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venerdì 31 luglio 2009

Chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!

Jésus MAFA: Moltiplicazione dei pani
...Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato e vi siete saziati.. Guai a voi che siete sazi! – così ci rimprovera Gesù, perché noi, appena sfamati, non cerchiamo più, accechiamo i segni, perdendone il significato. Ma i segni hanno senso solo perché rimandano ad un significato ulteriore, di cui appunto sono il segno. L’uomo è unico al mondo capace di interpretare i segni, domandandosi continuamente il perchè delle cose e di se stesso – ansioso di scavare dentro ogni cosa il suo significato. Capace, di fronte al mistero che le cose nascondono, di provare le più diverse reazioni: di piccolezza, di paura, di adorazione, di meraviglia, di dolore, di possesso, di competizione. Gesù afferma qui, ripetutamente, di essere “il pane” per questa fame (il pane della vita – il pane disceso dal cielo – il pane vivente disceso dal cielo...), come più avanti, nel vangelo di Giovanni, continuerà: “io sono”... la luce, la porta, il buon pastore, la vite, la via, la verità, la vita. Si tratta ovviamente di metafore. La metafora è un modo visivo e immediato di trasferire il significato di una parola ad un’altra, per attribuirle intuitivamente la densità di messaggio che si vuol comunicare. Se Gesù è per gli uomini tutte queste cose... o ha una presunzione pazzesca o ha un’empatia infinita con i bisogni della gente. Ecco qui la sua proposta di salvezza drammaticamente consapevole che, se l’uomo non apre una relazione con lui su “qualcosa” di tutti questi significati... muore di svuotamento e di inedia. Questa è infatti la testimonianza dei suoi primi amici: Dio ci ha donato la vita eterna e questa vita è nel suo Figlio. Chi ha il Figlio, ha la vita; chi non ha il Figlio di Dio, non ha la vita (1Gv 5,11s).
... al tramonto mangerete carne e al mattino vi sazierete di pane!
Gli Israeliti, presi dalla fame nel deserto, «mormorano»! È un brontolare privo di fede, triste e regressivo, fino a reinterpretare il progetto di liberazione e di vita nuova, che li aveva entusiasmati, come un progetto di morte... Hanno in mente solo il bisogno di saziarsi, fosse pure la sazietà dello schiavo! Di fronte a una simile desolante incredulità, Dio esaudisce le richieste del popolo, riconoscendone l’elemento di verità. Nella loro difficoltà a fidarsi, il Signore li educa: sa che l’uomo è alle prese con due grandi insidie. La prima è l’idolo della sazietà fine a se stessa, l’invincibile animalità dell’uomo di carne – biblicamente, la sua “dimensione psichica”! vendermi a chi mi dà il pane e il resto non interessa. La seconda, strettamente collegata, è la bramosia dell’accumulo. Non mi basta saziarmi, ho bisogno di sentire che questa sazietà mi è garantita, che ne ho il controllo. È l’«ansia della vita» (Lc 21,34 etc.), della quale si è inevitabilmente preda quando non ci si affida a Dio, ma, in vari modi, a mammona, il dio della quantità. E allora tutto è disperatamente insufficiente a garantirci dalla paura di morire... Dio sa della nostra invincibile animalità: «mangerete carne e vi sazierete di pane, e saprete che io sono il Signore» (12). Nel misterioso pane croccante, sul suolo del deserto, che viene raccolto come cosa ignota (cos’è ? = manna!) Dio dà un segno, subito usufruibile, ma il cui senso diverrà comprensibile solo molti secoli dopo. Ancora una volta il miracolo veterotestamentario carne e pane, pane che è carne e carne che è pane! – è solo un immagine previa di ciò che Dio darà al mondo in Gesù: gli uomini continuano a morire di fame nei deserti del mondo, fino ad oggi. L’estrema intenzione di Dio non era dunque di conservare o prolungare la vita, ma di dare un segno che aprisse il cuore alla speranza di una risposta alla fame di vita ulteriore, insaziabile con pane terreno.
Gesù non era più là!...
Gesù ha ripreso questo “segno antico”, ma ancora una volta, nel rispondere alla fame dell’uomo, è frainteso: o, almeno, é capito solo nella dimensione fisica, peraltro necessaria. Poi, la miracolosa moltiplicazione dei pane è passata. Ora gli uomini rincorrono il taumaturgo per essere nutriti ancora da lui. Esattamente come la samaritana al pozzo: dammi quest’acqua, perché non abbia più sete e non debba venire fin qui ad attingere acqua... Gesù ci invita a lavorare per qualcos’altro, ad acquistare il cibo per la vita eterna, il che sarà ovviamente un agire di Dio. Perché, appunto, il pane e l’acqua della terra non possono colmare la fame e saziare la sete del cuore umano! Tutte le Scritture convergono su questo. E, d’altra parte, può la parola del cielo saziare il nostro umanissimo bisogno fisico di vita? La risposta alle due domande ci viene da Gesù in persona, lui, la Parola diversa, l’unica, che è “spirito e vita”, che diventa per noi presenza e dono, per sempre: “Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. Questo fu l’oracolo del Signore a Mosè e fu pure la risposta del Messia, appena battezzato da Giovanni, al Tentatore nel deserto (Dt 8,3; Mt 4,4). E questa è la risposta di Gesù alla folla: datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane. Gesù non deprezza il bisogno materiale di pane (che ha appena moltiplicato!). È rattristato dall’incomprensione del segno che ha dato, è ferito dal rifiuto della gente di passare dal bisogno animale al bisogno spirituale: “Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati” (Gv 6,26). Soffre perché la folla si taglia fuori da una qualità di vita (la vita eterna) che dà pienezza e compiutezza infinitamente superiore alla sazietà fisica. Per “vita eterna” non si deve intendere l’aldilà. Gesù sta parlando a gente immersa nei problemi dell’al di qua. E dentro costoro, dentro la loro vita piena di problemi quotidiani, vorrebbe seminare la fame di un’esistenza condotta in comunione con Dio. Non un’altra vita in futuro, ma una vita ‘altra’ adesso!
questa è l’opera di Dio: “credere”... in lui, mandato da Dio!
Scatta allora la domanda: “Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?”. Non si accorgono di esprimere in tal modo una contraddizione senza uscita, un’aporia: le opere di Dio l’uomo non le può compiere... Dunque l’uomo ha una fame e una sete che non può soddisfare, perché le risorse a sua portata gli sono necessarie per non morire fisicamente, ma sono inefficaci su questa fame/sete più profonda e costitutiva che è la radice della sua umanità. Allora Gesù insiste sulla contraddizione e anche sul suo superamento. “Opera di Dio” è che l’uomo creda, invece di operare. Si doni cioè, a colui che è stato mandato da Dio proprio per salvarlo. Ma loro vogliono un segno, per poter credere: si immaginano sempre la fede come un’opera da fare, ma “dopo” che li avrà convinti con un segno come la manna antica. Ora Gesù si contrappone alla manna come il “vero pane” dal cielo e non un alimento, pur portentoso, che si raccoglie da terra.. La fame “spirituale” (forse bisognerebbe dire ‘antropologica’!), ci spinge oltre l’umano. Non verrà mai saziata da nient’altro che dall’accoglimento di Gesù nella fede, del Gesù che Dio invia nel mondo come vero pane “dal cielo”... Anche il credente dovrà operare, ma unicamente dalla fede, non per credere... perché la fede è accoglienza e dedizione perfetta a Dio che opera, non operazione umana (Balthasar). Ecco il passaggio dalle opere da compiere all’opera di Dio, proposto dal Maestro. La questione, secondo Gesù, non è tanto di fare delle cose per Dio, quasi per meritarsi la fede: osservare norme e precetti, rispettare tradizioni e consuetudini, praticare riti e frequentare funzioni religiose, ma di “affidarsi all’Inviato di Dio”. Questa è l’opera di Dio: la fede, il dono di aprirsi senza riserve e senza pregiudizi alla rivelazione di Gesù, accogliere la sua missione come l’opera di salvezza mandata da Dio stesso nella nostra storia.
io sono il pane disceso dal cielo
... messo alle strette, spinto in competizione addirittura con Mosè, il supremo mediatore della rivelazione divina, Gesù comincia dunque a svelare il mistero della sua identità, che lo porterà alla fine (tu, che sei uomo, ti fai Dio! : sarà il motivo “vero” della condanna!). Gesù esige dai suoi uditori che passino dalla memoria della manna nel deserto all’attesa del “pane del cielo” – che è lui, in persona come dono del Padre: il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo. A questo punto la gente non ci sta, se non, forse, quelli che già a lui si stanno affidando esistenzialmente e affettivamente, perché già di lui vivono, come gli apostoli, le donne che lo seguono, i più poveri e semplici guariti e “salvati” da lui!. Ma per noi, gente normale e non sprovveduta, con qualche risorsa in proprio da difendere... la posta in gioco è troppo alta. Ci vuole ben altro per credere, e glielo rinfacciamo, continuamente: “Quale segno ci fai vedere” per farci smuovere verso di te? ...Questo è il freno che continuamente siamo tentati di mettere in atto nel cammino della nostra fede. Irrimediabilmente in difesa , alla ricerca di motivi razionali e sperimentali , per moderare le esigenze del vangelo, e riportarci e rinchiuderci sempre più nel cerchio del nostro piccolo io, che pure soffriamo come prigionia senza speranza! E toccar con mano che la vera fede è opera di Dio!
nutrito del pane vero... un “uomo nuovo”
... dopo tanto resistere nella sua “religiosa” cocciutaggine, che ci rappresenta tutti, Paolo s’è affidato totalmente a questo Gesù che prima rifiutava orgogliosamente come insignificante ed eretico rispetto alla grande tradizione dei Padri. Scopre finalmente anzi è scoperto... da chi cercava da sempre, colui che risponde alla fame profonda dell’uomo, non con il digiuno o i divieti, ma con “il pane di Dio”. Colui che non deprezza le passioni umane, ma le trasforma e le converge in una relazione totalizzante e rigenerante con lui... Il pane della vita congeda l’uomo vecchio che muore, affannato dietro passioni ingannatrici di pani malfermentati, angosciato per “accumulare” ... credendosi derubato di ogni cosa – finché non si affida a lui, rinnovato nello spirito della mente, per rivestire l’uomo nuovo creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità.

giovedì 30 luglio 2009

La fame dell'uomo è saziabile solo vivendo di Lui

In questa diciottesima domenica del tempo ordinario continua il discorso sul pane del cielo, che l’evangelista Giovanni aveva iniziato al primo versetto del sesto capitolo e che costituiva il vangelo di domenica scorsa (Gv 6,1-15). Come dicevamo, siamo infatti all’interno di un ciclo di 5 domeniche che si concentrano proprio su questo argomento, di cui oggi ci è proposta la seconda “tappa”.
In verità non è mai raccomandabile smembrare un testo concepito come unitario, sarebbe decisamente più opportuno presentarlo nella sua interezza, ma le esigenze pastorali costringono a questo spezzettamento: da questa necessaria soluzione metodologica cercheremo allora di prendere il vantaggio di poterci concentrare su alcuni elementi specifici (settimana scorsa – per esempio – il rapporto tra la folla e Gesù), tentando per altro verso di evitare il rischio di perdere di vista l’insieme.
Il brano odierno riprende dal versetto 24. Ci sono 8 versetti di “stacco” rispetto alla conclusione del testo di domenica scorsa (v. 15) e sono quelli in cui è narrato lo “spostamento” di Gesù all’altra riva del lago e la presa di coscienza della folla della sua assenza.
Dopo l’incomprensione di questa rispetto al senso del gesto di Gesù della distribuzione dei pani e dei pesci, la relazione è riproposta al di là dal mare. Stavolta il confronto diviene diretto, la folla e Gesù interloquiscono direttamente, ma anche in questo caso l’esito sarà incerto e il fraintendimento chiaro.
Il problema che la folla pone è infatti quello che riguarda il sottrarsi di Gesù rispetto al loro desiderio di acclamarlo addirittura re: dietro alla domanda «Rabbì, quando sei venuto qua?» sta infatti tutta la delusione dell’incomprensione appena consumata. Mentre il vangelo di domenica scorsa focalizzava maggiormente l’attenzione sulla reazione di Gesù al sentirsi frainteso, questa domanda pone il medesimo problema dal punto di vista della folla: perché Gesù se ne è andato? Perché se ne è andato senza dire niente? Perché non vuole continuare a sfamarci? A essere il re che dà da mangiare al suo popolo?
Come già si diceva la scorsa settimana, il problema dell’incomprensione verte tutto sul senso del pane che Gesù vuole dare e che la folla vuole ricevere. Quella cercava qualcosa che riempiva la pancia, Egli proponeva invece qualcosa che riempiva la Vita.


