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venerdì 29 maggio 2009

La potenza discreta dello Spirito

Volti nuovi dello Spirito...
Il Vangelo chiarisce l’obiettivo, anzi, il “compimento” essenziale per cui Gesù innalzato al Padre ci manda lo Spirito: vi condurrà sulla via di ogni verità – perché lui stesso è lo Spirito di verità. “La Verità che qui si dice è la verità di Dio come si è rivelata definitivamente e inesauribilmente in Gesù Cristo: essa consiste nel fatto che Dio è l’amore e che Dio, il Padre, ha amato il mondo fino a mandare il Figlio suo. Questo nessuno dei discepoli, e neppure noi, l’avremmo compreso, se non ci fosse stato donato lo Spirito stesso di Dio, per introdurci nell’intenzione e nell’azione salvifica di Dio stesso. Essendo, lo Spirito, il frutto di questo amore reciproco in Dio, non rivela ciò che gli è proprio, ma spiega soltanto, sempre di nuovo, attraverso tutti i secoli, quanto insondabile e inconcepibile è questo eterno amore (von Balhasar). Egli introduce il discepolo in ciò “che è mio”, dice Gesù, il Figlio ma questo è nello stesso tempo “ciò che è del Padre”. Non si tratta di una conoscenza noetica o intellettuale. Lo Spirito ci introduce in questa dinamica interna all’amore di Dio insegnandoci con infinita pazienza quotidiana ad amare con l’amore che Dio ha manifestato in Cristo, amore di benevolenza che tutto abbraccia, assume e redime! La laboriosa e travagliata trasformazione “dei desideri e passioni della carne” nel “frutto dello Spirito”, come ci spiega Paolo, è il segno di questa presenza animatrice e consolatrice…
E come mai ciascuno di noi li sente parlare nella propria lingua nativa?
…Così si domanda la gente proveniente da ogni lingua e nazione che è sotto il cielo, in piazza, nel giorno di Pentecoste! Noi facciamo dunque memoria ancor oggi (e dovrebbe rinnovarsi tra noi), del dono proprio più immediato e percepibile dello Spirito: la comunione e l’intercomprensione dei linguaggi e delle culture. Una unione ardente con/divisa, o una divisione in lingue infuocate dallo stesso braciere… Mai, forse, lo Spirito ha avuto una piazza globalizzata come il nostro il mondo, oggi. Mai è stata così forte la dispersione babelica, e nello stesso tempo tanto condensata e strettamente interconnessa e interdipendente, che l’evento che capita in ogni angolo del cosmo coinvolge inarrestabilmente tutta l’umanità. Mai come oggi… tutti erano radunati in un unico luogo… come si dice dei discepoli, in attesa dello Spirito. È il nostro villaggio globale! C’è un’attesa evidente, anche se confusa e angosciata, nel nostro mondo e nella nostra chiesa, che sembra provenire proprio da questa evidente urgenza inarrestabile di integrazione e di comunione, proprio in una condizione sociale, economica, religiosa e ideologica mondiale quanto mai sperequata e conflittuale. Il senso di paura e di impotenza, di bisogno e di inadeguatezza fa ricercare soluzioni sbilanciate sulla “sicurezza” (propria! …con censura più o meno spietata sui problemi altrui); sulla difesa armata aggressiva della propria identità di nazione o di religione e di livello economico; sui “respingimenti” di chiunque cerchi una via di uscita da condizioni talmente invivibili da non aver tempo e mezzi per percorrere le impossibili vie burocratiche prestabilite.
La profezia cristiana si arrende?
Forme impazzite di reazioni aggressive violente e terroristiche (la cui origine non è solo ideologica o religiosa, ma anche e sempre economica!) sembrano giustificare contromisure adeguate oltre le soglie che si pensavano insuperabili della tortura e della sospensione dei diritti della persona (…e quindi i “reati” diventano “doveri”, pure in paesi cosiddetti democratici!). Eppure la Pentecoste è presentata ai discepoli di Gesù come la realizzazione, iniziale almeno, della “verità tutta intera” prevista dall’antica profezia antibabelica. “Il Signore degli eserciti preparerà su questo monte un banchetto…per tutti i popoli… Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli” (Is. 25,6ss). Il prodromo di quanto succede a Gerusalemme il giorno di Pentecoste! Dunque, è possibile un benessere globalizzato, quando ogni diseguaglianza vergognosa verrà cancellata! Perché questo è il contenuto, ma anche il grande mezzo di fascino e convinzione, il propulsore! Di cosa, insomma, parlavano i discepoli, mentre accade il prodigio della comprensione reciproca nella lingua nativa? Delle grandi opere di Dio! Le cose che stavano avvenendo, dunque, quelle che erano sotto gli occhi di tutti! Che gli uomini si capivano, che ognuno riconosceva e accoglieva la dignità dell’altro, la reciproca comprensione e accoglienza della diversità, e (proseguendo il cammino di animazione dello Spirito e della Parola) che erano insomma un cuor solo e un’anima sola… e che non c’era tra loro nessun bisognoso, perché tutto era in comune.
…non siamo ancora capaci di portarne il peso?
Gesù afferma che non può dire subito tutta la sua verità ai discepoli, perché non erano ancora capaci di portarla: Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da sé stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Questa immaturità dei discepoli si prolunga fino a noi. Lo Spirito di certo è già stato mandato e talora ne abbiamo visto le tracce, ma la nostra capacità di accogliere, analizzare e progettare “le cose future” rimane molto scarsa. E questa insufficienza genera insicurezza, e quindi contrapposizioni e aggressività, e porta acqua non al mulino della profezia, ma al vortice della difesa arroccata e selvaggia dei privilegi acquisiti (spesso con le dilapidazioni coloniali dei secoli passati). Non che non sia stata detta una parola profetica, per esempio sul disastro economico mondiale provocato in questi ultimi tempi per incontrollabile ingordigia finanziaria, ma è caduta nel vuoto. Diceva infatti Giovanni Paolo II: Di per sé un mercato mondiale organizzato con equilibrio e una buona regolamentazione, possono portare, oltre che al benessere, allo sviluppo della cultura e della democrazia… Ci si deve però aspettare effetti diversi da un mercato selvaggio che con il pretesto della competitività, prospera sfruttando a oltranza l’uomo e l’ambiente. Questo tipo di mercato eticamente inaccettabile non può che avere conseguenze disastrose per lo meno a lungo termine (25.04.1997). Le dinamiche nuove dello Spirito non sono regole economiche, ma se non ispirano l’atteggiamento degli uomini sia nell’affrontare i macrofenomeni socioeconomici che i rapporti interpersonali diventano ovviamente irreali e alla fine sterili.
Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge
Noi preferiamo la legge, la sicurezza del “da farsi” prestabilito, anche se denuncerà infine la nostra inattitudine a risolvere i problemi nostri e del mondo. Piuttosto però di sbilanciarci verso lo Spirito, che essendo amore, non ha confini tra il tuo e il mio, tra la tua responsabilità e la mia e ci spinge su orizzonti, “realtà future” senza sentieri e confini precisi, noi preferiamo rintanarci nella zona sicura dei diritti e dei doveri! Il Vangelo, invece è disarmante quanto inapplicabile, secondo i nostri criteri e le nostre paure: Egli, lo Spirito, mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio ve lo annuncerà. Dunque, man mano che i giorni e le faccende e le contraddizioni ci vengono incontro, lo Spirito ci suggerisce cosa ha fatto Gesù e come noi dobbiamo rinnovarlo nella nostra storia. A noi la scelta. Se non lo facciamo contraddiciamo il senso fondamentale del mistero di oggi, che S. Paolo così efficacemente analizza: La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Non si tratta soltanto delle pulsioni sessuali o sensuali, ma soprattutto della prepotenza dell’io, la causa più scatenante delle sofferenze che l’uomo procura a sé stesso e ai suoi simili. O il cristiano “tuttofare” si butta dalla parte della razionalità e quindi della scientificità, della polemica… e allora qualche risultato (amaro!) a modo suo l’avrà, ma sarà lo Spirito a ritirarsi. O altrimenti “si lascia fare dallo Spirito”, non per impigrire nell’irresponsabilità, ma per buttarsi con molta più libertà dalla parte dello Spirito, di cui dice Gesù, Egli vi darà testimonianza di me. Cioè riporterà sempre il discepolo, nell’avvicendarsi delle vicende e delle stagioni, alla verità della sua Parola e all’amore del Padre. Il risultato (implorato gratuitamente) a lungo andare, almeno, dovrebbe vedersi: Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c'è Legge, perché sono le varie sfaccettature dell’amore senza riserve, senza regole, che non l’amore stesso. Che in fondo è lo specifico del cristiano, secondo Gesù: da questo capiranno che siete miei discepoli, da come vi amate gli uni gli altri.

Lo Spirito non è una secchiata che cade ogni tanto qua e là

Poveramente vado / sgomenta camminando nella sabbia / processione infinita di / solitudini in cammino. / Forse stasera / o domani sera / o alla sera dell’ultimo / giorno – alba della terra nuova – / TU ritornerai. / Non avrò fiato / per rimostranze vane. / Ma le pupille, quelle, / rese vuote dal / desolato pianto / reclameranno luce / per vedere. [Madre Elisabetta, Legnano]. Ho voluto iniziare con questa poesia perché mi pare dica bene il dramma che caratterizza la vita della Chiesa per l’assenza di Gesù tra i suoi. Ed è troppo facile dire “Sì, però poi ci ha mandato lo Spirito, che non a caso si chiama Paraclito, consolatore…”, perché anch’esso – per quanto non abbia mai smesso di affascinare generazioni di nuovi cristiani – resta così imprendibile, da sembrare evanescente, addirittura superfluo… È la grande accusa che ci muovono infatti i nostri fratelli ortodossi… di aver dimenticato lo Spirito… Ma d’altra parte… un po’ avevamo i nostri buoni motivi: non volevamo dare e darci l’impressione di vivere di una religiosità un po’ fantasmica, spiritualistica, interioristica (che non si dice, ma rende l’idea…), con punte di fanatismo e suggestione che rischiavano di far ridere i polli, o peggio, di screditare un messaggio potente come quello evangelico: le vocine, le visioni, gli stati paranormali…
E ancora una volta si ripropone l’annoso problema teologico – ma forse sarebbe meglio dire “umano” – del dire una cosa senza sbilanciarsi troppo in un senso, perché poi bisogna correggersi, spostando un po’ il pendolo dall’altra parte, ma senza andare troppo in là, se no si sbaglia ancora… Un po’ come per Gesù: era uomo o era Dio? Beh, certamente era un uomo, però non si può dire che era solo un uomo, e allora si sposta un po’ il pendolo: è anche Dio. Sì, ma non si può neanche dire che è solamente Dio, non è che ha fatto solo finta di prendere carne umana, non era un suo sostituto quello che c’era sulla croce… e allora risposta ancora un po’ il pendolo, fino ad arrivare alla definizione dogmatica: è 100% uomo e 100% Dio…
La stessa cosa per lo Spirito Santo… è interiore, ma non è interiorismo, spirituale, ma non è spiritualismo, opera nella storia, ma non si sa donde viene e dove va, ecc… E così di bilancino in bilancino si tenta di sottolineare ora un aspetto, ora un altro, stando dentro ai confini del dogma (è della stessa sostanza del Padre e del Figlio, cioè è Dio pure Lui e procede da entrambi) e andando incontro alle domande di senso della gente… Si alternano così epoche storiche molto “spirituali” a epoche un po’ più dimentiche di Lui…
Ma il problema vero è capire oggi che cosa c’entra con noi, con me questo Spirito Santo, cosa è (o meglio “Chi è?”), come mi ci posso relazionare…

