomo che la “sessualità” della pagina precedente. Potremmo dire che entra in campo “l’economia” – cioè il nostro intreccio vitale con i beni di cui viviamo, con il bisogno famelico che ne abbiamo, con l’investimento affettivo ed esistenziale che ci mettiamo e che ci costituisce umani – a fronte del dramma di chi non ha nulla!
Al centro del racconto (di ogni racconto evangelico) il mistero tacito di ogni incontro di fede (anche come semplice ricerca di un senso profondo e duraturo della nostra vita), che diventa un incontro decisivo con Gesù. Come se Gesù lo aspettasse da sempre: “allora Gesù, fissatolo lo amò!” Da qui è cominciato il dramma di quella piccola storia di allora, divenuta nel vangelo parabola viva di tutta la storia grande, della quale quell’evento è divenuto paradigma e fermento, insieme. Dove ancor più si rivela il segreto di sempre, di ogni nostra storia, quando ti prende dentro la certezza, come appare da tutta la Bibbia, che Dio si gioca nella tua storia con molto più sbilanciamento di te – in questa proposta paradossale di una solidarietà d’amicizia, alla quale però solo lui è capace di esser fedele. È lui l’innamorato che cerca appassionatamente di conquistarti! E così subito appare che l’amore di Dio – la sua voglia di Alleanza eterna con noi – è eccessivo... per i nostri contenitori fragili e timorosi di esserne troppo coinvolti e sconvolti. Questo racconto incombe sulla nostra chiesa (nel suo lungo percorso) – come sulla nostra storia personale e comunitaria – almeno da Costantino imperatore in poi!. Se questa “parola” è, infatti, la discriminante esemplare della nostra appartenenza o disappartenenza al Regno, a noi sembra di fatto una favola degli entusiasmi iniziali – una cosa un po’ irreale – piuttosto che un’indicazione autorevole e sicura (pratica!), come sembrerebbe indicare Gesù. Ma per nostra fortuna se ne sono accorti subito gli apostoli stessi, i quali, prima stupefatti, poi “enormemente” sbigottiti, si domandavano fra loro: allora, chi può essere salvato?... E così hanno provocato un chiarimento indubbiamente radicale e garantito, ma che ancora più ha aggravato e appesantito la nostra situazione di inadeguatezza: “impossibile agli uomini”, parola di Gesù stesso! Possibile solo a Dio, dunque! – è una cosa divina – e affare suo. Quanti saremmo oggi in questa “sua” chiesa, se all’entrata, ci avessero sottoposti a questo criterio? È vero che la Chiesa non è il Regno, ma dovrebbe almeno esserne l’ostetrica, per spingerci una buona volta a rinascere, a seguire davvero Gesù! O non sarà proprio per questo dato di fatto – della rassegnata ma lucida impossibilità a seguire il Regno – che siamo ricchi stracolmi di beni e di vantaggi non regalati ai poveri? E deleghiamo questa “possibilità di conquistarci quaggiù la vita eterna” ai profeti inascoltati del Regno, così che poi tutto il nostro rapporto, personale e comunitario, con Gesù. ne rimane sfilacciato e svuotato – immiserito e avvelenato com’è dagli infiniti condizionamenti dei nostri beni “irrinunciabili”.