Il brano odierno è infatti la precisazione di questa incomprensione, o meglio, l’inizio della sua esplicitazione. Gesù infatti alla folla che sostanzialmente gli chiede conto del suo essersi sottratto e dunque di aver rivelato un’incomprensione, risponde chiarendo in che senso si è sentito frainteso: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo».
Il problema del misunderstanding è allora sulla qualità del pane, o, detto fuor di metafora, sulla consistenza esistenziale da perseguire: non il cibo che non dura è il correlato dell’uomo, la risposta adeguata alla sua domanda sul senso, la risoluzione della sua vita, bensì il cibo che rimane per la vita eterna.
Ma cosa si nasconde dietro a questi paragoni: cosa è il cibo che non dura e cosa (chi) è il cibo che rimane per la vita eterna? Un primo livello di risposta è facile, per i cattolici quasi automatico: cibo che non dura è il pane inteso in senso letterale, quello fatto di acqua e farina che Gesù aveva distribuito il giorno prima, cibo che appunto si limita a saziare e riempire la pancia; e cibo che rimane per la vita eterna è Gesù.
Questa seconda risposta, che a prima vista potrebbe sembrare la più difficile (cosa è il pane che rimane per la vita eterna?), è invece tanto più facile se si nota che è il testo stesso a suggerirla: in chiusura di questo brano arriva infatti quell’identificazione esplicita tra Gesù e il pane («Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!») che tanti smottamenti provocherà in seguito nella folla e fra i discepoli stessi…
Al di là dell’automatismo di questo primo livello della risposta, il problema vero diventa però capirne il senso: al di là della lettera, quali sono quelle dimensioni o esperienze o orizzonti umani fatti di pane che non dura? Cos’è che nella vita non è degno di un darsi da fare, data la sua inconsistenza nel tempo? E – sull’altro versante – in che senso Gesù è il pane che rimane per la vita eterna? In che senso è il pane della vita? Evidentemente come si diceva settimana scorsa e come sarà ripreso la prossima, un’accentuazione in chiave eucaristica è ineludibile. Ma anche lì… non si può trattare di una prospettiva estrinseca, per cui mangiare il pane del cielo equivarrebbe a fare la comunione tutte le domeniche e così considerarsi “apposto” per la vita eterna. Anche lì il problema è di senso. Cosa vuol dire allora la proposta di Gesù a darsi da fare per il pane che rimane per la vita eterna? In altre parole, cosa vuol dire che Gesù è il senso della vita dell’uomo? È la pienezza di cui invece – per altre vie – egli torna sempre ad aver fame?
Innanzitutto va chiarita la fame. Quale fame Gesù vuole saziare? Non quella della pancia, evidentemente, ma allora quale? In gioco non pare esserci meramente la fame del sapere cosa fare (un itinerario morale o spirituale o prassistico); la fame della risoluzione di qualche problema; la fame di un trascorrere solamente una vita tranquilla. In gioco c’è il problema dell’uomo, anzi più radicalmente in problema uomo: il problema del senso dell’esserci, il problema del dover morire, il problema del vivere e di come farlo, di come sia giusto e degno farlo, non in senso relativo, ma assoluto… di che cosa ci stiamo a fare qui, di che senso hanno le tombe in cui necessariamente finiamo, di qual felicità è percorribile e se davvero essa sia una proposta percorribile, per me, per gli alti, per tutti… di dover cercare, scavare, in cosa impegnarsi: nello studio, nell’interiorità, nel lavoro, nella disponibilità agli altri, nella straordinarietà, nella quotidianità, nello svago, nel vantaggio… quante proposte intra ed extra ecclesiali… tutte con la loro plausibilità e convinzione e argomentazione… ma a chi dar retta in questo vociare continuo? Quali criteri usare per decidere di sé e degli altri, come sapere cosa è giusto e cosa è bene nelle situazioni?
Tutto questo e molto altro è ciò che Gesù vuol saziare. Sempre nel vangelo di Giovanni ciò è sintetizzato magistralmente nella giustamente celebre frase: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). La pienezza della gioia… ecco cosa vuol saziare Gesù… ecco perché la sua pretesa apparirà sempre – già al suo tempo come oggi – “esagerata”, appunto troppo pretenziosa, troppo ardita, illusoria, incredibile… Perché – diciamo noi aridi vecchi uomini di ogni età – è impossibile per l’uomo tale gioia.
La sua proposta “funziona” invece all’incontrario… lui chiede di essere creduto: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato»; a fronte della (comprensibile) incredulità umana, sfiancata dalla tragicità della vita – che si rivela tanto più drammatica nel tentativo dello società odierna di relegarla nell’oblio, tanto essa è insostenibile – Gesù chiede che gli venga dato credito: che si abbia la fede – diremmo, se tale termine non fosse così consumato e logoro, da rimandare meramente a un’adesione formale a verità incomprensibili e di cui sinceramente – per onestà intellettuale – l’uomo di oggi fa volentieri a meno.
Un credito che non ha il sapore dell’iniezione di fiducia della psicologia fai da te che continuamente ci ripropone l’ottimismo, come soluzione delle crisi. Egli non chiede che si creda in qualcosa, che ingenuamente si continui a dire che poi comunque le cose andranno per il verso giusto (al massimo nell’aldilà): Egli chiede che si creda a Lui. E anche lì non solo alle cose che dice, non solo alle cose che fa, ma all’uomo e al Dio che è (che ovviamente comprende ciò che dice e che fa). L’adesione cioè non è intellettualistica o moralistica, ma personale.
Che Gesù è il pane di vita, vuol dire che la fame dell’uomo è saziabile solo vivendo di Lui, acconsentendo nel segreto a dar credito che l’umanità che ha attuato lui è l’umanità dalla gioia piena, che non ha più fame né sete e che lo è in assoluto, perché “certificata” da Dio in persona. Acconsentendo e ribadendo tale paradigma in ogni interstizio della propria interiorità: così che ogni decidere di sé e degli altri, ogni pensare e pensarsi, ogni porsi e ritrarsi, abbia come logica la signoria del Signore.
Non in senso mimetico: non è banalmente un’imitazione quella che viene chiesta, non è una ripetizione di gesti e parole, nemmeno di sentimenti e intenzioni; ma è un’assunzione, nella personalità irripetibile di ciascuno di ciò che Egli è. Ecco perché il cristianesimo non può essere mai ridotto a un insieme di dottrine o di precetti – e quando la chiesa lo ha fatto ha espresso il peggio di sé ad intra e ad extra – perché l’assunzione singolare della forma Christi può avvenire solo in una relazione tra due libertà, tra due persone, tra due volti, due cuori, due carni, che si mischiano, si ridistanziano, si fraintendono, si rispiegano, si ricomprendono, si entusiasmano, si deludono, si amano, si temono, si riaffidano, in una circolarità incandescente che si autoalimenta.
Ma – ammesso questo vortice identificativo – come può essere credibile come pane che dona la pienezza della gioia, uno che è morto crocifisso? Uno che «non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere» (Is 53,2)? Perché credere e seguire uno che va a morire? Questo è ancora di più l’inaccettabile – ieri come oggi, con l’uomo sempre alla ricerca del bene “per sé”. Ma la forma Christi è proprio questa: la pienezza della gioia è l’amore, l’essere per gli altri, perché gli altri siano, fino alla morte – fino a morirne: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15 11-13).

sabato 25 luglio 2009

La condivisione moltiplica, non diminuisce il dono!