Il rischio se no è infatti quello che i nostri ragazzi – che viaggiano senza i nostri filtri di adulti – esplicitano nel loro parlare: ogni volta che non sanno come spiegare alcune esperienze ecclesiali, ci mettono dentro lo Spirito Santo, di cui non si sa nulla e che perciò va sempre bene come risposta: “Perché han fatto questo papa?”, “Ha deciso lo Spirito Santo”; “Cos’hai ricevuto alla cresima?”, “La play station, l’orologio, le scarpe e poi… ah sì, lo Spirito Santo”; “Cosa succede a Messa?”, “Boh, fa tutto lo Spirito Santo”… Rispondendo quindi con risposte giuste (chi direbbe che il papa non l’ha scelto lo Spirito, che è lo stesso che si riceve alla cresima e che fa del pane e vino, il corpo e sangue di Gesù durante la messa?), ma che sono completamente vuote… Tant’è che nessuno poi sa chi in definitiva sia questo Spirito Santo… e addirittura qualcuno inizia a sospettare che sia un’invenzione per alleviare la tragicità dell’assenza di Gesù… o per giustificare infelici scelte ecclesiali…
Eppure, come ci ricorda Dossetti, per Gesù invece lo Spirito è stato quasi un chiodo fisso: «Con quanta insistenza il Signore ci parla dello Spirito consolatore, del Paraclito, di colui che verrà a noi dopo che Gesù è salito al Padre e che non ci lascerà orfani!»; infatti «quando ci domandiamo qual è in definitiva lo scopo dell’incarnazione, la risposta evangelicamente è questa: portare più profondamente quel fuoco che, nella narrazione del battesimo di Cristo e soprattutto nella profezia del Battista, viene identificato con lo Spirito: “Io vi battezzo nell’acqua […]; lui vi battezzerà nello Spirito Santo” (Lc 3,16). La missione di Cristo e tutto il senso dell’incarnazione si possono riassumere così: dare agli uomini lo Spirito Santo. […] Noi consideriamo il Cristo sotto tanti aspetti, ma ce n’è uno al quale forse pensiamo meno e che risulta dal testo di Luca ora richiamato: questa ansia di Cristo di dare lo Spirito Santo. Gesù, l’uomo di Nazaret, è divorato dalla sete di trasmettere a tutto l’uomo e a tutta la creazione lo Spirito di Dio».
Come noi, anche Dossetti, nota la forbice che si apre tra l’appassionato annuncio di Gesù dell’importanza dello Spirito e la nostra pressoché indifferenza (forse ignoranza) nei suoi confronti: «Se consideriamo questo commisurandolo con la nostra attenzione allo Spirito Santo, nella nostra esperienza di preghiera e di vita… quale sproporzione! Il Cristo indica non solo verbalmente, ma con tutta la sua tensione esistenziale, che in questo comunicare lo Spirito sta tutto il senso del suo essere e del suo compito e noi invece ce ne disinteressiamo e lo accogliamo con estrema freddezza» [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 21-22.209].
Ma come correggere questa nostra impasse? Come correggerla senza che la nostra risposta risulti ancora una volta un appiccicare lo Spirito alla storia, un ricordarsi momentaneo di “un altro piano”, come se si trattasse di qualcosa di messo sopra, staccabile a piacimento e per quello non indispensabile, dunque in fin dei conti superfluo? Sembra pressoché inutile infatti intensificare il richiamo di tutti all’attenzione allo Spirito o l’auto-convincimento riguardo alla sua importanza, con il conseguente volontaristico sforzo di tenerlo presente nel nostro vivere o – almeno – nel nostro pregare... Sembra inutile, per due motivi: innanzitutto perché è un dato di fatto; questa modalità “pastorale” non funziona; in secondo luogo perché perde il punto decisivo della questione, e cioè la comprensione esistenziale dell’importanza dello Spirito. È perché non sappiamo chi è, cosa fa, come agisce e come parlargli che in fin dei conti ci risulta estraneo: se alziamo gli occhi al cielo penseremo di pregare il Padre, se ci troviamo di fronte ad una croce pregheremo il Figlio… Ma lo Spirito?
Credo dunque che unico modo per superare l’impasse spirituale dei nostri giorni, rimanga quello di tornare al vero appassionato di Spirito, a chi non solo l’ha conosciuto, ma si co-appartiene con Lui, e cioè Gesù: Lui, infatti – dicevamo con Dossetti – è Colui che più di tutti ne ha suggerito l’importanza, ne ha fatto sentire l’indispensabilità, ne ha preannunciato la decisività… Importanza, indispensabilità e decisività che noi abbiamo scordato…
E il primo dato che Gesù ci comunica sullo Spirito è che si tratta del suo Spirito e dello Spirito del Padre; e per capire cosa vuol dire dicendo “mio Spirito” è utile pensare a espressioni quali “lo spirito del discorso”, “lo spirito dell’iniziativa”… Si tratta cioè del nucleo più vero, più intimo della cosa in questione… Lo Spirito di Dio è dunque l’intimità di Dio, che scorre tra Padre e Figlio, è la sua identità più profonda, più autentica più vera… Ecco perché è vero che diventa consolante la sua presenza, nonostante la dipartita di Gesù: non perché banalmente abbiamo trovato qualcos‘altro che riempie il nostro orizzonte religioso, come un contenitore vuoto, un riferimento puramente nominalistico che placa – eludendole – le nostre domande, ma perché con esso «Siamo di fronte a quel mistero che nella nostra fede, nella nostra vita spirituale, e religiosa, segna il termine ultimo, la pienezza completa e l’apertura ormai senza più confini, senza più limiti né orizzonti,del nostro rapporto con Dio. […] Oggi si adempi la promessa del Padre e il Cristo stesso dona all’umanità quella pienezza di vita che è in lui. […] La Pentecoste è apertura. È il momento in cui l’uomo tocca l’apertura dell’orizzonte infinito di Dio. […] In ogni momento in cui ci poniamo in questa condizione di apertura, è questo Spirito che si insinua in noi e che attraversa lo spirito di ogni uomo e lo spirito collettivo dell’intera umanità e, soffiando in essa la totalità della pienezza di Dio, la trasforma» [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 209-213].
Ecco il secondo dato che il Signore Gesù ci rivela riguardo allo Spirito: esso – da Spirito a spirito – comunica con l’uomo, ha incidenza sulla sua vita, addirittura è la via per rapportarsi a Dio! Ma proprio su questo punto si sono consumati i più grandi fraintendimenti. Sempre nel tentativo di bilanciamento del pendolo si è un po’ persa di vista questa modalità di azione dello Spirito nel mondo… Per evitare di riconoscere troppo elasticamente la possibilità per ciascuno di intrattenere una relazione “diretta” con Dio – da Spirito a spirito, appunto – e lasciar disoccupati tutti i preti, o – detto in altri termini – per evitare il relativismo, si è preferito sottolineare l’aspetto miracolistico dell’intervento dello Spirito, o quello istituzionalmente regolato (per es. i sacramenti); per altro verso però, per evitare un uso e consumo di questa azione più “materiale”, puntuale, “calcolabile” dello Spirito, è stato necessario introdurre la sua selettività (arbitrarietà?)… Di modo che il pensiero comune riguardo all’azione dello Spirito – in modo un po’ caricaturale, ma efficace – può essere esplicitato con questo esempio: se uno decide di diventare prete è perché – inciampando o deliberatamente scegliendo (questo è ancora un po’ equivoco nel pensiero comune… perché se inciampa è vittima del caso anche Dio, se sceglie, è discriminatorio…) – versa una secchiata – di Spirito appunto – su di lui… e tac… c’ha la vocazione… lui e un altro no…
…Evidentemente non è così… Ma com’è allora? Forse molto più semplicemente, se si tratta dello Spirito di Dio e dunque di Cristo, non si può non pensare che agisca proprio secondo le dinamiche di Cristo e dunque secondo la logica dell’incarnazione. La sua azione non è dunque metastorica, ma intrastorica, non è fuori, separata, sopra, con qualche incursione ogni tanto, ma è dentro, mescolata, insinuata negli interstizi del carne dell’uomo… Ecco perché non si può dialogare con Dio che da dentro la storia, che da dentro i drammi, che da dentro la propria carne… è nel dipanarsi della nostra libertà storica che si può costruire una vita spirituale, una vita cioè in dialogo con lo Spirito, in dialogo con Dio. Proprio come è avvenuto nella prima Chiesa dove il primo Concilio (quello di Gerusalemme), che affrontava il problema della necessità o meno della circoncisione, non si è risolto aspettando una vocina, una secchiata o una visione, ma con un’accesissima discussione tra Pietro e Paolo! Così si fa la storia con Dio! Non a caso veniamo battezzati nello Spirito, cioè immersi in Lui, impregnati in modo che non sia più distinguibile dove finiamo noi e dove inizi Lui… perché si tratta di un intreccio di libertà (come nell’amore). È nel punto più intimo di noi dunque (nel nostro spirito – che per la tradizione vuol dire l’uomo tutto intero!!!) che agisce lo Spirito, in un dialogo segreto che ci convince della vita cristica: «Il nostro peccato infatti non è altro che la conseguenza di un’intermittenza di contatto» con questo dialogo da Spirito a spirito [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 209-213].

lunedì 25 maggio 2009

New Italian Style... ciò che i media italiani si guardano bene dal mostrare...














Foto di Enrico Dagnino, acquisite dalla rivista francese Paris Match, n° 3130 del 14-20 maggio 2009. Cliccare sulla foto per ingrandirle.