Tra noi e il Signore (o il suo Regno!) ci stanno di mezzo i poveri … e i nostri beni – alternativi! Ponte o barriera! Infatti, ecco il dilemma drammatico: se vuoi rispondere all’amore con il quale il Signore ti ha fissato: una cosa sola ti manca: và, vendi quello che hai e dállo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e séguimi. Non si ratta di una nuova legge o di un altro comandamento, sconosciuto prima! Se però i beni sono il tuo tesoro, allora, con più o meno compromessi, indietreggi nel cammino verso Gesù perchè questo tesoro rispunta nel cuore come la tua vera sicurezza palpabile e misurabile, irrinunciabile – e quindi svuoti l’alternativa di “seguire Gesù” di ogni spessore. Non puoi seguire due padroni... e allora diventi sempre più schizofrenico. È la prassi normale, felpata e pasticciata, della nostra chiesa e delle nostre comunità (oltre che personale), rimediata poi con elemosine e surrogati caritativi successivi, per anestetizzare il rimorso di eludere un vangelo “eccessivo”. Il “cercatore della salvezza” – che pure parte sincero – si accorge amaramente che, a star troppo vicino ai suoi beni, si allontana dal Signore, e viceversa – anche se nella ingenuità dell’entusiasmo giovanile prima “correva verso di lui”. Per avvicinarlo davvero a sé, Gesù lo provoca a dare i suoi beni ai poveri, perché questi abitano sempre nei dintorni del Regno. I poveri non sono subito “Gesù”. Ma dalla loro parte è facile venire presso Gesù, per seguirlo. Perché l’impedimento inconsapevole verso il Signore erano proprio i “molti beni” – e i poveri sono il luogo giusto dove spenderli. Fuori di metafora, la logica o la legge fondamentale della nostra sussistenza economica (che vuol dire la “legge della nostra casa”: alimentare, parentale, affettiva, finanziaria, ideologica, religiosa…) è la difesa strenua del possesso dei beni, con la conseguente inevitabile rapina competitiva dei concorrenti. La nuova “legge di casa”, (l’economia del Regno), alla quale ci chiama il Signore, è invece la logica del dono! “Quello che hai, dallo ai poveri!”. Qui si rivela il tranello intrinseco ad ogni ricerca religiosa: persino di un galantuomo, credente e pio, che però non cercava la salvezza (la vita eterna) come dono del Padre, ma soltanto come la prosecuzione eterna del suo bene totale, l’assicurazione “casco” su sé e i suoi beni! Appena ne sente le condizioni improrogabili, proclamate subito chiarissime dal Signore – per avere la vita eterna bisogna staccarsi dai beni! ...lui almeno capisce che ogni altro aggiustamento è ipocrita! Se ne andò rattristato.
Avvicinarsi al Signore vuol dire dunque avvicinarsi al “suo modo di essere”… e il “suo modo di essere” è quello dei poveri: abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo... (Fil 2,5ss). Dunque “la logica del dono” proposta a chi vuol seguire Gesù, non è frutto di una pur lodata osservanza morale, ma è una condizione “evangelica” di un altra qualità! Chi accoglie con tutto il suo cuore il vangelo, può possedere dei beni e mantenerli, ma finirà per svuotarsene... quando storicamente incontra chi non li ha, quando dovrà schierarsi concretamente per il Regno: perché allora scatterà nel suo cuore la scelta preferenziale: niente mai anteporre a Gesù, al suo vangelo e ai poveri in cui egli vive. Non per dovere, ma perché così ha fatto Gesù – anzi così è Gesù! Solo così lo si incontra, a livello vitale, non psichico, non immaginario. Il resto è religiosità alienante, devozione vuota, fonte di tristezza inguaribile – perché ammalata dall’infezione della dis/umanizzazione dell’altro, cui io assisto senza personalmente compromettermi. La tristezza è anche la conferma che non si può contattare Gesù, senza passare per di qua! Se invece si passa per di qua, tutto ritorna nel circolo del dono o dell’amore condiviso, che risana le parentele egocentriche ed esclusive, le proprietà discriminanti e recintate… E dunque, “casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi” – i nostri beni esistenziali! – ridiventano (a causa mia e a causa del vangelo), il luogo gioioso o il nido aperto, dove crescere, donarsi ed essere custoditi.
Gesù Cristo è il centro del Regno di Dio, il centro di tutta la storia della salvezza, il centro di ogni vita di discepolo. Ma non si tratta del nome “Gesù Cristo”, bensì della realtà. Ora, questa realtà di Cristo si manifesta soltanto a chi vive in lui, con lui, facendo la stessa esperienza umana. Per questo c’è una centralità della povertà come accesso alla centralità di Gesù Cristo”. [José Comblin, Le sfide di Cristiani del XXI secolo]

Il “Patto delle catacombe” per una Chiesa serva e povera

Il 16 novembre del 1965, pochi giorni prima della chiusura del Vaticano II, una quarantina di padri conciliari hanno celebrato una Eucaristia nelle catacombe di Domitilla, a Roma, chiedendo fedeltà allo Spirito di Gesù. Dopo questa celebrazione, hanno firmato il “Patto delle Catacombe”.