Condivisione
La liturgia della chiesa sospende la lettura del vangelo di Marco e per le prossime cinque domeniche sposta la nostra attenzione sul VI capitolo del vangelo di Giovanni. Un lungo e vivace dibattito animato da diversi personaggi: la folla, i giudei, il gruppo dei discepoli e i dodici. Al centro, protagonista, Gesù, il pane della vita! Come prima, con Nicodemo, il “nascere di nuovo” e poi, con la Samaritana, “l’acqua zampillante”, Gesù gioca sul fraintendimento tra l’uso normale della parola e l’uso simbolico, che rimanda ad un altro significato vitale di cui il primo è segno... e che, alla fine, è il rapporto di salvezza con Lui stesso, Gesù! Dunque la stessa domanda centrale del Vangelo di Marco: chi è Gesù? Ripresa però quando già tutti i vangeli erano stati scritti, la comunità di Gesù aveva ormai fatto un lungo cammino tra successi e difficoltà, conflitti e persecuzione, con una comprensione del mistero del Signore risorto molto più approfondita e completa. Ma come è avvenuta questa ulteriore comprensione della verità, che Gesù aveva preannunciato, donandoci il suo stesso Spirito come accompagnatore? Attraverso la riscoperta delle Scritture provocata dagli eventi complessi e contraddittori della storia, alla luce di quanto Gesù stesso aveva detto e fatto, perché “di Lui le Scritture antiche parlavano”, di lui parlano anche tutti gli eventi e tutte le cose, sia quelle naturali che quelle elaborate dal fervore creativo dell’uomo, perché ”tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste”.
Eliseo profeta: la condivisione moltiplica, non diminuisce il dono
L’episodio parte da un gesto di generosità che intende onorare il profeta con un dono: venti pani, frutto del nuovo raccolto:, un gesto di riconoscenza a Dio e all’uomo di Dio, insieme! Ricevendo il dono, Eliseo ordina al servitore di condividerlo con tutta la comunità (forse il gruppo dei profeti suoi discepoli), suscitando la sua meraviglia, poiché i pani sono vistosamente insufficienti per tanti commensali. Ed ecco la solenne proclamazione della Parola del Signore: «ne mangeranno e ne lasceranno». La “Parola” si avvera e diviene fatto. Tutti ne mangiano e ne lasciano ancora in avanzo. La Parola di Dio si manifesta nella sua pienezza: non è parola vuota, e nemmeno semplice riconoscimento e comunicazione, ma produce quanto proclama, è parola efficace! Parola ed evento si legano misteriosamente, per cui la parola diviene fatto e il fatto parola. Questa esperienza è vissuta e tramandata come viva indicazione della strada della salvezza: il Dio d’Israele, attraverso la sua Parola, apre la strada di salvezza efficace per il popolo di Israele, se gli sarà fedele. Cioè se, appunto, crederà alla forza invincibile della sua Parola e la seguirà con amore senza riserva.
tanti secoli dopo...
...i discepoli di Gesù si trovano in un simile frangente, in proporzioni ancora più grandi. E non sanno come affrontare la responsabilità di tutta quella folla affamata. La sfida è oltre ogni misura: cosa sono, infatti cinque pani d’orzo e due pesci, dinanzi a quella moltitudine di affamati. Il racconto di cosa succede (l’unico tra i miracoli di Gesù che è narrato da tutti gli evangelisti – e per sei volte), in Giovanni, ancor più che negli altri vangeli, mette al centro Gesù. È Lui che vede il bisogno della folla, che attira l’attenzione dei discepoli e che poi – addirittura! –distribuisce il pranzo. Tutto è orientato verso Cristo; non solo per sfamare la folla senza risorse e senza denaro, ma per imbandire un vero banchetto. Alla gente viene ordinato di sedersi e il verbo usato è, appunto, quello dell’accomodarsi a mensa: ma si tratta ben più che di soddisfare la fame di un momento, come si può vedere da ... i tre passi con i quali si avvia ormai al mistero eucaristico: Ma tutto è preceduto dalla domanda tragica, incessantemente ripetuta da quando l’uomo è sulla faccia della terra – fatta propria da Gesù stesso: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?» e poi dalla successiva riflessione della voce fuori campo, che è la voce per noi, per tutti i tempi: diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere e infine la fuga solitaria sul monte!.
1. ... per metterlo alla prova
È questo il problema della storia ... o del senso della fede nella storia. Cioè della fede nel mezzo delle vicende della vita, dei legami affettivi, economici, politici in cui siamo avvolti e coinvolti... che ci interpellano, ci provocano, “mettono alla prova”l’autenticità del nostro rapporto con Dio, “mettono alla prova” la fede stessa di Gesù, che è il prototipo della nostra. Gesù conosceva le Scritture, conosceva l’esperienza dei profeti nel tentare di capire il senso della storia e la Parola di Dio che la illumina. Aveva provato sulla sua pelle le tentazioni del deserto! Conosceva l’esperienza del profeta Eliseo, in questo caso di particolare somiglianza, nella provocazione ad affidarsi alla parola, la quale afferma che distribuire il poco che abbiamo è moltiplicare – contro ogni logica aritmetica. E Gesù assume questo antico “vangelo” profetico, che sfida le misure entro le quali l’uomo è imprigionato dalla paura e rinnova l’efficacia della parola: distribuisci i pochi pani che hai alla moltitudine e ne avanzeranno! Si accende un circolo luminoso tra la provocazione della storia, che ripropone in forme sempre nuove la fame ancestrale dell’uomo e lo sbilanciamento verso l’antica Parola già risultata efficace per la fede dei nostri Padri. E avviene il miracolo definitivo in Gesù! Cioè il “segno” su cui fondare la nostra fede, per farci ripartire, nelle vicende della nostra vita, con lo sbilanciamento verso la Parola nonostante l’angustia e la paura che l’insufficienza dei mezzi a disposizione induce nel cuore. L’andamento del racconto è paradigmatico: la moltiplicazione avviene solo dopo la divisione e la con/divisione del pane avviene solo dopo che un «piccolo» mette a disposizione di tutti le sue minuscole risorse. Quei poveri, piccoli pani si moltiplicano man mano che si dividono! Finché ne vollero... furono saziati È l’abbondanza promessa dai profeti per il tempo della compiutezza di ogni attesa – il banchetto escatologico di tutte le genti. Quindi mai compiuto storicamente, verso cui dobbiamo con fatica camminare, un banchetto di incessante fede operativa. Senza illusioni miracolistiche o derive populiste di un nuovo potere che domini la gente, sfruttandone la fame!
2. ma ... egli sapeva quello che stava per fare...
...non solo sapeva il segno che avrebbe illuminato per un poco la folla, ma come subito la folla ne sarebbe ammaliata. Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo. Il circolo della fede si è appena acceso e già la tentazione del potere lo insidia e vuole requisirlo. Infinite volte nella storia della nostra fede di chiesa e di singoli discepoli del Signore scatta questa trappola. È qui il punto più delicato di tutto il discorso di fede, nella stessa vicenda umana di Gesù, tra la fame che “mette alla prova” la nostra fede e ci fa dubitare di Dio e la tentazione di sfuggire il problema proiettandolo alla fine, dopo la storia. “Questa folla che vuole fare re” l’uomo del miracolo è dominata dall’istinto di potenza: avere un capo che assicura il pane miracolosamente sembra la soluzione del problema, ma priva l’uomo della sua libertà responsabile. Gesù si ritira, fugge. Non vuole servi, ma amici. Fugge dalla storia? perché la storia, nel concreto suo divenire, è una lotta per raggiungere il pane, per raggiungere la giustizia economica. Gesù in questo momento è isolato, non c’è! Egli va ad occupare e preoccuparsi, per così dire, dell’orizzonte ultimo e sembra essere assente dalle tappe del cammino storico. Non accende, forse, così facendo, luci ambigue sugli obiettivi estremi della storia, lasciando però al buio il presente? Proprio per rispondere a questi interrogativi non possiamo non tener conto dell’evoluzione culturale avvenuta all’interno della coscienza dell’umanità. Gli eventi degli ultimi secoli hanno mutato la comprensione che l’uomo ha di sé. Sono emerse possibilità nuove culturali e tecnologiche che investono con imprevedibili provocazioni (mettono alla prova!) la fede cristiana e la sua natura profetica. Il messaggio profetico è tale proprio perché, pur espresso in formulazioni di una data cultura, le supera e man mano che la storia illumina possibilità nuove, domanda nuove sintesi, apre nuove strade. E ripropone al discepolo la forza e il fermento della fede di Gesù e del suo amore... Chi pensava nel mondo antico ai poveri, cercava di alleviare la loro miseria e li assisteva con amore, senza mettere in discussione l’assetto socioeconomico stesso della società che produceva quei poveri – ritenuto sostanzialmente “naturale”, immutabile, pur con tanti limiti provocati dall’egoismo. Oggi è impensabile! e da un secolo ormai la chiesa cerca la strada per combinare la profezia evangelica, schierata coi poveri e la struttura socioeconomica che è la vera causa della povertà.... Fino alla recente enciclica: Caritas in veritate, che è un’articolata analisi storica proprio di questo sforzo del Magistero di capire e illuminare il dramma tragico della società moderna che ha a portata di mano un’opzione unica nella storia : la possibilità “tecnica” di saziare la fame di pane dell’umanità, senza trovare la volontà politica di attuarla.
3. “il profeta”... senza il potere che la gente vuole, sarà mangiato come pane!
La folla non si sbaglia su di lui, quando pensa che Gesù «è davvero il profeta che deve venire nel mondo», che inaugura i tempi messianici imbandendo un banchetto gratuito e abbondante, come promesso dai profeti antichi. Ma cade subito nell’ambiguità della tentazione del potere miracolistico – che deturpa l rapporto tra Dio e l’uomo. Giovanni ripensa e centra il punto nevralgico dell’avventura umana del Cristo: l’ora in cui l’umiliazione di Dio coincide con la manifestazione della sua gloria “paterna”, cioè il paradosso della salvezza divina nell’impotenza umana – l’ulteriorità seminata nella morte della carne, la quale diventa, da cuore fragile della logica mondana, luogo segno e mezzo di resurrezione e vita eterna (chi mangia la mia carne…). Di certo si intravede già il cuore del mistero eucaristico che insieme travolge Gesù e salva il mondo, ma con questa drammatica premessa pregiudiziale: non ci si può avvicinare autenticamente ad esso, se non passando prima attraverso il problema della fame “fisica e storica” dell’umanità abbandonata nel mondo, che rende ambigua e avvelenata ogni offerta eucaristica sull’altare.

giovedì 23 luglio 2009

Sete di fede libera, sete di amore libero...

Con questa diciassettesima domenica del tempo ordinario, inizia un “ciclo” di cinque domeniche concentrate sulla tematica del pane del cielo, espressa nel lungo discorso di Gesù redatto da Giovanni al capitolo 6.
Come risaputo, questa tematica, posta a questo punto dello svolgimento evangelico e trattata in questa particolare forma, è il corrispettivo dell’istituzione eucaristica presentata durante l’ultima cena dai sinottici, che invece Giovanni non narra perché inserisce al suo posto l’episodio della lavanda dei piedi.
Che si tratti di discorso eucaristico è evidente già nei primi 15 versetti che costituiscono il brano odierno, in particolare grazie ad alcuni segnali che Giovanni inserisce all’interno della narrazione: innanzitutto il fatto che a differenza dei sinottici, sia Lui in persona e non i discepoli a “dare” il pane; e poi il fatto che vengano ripetuti esattamente i gesti eucaristici: «prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede».
Il senso eucaristico però di questo capitolo 6 del Quarto Vangelo emerge soprattutto nel discorso svolto nei versetti successivi, che infatti prende spunto dall’episodio qui narrato della moltiplicazione dei pani per mostrare come unico pane che dia veramente Vita sia Gesù.
L’indagine di questa prospettiva è perciò preferibilmente rimandabile alle prossime settimane, mentre più urgente è il rendere conto del testo odierno, che pare concentrarsi soprattutto sul rapporto tra Gesù e la folla.