New Italian Style... Immigrati: il sogno infranto


Dal nostro inviato speciale a bordo del “Bovienzo”, François de La Barre – ParisMatch

Credeva di lasciare l’inferno, ma ci è riaffondato. L’Italia lo riporta nel continente da cui è fuggito con i suoi 79 compagni di sventura. Per la prima volta, degli immigrati africani vengono respinti col manganello e restituiti alla brutalità degli aguzzini libici, sotto gli occhi dei nostri reporter. Nel 2008, 36.900 “naufraghi” si sono arenati nei pressi dell’isola di Lampedusa. Per arginare quest’ondata, Silvio Berlusconi ha fatto votare una legge, in spregio ai diritti dell’uomo, che riqualifica la domanda d’asilo come reato passibile di 18 mesi di reclusione. L’anno scorso 3 immigrati su 4 avevano depositato una richiesta di asilo politico: il 50 per cento di esse era stato accettato. Poi è stato siglato un accordo con Gheddafi, gli espulsi vengono riportati a Tripoli senza che la loro sicurezza e la loro dignità venga minimamente garantita. Ma non c’è nessun argine alla miseria. A Tripoli, non ci saranno più fotografi a testimoniare…
La scaletta! Bisogna raggiungere questo pezzo di ferraglia e venir fuori dal canotto pneumatico in panne, che si sgonfia, beccheggia e, con un’ondata, sbatte contro la fiancata dell’imbarcazione della guardia di finanza. Questa scaletta è il percorso più breve tra l’Africa e l’Europa. Tra la miseria e la speranza. Sul fondo dello Zodiac alla deriva, prostrata, incastrata, c’è una ragazza di cui si vedono solo gli occhi spalancati. Lo sgardo è spaventato…Il pigia-pigia ai piedi della scala, l’assalto per sfuggire al relitto, l’abbordaggio della disperazione ha qualche cosa di dantesco. Spaventoso, anche per i marinai del “Bovienzo”, che non sono al loro primo salvataggio di disperati nel Mediterraneo. Uno di loro grida: “Aspettate! Uno alla volta!” Non serve a niente. Come ci può essere disciplina? Sono dei sopravvissuti. Gli ordini del comandante Christian Acero non ottengono migliore effetto. D’altronde, la sua voce roca è coperta dal rumore assordante di un elicottero che sorvola la scena. Il comandante è esasperato: “ Se ne va di qui o no, quello?” Un membro dell’equipaggio picchia col manganello sulle sbarre della scaletta., per tentare di dissuadere i fuggitivi dal precipitarsi tutti assieme. Se ne fregano, del suo manganello. Salgono come possono, gli uni sugli altri, rischiando di cadere in mare, di annegare. E l’angoscia si impadronisce dell’equipaggio del “Bovienzo”.
I primi sono a bordo. Si siedono subito, si stendono col dorso contro la lamiera del cockpit. Gambe stese, braccia spenzoloni, fiato corto. Nessuno si sdraia, tranne Adill, che ha barcollato ed è crollato. Adesso, si trascina gemendo per avvicinarsi ad Amal, un altro naufrago con un cappello beige, suo amico. Amal lo prende tra le braccia, lo stringe. Adill ci squadra, le sue labbra tremano. “Acqua”, chiede Amal. Gli si tende una bottiglia. Discretamente, cosparge Adill, poi la bottiglia passa di mano in mano, e in qualche secondo è vuota. Non finiscono più di invadere il ponte. Quanti sono? Dieci, venti, trenta… E continua. I marinai ordinano loro di stringersi per fare posto a quelli che stanno imbarcando. Dirigono gli uomini in avanti – adesso sono 68, e le donne dietro, sono 12. 80 esseri umani che erravano da giorni e notti in quel maledetto Zodiac, che i marinai del “Bovienzo” lasciano affondare senza recuperare quello che galleggia sul fondo. Non c’è nulla che valga la pena: tessuti a brandelli, magliette sporche, una bottiglia di plastica vuota.Non avevano più niente, né acqua né cibo né benzina. Per arrivare in Sicilia, avrebbero dovuto percorrere ancora più di 100 miglia nautiche. Senza viveri, non avevano la minima possibilità. “Gli abbiamo salvato la vita”, sussurra un membro dell’equipaggio. Per lui, è un salvataggio. Il comandante tace, si accende una sigaretta e torna a prendere il timone della nave…
Sul ponte, Amal aiuta Adill a riprendersi. Adill è nato nel 1983. “Il 1 aprile”, dice. “Sono designer. Voglio lavorare, andare a scuola non importa in che paese d’Europa. Farò tutto ciò che volete”. Gesticola, Amal lo calma. Amal viene dal Ghana, ha 26 anni. Ha trascorso 4 anni in Libia, tempo di guadagnare 1500 dollari, il prezzo della traversata. Vuole raggiungere suo fratello in Spagna. Non gli piace parlare del suo tentativo di traversata, bisogna quasi cavargli fuori le parole. Uno sconosciuto che ha incontrato al mercato di tripoli gli ha proposto di imbarcarsi. Di notte, Amal è salito in un pick up con degli altri africani. Gli hanno bendato gli occhi. Si è ritrovato in una casa dove gli hanno preso i suoi soldi. Poi, una spiaggia, lo Zodiac, la partenza…

Nessuno può valutare quanto tempo hanno passato in mare

“Quanto tempo avete passato in mare?” Amal non lo sa. Uno dei suoi compagni, in tee short arancio, con un orecchino, alza la mano con due dita alzate e dice;”tre giorni. Poi, non c’era più benzina”. Si chiama Franck. Gli occhi arrossati, le labbra gonfie e tagliate a causa del sole e del sale, è confuso come gli altri. Qualcuno afferma che il viaggio è durato cinque giorni. Un marinaio dice che è impossibile:” Dopo cinque giorni in queste condizioni, nessuno avrebbe più la forza di parlare”. Nessuno di essi sembra capace di valutare con esattezza il tempo passato in mare. Hanno imparato una storia che si sono ripetuti sullo Zodiac, da raccontare alla polizia e ai giudici. Una storia incredibile di un lungo viaggio, di una guida caduta in mare che ci racconta una giovane nigeriana con i capelli arruffati. Si chiama Gift, porta un jeans scolorito e mi chiede cosa succederà adesso.
Le rispondo ciò che ho già visto, ciò di cui sono convinto. Ciò che si aspetta, d’altronde. Ci si dirige al porto nuovo di Lampedusa, dove la Croce Rossa, la Caritas e l’unhcr [l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati] si occuperanno di loro. Verranno loro offerti del the, dei biscotti, delle coperte, un’assistenza legale, delle cure, dei vestiti ed anche una carta telefonica. Tutta l’Africa sa che quelli che approdano a Lampedusa sono trattati come dei naufraghi, non come dei clandestini. Anche se questo esaspera la maggior parte degli abitanti dell’isola, che non amano vedersi sfilare davanti tutta la miseria del mondo e detestano che la loro spiaggia si trasformi in cimitero a cielo aperto. Comunque, la consueta umanità. Il minimo di solidarietà, di carità. Allora dico a Gift e agli altri: “Non preoccupatevi…non preoccupatevi…”
Però sono preoccupato anch’io: risalendo nella cabina di pilotaggio, vengo a sapere che la destinazione è cambiata. Lampedusa è a un’ora di mare, ad ovest. E la vedetta della guardia di finanza naviga direzione sud. Cala la notte, comincia a fare freddo. I naufraghi indeboliti sono ghiacciati, mancano di sonno, hanno fame. “Ieri” dice Amal”ha piovuto, siamo ancora tutti inzuppati”. Fa un tiro della sigaretta che gli hanno dato, poi la passa ai suoi compagni. Un uomo smilzo domanda del cibo. Non avrà nulla. Un altro, con la maglietta di Francesco Totti, dell’as Roma, chiede dei vestiti asciutti, ma non ce n’è. E nemmeno delle coperte. Dappertutto sul ponte, delle figure sedute o sdraiate, avviluppate in pezzi di stoffa luridi. Dei piedi sporgono. L’odore è forte e nauseabondo. Meglio non immaginare come 80 persone si liberavano in mare. A volte, qualcuno si alza per andare a vomitare; un marinaio l’accompagna.

Nel retro, un militare napoletano distribuisce alle donne delle bottiglie d’acqua e dei biscotti farciti al cioccolato, e del cotone per tapparsi le orecchie. Sono sistemate al di sopra dei due motori di 3000 cavalli ciascuno. Fa meno freddo di prima, ma il rumore è insopportabile.

Gift è accovacciata, lo sguardo vuoto e spento. Ha infilato le mani nelle tasche del vestito. Ha mal di denti e non riesce ad inghiottire niente. Per un istante, esce da questo stato semi comatoso, contempla il cielo, la luna a babordo, la stella polare che brilla in cielo. “Dove siamo?” domanda Gift. Dove andiamo? Non ottiene risposta. È mezzanotte. Si avvistano due battelli della guardia costiera , che portano anch’essi dei clandestini. Via radio, il comandante del “Bovienzo” chiede delle coperte di sopravvivenza e un aiuto medico. Qualche minuto più tardi, il medico giunge a bordo. Senza coperte di sopravvivenza. Piccolo uomo raggrinzito, dallo sguardo deciso, il dr. Arturo porta un berretto e l’uniforme rossa dell’ordine della croce di Malta ( Corpo italiano soccorso di Malta). Porta una valigetta di medicinali, roba da rimettere tutti in forma. Parla solo italiano; Enrico, il nostro fotografo, gli fa da interprete assieme a me. Due malati si sono rifugiati nello Zodiac del “Bovienzo”. “Fuel burn”, dice uno di loro indicando i genitali. “Ho i guanti sporchi”, dice il medico. Mi chiede di prendere dalla sua borsa un prodotto spray. Ne cosparge i genitali del paziente, che fa una smorfia prima di riallacciarsi i jeans.
Gli altri clandestini capiscono che il prodotto allevia il dolore. La benzina si era riversata nel relitto dove sono rimasti seduti senza muoversi per lunghe ore, a mollo nel carburante. Soffrono di bruciori alle natiche. Si alzano uno dopo l’altro, abbassano i pantaloni mostrando le natiche. Quelli che ne hanno ancora la forza ridono. Un senegalese in giacca zippata nera dice in francese che ha continui nausea e vomito. “Lo vedremo più tardi” dice il dottore. Qualcuno ha mal di testa. “Da quanto tempo?” “Due mesi”. “Non posso farci niente, sono qui solo per le urgenze”. Un altro apre una vecchia borsa di plastica e fa vedere due boccette vuote. “Le mie medicine, sono asmatico e nel mio paese non ci sono più medicine. Mio padre mi ha detto di andare”… “Che cos’ha?” interrompe il medico prima di voltarsi. “Andiamo a vedere le donne…” Una di loro sembra stare male. Si tocca i fianchi ed il petto facendo smorfie. Non parla inglese e Gift non ha più la forza di tradurre. Il dottore l’ausculta un momento, sospira e passa alla vicina, che abbassa i pantaloni :“fuel burn”…

Gift parla del suo mal di denti. “Vedremo dopo” dice di nuovo il medico. Dopo cosa? Non risponde. Delle lacrime scendono sulle guance di Gift. Il medico termina il suo giro: “Non posso mica occuparmi di tutti!” Rivolto a me, aggiunge: “ È sempre così, si lamentano delle irritazioni dovute all’acqua di mare. Questi qua sembra che stiano bene invece”. Gli restituisco la sua valigetta. Era piena di garze, siringhe e medicine che non sono servite a niente. Ha almeno portato dei sacchi dell’immondizia. I marinai li distribuiscono. Gli uomini li tagliano e se li infilano come delle giacche. Dietro, le donne, rannicchiate le une contro le altre, le usano come coperte.