Il documento è una sfida ai “fratelli nell’Episcopato” a portare avanti una “vita di povertà”, una Chiesa “serva e povera”, come aveva suggerito il papa Giovanni XXIII.
I firmatari – fra di essi, molti brasiliani e latinoamericani, poiché molti più tardi aderirono al patto – si impegnavano a vivere in povertà, a rinunciare a tutti i simboli o ai privilegi del potere e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale. Il testo ha avuto una forte influenza sulla Teologia della Liberazione, che sarebbe sorta negli anni seguenti.
Uno dei firmatari e propositori del Patto fu dom Helder Câmara, il cui centenario della nascita è stato celebrato il 7 febbraio. Ecco il testo:
Noi, vescovi riuniti nel Concilio Vaticano II, illuminati sulle mancanze della nostra vita di povertà secondo il Vangelo; sollecitati vicendevolmente ad una iniziativa nella quale ognuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione; in unione con tutti i nostri Fratelli nell’Episcopato, contando soprattutto sulla grazia e la forza di Nostro Signore Gesù Cristo, sulla preghiera dei fedeli e dei sacerdoti della nostre rispettive diocesi; ponendoci col pensiero e la preghiera davanti alla Trinità, alla Chiesa di Cristo e davanti ai sacerdoti e ai fedeli della nostre diocesi; nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza, ma anche con tutta la determinazione e tutta la forza di cui Dio vuole farci grazia, ci impegniamo a quanto segue:
1. Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende. Cfr. Mt 5,3; 6,33s; 8,20.
Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti), nelle insegne di materia preziosa (questi segni devono essere effettivamente evangelici). Cf. Mc 6,9; Mt 10,9s; At 3,6. Né oro né argento.
Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca, ecc.; e, se fosse necessario averne il possesso, metteremo tutto a nome della diocesi o di opere sociali o caritative. Cf. Mt 6,19-21; Lc 12,33s.
Tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione finanziaria e materiale nella nostra diocesi ad una commissione di laici competenti e consapevoli del loro ruolo apostolico, al fine di essere, noi, meno amministratori e più pastori e apostoli. Cf. Mt 10,8; At. 6,1-7.
Rifiutiamo di essere chiamati, oralmente o per scritto, con nomi e titoli che significano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza, Monsignore…). Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di Padre. Cf. Mt 20,25-28; 23,6-11; Jo 13,12-15.
Nel nostro comportamento, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo quello che può sembrare un conferimento di privilegi, priorità, o anche di una qualsiasi preferenza, ai ricchi e ai potenti (es. banchetti offerti o accettati, nei servizi religiosi). Cf. Lc 13,12-14; 1Cor 9,14-19.
Eviteremo ugualmente di incentivare o adulare la vanità di chicchessia, con l’occhio a ricompense o a sollecitare doni o per qualsiasi altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare i loro doni come una partecipazione normale al culto, all’apostolato e all’azione sociale. Cf. Mt 6,2-4; Lc 15,9-13; 2Cor 12,4.
Daremo tutto quanto è necessario del nostro tempo, riflessione, cuore, mezzi, ecc., al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi laboriosi ed economicamente deboli e poco sviluppati, senza che questo pregiudichi le altre persone e gruppi della diocesi. Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconi o i sacerdoti che il Signore chiama ad evangelizzare i poveri e gli operai condividendo la vita operaia e il lavoro. Cf. Lc 4,18s; Mc 6,4; Mt 11,4s; At 18,3s; 20,33-35; 1Cor 4,12 e 9,1-27.
Consci delle esigenze della giustizia e della carità, e delle loro mutue relazioni, cercheremo di trasformare le opere di “beneficenza” in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze, come un umile servizio agli organismi pubblici competenti. Cf. Mt 25,31-46; Lc 13,12-14 e 33s.