Tale relazione è presentata in modo molto abile dal redattore del vangelo, il quale infatti riesce a fare in modo che, dallo scritto, non appaia mai un confronto diretto tra la gente e Gesù: si fa sempre riferimento a ciò che la folla pensava o diceva riguardo a Lui e viceversa alle sue reazioni nel vederla, ma nessuna parola intercorre fra gli interlocutori.
Questa composizione letteraria risulta particolarmente efficace nel far emergere la problematica di fondo del nostro testo, resa evidente soprattutto dal movimento che la narrazione svolge: la folla segue Gesù «perché vedeva i segni che compiva sugli infermi»; Gesù decide comunque di sfamarla, perché verso di essa sembra avere sentimenti di compassione che superano l’obiezione interiore di “essere seguito per interesse”; ma la folla «visto il segno che egli aveva compiuto» decide di andarlo a prendere per farlo re; a questo punto Gesù si ritira, capendo di essere stato per il momento irrimediabilmente frainteso.
La problematica che pare emergere è dunque quella della fatica storica di Gesù a proporsi per quello che è, senza rimanere incastrato in letture riduttive o falsificanti: Come incontrare le persone solo amandole, senza che queste diventino dipendenti? Come aiutare, anche concretamente, l’uomo ferito dalla storia, senza che esso si fermi al dono (al pane) e manchi la relazione col Padre?
Una fatica interessante… quella di Gesù… soprattutto se si pensa a quanto noi siamo sempre concentrati sul nostro sforzo di raggiungere Lui, conoscerLo, relazionarci… dimenticando invece molto spesso la “fatica” di Dio ad andare in cerca dell’uomo… a proporsi senza essere travisato, circoscritto, frainteso… sia personalmente che ecclesialmente.
Particolarmente lucido su questa problematica del rapporto di Gesù con la folla, ma che è poi la problematica di Dio con ciascun uomo – e per questo ci riguarda da vicino – è Dostoevskij, che in proposito ha delle pagine memorabili: pane, libertà, potere sulle coscienze, amore gratuito sono elementi dell’impasto di questa nostra storia che ancora non siamo riusciti a decifrare, ma con i quali anche Gesù si è confrontato, proponendo la sua determinazione.
Essa emerge limpida dalle pagine della Leggenda del Grande Inquisitore, di cui qui riportiamo un illuminate stralcio . «Il cardinale grande inquisitore […] Gli dice [a Gesù]: […] ricordati la prima domanda [che ti pose il serpente tentatore nel deserto]: se non la lettera il senso era questo: “Tu vuoi andare e vai al mondo con le mani vuote, con non so quale promessa di una libertà che gli uomini, nella semplicità e nella innata intemperanza loro, non possono neppur concepire, che essi temono e fuggono, giacché nulla mai è stato per l’uomo e per la società umana piú intollerabile della libertà! Vedi Tu invece queste pietre in questo nudo e infocato deserto? Mutale in pani e l’umanità sorgerà dietro a Te come un riconoscente e docile gregge, con l’eterna paura di vederti ritirare la Tua mano, e di rimanere senza i Tuoi pani”. Ma Tu non volesti privar l’uomo della libertà e respingesti l’invito, perché, cosí ragionasti, che libertà può mai esserci, se la ubbidienza è comprata coi pani? Tu obiettasti che l’uomo non vive di solo pane, ma sai Tu che nel nome di questo stesso pane terreno, insorgerà contro di Te lo spirito della terra e lotterà con Te e Ti vincerà, e tutti lo seguiranno, esclamando: “Chi è comparabile, a questa bestia? Essa ci ha dato il fuoco del cielo!”. Sai Tu che passeranno i secoli e l’umanità proclamerà per bocca della sua sapienza e della sua scienza che non esiste il delitto, e quindi nemmeno il peccato, ma che ci sono soltanto degli affamati? “Nutrili e poi chiedi loro la virtú!”, ecco quello che scriveranno sulla bandiera che si leverà contro di Te e che abbatterà il Tuo tempio. […] E allora […] noi li sfameremo, in nome Tuo, facendo credere di farlo in nome Tuo. Oh, mai, mai essi potrebbero sfamarsi senza di noi! Nessuna scienza darà loro il pane, finché rimarranno liberi, ma essi finiranno per deporre la loro libertà ai nostri piedi e per dirci: “Riduceteci piuttosto in schiavitú ma sfamateci!”. Comprenderanno infine essi stessi che libertà e pane terreno a discrezione per tutti sono fra loro inconciliabili, giacché mai, mai essi sapranno ripartirlo fra loro! Si convinceranno pure che non potranno mai nemmeno esser liberi, perché sono deboli, viziosi, inetti e ribelli. Tu promettevi loro il pane celeste, ma, lo ripeto ancora, può esso, agli occhi della debole razza umana, eternamente viziosa ed eternamente abietta, paragonarsi a quello terreno? […] Ecco ciò che significa quella domanda che Ti fu fatta nel deserto, ed ecco ciò che Tu ricusasti in nome della libertà, da Te collocata piú in alto di tutto. In quella domanda tuttavia si racchiudeva un grande segreto di questo mondo. Acconsentendo al miracolo dei pani, Tu avresti dato una risposta all’universale ed eterna ansia umana, dell’uomo singolo come dell’intera umanità: “Davanti a chi inchinarsi?”. Non c’è per l’uomo rimasto libero piú assidua e piú tormentosa cura di quella di cercare un essere dinanzi a cui inchinarsi. […] Tu conoscevi, Tu non potevi non conoscere questo fondamentale segreto della natura umana, ma Tu rifiutasti l’unica irrefragabile bandiera che Ti si offrisse per indurre tutti a inchinarsi senza discussione dinanzi a Te; la bandiera del pane terreno, e la rifiutasti in nome della libertà e del pane celeste. Guarda poi quel che hai fatto in seguito. E sempre in nome della libertà! Io Ti dico che non c’è per l’uomo pensiero piú angoscioso che quello di trovare al piú presto a chi rimettere il dono della libertà con cui nasce questa infelice creatura. Ma dispone della libertà degli uomini solo chi ne acqueta la coscienza. Col pane Ti si dava una bandiera indiscutibile: l’uomo si inchina a chi gli dà il pane, giacché nulla è piú indiscutibile del pane. Ma […] Tu volesti il libero amore dell’uomo, perché Ti seguisse liberamente, attratto e conquistato da Te. […] Ci sono sulla terra tre forze, tre sole forze capaci di vincere e conquistare per sempre la coscienza di questi deboli ribelli, per la felicità loro; queste forze sono: il miracolo, il mistero e l’autorità. Tu respingesti la prima, la seconda e la terza e desti cosí l’esempio. […] Oh, Tu sapevi che la Tua azione si sarebbe tramandata nei libri, avrebbe raggiunto la profondità dei tempi e gli ultimi confini della terra, e sperasti che, seguendo Te, anche l’uomo si sarebbe accontentato di Dio, senza bisogno di miracoli. Ma Tu non sapevi che, non appena l’uomo avesse ripudiato il miracolo, avrebbe subito ripudiato anche Dio, perché l’uomo cerca non tanto Dio quanto i miracoli. E siccome l’uomo non ha la forza di rinunziare al miracolo, cosí si creerà dei nuovi miracoli, suoi propri, e si inchinerà al prodigio di un mago, ai sortilegi di una fattucchiera, foss’egli anche cento volte ribelle, eretico ed ateo. Tu non scendesti dalla croce quando Ti si gridava, deridendoti e schernendoti: “Discendi dalla croce e crederemo che sei Tu”. Tu non scendesti, perché una volta di piú non volesti asservire l’uomo col miracolo, e avevi sete di fede libera, non fondata sul prodigio. Avevi sete di un amore libero, e non dei servili entusiasmi dello schiavo davanti alla potenza che l’ha per sempre riempito di terrore».
[F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Garzanti, Milano, 1979, vol. I, pagg. 263 e 282]

Sete di fede libera, sete di amore libero… Ecco la proposta “inistituzionalizzabile” di Gesù: dentro alla necessità della natura, dentro ai determinismi della storia, per il cui il pane (ma in esso tutto ciò che indica il carattere umano della Vita: gli affetti, la fede, il senso, la cultura, i beni materiali, ecc…) non è mai per tutti e di tutti e ingenera la lotta per la sopravvivenza, fatta di oppressi e oppressori, sfruttatori e schiavi, servi della gleba e liberi, operai e imprenditori, clero e laici, cittadini e clandestini, ecc, ecc, ecc, dar credito al piccolissimo ma potentissimo (come il granello di senapa) germe del Regno, fermento di libertà, di gratuità, di fedeltà e perciò di affidamento, di bene vero, radicale e fino in fondo… Così che chi ha fame, possa mangiare, senza sentirsi “in debito” con chi gli dà del pane, senza che necessariamente questo diventi suo re, senza che necessariamente lui pensi che quello glielo dà, glielo dà per diventare re…
Quella che propone Gesù perciò è la verità della fraternità, è l’invito rivolto a ciascuno a credere che sia possibile una vita liberata dalla paura di un amore finto, col doppio o il terzo fine. In Gesù, Dio chiarisce una volta per tutti che il suo amore è univoco, mai ambiguo e che anche l’uomo è congeniato ad amare così. Farlo è il Regno.

venerdì 17 luglio 2009

Il “respingimento” cristiano

Ecco un esempio drammatico, nella sua ingenuità selvaggia, della mentalità che è cresciuta nei nostri oratori o comunque sotto i nostri campanili…

«Noi abbiamo chiuso le porte… ma molti gerenzanesi le hanno riaperte!”

Questa amministrazione monocolore leghista, che guida il Comune ormai da diversi anni, non ha mai - e sottolineo mai - agevolato l’afflusso nel nostro paese degli extracomunitari. Tanto è vero che:

• Non ha mai costruito con i soldi dei gerenzanesi case popolari, in quanto vi era il pericolo che ai primi posti della graduatoria, stilata in base a determinati punteggi (redditi bassi, figli a carico, ecc.), ci fossero sempre i soliti noti, ovvero le case sarebbero spettate di diritto non, per esempio, ai nostri anziani, ma a persone che non hanno pagato le tasse nel nostro paese non contribuendo, quindi, alla sua crescita.

• A differenza degli altri Comuni del circondario, non abbiamo mai destinato terreni per la costruzione di moschee e destinato edifici come luoghi di culto agli extracomunitari di religione islamica, nonostante ci fossero giunte richieste di questo genere.

• Non abbiamo mai destinato terreni all’interno del comune di Gerenzano per la sosta, anche solo temporanea, degli zingari: i nomadi che arrivano e sostano all’interno del territorio comunale devono lasciare il paese entro 48 ore.

• Abbiamo contribuito a rivalutare anche dal punto di vista culturale i nostri cortili, attribuendo ad ognuno di essi il vecchio nome utilizzato dai nostri anziani e poi riprodotto su una targa in terracotta posta all’entrata dei cortili stessi. Per rivalutarli dal punto di vista estetico però devono intervenire i proprietari, che - in alcuni casi - piuttosto che mettere mano al portafogli e dare una rinfrescata alle proprie abitazioni, hanno pensato bene di venderle o di affittarle agli extracomunitari.

• L’assessore competente, la Polizia Locale e i funzionari degli Uffici Comunali vanno personalmente, casa per casa, a controllare le residenze e le idoneità degli alloggi: tanto è vero che, con le Forze dell’Ordine, abbiamo fatto diversi sgomberi e anche sequestrato ben cinque appartamenti, anche grazie alle nuove leggi molto più severe contro l’immigrazione clandestina, approvate recentemente dal
Governo.

• Non ha mai favorito gli extracomunitari sotto il profilo dei contributi o dei sussidi economici.
Noi abbiamo fatto e continueremo a fare il nostro dovere… ma i gerenzanesi faranno il loro? Non rendete vani i nostri sforzi: chi ama Gerenzano non vende e non affitta agli extracomunitari… Altrimenti avremo il paese invaso da stranieri e avremo sempre più paura ad uscire di casa!»