Grazie a Sam per la traduzione

domenica 24 maggio 2009

Sognare l'incubo


L’ultimo metrò di Giacomo Poretti*

Ho fatto un brutto sogno: non avevo sentito la sveglia e dovevo recarmi in un luogo per fare una cosa importantissima, ma non ricordavo cosa. Corsi giù nella metropolitana, mi sarei ricordato strada facendo. Sulla banchina la ressa era indescrivibile, quando il treno si fermò la gente iniziò a spingere e a urlare: «Dove essere garrozza per negro di Sudan?», «Via di qua non fale fulbo questa e calozza di filippino, no cinese», «Cvtrrrrr nglllfz bwqqkkhhh» (idioma di un popolo a noi sconosciuto che sostanzialmente diceva «mi hanno rubato il portafoglio»), «No signora, esto es un tram por equadorenios no costaricanos, el costaricanos està dopo los ukrainos es la terzultima carossa», e la signora rispondeva: «Cabrón, tu no ai respecto por los anzianos».

Ero disperato di non trovare posto quando comparve la mia carrozza: lunghissima, almeno come il campo di San Siro, pulita, color verde pistacchio metallizzato. Si aprirono le porte automaticamente e le note di «O mia bela Madunina» mi avvolsero e mi fecero sentire a casa; le millesettecentottantatue poltrone di prima classe in alcantara color verde bottiglia erano quasi completamente vuote, si contavano solo due persone sedute, e le loro giacche verde smeraldo abbagliarono i miei occhi. Passò una hostess che indossava un tailleur verde acqua, reggeva un vassoio con brioches al gorgonzola, tramezzini alla caseula. Chiesi un caffè marocchino: la hostess prima mi guardò male, poi mi propose un cappuccino con schiuma di ossobuco, risposi che grazie ma ricordavo solo ora di essere a digiuno. La hostess gettò il vassoio a terra e urlò che erano ormai trent’anni che le parole «digiuno» e «ramadan» erano abolite.

In quel mentre entrarono tre controllori vestiti con una camicia color verde pianura padana, chiesero i documenti a una delle due persone sedute e immediatamente dopo la scaraventarono fuori dal finestrino con il treno in corsa: non aveva alcun diritto a sedersi in quella carrozza, era residente a Poggibonsi! La ronda di controllori avanzò verso di me e il capo, che aveva la faccia di un cane lupo e la voce di Borghezio, mi intimò di consegnargli biglietto e carta di identità. Fui travolto dal panico, ecco dove stavo andando: in Comune a fare il cambio di residenza! Il cane lupo lesse «residente a Trani», abbaiò e mi mostrò le fauci. A quel punto mi sono svegliato: ero nel mio letto, a Milano, avvolto dalle lenzuola verde pisello. Allora mi sono messo tranquillo: da noi certe cose non succederanno mai.

da "Popoli" (rivista dei Gesuiti), n° di giugno-luglio 2009 (di prossima uscita)
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Comico
grazie a egivus per l'informazione

sabato 23 maggio 2009

New Italian Style...

Vi ricordate che cosa proclamò il nostro ministro La Russa? Colui che ha alzato la voce contro la rappresentante l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati perché "disumana o criminale"? Lo scrivevo nel post precedente in cui rimandavo all'articolo di Repubblica e che qui riporto parzialmente: "Ci si immaginava quasi che i nostri marinai con la forza prendessero questi poveri clandestini e poi a pedate li riaccompagnassero in Libia. Non è così, è un'opera umanitaria ed è disumano immaginare il contrario"...
E gli faceva eco il ministro Frattini: "non hanno mai usato la forza". "Non c'è stato alcun ordine al capo di Stato maggiore della Marina o al comandante della nave Spica, che è quella che ha fatto i riaccompagnamenti, ad usare la forza. E la forza non è mai stata usata, non c'è stata mai alcuna azione coercitiva, si è rispettata l'antica legge del mare che è un dovere per un marinaio: quello di accompagnare nel porto più vicino chi è in difficoltà, se vuole essere accompagnato. Questo è successo e io sentirmi dire che l'Italia, attraverso i marinai, si comporta in modo inumano...".

Ecco la delicatezza ammirabilmente umanitaria con cui i marinai, e persino il comandante (il primo con gli occhiali a destra) della nave "Bovienzo" hanno gentilmente accompagnato "chi è in difficoltà"... appare anche con tutta evidenza quale bramosia avessero queste persone in difficoltà di essere aiutate dai nostri marinai...!

Giudicate voi, quanto siano affidabili le parole di due ministri della Repubblica italiana...
L'articolo, per ora in francese in attesa di trovare il tempo di tradurlo, lo trovate qui sul sito di ParisMatch e sono di Enrico Dagnino, pubblicate nel N° 3130 del 14 al 20 maggio 2009...

Io oltre alle foto del sito, aggiungo nel tempo quelle scannarizzate dalla rivista acquistata in edicola... Credo che le foto possano ampiamente anticipare il contenuto stesso dell'articolo e forse ne rendono persino inutile la traduzione...

Qui sotto vi riporto i tre links con cui potete direttamente leggere l'articolo e vedere il filmato che commenta le foto... (in attesa che concluda la pubblicazione)...

Immigrati: il sogno infranto
Il dramma dei clandestini
I segreti di uno scoop

«Non abbandonateci!» Si è messo in ginocchio per supplicare l’ufficiale italiano della «Bovienzo», la vedetta della Guardia di Finanza, e aggiunge : «Ci percuoteranno ancora, non voglio tornare in Libia»

Ancora fino a ieri, i naufraghi li salvavano. L’equipaggio della «Bovienzo» temeva il momento in cui i clandestini si sarebbero resi conto dell’inganno. Ma non hanno scelta. Anche il comandante Acero (con gli occhiali, a destra) partecipa allo sbarco dei suoi passeggeri.

venerdì 22 maggio 2009

Asceso al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose!

L'Ascensione, o l'Innalzamento, secondo san Giovanni
Il crogiolo incandescente della nostra fede
Da quando l’uomo è sulla faccia della terra fino ad oggi, diminuiscono sempre più gli spazi e i tempi non violati dalla sua conoscenza e non desacralizzati dalla sua tecnica. Al là del linguaggio mitico, il Nuovo Testamento prende atto del misterioso compimento dell’itinerario biblico di rivelazione dell’identità arcana di Dio nel suo figlio Gesù, crocifisso risorto. L’inizio del racconto degli Atti, prosecuzione inscindibile del capitolo finale del Vangelo di Luca, racconta la dipartita del Signore da questa terra. Nel Vangelo, infatti, Luca dice di aver spiegato tutto quello che Gesù fece e insegnò nella vita terrena, “…fino a quando fu assunto in cielo…” Ora, nel ‘diario’ dei primi passi della comunità cristiana, l’evangelista racconta che Gesù, dopo la risurrezione, alla fine dei quaranta giorni durante i quali si è mostrato a tanti testimoni in diverse apparizioni, annuncia ai discepoli l’imminenza della realizzazione della “promessa del Padre”, il dono dello Spirito Santo, di cui tutta la sua vita messianica è stata la preparazione e la “sperimentazione”. Ma loro, privi ancora di questi sensori dello Spirito, non sanno che proprio questo dono è la compiutezza del Regno del Padre nel mondo, e sono preoccupati piuttosto dei loro progetti umani (il Regno per Israele!). Con l’ascesa di Gesù e il dono dello Spirito, non è più tempo di attendersi soluzioni potenti dall’alto: perché state a guardare il cielo?- Non c’è più alcun progetto sociopolitico sacro (teocratico), quaggiù in terra, monopolizzato dai suoi discepoli: non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere. Non c’è dunque più tempo, né luogo, né razza, né uomo più sacro di altri: ma tutta la storia è attesa e preparazione fervida e operosa del suo ritorno. La preoccupazione pressante di tutto il Nuovo Testamento di spiegare il nuovo rapporto del discepolo e della chiesa con Gesù, dopo la sua morte e risurrezione, ha la sua sorgente e la chiave ermeneutica fondamentale nel mistero dell’Ascensione e della Pentecoste. Tutto il ciclo pasquale confluisce qui! Gesù, il crocifisso risorto glorificato alla destra del Padre, presso il quale intercede incessantemente per mandare a noi lo Spirito (Gv 14,15), proprio lui, in questa sua nuova condizione di totale immersione in Dio, è la sorgente umano-divina da cui scaturisce la nostra fede, la luce che ci fa comprendere la nostra storia, il pane che nutre la nostra speranza in questa attesa e ci rigenera già quaggiù nell’amore. Che è la capacità di testimoniare al mondo il suo vangelo di salvezza, amandoci come lui ci ha amati. Da questo – non da altro! riconosceranno che siamo suoi discepoli (Gv 13,15)!