Opereremo in modo che i responsabili del nostro governo e dei nostri servizi pubblici decidano e attuino leggi, strutture e istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo armonico e totale dell’uomo tutto in tutti gli uomini, e, da qui, all’avvento di un altro ordine sociale, nuovo, degno dei figli dell’uomo e dei figli di Dio. Cf. At. 2,44s; 4,32-35; 5,4; 2Cor 8 e 9 interi; 1Tim 5, 16.
Poiché la collegialità dei vescovi trova la sua più evangelica realizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini umane in stato di miseria fisica, culturale e morale – due terzi dell’umanità – ci impegniamo:
-a contribuire, nella misura dei nostri mezzi, a investimenti urgenti di episcopati di nazioni povere;
-a richiedere insieme agli organismi internazionali, ma testimoniando il Vangelo come ha fatto Paolo VI all’Onu, l’adozione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino più nazioni proletarie in un mondo sempre più ricco che però non permette alle masse povere di uscire dalla loro miseria.

2. Ci impegniamo a condividere, nella carità pastorale, la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, sacerdoti, religiosi e laici, perché il nostro ministero costituisca un vero servizio;
così:
-ci sforzeremo di “rivedere la nostra vita” con loro;
-formeremo collaboratori che siano più animatori secondo lo spirito che capi secondo il mondo;
-cercheremo di essere il più umanamente presenti, accoglienti…;
-saremo aperti a tutti, qualsiasi sia la loro religione. Cf. Mc 8,34s; At 6,1-7; 1Tim 3,8-10.

3. Tornati alle nostre rispettive diocesi, faremo conoscere ai fedeli delle nostre diocesi la nostra risoluzione, pregandoli di aiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto e le loro preghiere.
Aiutaci Dio ad essere fedeli.
In ricordo di dom Helder Câmara

venerdì 9 ottobre 2009

Dalla conquista all'affidamento

La prima lettura di questa ventottesima domenica del tempo ordinario, raccoglie uno stralcio del discorso che il re Salomone avrebbe fatto parlando della sapienza. Al di là della finzione letteraria, ciò che è interessante è la ripetuta sottolineatura di quanto la sapienza sia preferibile ad ogni altra cosa egli potesse richiedere nella preghiera: «La preferii a scettri e troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto, non la paragonai neppure ad una gemma inestimabile, perché tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento. L’ho amata più della salute e della bellezza, ho preferito avere lei piuttosto che la luce»; e commenta: «perché lo splendore che viene da lei non tramonta».
Ciò che dunque rende la sapienza così desiderabile è il fatto che essa, a dispetto di tutte le altre cose pure desiderabili (scettri, troni, ricchezza, gemme inestimabili, oro, argento, salute, bellezza, luce…), non tramonti, possegga cioè una dimensione di eternità, di non corruttibilità: è qualcosa che può rimanere.
Il problema di Salomone è dunque il problema di ogni uomo: è il problema della salvezza, del fatto che la vita che spendiamo non sia vana, che qualcosa di essa rimanga, che abbia un senso, che noi rimaniamo. Nonostante oggi suoni anacronistico dire “il problema della salvezza” e nessuno pare preoccuparsene, in realtà se esso viene declinato – per esempio traducendolo in domande quali “Che senso ha la vita se poi si muore?”, “Cosa sono qui a fare?”, “Come è giusto spendere la vita?”, “Per cosa vale la pena farlo?”, “E tutto questo mio correre, affannarmi, preoccuparmi, darmi da fare, ha qualche futuro?”, “Io sono destinato a finire nel niente, e così tutte le persone che amo e tutto ciò che mi circonda?”, ecc… – salta immediatamente all’occhio come questo sia IL problema, il problema di tutti e di ciascuno.