L’assessore con delega alla Sicurezza del Comune di Gerenzano
Cristiano Borghi

L’empatia di Dio fatta uomo tra gli uomini

EmpatiaAnche a noi avviene, in certi momenti di grazia, che si aprano gli occhi della mente e crollino le barriere del cuore e allora si liberano i grandi orizzonti che pure ci sono stati annunciati e ci premono dentro... Allora ci accorgiamo delle prigionie cultuali o spiritualistiche (sempre tragicamente discriminanti!) nelle quali siamo chiusi. E si accendono scintille che illuminano le esigenze del vangelo nella vita difficile di ogni giorno. Interiorità e missione – e il loro indissolubile rapporto – è il tema delle letture di oggi! cioè l’adesione convinta del cuore al messaggio di amore del Signore, e la tensione per realizzarlo nella vita relazione con sé e relazione con gli altri – custodia e accudimento della propria fragile autenticità intima, e, insieme, disponibilità aperta e intensa al dono di sé. Ogni bene deperisce se non custodito, ma anche imputridisce, se non è condiviso. Gesù vuol introdurre i discepoli a questo equilibrio, perché possano divenire gli umili testimoni della nuova umanità. Uomini comuni, impregnati dall’ambiente religioso, ma non molto osservanti e culturalmente prigionieri inconsapevoli “della legge fatta di prescrizioni e decreti” … vengono coinvolti in cose più grandi di loro. E ci hanno trasmesso questa esperienza, stupiti e ammirati, talora incapaci e smarriti… intuendo l’interiorità sovrumana di questo Maestro fuori misura. Anche senza capire bene del tutto ciò che dovevano trasmettere. Una verità di cui non possono portare tutto il peso… un mistero di amore che solo lungo i secoli, sotto la guida dello Spirito, lascia emergere la sua potenza di fuoco, sotto le sembianze impercettibili di un piccolo fermento o di un seme di senape…
Interiorità e missione
Pochi versetti, il vangelo di oggi! Sufficienti a farci intuire, ancora una volta, la profonda empatia che faceva vibrare il cuore di Gesù di fronte alla gente con cui si trova a vivere. Tanto più se si pensa alla “missione sperimentale” sorprendente ed emozionante, dalla quale i discepoli provengono, in questo momento, stanchi e contenti. La missione, perché? Perché il messaggio che era venuto a portare e con il quale aveva un poco contagiato i suoi discepoli, non poteva esser conservato senza comunicarlo, proprio perché è un messaggio di liberazione e di comunione d’umanità. Empatia vuol dire sentire e comprendere l’altro, cioè entrare in vibrazione “nel proprio interno”, con ciò che la gente sente dentro di sé. Gesù sente e si commuove dell’entusiasmo e della sorpresa dei discepoli, partecipa del loro dolore per i rifiuti e della loro gioia per i casi di guarigione. Come sempre, mette in comunione il suo essere interiore con le interiorità lacerate che incontra, per condurle ad unità liberandole dai lacci che ne impediscono la dilatazione e l’armonia. Ed avvia a questo lavoro di ricostruzione dolce e intensa dell’umanità frantumata e stanca i suoi discepoli. Ma questi ne sono scossi interiormente, se pur entusiasti… e perciò li invita alla custodia e accudimento della loro interiorità, perché rimanga vigile e autentica, e non si svuoti … in mestiere impersonale, o formale, cultuale o miracolistico. Il gruppetto dei discepoli ne è travolto: era infatti molta la gente che andava e veniva e non avevano neanche più il tempo di mangiare. Per cui ritornerà l’invito all’umile saggezza di ritrovarsi un poco in disparte a riposarsi. Occorre prendere distanza interiore, confrontarsi, ricondursi all’essenziale. Se no si rischia il formalismo, si appassisce la passione, si rischia l’ipocrisia o la schizofrenia…
La passione messianica
Gesù si commosse per loro. E ricomincia così il circolo empatico di vibrazione interiore per la solitudine abbandonata, che troppa gente soffre nel suo deserto interiore, e allora occorre abbandonare il momento di distanziamento per rituffarsi a insegnar loro ciò che “dentro di lui” abita ed è il dono essenziale della sua identità: il riferimento interiore che lo costituisce – il volto del Padre, che mai lo abbandona – che lui ci comunica, perché anche noi possiamo fondare su questo asse interiore il tessuto delle nostre relazioni. La commozione “dentro” – il lasciarsi smuovere il cuore per patire la “commozione” dell’altro, non è solo il filo conduttore del racconto. È la presenza rivelatrice della benevolenza paterna di Dio in mezzo a noi. La gente sente emanare da Gesù e ora anche dal suo gruppo di discepoli, questa straordinaria passione per l’umanità malata e per questo li ricerca e li rincorre. E allora Gesù entra ancora in empatia profonda, soffre con loro la loro dispersione, e addirittura, a stare al verbo greco “gli sussultano le viscere”… si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose. Il progetto di un momento di riposo entra in conflitto con la sofferenza della folla che domanda, muta, attenzione e accudimento. Il principio che prevale è quello di essere a disposizione dell’uomo sempre… Il tempo dell’uomo appartiene alla “commozione per l’altro”, alla compassione, sempre. I discepoli imparano l’arte ardua di dimenticarsi – l’unica stretta strada che mantiene viva e autentica la passione messianica, e ne segna già il destino.
L’annuncio del regno
Sempre più Gesù diventa “rivelazione” che promana dall’intimo della sua persona – come qualcosa che lo ha avvinto dal di dentro ed entra in vibrazione irresistibile di fronte alla sofferenza! Gesù diventa sempre più dimostrazione vivente, prova umana, testimone visibile del Regno, appunto perché in lui i discepoli vedono e sentono ciò che avviene quando una persona lascia che sia Dio a guidare la sua vita, a “regnare” in lui! I discepoli capiranno cosa voleva dire quando ripeteva: “di me parlano le Scritture”. Che vuol dire, appunto, cosa Dio aveva in mente quando chiamava Abramo, Isacco, Giacobbe… fino a Mose e ai profeti … : «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo…Dopo tanti tentativi e innumerevoli vicissitudini, adesso è arrivata la vera liberazione, non secondo le misure di potenza delle attese umane, ma in modo piccolo e modesto, come un seme, che poi crebbe fino a diventare albero grande, dove la gente poteva ripararsi (Mc 4,31-32). E la gente stessa si incaricava di diffondere la notizia. Gesù, che era stato misconosciuto dai suoi compaesani, ha appena assaporato il destino dei profeti di essere inascoltati e anche perseguitati, ma proprio adesso, secondo Marco, intensifica la sua azione raggruppando un piccolo nucleo di discepoli… che manda in missione. Giovanni, l’ultimo e più grande di tutti i profeti, nel frattempo è stato imprigionato e assassinato da Erode. Gesù dilata la sua azione in molti modi: scaccia gli spiriti immondi, cura i malati e coloro che sono maltrattati, libera coloro che sono esclusi a causa di impurità rituali, accoglie gli emarginati e fraternizza con loro. È una passione che si rivela. Passione per il Padre e per la gente povera ed abbandonata della sua terra. Lì dove trova gente che lo ascolta, parla e trasmette il Vangelo.
Lo scontro con l’insegnamento dottrinale
I maestri del popolo, come sempre, hanno imparato nelle sinagoghe, nelle scuole del tempio, nei seminari… hanno imparato anche seriamente la storia della salvezza raccontata nelle Scritture. Recitano a memoria le formule e le preghiere prescritte, ma non hanno dentro di sé la passione, l’empatia, l’autorevolezza forte e dolce di un’interiorità costruita e consolidata da poter trasmettere… per contagio d’amore. La gente si è accorta della diversità : «Un insegnamento nuovo! Dato con autorevolezza! Diverso da quello degli scribi!» (Mc 1,22.27. Da qui la gelosia e la persecuzione. Non pochi magari erano interiormente sensibili e capivano il vicolo chiuso in cui la “religione” ufficiale viene sempre a trovarsi. Molti altri ci vivevano sopra, come dice il profeta: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati. È una della forme più gravi del peccato strutturale, che nella Bibbia è all’origine di tutto il concatenarsi del “male” o meglio dell’impossibilità di uscire dal vicolo cieco della violenza e dal disordine interiore di un’umanità che ha perso le sue radici in Dio, e appare come il coltivare e il gestire un modo sbagliato di relazionare. Da Adamo ed Eva fino ad oggi il peccato dell’origine è appunto la sopraffazione reciproca… tramandata, purtroppo, per così dire, nella prassi dei pastori corrotti… mentre a parole dicono il contrario! Finalmente la cura di questa inguaribile malattia passa attraverso la compassione del cuore di Gesù!
Egli infatti è la nostra pace!
Paolo, dopo qualche anno, quando l’annuncio dell’avventura di Gesù il Risorto comincia a risuonare nel mondo allora conosciuto, rilegge con occhio teologico il coinvolgimento di Gesù nella storia umana perennemente insanguinata dalla competizione – che uccide ogni possibile compassione tra gli uomini, rendendo anzi la vittoria sull’altro (la censura di ogni compassione!) l’unica vera soluzione politica definitiva di ogni conflitto. L’inimicizia è la vera chiave di lettura dei conflitti di potere. Il potere infatti non sa cos’è la com/passione, è di natura sua cinico e monopolistico, insidiato da ogni concorrente, che va sottomesso o eliminato! Tutta la scienza politica da Aristotele, a Platone, ad Agostino… a Macchiavelli, ad Hobbes, a Schmitt ruota attorno alla contrapposizione amico / nemico. Gesù proprio qui è intervenuto: abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace. … distruggendo in se stesso l’inimicizia. Come costo di sangue, per lui, la croce! Ma solo così anche noi, invincibilmente lontani da noi stessi, possiamo diventare vicini… per presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito.

giovedì 16 luglio 2009

Essere sè - Essere per l'altro

Capita a tutti – credo – a volte, di volersi ritirare in disparte: in disparte dalle “folle” che attraversano la nostra vita, dai loro e nostri problemi, dalle dinamiche distorte in cui spesso ci troviamo immersi e che ci fanno mancare il fiato… in disparte dalle mille occupazioni quotidiane, dalle cose che bisogna ricordarsi di fare, dagli impegni che gli altri (coi loro ricatti affettivi, con i sensi di colpa che ci provocano, con il senso del dovere a cui ci richiamano…) spesso ci buttato addosso…
In disparte… a rigenerarsi un po’, a fare il punto della situazione, a ricordarsi chi si è e perché (per chi) si è, quasi introducendo una sorta di pausa alla storia, al flusso continuo degli eventi, come a voler fermare per un attimo il tempo e la sua inarrestabile corsa…
Capita – credo – soprattutto a quelle persone che in qualche modo hanno responsabilità su altre (ma chi non ne ha?), che oltre ai propri problemi devono farsi carico anche di quelli degli altri, di coloro che – stando alla metafora evangelica – ci paiono pecore senza pastore, o in assoluto o per qualche frangente dell’esistenza…
Anche Gesù ha questa esigenza: diverse volte nel Vangelo ci è raccontato di questo suo ritrarsi in disparte (cfr Mc 1,35; 9,2; 10,32; al Getsemani) da solo o con i suoi discepoli, anche se Lui pare sempre farlo per “fare il punto della situazione” sulla sua identità.
Anche il brano di vangelo che la Chiesa ci propone per questa sedicesima domenica del tempo ordinario, va infatti precisamente in questa direzione. Due in particolare sono gli eventi che spingono Gesù a ritirarsi in disparte coi suoi: il loro ritorno dall’esperienza missionaria e la morte del Battista, narrate nei versetti immediatamente precedenti.
Il ritorno dalla missione esigeva evidentemente un momento di riposo e di confronto e la morte del Battista implicava una riconsiderazione della missione di Gesù.
Eppure in quest’occasione il suo desiderio di ristoro, di preghiera, di solitudine non va a buon fine. Avviene qualcosa che intralcia il suo proposito: ed è il fatto che la gente, accorgendosi del loro tentativo di scostarsi un attimo dall’immersione quotidiana nella vita delle folle, li segue – anzi li precede – ponendosi sul loro cammino.
Esplicitamente non chiedono nulla, semplicemente si pongono lì sulla loro strada.
Personalmente una situazione del genere, paradigmatica di tante altre situazioni simili in cui a volte ci veniamo a trovare anche noi, susciterebbe immediatamente nervosismo…