… il mistero dell’Ascensione
Viene dunque introdotta in noi una nuova sorprendente dinamica dello Spirito (lett.: riceverete una energia proveniente dal santo Spirito su di voi!), che ci spinge incessantemente alla trascendenza dell’esperienza contingente ed effimera della nostra vita. Noi, però, siamo la generazione più distante … non tanto dal mistero dell’Ascensione, che è compresente a tutta la storia, ma dal linguaggio che lo riveste e lo trasmette. Abbiamo già fatto fatica a seguire il racconto della passione, per l’istintivo rifiuto (evidente anche negli apostoli) della sofferenza e del fallimento, ma ci ha affascinato questa sua capacità di portare il male continuando ad amare. La risurrezione ci ha provocato ad un sussulto, perché anche per noi, come per i sapienti dell’Areopago, è troppo refrattaria alla nostra corta visione del mondo. L’Ascensione, adesso, ci investe e ci coinvolge come un fermento esplosivo a espansione lenta ma inarrestabile. Corrode dall’interno tutto il cantiere antropologico che l’uomo ha congegnato e rielabora continuamente nei millenni, scuotendone i presupposti cosmologici e teologici. Perché impegna e avvolge in un paradosso incontenibile il centro stesso della fede: Gesù Cristo, senso della nostra vita e della comprensione di essa. Un paradosso fatto di una partenza dal cuore del Padre e un ritorno a Lui, una distanza e una vicinanza, un “rimanere” di lui in noi, che però se ne è andato da questa nostra storia, a collocarsi là dove noi non possiamo seguirlo (Gv 13,33)… Forse la dimensione spaziale che suggerisce inconsciamente un “trasferimento” di Gesù lontano (nei cieli – in Dio) ci frastorna ancora. Gesù, invece, non è andato lontano, non ha abbandonato la storia e l’umanità, ma si è reso ancor più intimo a noi, immerso là dove scaturisce e ci dà vita e ci sostiene tacitamente l’amore creatore del Padre, nello spessore sorgivo più fondo del nostro essere e dell’essere di tutte le cose. Per questo, pur essendo “andato” via, per i nostri parametri fisici e psichici, non ha ostacoli di tempo o di spazio, né di altre barriere “…mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18). E dunque, in verità, è vicino a noi: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo. Il suo corpo glorificato e immerso in Dio, è unito adesso a noi, che pure viviamo una condizione diversa, in un mistero talmente intimo da ricapitolare in sé ogni forza e influsso salvifico. Penetra e impregna e colma del suo amore “fraterno” tutto l’essere e ogni persona singolarmente: non tanto, come verrebbe da dire secondo l’immagine spaziale, “perché le ha portate in Dio”, ma perché la sua “glorificazione totale” nel Padre (questa è infine l’Ascensione) lo rende capace di “riempire della sua pienezza tutte le cose” (Ef 1,23.
Per evitare la schizofrenia ecclesiale…
Un tempo si cercava di evitare che questi due poli della dinamica della fede cristiana si contrapponessero e dividessero la chiesa, delegando per così dire, a due classi differenti e complementari di fedeli la rappresentanza simbolica degli interessi del cielo e dei bisogni della terra: i laici comuni, che guardano in basso e curano le cose del mondo e gli ecclesiastici o, ancor più, i monaci, che dovrebbero guardano solo in alto. La lacerazione tra adesso e dopo, tra l’essere in questo mondo senza essere del mondo, vanno invece tenute lucidamente nel cuore di ogni cristiano. Da questa ferità che da Giacobbe in poi fa zoppicare ogni credente sulle strade del mondo, nasce infatti la tensione che ci spinge ad agire per il Regno e, insieme, a non rinchiuderci nelle impalcature culturali provvisorie della nostra fede. E la vita cristiana fatica a mantenere un punto di equilibrio nella difficile tensione escatologica, nata dall’Ascensione, che è insieme un’assenza del Signore, abitata dallo Spirito – e un’attesa del suo ritorno, impegnata nell’annuncio fattivo del Regno a tutti gli uomini. Ci sono stati nella storia della Chiesa e ci sono ancora in tanti cuori e teologie, rigurgiti di fede “cattolica”, intesa come discriminante di ogni altro modello culturale o diversa visione del mondo, e non (quale veramente è) come fermento eversivo potente (attraverso la Parola e l’Eucaristia) di ogni modello culturale e di ogni visione teologica. Un simile approccio di fede, ormai, non basta più a reggere l’usura del tempo e della pluriculturalità. Lo Spirito, come il Signore aveva predetto, ci ha dilatato orizzonti sorprendenti, ha aperto versanti della verità tutta intera, che erano impensabili anche ai profeti che li avevano intravisti da lontano. Ma il termine cattolico – proprio quello che si usa per definire quella fede contrapposta! torna profeticamente a significare “da per tutto”. Senza questa cosciente tensione tra impegno radicale nell’inadeguatezza del presente e attesa instancabile del Regno, l’implorazione al ‘Padre nostro’ (che è il gemito dello Spirito dentro di noi) si spegne. E finiamo per identificare noi stessi e le nostre idee con la salvezza. Svuotando di senso il mistero dell’Ascensione, cioè della necessità che lui se ne andasse da questa nostra storia, senza lasciarla orfana, perché ha assunto una nuova qualità di presenza, proprio perché si manifestasse che nella Resurrezione del Signore sta il segno e la promessa che il mondo è salvo, che la pace è stata firmata nel suo sangue, che il futuro è redento e la sua realizzazione affidata allo Spirito nella sua Chiesa.
Per riempire di sé tutto l’universo…
Paolo stesso sintetizza meglio di ogni spiegazione il cuore di questo mistero:
… a ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. Per questo è detto: asceso verso l’altezze, ha portato con sé prigioniera la [nostra] prigionia, ha distribuito doni agli uomini. Ma colui che è salito in alto chi è se non lo stesso che disceso nelle caverne della terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, affinché riempisse [di sé] tutte le cose. (Da qui dunque nasce la compagine ecclesiale per la salvezza del mondo. Infatti prosegue) … egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo. … Da lui tutto il corpo, ben compaginato e connesso, con la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, cresce in modo da edificare se stesso nella carità (Ef 4, 1ss].

giovedì 21 maggio 2009

L'Ascensione: una bomba... (leggete!!!)

«Fino alla croce ci sono dei sentimenti naturali che possono in qualche modo, nonostante le nostre resistenze, darci il senso che essa è ancora dentro il nostro orizzonte umano. La risurrezione evidentemente già ci fa faticare di più, perché ci porta assolutamente al di sopra del nostro orizzonte. Ma l’ascensione impegna in modo ancora più totale la nostra capacità di trascendere la nostra esperienza e la nostra capacità di vivere – nella considerazione di questo mistero – tutto il prolungamento dell’esistenza che noi speriamo, ma che contrasta fortemente con la nostra esperienza immediata, che sa che al di là della vita c’è la morte. Bisogna, invece, che pensiamo che questo è il mistero veramente riassuntivo di tutto Gesù, di tutto il Cristo. Bisogna tornarci su spesso» [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 97-98].
Raccogliendo l’invito di don Dossetti, anche noi allora, proviamo in questa domenica di Ascensione a tornare su questo mistero che la Chiesa ci invita a celebrare. Innanzitutto va detto che i testi riguardanti l’ascensione cercano di trasmetterci l’esperienza intensa e lacerante che la prima comunità ha fatto del mistero che è condensato in questa partenza di Gesù («Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi»). Essa allora come anche oggi infatti implica una presa di distanza fisica del Signore dai suoi, una nuova modalità di presenza (detto in positivo), ma che sull’altro versante vuol dire l’esperienza di un’assenza! È questa la difficoltà insita in questo evento della vita di Gesù e della Chiesa: che storicamente si fa l’esperienza di un Dio che è l’assente, lontano, invisibile, nel senso di irraggiungibile… E il rimando è dunque alla nostra solitudine, alla paura atavica che essa ci fa patire, fino alle estreme manifestazioni dell’angoscia per la morte, che altro non è che la solitudine definitiva.
Questo è il problema a cui l’ascensione rimanda: è possibile continuare a credere e più radicalmente continuare a vivere dopo che Gesù diventa l’assente? Si può – cioè –affidarsi a un fondamento, a una sensatezza, a una salvezza, nonostante non sia verificabile? Si può dargli credito, sapendo che o ha consistenza o noi non l’abbiamo? O non resta che fermarsi col naso all’insù, aspettando che ritorni?
La risposta di Atti sembra netta: «Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”».