Non a caso il capitolo 7 del libro della Sapienza da cui è tratta la nostra prima lettura iniziava sottolineando la parità di condizione – dal punto di vista del problema esistenziale – tra chi parla (Salomone) e ciascun uomo; i versetti 1-6 infatti suonano così: «Anch’io sono un uomo mortale uguale a tutti, discendente del primo uomo plasmato con la terra. La mia carne fu modellata nel grembo di mia madre, nello spazio di dieci mesi ho preso consistenza nel sangue, dal seme d’un uomo e dal piacere compagno del sonno. Anch’io alla nascita ho respirato l’aria comune e sono caduto sulla terra dove tutti soffrono allo stesso modo; come per tutti, il pianto fu la mia prima voce. Fui allevato in fasce e circondato di cure; nessun re ebbe un inizio di vita diverso. Una sola è l’entrata di tutti nella vita e uguale ne è l’uscita. Per questo pregai». E precisamente a questo punto iniziano i versetti 7-11 che compongono la nostra prima lettura, con la scelta salomonica di chiedere, su tutto, la sapienza.
A ben guardare il problema è il medesimo che assilla anche il “tale” di cui si parla nel vangelo, che proprio per cercare una risposta a questo angosciante mistero, «corse incontro» a Gesù «e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”».
Il problema è lo stesso, è il nostro, è quello di tutti: Cosa dobbiamo fare? Cosa dobbiamo fare per vivere una vita buona? E come facciamo a capire cosa è una vita buona? E poi, “buona” per chi? Verso cosa corriamo? Verso dove andiamo? Verso chi? E perché? Qualcuno lungo la storia ha parlato di premi, di aldilà, di vita dopo la morte… Era vero? E come si fa per guadagnarseli? Quali prove, quali sforzi, quali sacrifici? E se non è vero, cosa sono qui a fare? Ha senso ciò che faccio, se è destinato al niente? E se decido di sfruttare comunque questa cosa – che è la vita – che mi sono ritrovato a vivere, cosa devo fare perché non sia un’occasione sciupata?
Ce n’è per tutti… Perché nessuno è esentato dal problema del finire delle cose… del finire delle persone… del finire di se stesso… è un’evidenza che continuamente ci si ripresenta e ravviva l’angoscia dentro…
Dunque proviamo ad andare insieme a questo “tale” da Gesù, per chiedere a lui allora cosa dobbiamo fare per avere in eredità la vita eterna… Immediatamente la risposta di Gesù sembra ricalcare la tradizione: risponde come ci si aspetta che risponda, come avrebbe risposto qualsiasi rabbì del tempo… In qualche modo suscitando una certa delusione in chi domandava, «Gesù gli disse: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”. Egli allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”».
La delusione arriva dal fatto che l’indicazione di Gesù ricalca ciò che si è già da sempre fatto e che ugualmente non ha saziato la domanda di senso, non è sembrata una risposta adeguata alla prova della vita, se non altro non ha risolto il problema di questo “tale”.
Gesù si accorge di questa delusione e ha una reazione imprevista. Che si tratti di reazione lo si evince da quel “allora Gesù”, che segue immediatamente ciò che aveva detto colui che lo aveva interrogato, «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza»: «Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò».
Ebbene, in questo «lo amò», sta tutto il senso del brano. Tutto ciò che segue infatti – e che conosciamo a memoria (la proposta di Gesù di andare, vendere tutto ciò che aveva, darlo ai poveri, poi tornare da lui e seguirlo; il diniego e l’andarsene rattristato dell’altro; l’affermazione di Gesù dell’assoluta difficoltà per i ricchi di entrare nel Regno; lo sconvolgimento dei discepoli a tale annuncio) – mostra come l’incomprensione tra Gesù e quel tale – e forse tra noi e la Vita – non stia tanto nelle parole, nelle soluzioni, nelle proposte, più o meno accettabili e accettate; ma nella logica con cui si pensa la Vita.
L’ansia di questo “tale” infatti e tutti gli elementi che compongono il suo modo di porsi di fronte a Gesù e il suo modo di domandare, rimandano ad una prospettiva per cui la Vita è una conquista. Come dicevamo anche nelle nostre domande esplicative, tutto ruota intorno alla questione del “Cosa devo fare?”… Quali sforzi, quali sacrifici, quali rinunce? Oppure: quali imprese, quali fatiche, quali eroicità?