Innanzitutto perché viene rotto un programma prefissato, nato da un desiderio (o da un bisogno) vero, costruito sulla fondamentale e sacrosanta necessità di avere un po’ di spazio per se stessi.
In secondo luogo perché, nella nostra concezione assistenzialista – mai veramente scardinata e convertita –, ci dà fastidio che i “poveri”, o più in generale la gente, ci si pongano sulla strada… senza rispettare i nostri tempi, i nostri ritmi, ma quasi invadendoci spazialmente…
Dentro a questo fastidio – nella duplice sfaccettatura appena descritta – io credo stia la visibilizzazione fenomenologica della distanza tra l’interiorità di Gesù, l’uomo nuovo, e la nostra, ancora così “vecchia”.
Cerco di spiegarmi… partendo dal primo versante.
La psicologia, ma anche la stessa teologia, fin dentro al senso comune riconoscono ormai fortunatamente come imprescindibile la cura di sé. Spesso si ricorda come il comandamento di amare gli altri come se stessi, implichi appunto un previo “amare se stessi”, sul quale unicamente si può fondare anche un sano amore per gli altri: “Come si fa ad aiutare gli altri se prima non siamo apposto noi?”, si sente spesso – un po’ grossolanamente ma efficacemente – ripetere… Che in una formulazione un po’ più precisa può suonare in questo modo: proprio perché ci si è resi conto che l’uomo è implicato in tutto quello che fa, fondamentale diventa il suo occuparsi di sé, della sua libertà, del suo esserci in senso pieno…
Ad ogni modo, detto alla maniera del sentire comune o in quella del linguaggio più riflesso, il dato emergente dalla società contemporanea è quello di un’attenzione a se stessi, che invece una certa morale e prassi cristiana degli anni precedenti tendeva a mortificare, in vista di una dedizione incondizionata al Signore o ai fratelli… Fortunatamente, dicevamo, sembra che questo approccio mortificante e dedizionista, dello spendersi per lo spendersi, della fatica per la fatica, del sacrificio per il sacrificio, si sia un po’ attenuata (per quanto si mantenga viva in alcune sacche residue della cultura odierna), lasciando spazio alla crescita della libertà dei singoli (senza una castrazione previa), allo sviluppo dell’autocoscienza, alla conquista storica di una maturità personale… cose che appunto richiedono tutte un po’ di tempo, di spazio e di cura per sé…
Ma se tale cura è ormai riconosciuta culturalmente come così irrinunciabile e se ne troviamo un suo fondamento addirittura fin dentro alla prassi abituale di Gesù, perché ad un suo impedimento da parte di altri, noi reagiremmo innervosendoci, mentre Lui commovendosi?
Perché forse, al di là dei luoghi comuni e della consonanza delle formule, non tutti i paradigmi a cui rimanda la “cura di sé” sono univoci, soprattutto con quello di Gesù.
Per capirsi velocemente senza dilungarsi, facciamo un esempio “esagerato”: “cura di sé” è anche l’etichetta che si appiccica su tutte quelle forme di benessere psicofisico a cui rimanda la nostra società (esaltazione della salute, della forma fisica, della bellezza, ecc…), con tutti gli annessi e i connessi (chirurgia estetica, beauty farm, trattamenti strani, ecc…). Evidentemente dietro a questa “etichetta” sta un’idea di uomo diversa da quella che Gesù incarna, quando per esempio si ritira in disparte per pregare…
Quanto però detto in questa prospettiva esagerata, vale più subdolamente anche per tanti altri modi – più raffinati – che noi abbiamo di concepire la cura di noi stessi, di cui ci riempiamo la bocca – trovando sostanzialmente tutti d’accordo (perché chi oggi direbbe che essa non è fondamentale fuori e dentro la Chiesa?) – ma che in fin dei conti non sono così consonanti tra loro…
Cosa voglio dire? Che la diversità di reazione nostra e di Gesù a fronte dell’interruzione dell’attuazione di un momento di “cura di sé”, dipende dall’idea di “cura di sé” che abbiamo in testa…
Perché noi ci innervosiamo se qualcuno ci si pone sulla strada proprio mentre stavamo andando a dedicarci un po’ a noi stessi e Gesù no, anzi tutto il contrario? Perché sentiamo che in questo modo qualcuno ci sta rubando qualcosa di nostro, di legittimo, mentre a Gesù scatta la compassione per i “diritti” degli altri?
Perché forse l’idea che noi abbiamo di cura di noi stessi è solo parziale. Essa è certo imprescindibile ma lo è proprio perché è ciò che ci permette di essere al mondo, di esser-ci nel mondo, di adempiere al compito precipuo di ciascuno di essere sé, colui cioè che nessun altro può essere… Ma precisamente nell’unica forma veramente umana, che è essere-per-l’altro. La matrice antropologica di ciascuno, quella che emergerebbe con chiarezza se si guardasse con più attenzione alle forme pratiche del nostro agire, della nostra vita, rimanda infatti precisamente a questo: nessuno è uguale a un altro eppure nessuno può essere senza l’altro; non tanto e non solo in senso immediatamente materialistico, per cui tutti abbiamo bisogno di qualcuno – almeno per nascere – e non si trova nessun uomo uguale all’altro, quanto piuttosto in senso ontologico, cioè l’uomo non è uomo senza essere sé, unico e irripetibile, e senza essere in relazione agli altri uomini.
La nostra idea di cura di noi stessi invece prescinde da questa originaria identità umana, rimandando invece al presupposto contemporaneo dell’uomo autoreferenziale.
Qui si innesta anche il secondo versante della problematica del fastidio che l’altro, semplicemente ponendocisi davanti, ci suscita. Perché l’altro è sempre visto in funzione di noi: quindi se è nemico, come uno da rifiutare, se amico, come uno che ci deve beneficare, se è povero, come uno da aiutare, perché ci gratifichi.
Non esce da questo schema nemmeno l’assistenzialismo di certo cristianesimo. Sostanzialmente perché oggettivizza sempre l’altro, funzionalizzandolo a me. Ecco perché disturba il suo sopravvenire inatteso, le sue richieste non calcolate, le sue pretese impreviste.
La prospettiva alla quale invece la libertà storica di Gesù rimanda, nel suo agire e patire, e vivere e credere, è precisamente quella della fraternità umana, in cui io sono io proprio perché essendo me sono per l’altro, che in questo senso non è mai “separato” o “separabile” dalla mia personale vicenda, perché ne è sempre imprescindibilmente costitutivo e costituente. Il suo sopraggiungere è infatti sempre istanza inevitabile per la mia identità: il suo esserci è domanda al mio esserci, mi chiede di me, di chi voglio essere… per questo non può essere ostacolo a me, ma sempre già incluso nella mia dinamica esistenziale.
Per questo finché l’altro non sarà veramente mio, nel senso sopradetto di inestricabilmente integrante l’identità più intima di me, si mancherà – fuori e dentro la Chiesa – la prospettiva di Gesù e ci si continuerà ad innervosire per il sopraggiungere dell’altro, che non essendo guardato come “mio”, sarà sempre immediatamente pensato come “contro di me”.
Ancora una volta allora, la conversione alla quale la quotidianità della vita storica di Gesù ci rimanda, non è meramente quella morale o comportamentale (“Cosa dobbiamo fare, allora?”), ma precisamente quella esistenziale (“Chi siamo veramente?”). È questa la domanda “in-sfuggibile” per ciascuno.

venerdì 10 luglio 2009

Missionari della benevolenza del Padre

Benevolenza del Padre in Gesù
Gesù chiama i dodici senza ulteriori dichiarazioni. Perché proprio questi? Non si dice nulla in proposito. Né virtù, né abilità particolari, né attitudine oratoria li distingue. Se manca loro qualcosa all’attuazione del loro incarico verrà ad essi aggiunto. Manca loro senz’altro tutto ciò che viene dato loro quando vengono mandati: l’autorizzazione ad annunciare il regno di Dio, e questo con il potere di scacciare i demoni, il che è unicamente possibile se si ha lo Spirito Santo, che estendendosi ricacci indietro la sfera di azione dello spirito maledetto. Avendo ricevuto questi doni da Gesù, si richiede loro di non mischiarli con i propri mezzi di appoggio o di propaganda; perciò nessuna bisaccia, non pane, non denaro, non abiti per cambiarsi,… e neppure la ricerca di un’abitazione più comoda. Gli incarichi sono l’annuncio, il richiamo alla conversione, non il successo. Se non ci sarà non deve importare, devono semplicemente andare e tentare altrove… (Balhasar)
Chiamati, mandati e respinti
Una chiamata di ordine radicale, quella di Amos e degli apostoli, senza possibilità di pensarci troppo. C’è però nel fare di Gesù una novità rispetto ai profeti antichi, nella chiamata degli apostoli. Gesù se li è scelti, uno ad uno, per nome, ma poi li ha radunati tutti insieme e ha fondato la comunità dei “Dodici”, “perché stessero con lui” - ci aveva informato Marco. E questo era il primo obiettivo immediato della chiamata, che ha sconvolto loro la vita. Ora li convoca di nuovo, ma per realizzare il secondo dei due obiettivi per cui li aveva radunati attorno a sé - “per mandarli ad annunciare” il vangelo, che da lui avevano ascoltato e con lui condiviso, imparando faticosamente a viverlo (Mc 3,14s). È arrivato dunque il tempo per i discepoli di “provare” almeno, come un tirocinio, a nostro insegnamento, a mettere in atto quanto dovrebbe essere il risultato della comunione di vita con Gesù: diventare missionari, come lui, e andare a fare, pur ancora maldestri, quello che finora hanno visto fare dal Maestro.
Un’irresistibile adesione interiore
La loro preparazione non era un seminario dove imparare un mestiere o una vocazione a cui addestrarsi, in una scuola di profeti, per poi praticarla. Ma piuttosto una irresistibile adesione interiore a seguire la chiamata del Signore senza possibilità di fuga. La chiamata si è rivelata un coinvolgimento progressivo e poi addirittura un’immersione in un progetto misterioso, il Regno di Dio, di cui Gesù parlava in continuazione e di cui tutto ciò che faceva, diceva, viveva era la manifestazione e la realizzazione. La loro comprensione di questo mistero e di Gesù stesso, era allora iniziale, informe, ancora grossolana… Ma pur mantenendo tutta la loro debolezza morale, culturale, psicologica, sempre più capiranno che stavano diventando tessere vive di questo immenso mosaico che è il “disegno” di Dio di salvare il mondo… e che in questo progetto tutta la storia di Israele e, in Israele, di tutte le genti, trovava il suo senso. L’annuncio che Gesù gli comanda di portare alla gente è fatto di poche parole (convertitevi), di alcuni doni speciali (liberare gli oppressi da varie forme di menomazioni diaboliche, curare molti malati) – ma insieme è fatto del “modo di essere e di presentarsi” dei Dodici.
Profezia svincolata dai monopoli del potere e dei suoi strumenti
Quando si parla di evangelizzazione, il nostro pensiero corre subito al «che cosa vado a dire?» e meno, molto meno, a «come devo essere io?», al mio stile di vita. Perché lo stile di vita non è un accessorio, magari desiderabile, ma secondario, del messaggero. Le modalità del presentarsi dei messaggeri missionari, cioè gli strumenti economici, il tessuto di relazioni nelle quali si inseriscono, le strutture istituzionali con le quali si incontrano, o si scontrano, nei paesi e nelle città dove arrivano, anche se ancora minime, come in questi inizi… sono già il messaggio! L’istituzione, come gruppo di apostoli, preparati e mandati ad annunciare, ancora sotto lo sguardo di Gesù, è necessaria ed essenziale per rendere percepibile e visibile alla gente il Regno di Dio. Il gruppo, che sarà la chiesa, inizia dunque a diventare sacramento del Regno, una minuscola chiesa, già indicatrice ed operatrice, fragile povera, ma efficace, del vangelo di salvezza! I Dodici non possono non riprodurre però in sé il volto di Colui che li invia, il giovane profeta che cammina povero e libero, senza un luogo dove posare il capo, “commosso nelle viscere per le folle, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore (Mt 9,37). A loro, come ad Amos, un po’ contadino e un po’ pastore, preso da dietro il bestiame, il Signore disse: Va profetizza al mio popolo. Loro, tra gli attrezzi per la pesca, o in varie altre faccende, si sono sentiti dire: vieni! E poi : Andate ad annunciare il Regno! Nessuno di loro pensava minimamente ad un incarico istituzionale. Avevano già il loro mestiere. Sono stati coinvolti dentro questa passione di portare l’annuncio di liberazione e redenzione, nelle città e villaggi. Ma proprio questo atteggiamento di dedizione e libertà, di distacco radicale dai beni economici e dalla ragnatela di legami e dipendenze che comportano, lo schieramento affettivo (appreso dal Maestro) con le folle dei poveri… inquieta il potere! Una chiamata simile a quella del profeta antico e che riproduce facilmente lo scontro con il potere, come previsto da Gesù: pochi anni e – appena apriranno bocca nella missione definitiva si accorgeranno della discriminante “repellente che ha il potere verso Amos ed ogni profeta: vattene, veggente, ritirati… a profetizzare da un’altra parte… perché questo è il santuario del re!” E anche loro troveranno la risposta radicale del profeta che non si vende: meglio obbedire a Dio piuttosto che agli uomini!
Ordinò che non prendessero nulla per il viaggio
Ecco perché Gesù esige uno stile ed una radicalità di disimpegno dai lacci che legano al potere, al denaro, alle convenzioni del consenso socio politico, che sembra ingenuo o poetico o utopistico. Non portate nulla, perché tutto ciò che hai in più, ti divide dall’altro. Tutto ciò che hai di troppo (su cui il potere ti gioca, perché te lo può concedere, lasciar o togliere…) è pericoloso… pane, bisaccia, soldi, vestiti. Il problema si è immensamente complicato oggi – pur rimanendo limpide, incontestabili… e drammatiche queste esigenze “evangeliche”, tuttora inseparabili dal messaggio e dal contenuto del messaggio che è il Regno. È una povertà che è fede, libertà e leggerezza. Un messaggero carico di bagagli, che s’illude possano servire per spiegare e convincere meglio… sarà invece paralizzato o impedito o invischiato dall’ambiguità dei mezzi stessi a cui si affida, incapace di cogliere la novità di Dio e abilissimo nel trovare mille ragioni di comodo per giudicarli irrinunciabili. Scordandosi della forza interna della Parola, che si diffonde solo se chi la porta è testimone appassionato e capace di rischiare la vita, le risorse e il futuro … perché il suo riferimento propulsore è il Signore, non qualche proprio progetto o vantaggio o interesse. E lo Spirito che compie le parole dette!
Entrati in una casa lì rimanete! La missione non tende a formare funzionari di Dio o adepti sottomessi ad una nuova religione, quanto seguaci di Gesù, animati dal dinamismo dello Spirito… per affrontare ogni sofferenza che opprime la gente. Loro compito è annunciare e liberare dalla catene esteriori e interiori e poi guarire, dunque creare dilatazione di umanità e comunione… Il loro approdo, nei centri di convivenza della gente, città e villaggi, è la casa: il luogo della vita più normale, dove, dentro e attorno, l’uomo “sta”, lavora, ama, soffre, accoglie e tramanda vita, speranza e dolore. Il nuovo progetto di missione privilegia dunque quella che noi chiamiamo inculturazione a livello di base, seminando il vangelo nel cuore delle culture e dei tessuti umani, ben attenti ad accogliere la sfida dell’alterità. Che vuol dire di ciò che lo Spirito farà nascere… accudendo i germogli che spuntano e crescono, ma lasciando che siano nuovi e diversi frutti dello stesso vangelo, nelle più svariate situazioni umane, come si vedrà negli Atti degli apostoli, quando avranno ben imparato.-
...dentro un disegno d’immensa benevolenza
Ma c’è anche un altro aspetto che Gesù ci ricorda: l’atmosfera «drammatica» della missione. Il rifiuto è previsto: la parola di Dio è efficace, ma a modo suo. Il discepolo deve proclamare il messaggio e in esso giocarsi completamente, ma deve lasciare a Dio il risultato. Al discepolo è stato affidato un compito, non garantito il successo, e la sofferenza e il rifiuto non ci sono risparmiati. Non si spegne però in cuore, anzi si radica e prende forza, la consolante speranza che il Regno comunque sta venendo e, man mano che secondo le nostre povere possibilità, qualcosa ci spendiamo… qualche barlume di esperienza per confortarci ci è dato… E scopriamo di essere un piccolo frammento di un disegno immenso di benevolenza che il Padre ha riversato su di noi con ogni sapienza e intelligenza, per realizzare l’obiettivo di cui misteriosamente siamo parte viva : ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra… in attesa della piena redenzione di coloro che Dio si va conquistando.