C’è dunque, incontestabilmente una lontananza, una distanza, un’assenza… Eppure sembra che essa non sia destinata a interrompere il flusso della vita e dell’amore che la vita storica di Gesù ha prodotto… Sembra anzi che ci sia un possibilità di continuazione della vita. E non solo della vita biologica o della mera sopravvivenza fisiologica, ma della Vita con la “V” maiuscola proposta dal Signore. È come – cioè – se la sua dipartita, oltre ad un’assenza che sperimentiamo e patiamo, implichi però qualcosa d’altro, qualcosa di più, un passo ulteriore: non è tutto finito con l’ascensione di Gesù… Non a caso Luca racconta lo stesso episodio in conclusione al Vangelo e in apertura agli Atti…
Certo, sarebbe facile e immediato dire: “finisce” il tempo di Gesù e inizia il tempo della Chiesa… E in effetti non si può negare che un po’ sia anche così… Eppure per comprendere bene questo passaggio non si può eludere la problematica delineata prima: con troppa facilità infatti noi spesso saltiamo a piè pari quello che ha voluto dire per i primi discepoli non vedere più Gesù, non averlo “a portata di mano” (vivo o risorto), non poterlo consultare, ecc… e troppo spesso – parlando di ascensione – saltiamo a piè pari quello che vuol dire per noi questo non vederlo, non averlo “a portata di mano”, non poterlo consultare, ecc… Poi, certo, patiamo questa cosa, ma quando dobbiamo parlare di ascensione partiamo come dei treni con quello che abbiamo imparato a catechismo (l’ascensione è Gesù che viene assunto in cielo) e stop… ci dimentichiamo del problema…
Che invece c’è! Che Gesù sia e diventi l’assente infatti fa problema ad ogni credente: perché troppo spesso la vita ci rimanda ad un doverci far carico in prima persona, in solitaria, di noi, delle scelte, delle fatiche, delle sofferenze, del male, dell’amore… E troppo spesso questa stessa vita, queste stesse scelte e fatiche e dolori, sembrano sovrastarci, sembrano mancare di un’intelligibilità, di una sensatezza, di una finalità…
Forse allora prima di precipitare subito su slogan tipo “è finito il tempo di Gesù inizia quello della Chiesa” dando per scontato tutto o troppo e risultando quindi di fatto insignificante per la nostra vita (tanto che i nostri ragazzi – se sanno che c’è l’ascensione – la pensano come una specie di Gesù fantasmino che se ne va in alto, non si sa bene dove, forse verso Dio che è addirittura al di là del cielo e… chi lo vede più? Concludendo ovviamente che lui starà pure lassù, ma quaggiù a noi tocca cavarcela da soli, per cui preti, catechisti, mamme, precetti e consigli, si mettano pure il cuore in pace… che per vivere qua tutte le cose della religione non servono…), forse – dicevo – è utile fare un passetto intermedio… e chiederci cosa vuol dire davvero questa ascensione.
Ci facciamo aiutare ancora una volta da don Dossetti [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 69-73.99], che con molto acume annota: «Mi sembra che sia detto anche a noi di non dovere stare lì a guardare il cielo fisico, per ritrovare un contatto con Gesù asceso alla destra del Padre», infatti «il cielo di cui si parla non è certamente il cielo fisico – questo già lo sappiamo, però bisogna sempre tornarselo a dire, per sgomberare l’anima da quella pesantezza che viene da questo rapporto con il cielo fisico –, e non è nemmeno una realtà spaziale o una realtà dell’ordine fisico o dell’ordine creato: il cielo non è questo. Questo cielo è esclusivamente Dio stesso»: Gesù assunto in cielo, vuol dire cioè Gesù immerso nel Padre. «Dunque, vedete, non compiamo nessun itinerario esterno. Soltanto si tratta di raggiungere degli spessori totalmente interni all’essere. […] In questo ordine di essere, in questo spessore intimissimo, Cristo è stato assunto. […] È in conseguenza di questo suo ritorno al Padre che lui si intimizza a noi: è veramente con noi ed è veramente in noi, ritornato al Padre, raggiunge in noi lo spessore più profondo del nostro essere, quello in cui il nostro essere giace in lui, in Dio». Perciò «nell’atto stesso in cui sembra allontanarsi, in realtà si fa massimamente intimo a noi e noi diventiamo massimamente intimi a lui»!
Ecco perché nasce il tempo della Chiesa: non perché ci sia una cesura (finito il tempo di Gesù – che ormai non ha più niente a che fare col mondo dell’aldiqua – inizia il tempo della chiesa), ma perché nasce la comunità di quelli che vivono di questo nuovo e intimissimo modo di rapportarsi al Signore risorto. Tant’è che anche il vangelo che la liturgia ci propone per questa domenica, mentre sta parlando dell’inizio della missione degli apostoli («Allora essi partirono e predicarono dappertutto»), annota: «il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano».
È in questo rapporto intimo – accessibile ad ogni credente – che infatti «scaturisce quella scintilla della fede che ci fa ritrovare Cristo glorificato nel Padre e presente in noi, e che realizza già per noi – dobbiamo avere il coraggio di dirlo – il ritorno di Cristo. Con ciò non si vuole confondere questo momento in cui Cristo ritorna in ciascuno di noi, personalmente, col momento del ritorno universale del Signore; però sono scintille dello stesso fuoco» [G. DOSSETTI, Omelie del Tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 100].
Infine, è proprio a partire da questa possibilità di accesso personale – nell’intimo – per ciascuno al Signore, che si può anche rendere ragione delle parole esplosive di Paolo, riportate nella seconda lettura: «Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti». Perché se è vero che subito dopo l’apostolo fa riferimento ai diversi ministeri e carismi presenti nella comunità ecclesiale («ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri»), intanto ha messo la bomba, sempre mal digerita dalla gerarchia e praticamente (cioè nella prassi) sempre da essa ben celata, per cui Dio «opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti»! Alla faccia di tutte le nostre gerarchie, istituzionalizzazioni e vocazioni! Come scriveva infatti un caro padre carmelitano a proposito di Tersa di Gesù bambino: «Teresa cerca come amare il Signore e i fratelli nel modo più totale possibile: questi grandi desideri insaziati le facevano soffrire un vero martirio e cercava nel Vangelo una risposta: "Sento dentro di me la vocazione del guerriero, del prete, dell'apostolo, del dottore del martire... sento il bisogno, il desiderio di compiere per Gesù, tutte le opere più eroiche... Sento nella mia anima tutto il coraggio di un crociato, di uno zuavo pontificio, vorrei morire su di un campo di battaglia per la difesa della Chiesa... Sento in me la vocazione del prete... ma pur desiderando esser prete, ammiro e invidio l'umiltà di S.Francesco e mi sento la vocazione di imitarlo, rifiutando la sublime dignità del sacerdozio" (B 250,251). Anche lei vuole e non vuole: perché vorrebbe tutte le vocazioni insieme ma sono incompossibili. Soprattutto sono storicamente, cioè transitoriamente ineliminabili, necessarie ... ma hanno dentro una divisione. Chi fa il guerriero, fosse pure per amore della Chiesa, uccide; chi fa il prete si divide dal laico, chi fa lo zuavo pontificio mette fuori dalla porta qualcheduno: sono tutte vocazioni necessarie alla nostra storia, ma sono realtà divisorie, cioè inevitabilmente discriminanti - che è una parola terribile, perché ha una radice semantica che suggerisce che di là ci sono i criminali. Ogni vocazione che non sia l'ultima divide, ha dentro di sé un po' di male, un po' di veleno ineliminabile. E' necessario, deve accadere così, ma qualcuno ci deve piangere. Quelli che stanno fuori dalla nostra vocazione, dalla nostra casa, dalle nostre competenze e diritti - normalmente li chiudiamo fuori ... sono esclusi in qualche modo. Non se ne esce. Ecco perché Teresa rinuncia a tutte queste vocazioni: non la soddisfano. Ne cerca una di fondo che non sia divisoria, vivendo la quale non debba escludere nessuno, con la quale non debba scontrarsi con nessuno: una vocazione che riesca a includere tutte le altre e ad eliminarne tendenzialmente quel po' di veleno discriminante che contengono. Non si tratta di un male morale, ma insanguina lo stesso o divide lo stesso. La storia grande - come le nostre piccole storie lasciano sempre dietro di sé scie di sofferenze e di divisioni. Teresa cerca allora l'unica cosa che non divide, l'amore».
In questa domenica di Ascensione preghiamo allora perché sempre più ciascuno e la Chiesa tutta diventi capace di quel rapporto intimo col Signore e coi fratelli, che proprio perché abitato dall’amore vince in radice la discriminazione, «finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo».

lunedì 18 maggio 2009

Per poterci ridire cristiani: La Missione "economica"

Gli articoli immediatamente precedenti («Il “conflitto” missionario»; «La missione “politica”»; questo su «La missione “economica”» e quello che seguirà «La missione “religiosa”», sono tra di loro strettamente connessi in quanto trattano da punti di vista diversi, ciò che è proprio dell’annuncio missionario: realizzare nella storia concreta quell’avvenimento di liberazione che, insisto, iniziato in Mosè, si compie in Gesù di Nazareth, Figlio di Dio e figlio dell’uomo, e continua nei suoi discepoli.

Invito quindi il lettore a una loro lettura globale per una corretta comprensione sul “discorso” missionario nel quale necessariamente non potrò che essere più allusivo che esaustivo…

Abbiamo visto come le tre dimensioni del vivere umano (politico, economico, religioso) riunite nella figura storica del Faraone d’Egitto, esercitassero il loro potere di coercizione sull’uomo da cui Dio vuole liberarci. Si sarebbe dovuto parlare, se il tempo e lo spazio non fossero tiranni, anche di altri aspetti della vita sociale, come quello giuridico (cfr Salomone) e in-formativo in quanto la possibilità di “giudicare” e di “conoscere” e soprattutto di “creare” il giudizio e l’informazione, offrono l’opportunità di agire efficacemente per sé e di dominare l’azione degli altri condizionandola: lo spionaggio e la “manipolazione del sapere” (scuola, mass-media…) — per fare solo qualche esempio — trovano qui la loro funzione principale. Non è quindi la figura storica del Faraone, ciò da cui Dio vuole liberarci e tantomeno da queste dimensioni fondamentali dell’uomo storico, quanto piuttosto da una concezione e un esercizio “faraonico” della politica, dell’economia e della religione (e di ciò che ne permette il controllo).

Questi “poteri” tendono “naturalmente” a fondersi per “ricostruire” in qualche modo la tradizionale figura Faraonica, perpetuandola storicamente. Il valore della tradizione infatti non solo non è di per sé un valore cattolico, ma nasconde sempre in sé una non marginale ambiguità — se non aperto verso la speranza di un futuro di libertà donata — nel tentativo di restaurazione della schiavitù originaria.

Se non riusciamo a capire queste dinamiche, vano sarà il nostro vivere cristiano-missionario, in quanto questo sarà incapace di incidere efficacemente, in un vitale “conflitto evangelico”, per estirpare il male alle radici e il nostro annuncio si ridurrà a un “placebo” consolatorio, disincarnato e disincarnante e quindi sostanzialmente frustrante!

Devo ammettere che un autentico annuncio cristiano in ambito economico, risulta oggi alquanto difficile. Diciamo chiaramente che è ancora sostanzialmente “zona franca”, riservata agli specialisti del mestiere e gelosamente difesa dagli economisti di professione… Concretamente io ho trovato ben pochi articoli che trattino dell’argomento al di là della soglia “moralistica” e sociologica… Qualche libro emerge per la sua rarità. Soprattutto però quello che mi rattrista è che praticamente non esistono documenti del magistero della chiesa che affrontino il discorso senza richiuderlo negli angusti spazi di uno spiritualismo “caritatevole” storicamente impotente perché di fatto ininfluente sulle dinamiche strutturali del “sistema” economico… Nel frattempo noto che anche qui vale il detto che se non si vive come si crede, prima o poi si finisce col credere come si vive (cf Paul Bourget, Il demone meridiano, Salani Editori, Firenze 1956, p. 395). Pensare cioè che basti la dimensione “interiore” perché automaticamente venga coinvolta anche la dimensione storica (e viceversa!), porterà necessariamente a strutturare la propria dimensione “interiore” a partire dalle vicissitudini “esteriori”, vanificando l’annuncio evangelico… Nel migliore dei casi avremo allungato la lista dei martiri, senza però diminuire quella degli schiavi. Gli scandali economici anche all’interno dell’istituzione ecclesiale, prodotti spesso in tutta buona fede e con le migliori intenzioni, ci provocano a una risposta che vada oltre il giudizio etico e una spiritualità di fatto intimistica.

Il potere economico e le sue alleanze
Non credo che sia necessario essere dei geni per capire, attraverso anche i fatti di cronaca, come il potere economico oggi eserciti il proprio controllo su tutti i gangli della vita di un Paese (sia esso democratico o no): banche, imprenditoria, finanza e chi più ne ha più ne metta, è (il singolare è voluto), una vera e propria lobby di potere economico che agisce in solidum per influenzare a tutti i livelli la nostra vita quotidiana.
Non solo, anche se vincolata da norme legislative che ne obblighi rigorosamente la separazione di potere (USA), essa prende “direttamente” le redini del potere politico e cerca di sedurre quello religioso… La massoneria ancora una volta, trova proprio in questo connubio la sua ragion d’essere! Il che dovrebbe istruirci su quanto sia a dir poco ingenua l’analisi sul “conflitto di interesse” che viene fatta in Italia… Per arrivare ai vertici del potere politico, bisogna oramai essere, se non miliardari, amici di miliardari. E questo dappertutto: senza soldi, senza il sostegno di questo potere economico, non si va da nessuna parte e ancor meno si può fare politica e… costruire chiese!