In evidenza è dunque l’attività dell’uomo, il suo doversi dare da fare, il suo dover – appunto – conquistare una meta, realizzare un successo, afferrare un risultato.
La prospettiva di Gesù invece va esattamente nel verso opposto: «Lo amò»; cioè come primo approccio ha esattamente quello di togliere l’altro dalla sua frenetica attività e di porlo in una situazione di passività, recettività: prima che quello decida se accettare o meno la sua proposta, anzi, prima ancora di formulargliela, Gesù lo investe di benevolenza, di uno sguardo amante, dell’invito ad entrare in quel suo spazio interiore che ha allargato per farci stare anche lui, l’ultimo arrivato.
E non solo, ma proseguendo, continuamente ripropone questa logica: quando poi effettivamente formula la sua proposta, invitando quell’uomo ricco a lasciare tutto, darlo ai poveri e seguirlo (suggerendogli dunque di mettersi nella posizione di chi si deve affidare, piuttosto di chi deve gestire); quando ai discepoli “sconcertati” e “stupiti” dichiara l’impossibilità umana a costruirsi una salvezza; quando infine mostra come però l’impossibilità umana, diventi possibile in Dio, dunque in un mettere il Lui la propria vita…
Il succo di tutto il brano dunque non credo sia propriamente quello di un invito a lasciare tutto ciò che abbiamo o – come lo abbiamo spesso ridotto noi – a lasciare simbolicamente qualcosa di nostro – dato che lasciare tutto è impensabile –; quanto piuttosto lasciare la logica della conquista per la logica dell’affidamento (che è l’unica poi, che, anche materialmente, consente di lasciare tutto senza rimpianti e inacidimenti postumi).
L’invito di Gesù cioè sembra essere quello di chi suggerisce all’uomo di porsi nella vita in maniera nuova. Da quando infatti siamo “gettati” in questo mondo, il nostro tentativo innato e immediato è quello di salvarci la vita, di imparare a gestire le situazioni, a controllarle, a dominarle: per sapere sempre cosa fare, come farla ed eventualmente cadere in piedi. E tentiamo di usare questa strategia anche nelle cose che invece gestibili non sono: l’amore, il dolore, la morte, la vita nuova che ogni tanto sgorga… E ci ritroviamo a chiedere al Signore: “Cosa dobbiamo fare?”, “Come si gestisce il dolore, l’amore, la morte, la nascita, …?”.
Ma l’evidenza continuamente ci rimanda che per quanto proviamo e magari a volte ci vada anche bene, restano cose non in nostro possesso, non dominabili, non controllabili. Ed ecco il senso di fallimento, la frustrazione, la delusione, la disperazione: perché non poter gestire la morte, vuol dire dover morire e restare morti, per quanto ci compete…
Fin qui noi…
Dentro qui, quell’uomo di Nazareth, che i cristiani credono essere il Figlio di Dio, inserisce la sua buona notizia: l’impossibilità di salvarvi la vita non è disperante, perché non doveva nemmeno essere una vostra preoccupazione; essa infatti è già nelle mani sicure del Padre. È lui che salva la vita, per questo essa diventa vivibile e non nei termini di una giungla dove il più forte vince, ma nei termini di una casa, dove si può davvero essere fratelli e prendersi cura dei piccoli, perché la vita di tutti è al sicuro e l’altro non ha motivo di essermi rivale o nemico o avversario, perché non ha niente da guadagnare sulla mia pelle…
È quello che fin da piccoli impariamo, ancora più originariamente che l’istinto di sopravvivenza e dunque – forse – più autenticamente: infatti appena “gettati” in questo mondo, prima di imparare a sopravvivere, abbiamo imparato a stare nelle mani di colui/colei tra le cui mani inevitabilmente ci hanno messo … ed è questo affidamento naturale e inevitabile per tutti e per ciascuno che ci ha fatto uomini e donne – più di qualsiasi altra cosa… forse davvero allora, come diceva il vangelo di domenica scorsa, dovremmo ritornare a essere bambini…
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