giovedì 9 luglio 2009

La relazione che si auto-testimonia nella trasparenza di un cuore nuovo

In questa quindicesima domenica del tempo ordinario la Chiesa, nelle letture, ci propone il confronto con l’esperienza dei cosiddetti “mandati”, “inviati”: nella prima lettura il profeta Amos («Il Signore mi disse: “Va’, profetizza al mio popolo Israele”»), nella seconda Paolo («In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati a essere lode della sua gloria»), nel Vangelo i Dodici («Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due»).
Tale confronto rimanda immediatamente ad una serie di problematiche che non possono essere censurate se si vuole – almeno un po’ – addentrarsi nella logica dei testi. E le questioni sono principalmente queste: Perché la storia del rapporto tra Dio e l’umanità è segnata da un’elezione (prima un popolo, poi singoli uomini)? Come si concilia questa evidenza con l’altrettanto certa affermazione dell’amore universale di Dio? Perché, invece che in questo modo, Dio non ha provveduto a una comunicazione generale di sé, invece di compromettersi con delle elezioni, che – poi si sa – sul piano umano vanno sempre a finire in accaparramento di privilegi, commistioni col potere, discriminazioni tra fratelli?
Quest’ultima domanda – spero evidentemente – lungi dal volere “consigliare” Dio sul da farsi, è posta volutamente in modo forzoso: essa infatti presuppone tutto un modo di pensare Dio, l’umanità, gli inviati, le rivelazioni, che invece è ciò che precisamente va messo in discussione per rispondere adeguatamente alla domanda sull’intelligenza della storia della salvezza e dunque su quel pezzettino di essa che a noi compete.
Cosa voglio dire?

Che abitualmente il rapporto uomo-Dio è pensato più o meno in questi termini: c’è Dio (che è onnipotente, infinito, eterno, buono, padre, uno e trino, ecc, ecc, ecc) – senza capire bene cosa vogliano dire tutti questi aggettivi, soprattutto insieme (cfr. la mai risolta questione del rapporto tra onnipotenza di Dio – sua incontrovertibile bontà – eppure la presenza del male nel mondo) – c’è l’uomo (che è finito, limitato, però insomma un po’ capace di fare, disfare, “stare al mondo”, ecc…) e poi c’è il loro rapporto, con Dio che comunica all’uomo una serie di verità, di consigli per vivere, di prescrizioni per il bene comune e l’uomo che cerca di metterle in pratica, più o meno come gli riesce, chiedendo ogni tanto qualche aiuto dall’Alto, anche quando si è comportato male (e pensava: tanto Dio è lassù), che poi si sa, Dio perdona tutti (o quasi). In questo modo di pensare, i cosiddetti “inviati” sono sostanzialmente coloro che fanno da tramite, che – non si sa bene perché (prima si credeva perché erano più bravi, poi ci si è accorti che non era vero) – hanno in mano più di altri queste “verità”, questi modi corretti di comportarsi e atteggiarsi per piacere a Dio e così lo comunicano agli altri, orchestrandone il rapporto col divino e la condotta morale.
Evidentemente (spero), questa descrizione è un po’ caricaturale, ma a me pare molto presente nella nostra mentalità di cristiani del 2000: e non solo fra i bistrattati “cristiani medi”, sempre così sarcasticamente e bonariamente dipinti come “poveri sempliciotti” dai loro pastori, ma anche nell’imprinting di tanti che sono (o si sentono) “un po’ sopra la media” – siano essi profeti o apostoli…
Mi riferisco in particolare al fatto che questo schema – semplice e chiaro, e perciò iper-sfruttato – del piano di Dio (su), piano dell’uomo (giù), mediatore (in mezzo), ce l’abbiamo talmente stampato dentro che – solo sforzandoci – riusciamo a pensare altrimenti: cosa che invece è necessaria perché a ben guardare, per quanto di immediata comprensione, questo schema è inadeguato a dire l’esperienza umana nella sua relazione con Dio. Per esempio rimane fuori la figura di Gesù: dove lo collochiamo in questo schema? È lui il mediatore che sta a mezza via tra l’umanità e la divinità? Ma questa oltre che essere un’eresia (cfr. il Concilio di Calcedonia), è una risposta che non risolve, ma complica: perché a questo punto, dove li mettiamo gli altri mediatori? Un po’ più sotto? Ma se c’è già Gesù, cosa ce ne facciamo degli altri? Se invece servono anche gli altri, allora vuol dire che Gesù non è bastato? Ma anche qui cadiamo nell’eresia…
Soprattutto il problema emerge nel confronto con i testi biblici: essi, a parte non presentare mai uno schema generale che racchiuderebbe un tentativo di organizzazione della realtà, fanno sempre riferimento a un rapporto personale, esistenziale, addirittura affettivo, non monolitico, freddo e catalogante come quello precedente… Anche questo noi ce l’abbiamo dentro: non a caso le cose che ci piacciono di più – parlando di vangelo – sono le riflessioni esistenziali, che vanno a prenderci nella pancia, che ci fan scappare qualche lacrima, che toccano qualche corda realmente scoperta del nostro vivere…
Ma anche questa è una conferma di quanto si diceva in precedenza (la separazione dei piani ce l’abbiamo dentro): Perché se diciamo “Dio” ci viene in mente tutto un impianto metafisico, l’eterno, l’immutabile, qualcuno che sta lassù nei cieli, con una terribile sensazione di lontananza, freddezza, in ultima analisi inutilità (che però non ammettiamo perché un po’ di paura ce la fa ancora), e se diciamo “Gesù che si fa piangere addosso da una donna” subito ci si accende l’antenna dell’orecchio e soprattutto del cuore?
La tematica degli “inviati” porta qua a queste questioni radicali del pensar Dio, l’uomo, la vita… perché poi dietro a un’impostazione mentale, a cascata, vengon dietro tutti i nostri modi di pensare, i criteri per giudicare, le modalità per decidere, le superstizioni, gli atteggiamenti, ecc… Un esempio? Se Dio è lassù nei cieli e io quaggiù sulla terra, vuol dire che nell’aldiqua sono autonomo, lo gestisco io, lo organizzo secondo i criteri di ragione (cercherò il bene per me e per i miei figli), cercando di fare il meno male possibile, e pregando che mi vengano rimesse le colpe, quando esse saranno inevitabili per salvaguardare il mio interesse. Per il resto qua io, là Dio.
Sarebbe interessante ripercorrere le radici storiche di questo slittamento che la mentalità cristiana ha percorso in 2000 anni di storia (anche se ne sono bastati molti meno per arrivare a questi esiti), ma qui mancano sia lo spazio che il tempo… Molto più urgente allora diventa il confronto coi testi, con la rivelazione attestata di Dio, perché entrando dentro ad essa possiamo ragionare con la logica loro propria e non con una nostra riflessione (staccata) su di essa: come dice Beauchamp infatti «non è giusto che cambiamo il nostro parere sulla Bibbia? Se fossimo interrogati, non esiteremmo a rispondere che la Bibbia è la storia sacra, pensando a una serie ben nota di interventi straordinari operati da Dio, con la conseguenza, una volta posti di fronte a questa serie, di sentire invincibilmente lontano quello che essa racconta. Lontane da noi la vocazione di Abramo, la rivelazione di Mosè, la Pasqua dell’esodo. In questa maniera la Bibbia finisce per ridursi, nella nostra immaginazione, a un libro che narra fatti meravigliosi lontani nel tempo; essa talvolta, ci dà perfino l’impressione che essi siano presenti. I bambini, almeno durante un breve periodo dei loro primi anni, sono soggetti all’illusione che quello che si racconta loro sia immediatamente attuale. La Bibbia, quando si conosce male, si riduce a questo schermo dell’infanzia sul quale proiettano delle immagini».
In realtà la giusta prospettiva con cui approcciarsi ai testi è quella che lo stesso Autore suggerisce specificamente per i Salmi: «Se i salmisti parlano, se hanno qualcosa da dire, è perché è successo loro qualche cosa. Anche quando si tratta di un evento felice, è difficile che questo non sia preceduto, accompagnato, seguito da prove e da pericoli. Molte volte, quello che succede e induce un uomo a parlare è il fatto di essere stato colpito, scosso o costernato da un pericolo più forte di lui, il quale minaccia la vita e la ragione di vita. Non avremmo i Salmi se i loro autori non fossero passati attraverso ciò, vedendo da vicino la morte».
Ecco perché il giusto modo per leggere le Scritture è quello di entrarci dentro: non immediatamente cioè tirarne fuori un senso o un insegnamento, ma abitarle, almeno per un po’… in modo tale che quelle storie diventino le nostre storie, quelle dinamiche sottese, le nostre dinamiche, quegli interstizi, i nostri. Ciò che esse propongono infatti non sono generalizzazioni (non si trova mai una ricetta e a volte le soluzioni di fronte a problemi simili, sono diverse): piuttosto si parla di singoli, di individui, di storie personali. Si potrebbe dire che la Bibbia è la narrazione del rapporto con Dio di alcuni uomini (specifici), di un popolo (specifico). È la storia non dell’Uno o degli altri, ma della loro relazione.
Per questo lo schema precedente (quello della separazione tra piano umano e piano divino) oltre a non essere adeguato a dire il reale, non può neanche essere detto fondato biblicamente. Perché dal testo biblico si parte sempre dal rapporto, in qualche modo “già dato”: biblicamente l’uomo non è mai pensato senza Dio, ma anche viceversa, Dio non è mai raccontato senza l’uomo.
In questo senso anche la narrazione delle elezioni (del popolo, dei profeti, fin agli apostoli) non è messa per iscritto per promuovere uno schematismo pratico (Dio ha voluto che alcuni fossero privilegiati, che ci fossero ruoli istituzionali, che qualcuno fosse più importante di qualcun altro, che sapesse più “cose di Dio” degli altri…), ma sta ad indicare la storia del rapporto di uno con Dio (e non con le “verità” su Dio!): ma ancora, non nel senso di un modello, di un prototipo, che tutti gli altri dovrebbero imitare o a cui dovrebbero rifarsi… ma perché vedere la realizzazione di tale relazione in uno conferma tutti della sua percorribilità (personale! Cioè solo sua, singolarissima, di ciascuno).
Per questo l’inviato gode sì di una sorta di privilegio (parla le parole di Dio, perché parla con Dio e allora le parole dell’uno diventano le parole dell’altro), ma perché in lui – e non solo e non tanto grazie a lui – quella stessa parlabilità con Dio sia dischiusa a tutti.
Interessante infatti che Gesù mandi i Dodici ma non li accompagni: al di là della banale spiegazione per cui si tratterebbe di una prova generale per il tempo post-pasquale, o della vera ma riduttiva interpretazione secondo cui qui si espliciterebbero le indicazioni pratiche per i predicatori post-pasquali, in realtà qui c’è in gioco la trasparenza della trasformazione che la relazione a Dio (in Gesù) attua nella singolarità dell’uomo. Vedendo loro in quel modo e ascoltandoli nel dire che quel modo gli si è dischiuso nel rapporto a Gesù, il Cristo, ognuno può credere come possibile per lui quell’esperienza di salvezza.
Ecco perché chiunque incontra il Signore non può non essere testimone: perché – se l’incontro è reale – mostra da sé la sua trasparenza, nel cambiamento sostanziale del cuore dell’uomo… Ed ecco perché a due a due… Perché ciò che si “auto-testimonia” è la qualità di una relazione!
Forse che la nostra scarsa incisività testimoniale dipenda dalla nostra scarsa relazione a Dio e ai fratelli?