La necessaria conversione culturale della politica e della teologia
E questo non è un problema di onestà morale, di morale della politica o dell’economia, ma è un problema “strutturale”, di sistema. E quindi, proprio perché strutturale e antropologico è un problema evangelico! L’errore “culturale” di base è che ci si è illusi che basti una “libertà politica” per essere automaticamente “politicamente liberi”… La verità è semmai un’altra: «Senza libertà economica, non c’è libertà politica»! Come la storia anche recente ci ha mostrato: La libertà politica della Germania orientale è stata comprata a suon di marchi al presidente russo M. Gorbaciov dall’allora cancelliere della Germania occidentale H. Kohl…

Il paradosso drammatico è sotto gli occhi di tutti. I governi davanti a una crisi economica immane, sono “obbligati” prima di tutto a salvare le istituzioni economiche (non solo bancarie) con i soldi delle tasse dei cittadini vessati dalle norme capestro delle stesse. Insomma, il prigioniero è “ricattato” a salvare il proprio aguzzino se non vuole morire di fame… e così ben satollo può servirlo meglio! E bastasse questo! L’impressione generale, al di là della dichiarazioni di circostanza, è che il potere politico di fatto non sa più che “pesce pigliare”: la crisi è inarrestabile qualunque sia il provvedimento preso… Oramai il “Moloc economico” ha sue proprie autonome dinamiche interne (anche il potere ha una sua “spiritualità”: cfr il “lievito dei farisei”) che stanno distruggendo i suoi stessi “creatori”… Non ci si illuda però, non siamo alla fine del potere faraonico dell’economia, ma semmai, come l’ormai classica Araba Fenice, stiamo assistendo a una fase di trasformazione per una crisi di crescita del “serpente” — ricordate il “serpente monetario”, antenato dell’euro? Nessuno allora pensò all’incredibile lapsus freudiano! — che lo porterà a “mutare” per esercitare meglio, così rinnovato, la propria influenza in ambito planetario… Peccato che la pelle da gettare sia quella di uomini e donne, vittime del dio Mammona.

A problemi nuovi, soluzione nuove!
Il potere economico, come ogni altro potere storico, ce lo troveremo fino alla fine della storia, sta a noi, sotto la guida dello Spirito del Vangelo di Cristo, farne uno strumento di vero sviluppo umano… I “resti umani” che continuano a trovarsi ai margini della vita — che dimostrano che le guerre “dichiarate” per la difesa dei diritti umani in realtà sono “combattute” per la difesa degli interessi economici — esigono un intervento che vada al di là di dichiarazioni di principio o delle esortazioni spirituali che fanno appello alla giustizia e alla norma morale di un’economia oramai sorda perché automa impazzito

Biblicamente stolta appare allora la proposta di tornare ad un passato, generatore degli incubi del presente, illudendosi che basti tornare ai vecchi sistemi (come ad esempio alla vecchia lira, o istituendo politiche protezionistiche) per risolvere le difficoltà generate dai nuovi (come la globalizzazione): sarebbe come voler tornare ai problemi di ieri per risolvere quelli di oggi! A strappi nuovi, ci vogliono pezze nuove… e bastassero solo le pezze! È l’otre che va cambiato ex nihilo se vogliamo che contenga il vino nuovo della Buona Novella che porti a una vera pace economica! E occorre fare presto prima che il Minotauro economico non si mangi, come già sta accadendo, le poche garanzie democratiche così duramente conquistate riportandoci a una forma ben più subdola di totalitarismo consenziente.
La crisi che stiamo vivendo dovrebbe aiutarci ad aprire gli occhi per stanare la struttura schiavizzante che oggi si perpetua nel mondo attraverso il “potere economico”. A tutt’oggi manca, passatemi il termine, una “presa della Bastiglia economica”… E speriamo che questo possa accadere senza mietere vittime…

Altro errore culturale è quello di pensare che basti essere “santi” per cambiare le cose: la cultura bi-millenaria europea che ha sfornato fior di santi, sta lì a mostrare che essi non hanno minimamente inciso sulle dinamiche strutturali di un’economia che si costruiva autonomamente contro l’uomo e quindi contro il Vangelo, anzi di fatto, inconsapevolmente ne hanno accentuato le potenzialità distruttive, quando non si sono alleati con esse… Perché?
Perché, per quanto assolutamente necessario e per certi aspetti primario, non è sufficiente parlare di giustizia economica e di difesa del povero o di conversione dei cuori perché di fatto “le strutture di peccato” cessino di esercitare il loro potere nefasto riducendo — come eleganti e moderni “forni crematori” — l’umanità in cenere… L’economia (e il denaro), nella chiesa (non solo cattolica), è trattata al più come strumento caritativo (elemosina, opere di carità, e ultimamente, fondi di garanzia presso le banche — queste banche! — per i poveri, ecc.), mai come possibilità di stravolgerne le stesse leggi che la regolano. In questo modo però essa diventa inconsapevole complice dell’istinto di autoconservazione del “sistema” economico-politico oppressivo, in quanto, perpetuandolo senza stravolgerlo, diventa di fatto un gigantesco “impianto di depurazione” dei “rifiuti umani” di un’economia disumanizzante, ne occulta il conflitto (cf l’articolo «Il “conflitto” missionario») e si evira della radicale novità evangelica di cui è portatrice. Le radici storiche possono trovarsi in una errata interpretazione della povertà evangelica di cui la massima espressione storica è una “fuga dal mondo” (fuga mundi) che si è tradotta oggettivamente in una “fuga dall’economia” che ha portato concretamente a “lasciare ad altri” la elaborazione e gestione delle dinamiche economiche mondane. È arrivato il momento di correggere questa visione strabica e dualista della vita cristiana anche in campo economico.

Anche oggi capita ogni tanto che qualche laureato in “economia e commercio” entri in convento o in seminario… Ebbene che fanno i superiori? Subito li mettono a capo dell’economato del convento o della diocesi, che non possono che gestire con i criteri economici stabiliti “da altri”… Nessuno si sogna ancora di costituire un gruppo di studio per cercare di mettere in discussione e rifondare le stesse leggi economiche su cui si struttura l’economia mondiale: forse perché poco “religioso”? Ma cosa c’è di più evangelico di liberare l’umanità dalle proprie schiavitù anche economiche?…

Prospettive nuove.
Se le dinamiche economiche si fondano sulla regole ferree di un bilancio finalizzato al profitto aziendale (sia essa banca, industria o… ASL!), sulla crescita costante del PIL di una nazione, sugli interessi bancari finalizzati all’esclusivo interesse delle banche (mascherato e giustificato dalle opere culturali e sociali delle stesse), ecc., a nulla servirà cambiare sistema economico e le norme legislative che lo regolano e ancor meno serviranno gli appelli del magistero “a non considerare solo il profitto”: È la stessa “matematica” contabile, economica, finanziaria, che va “ricreata”. Esistono oggi più sistemi matematici, si parla oramai di matematiche, di geometrie, perché non si parla mai delle contabilità? Sarà un caso che non esiste nemmeno linguisticamente il plurale? Si parla certo di economie: ma tutte hanno alla base gli stessi principi, quello che cambia sono semplicemente i “piani di attuazione”. Il problema umano, il suo grado di libertà (che non sia quello imprenditoriale), il suo grado di umanizzazione (che non sia quello consumistico), non entrano mai nel calcolo di bilancio di una azienda e tanto meno nella programmazione dei suoi investimenti!… Mammona non è il denaro, Mammona non è tanto l’uso che se ne fa, Mammona è il modo di crearlo, di capitalizzarlo e di contabilizzarlo!

In questa prospettiva, non basta la redistribuzione dei beni, non basta l’eliminazione del debito ai paesi poveri, non bastano tutte quelle azioni che per quanto necessarie e meritevoli nell’immediato, non mettono mai in discussione il principio base di questa forma di potere economico: l’uomo ridotto a merce in funzione del “pareggio di bilancio” il cui calcolo è funzionale al potere stesso! Ogni azione caritatevole non finalizzata a cambiare il sistema, serve soltanto a rianimare l’uomo — prolungandone l’agonia — in funzione del dinamismo della macchina economica mondiale e locale. In questo senso non basterebbe nemmeno un governo mondiale democratico che gestisca l’economia mondiale: è la stessa gestione della “casa comune” che va evangelicamente rifondata.

Una matematica cristiana?
Si parla giustamente, anche se non senza fondate obiezioni, di filosofia cristiana, di politica cristiana… ma, tanto per capirci, come mai non si parla di contabilità cristiana? Chi l’ha detto che due più due deve sempre fare quattro? Sempre? anche quando di mezzo c’è la vita dell’uomo? Anche quando questo sta portando allo sfascio le famiglie sempre più “frullate” da un ritmo lavorativo infernale? Nel bilancio di un’azienda perché non può essere contabilizzato il grado di “libertà” dei suoi operai? Perché non posso capitalizzare gli investimenti fatti per rendere più umano il posto di lavoro, la società stessa? La contabilità è un “artificio contabile”: basta vedere come i vari paesi calcolano il loro bilancio e come questo non corrisponda mai alle “verifiche” fatte da altri istituti finanziari (FMI, UE, WTO, Banca Mondiale, società di rating ) che a loro volta non concordano mai tra di loro… Infatti è per “convenzione” che si stabilisce ciò che è positivo e negativo in un bilancio! Le polemiche italiane sul “buco” in bilancio che cambia col cambiare di chi lo calcola, non sono solo un problema di colore politico del partito in carica: è un problema di “convenzione di matematica finanziaria”… Cos’è un punto, cos’è una retta, cos’è un numero? Sono pura convenzione! Quello che segue deve essere “coerente” alle premesse “indimostrabili” (altrimenti il sistema crolla perché “incoerente”) e crea e sviluppa “il sistema” sia esso geometrico, matematico, politico-giuridico (cfr la Costituzione), teologico, economico… Convenzionale è quindi il calcolo dell’inflazione (cfr il “paniere”) e del numero di disoccupati (quando si è considerati “disoccupati” è stabilito per legge e varia da paese a paese!)… Ma l’uomo non è una convenzione, non si può cambiare l’umanità per adattarla ai propri schemi mentali economici, occorre cambiare le convenzioni anche della matematica economica per adattarla all’uomo reale!