mercoledì 8 luglio 2009

Dio e Mammona

Due fatti, due parole, due giudizi, due "segni"... apparentemente scollegati tra di loro ma che la sapienza dell'uomo ha il dovere di collegare per porsi delle domande su dove stiamo andando, su cosa stiamo diventando...
...A voi i giudizio! (le sottolineature sono mie)




La giustizia degli uomini


NAPOLI - Aveva rubato un pacco di wafer da 1,29 euro in un discount ed è stato condannato a tre anni di reclusione. Salvatore Scognamiglio, 40 anni, non ha potuto beneficiare dell'attenuante del danno lieve per gli effetti della legge Cirielli che ha introdotto un giro di vite per i recidivi.

La sentenza è stata emessa [...] al termine di un breve dibattimento che era stato chiesto dal pm nelle forme del giudizio immediato. Assistito da un difensore di ufficio, l'imputato - che per questa accusa si trova agli arresti domiciliari - non ha chiesto l'adozione di riti alternativi come patteggiamento o rito abbreviato che avrebbero determinato una pena più lieve.

Scognamiglio è stato riconosciuto responsabile di rapina impropria [...] "Mi vergogno, avevo fame...", si è giustificato Scognamiglio, che è tossicodipendente e che in passato ha già riportato condanne per piccoli furti.

Il giudice, in base alle norme sulla recidiva della Cirielli, che non consente in questi casi di concedere le attenuanti (generiche e danno lieve) prevalenti, gli ha inflitto tre anni di reclusione, il minimo consentito dalla legge.



La giustizia del Vangelo


Cari fratelli e sorelle!
La mia nuova Enciclica Caritas in veritate, che ieri è stata ufficialmente presentata, si ispira per la sua visione fondamentale ad un passo della lettera di san Paolo agli Efesini, dove l'Apostolo parla dell'agire secondo verità nella carità: "Agendo - lo abbiamo sentito ora - secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a Lui, che è il capo, Cristo" (4, 15). [...]
L'Enciclica richiama subito nell'introduzione due criteri fondamentali: la giustizia e il bene comune. La giustizia è parte integrante di quell'amore "coi fatti e nella verità" (1 Gv 3, 18), a cui esorta l'apostolo Giovanni (cfr. n. 6). E "amare qualcuno è volere il suo bene e adoperarsi efficacemente per esso. Accanto al bene individuale, c'è un bene legato al vivere sociale delle persone... Si ama tanto più efficacemente il prossimo, quanto più ci si adopera" per il bene comune. Due sono quindi i criteri operativi, la giustizia e il bene comune [...] "È questa la via istituzionale... della carità" (cfr. n. 7).
[...] La situazione mondiale, come ampiamente dimostra la cronaca degli ultimi mesi, continua a presentare non piccoli problemi e lo "scandalo" di disuguaglianze clamorose, che permangono nonostante gli impegni presi nel passato. Da una parte, si registrano segni di gravi squilibri sociali ed economici; dall'altra, si invocano da più parti riforme non più procrastinabili per colmare il divario nello sviluppo dei popoli. Il fenomeno della globalizzazione può, a tal fine, costituire una reale opportunità, ma per questo è importante che si ponga mano ad un profondo rinnovamento morale e culturale e ad un responsabile discernimento circa le scelte da compiere per il bene comune. Un futuro migliore per tutti è possibile, se lo si fonderà sulla riscoperta dei fondamentali valori etici. Occorre cioè una nuova progettualità economica che ridisegni lo sviluppo in maniera globale, basandosi sul fondamento etico della responsabilità davanti a Dio e all'essere umano come creatura di Dio.
L'Enciclica certo non mira ad offrire soluzioni tecniche alle vaste problematiche sociali del mondo odierno - non è questa la competenza del Magistero della Chiesa (cfr. n. 9). Essa ricorda però i grandi principi che si rivelano indispensabili per costruire lo sviluppo umano dei prossimi anni. Tra questi, in primo luogo, l'attenzione alla vita dell'uomo, considerata come centro di ogni vero progresso; il rispetto del diritto alla libertà religiosa, sempre collegato strettamente con lo sviluppo dell'uomo; il rigetto di una visione prometeica dell'essere umano, che lo ritenga assoluto artefice del proprio destino. Un'illimitata fiducia nelle potenzialità della tecnologia si rivelerebbe alla fine illusoria. Occorrono uomini retti tanto nella politica quanto nell'economia, che siano sinceramente attenti al bene comune. In particolare, guardando alle emergenze mondiali, è urgente richiamare l'attenzione della pubblica opinione sul dramma della fame e della sicurezza alimentare, che investe una parte considerevole dell'umanità. Un dramma di tali dimensioni interpella la nostra coscienza: è necessario affrontarlo con decisione, eliminando le cause strutturali che lo provocano e promuovendo lo sviluppo agricolo dei Paesi più poveri. Sono certo che questa via solidaristica allo sviluppo dei Paesi più poveri aiuterà certamente ad elaborare un progetto di soluzione della crisi globale in atto. Indubbiamente va attentamente rivalutato il ruolo e il potere politico degli Stati, in un'epoca in cui esistono di fatto limitazioni alla loro sovranità a causa del nuovo contesto economico-commerciale e finanziario internazionale. E d'altro canto, non deve mancare la responsabile partecipazione dei cittadini alla politica nazionale e internazionale, grazie pure a un rinnovato impegno delle associazioni dei lavoratori chiamati a instaurare nuove sinergie a livello locale e internazionale. Un ruolo di primo piano giocano, anche in questo campo, i mezzi di comunicazione sociale per il potenziamento del dialogo tra culture e tradizioni diverse.
Volendo dunque programmare uno sviluppo non viziato dalle disfunzioni e distorsioni oggi ampiamente presenti, si impone da parte di tutti una seria riflessione sul senso stesso dell'economia e sulle sue finalità. Lo esige lo stato di salute ecologica del pianeta; lo domanda la crisi culturale e morale dell'uomo che emerge con evidenza in ogni parte del globo. L'economia ha bisogno dell'etica per il suo corretto funzionamento; ha bisogno di recuperare l'importante contributo del principio di gratuità e della "logica del dono" nell'economia di mercato, dove la regola non può essere il solo profitto. Ma questo è possibile unicamente grazie all'impegno di tutti, economisti e politici, produttori e consumatori e presuppone una formazione delle coscienze che dia forza ai criteri morali nell'elaborazione dei progetti politici ed economici. Giustamente, da più parti si fa appello al fatto che i diritti presuppongono corrispondenti doveri, senza i quali i diritti rischiano di trasformarsi in arbitrio. Occorre, si va sempre più ripetendo, un diverso stile di vita da parte dell'umanità intera, in cui i doveri di ciascuno verso l'ambiente si colleghino a quelli verso la persona considerata in se stessa e in relazione agli altri. L'umanità è una sola famiglia e il dialogo fecondo tra fede e ragione non può che arricchirla, rendendo più efficace l'opera della carità nel sociale, e costituendo la cornice appropriata per incentivare la collaborazione tra credenti e non credenti, nella condivisa prospettiva di lavorare per la giustizia e la pace nel mondo. Come criteri-guida per questa fraterna interazione, nell'Enciclica indico i principi di sussidiarietà e di solidarietà, in stretta connessione tra loro. Ho infine segnalato, dinanzi alle problematiche tanto vaste e profonde del mondo di oggi, la necessità di un'Autorità politica mondiale regolata dal diritto, che si attenga ai menzionati principi di sussidiarietà e solidarietà e sia fermamente orientata alla realizzazione del bene comune, nel rispetto delle grandi tradizioni morali e religiose dell'umanità.
Il Vangelo ci ricorda che non di solo pane vive l'uomo: non con beni materiali soltanto si può soddisfare la sete profonda del suo cuore. L'orizzonte dell'uomo è indubbiamente più alto e più vasto; per questo ogni programma di sviluppo deve tener presente, accanto a quella materiale, la crescita spirituale della persona umana, che è dotata appunto di anima e di corpo. È questo lo sviluppo integrale, a cui costantemente la dottrina sociale della Chiesa fa riferimento, sviluppo che ha il suo criterio orientatore nella forza propulsiva della "carità nella verità". Cari fratelli e sorelle, preghiamo perché anche questa Enciclica possa aiutare l'umanità a sentirsi un'unica famiglia impegnata nel realizzare un mondo di giustizia e di pace. Preghiamo perché i credenti, che operano nei settori dell'economia e della politica, avvertano quanto sia importante la loro coerente testimonianza evangelica nel servizio che rendono alla società. In particolare, vi invito a pregare per i Capi di Stato e di Governo del g8 che si incontrano in questi giorni a L'Aquila. Da questo importante summit mondiale possano scaturire decisioni ed orientamenti utili al vero progresso di tutti i Popoli, specialmente di quelli più poveri. Affidiamo queste intenzioni alla materna intercessione di Maria, Madre della Chiesa e dell'umanità.
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