Una morale non funzionale al sistema!
Ancora… Come mai la morale cristiana che fino a ieri considerava “usura” qualunque interesse sul denaro ha cambiato parere? Posso ancora capire che uno paghi gli interessi per l’acquisto di beni non fondamentali, ma vi sembra cristiano pagare gli interessi per l’acquisto della prima casa? o per avviare una attività produttiva che dia lavoro a centinaia di persone? Perché non si ha più il coraggio di predicarlo? Le banche islamiche vietano ancora oggi gli interessi per i mussulmani… ebbene che fine ha fatto la coscienza critica della chiesa cattolica? Si dirà che con questo “sistema” non è possibile… E allora cosa aspettano i cattolici impegnati in campo economico — movimenti e singoli — a creare le basi per un cambiamento radicale? Il fatto che da tempo, da Gandhi in poi, la Buona Novella, anche in economia, si sia trasferita “altrove” non ci provoca?… eppure questa è la sfida del Vangelo, questa è l’utopia a cui soprattutto i discepoli di Cristo sono e saranno sempre chiamati! E anche questo è compito della missione per cui occorre trovare persone competenti. Se non lo facciamo, saremo corresponsabili di quello che accadrà… Peggio, se non cambiamo l’economia, sarà l’economia a cambiarci… e già lo sta facendo come ci mostrano gli scandali economici in cui anche movimenti cattolici sono stati coinvolti “in tutta buona coscienza” e lo dicono anche, aggravando su di sé il giudizio della storia!

E mi fermo qui, ma sarebbero ancora troppe le cose da dire: come non condannare un sistema che attraverso la Borsa manda in fumo i risparmi di tutta una vita solo per il gioco di un’economia affamata di liquidità? Come non mettere in discussione il totalitarismo autarchico delle Banche Centrali che agiscono al di fuori di ogni regola democratica? Come non giudicare iniqui i diritti (!) di “signoraggio”, per cui i cittadini pagano alle Banche Centrali la differenza tra la cifra scritta su una banconota e il costo effettivo per produrla, mentre dovrebbero esserne gli unici beneficiari? Come non capire che il “problema ecologico” ha alla radice un “problema economico”? e che se vogliamo disinquinare il pianeta dobbiamo prima di tutto cominciare a “disinquinare” l’economia? Contro tutto questo e ben altro ancora, non basta più modificare le norme, perché qui non si tratta più di cambiare le regole del gioco, qui oramai si tratta di cambiare il gioco!

Idee strampalate di un utopista visionario? Forse! A quanto pare però non sono il solo… Un esempio? Quello di Muhammad Yunus, insignito nel 2006 del Premio Nobel per la Pace (e non dell’Economia!). Uno tra i tanti e ancora una volta in ambito non cristiano:

«Provavo una sorta di ebbrezza quando spiegavo ai miei studenti che le teorie economiche erano in grado di fornire risposte a problemi economici di ogni tipo. Ero rapito dalla bellezza e dall'eleganza di quelle teorie [cfr sopra sulla “coerenza” del sistema].
[Poi], tutt’ad un tratto, cominciavo ad avvertire un senso di vuoto. A cosa servivano quelle belle teorie se la gente moriva di fame sotto i portici e lungo i marciapiedi?
(…)
Dov’era la teoria economica che rispecchiava la loro vita reale? Come potevo, al solo scopo di salvare il prestigio delle dottrine economiche, continuare a imbottire di chiacchiere gli studenti?»
(M. Yunus, Il banchiere dei poveri, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 2004, pag. 14)

E allora che fece?
«Abbiamo visto come lavoravano le banche tradizionali e abbiamo fatto esattamente il contrario: loro prestavano ai ricchi, noi ai poveri; loro si rivolgevano agli uomini, noi alle donne; loro andavano in città, noi nei villaggi». (M. Yunus, a una conferenza a Milano, il 2 marzo c.a.).

Ecco, appunto, fare esattamente il contrario, come insegna anche Gesù con i suoi “ma io vi dico…”. Ma, solo per cominciare…!

venerdì 15 maggio 2009

Chiunque ama è generato da Dio… perché Dio è amore!

La valigia della vita!
Il percorso liturgico che spezzetta il mistero pasquale passo passo lungo segmenti che ce ne fanno cogliere gradualmente la complessità, ci avvia ormai a “rivivere” il mistero dell’Ascensione: Gesù, in quella forma storica nella quale l’hanno conosciuto, amato e toccato i primi discepoli (1Gv 1, 1ss), non può arrivare fino a noi… Ma non ci abbandona! “Rimane” tra noi con una diversa qualità di presenza e di assenza, che è il nostro tormento e la nostra salvezza. Anzi, secondo Gesù, è il luogo della nostra gioia “piena”, se ne scopriamo il segreto! La chiesa delle sorgenti ha vissuto questa esperienza drammatica dell’allontanamento di Gesù, accompagnata e istruita personalmente, per così dire, da lui stesso – il quale la ritiene necessaria per la scoperta del suo vero modo di ”rimanere ” in mezzo a noi! Per questo i testi che ce lo raccontano sono paradigmatici per noi.
Anch’io sono un uomo come te! Ma adesso finalmente mi sono accorto che…
È una delle “scoperte” più importanti e determinanti della genuinità della nuova “fede” a cui sono chiamati i discepoli. La visione che Pietro ha appena avuto (At 10,11ss) del lenzuolo contenente ogni specie di bestie impure… purificate dal Signore, trova sempre (lungo i secoli… fino ad oggi!) una opposizione dura e sorda…che tenta invincibilmente di attenuarne l’esplosività, ridividendo il lenzuolo dell’umanità in zone di maggiore o minor purezza o ortodossia o vicinanza a Dio, secondo i criteri culturali, razziali, religiosi, morali… che impregnano le diverse identità delle persone e dei popoli. Ma tutte queste barriere culturali sono ormai relativizzate dall’irruzione nel cuore della gente – i singoli e i gruppi! – dello Spirito mandato da Gesù! Con due effetti dirompenti. Il primo effetto dello Spirito è l’apertura del cuore dei discepoli alla fraternità universale degli uomini nella loro uguale dignità, secondo le misure sconfinate del cuore del Padre, che annulla ogni discriminazione, compresa quella religiosa o sacrale. Il convertito fa fatica a capirlo, perché vorrebbe ‘sacralizzare’ tutto quanto l’ha effettivamente aiutato a incontrare il Signore. Ma il Signore non si ferma nelle forme sacre attraverso le quali passa storicamente, le quali anzi, se “assolutizzate”, disviano dall’incontro con il Signore, che ci chiama sempre più avanti nel cammino! La seconda è l’altra esperienza di Pietro, che per uscire dalle strettoie insuperabili dalla sua invincibile diffidenza verso i pagani, è stato “spinto” ad andare a casa dell’altro. Non per insegnare o convertire … ma per “capire”, cioè per dilatare il cuore e comprendere sperimentalmente… “Andare a casa dell’altro” (la missione!) è già segno di amore, è smuoversi da casa propria, è portare lo Spirito… Una dinamica interiore essenziale alla maturazione della fede, perché fa scattare la scintilla delle due conversioni che si incontrano: mentre Pietro stava per entrare, Cornelio gli andò incontro. La contemporaneità (mentre ancora parlava… lo Spirito…) vuol esprimere la doppia azione dello Spirito, che non è “portato” da Pietro, ma è da lui riconosciuto, accolto e annunciato, e per così dire garantito, con l’inserimento nell’intreccio ecclesiale attraverso il Battesimo. Ogni missione, dunque, è autenticata dalla retromissione, cioè dal ritorno dello Spirito che, annunciato dal discepolo, innesca sempre nuove sintesi di umanità convertita, nuove esperienze di fede, nuove relazioni di amore, nuove occasioni di speranza. Se queste sono accolte, ri/convertono a loro volta il discepolo stesso, lo aprono a più ampi orizzonti e lo purificano dalle inevitabili incrostazioni storiche della sua fede di partenza. Senza queste “scoperte” o consapevolezze nuove, che l’ingresso dei pagani nella chiesa ha fatto fare a Pietro, Paolo, Barnaba… e poi alla comunità, il gruppo dei discepoli di Gesù sarebbe forse divenuto una sterile setta giudeocristiana…
Non siamo stati noi ad amare Dio… il primato dell’amore di Dio in ogni storia!
In questo sta l’amore, dice Giovanni, non siamo stati noi ad amare Dio, ma è stato lui ad amare noi. Perché? Perché il nostro amore è “bisogno”, ben motivato dalla nostra situazione di indigenza radicale…E non può essere subito amore dell’altro, ma è amore di sé! Non mira a far crescere l’altro, ma usa l’altro per accontentare sé! Come troppo spesso le nostre vicende quotidiane di competizione, di prepotenza e relative frustrazioni… ci confermano giorno dopo giorno! Non è questo l’amore di cui parla Gesù! L’amore esemplare, generativo di ogni vero amore, è quello del Padre, che ha mandato il figlio a salvarci, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui, a costo di fargli assorbire su di sé il veleno che ci faceva morireQuesto vuol dire divenire vittima di espiazione per i nostri peccati! Non poteva sopportare che noi ci perdessimo nella nostra miseria… perciò l’ha assunta, vissuta e disinquinata nelì lungo tragitto della sua breve vita, da Betlemme, a Nazareth a Gerusalemme. Questa esperienza umana del figlio, che ha vissuto nella sua vicenda storica in questo mondo il suo rapporto ineguagliabilmente intenso con il Padre, che gli donava la vita, la forza e la fede, ci ha coinvolti in questa sua originale dinamica vitale di amore. Ci ha aperto la strada all’apprendimento (ma è un dono del suo Spirito) di questo alfabeto nuovo dell’amore. All’inizio (e sempre da capo!) balbettiamo, mescolando parole vecchie e parole nuove, sentimenti egocentrici con desideri di gratuità, convinzioni discriminati con la consapevolezza che Dio non fa preferenze di persone: abbiamo i suoi mezzi (Parola – Eucaristia - nel tessuto ecclesiale che è il suo corpo) per imparare ad amarci nella storia, “come lui ci ha amati” ¬ cioè con il suo amore, che è lo Spirito. Sono gesti, atteggiamenti, cenni di perdono o consolazione o vicinanza, umili espressioni sempre ricominciate, nelle quali apriamo il cuore alla benevolenza del Padre che passa attraverso di noi, per lo Sòpirito di Cristo Gesù. È il modo cristiano di “conoscere” vitalmente Dio. Una conoscenza che ha bisogno delle mani, della pelle, degli occhi, della bocca… del cuore, nelle umili faccende quotidiane, dove, imitando questo primato dell’amore divino, ci sbilanciamo ad amare gli altri, senza verifiche e senza misure, senza giudizi e senza ricatti, senza paure di fallimenti o di inutilità, perché anche solo il desiderio o il tentativo… è “generato in noi da Dio” ed ha già tutto il suo compenso dentro di sé!
Non vi chiamo più servi…ma vi ho chiamato amici
Questa trasformazione radicale del rapporto con Dio, che da servi legati a un padrone (è l’origine della “religione”!) ci ha aperto la strada dell’amicizia con Gesù, è appunto il frutto di questa nuova conoscenza vitale di cui abbiamo ricevuto la forza e il mandato. Questo è il testamento di Gesù. Non è una conoscenza intellettuale, ma esistenziale ed operativa, come un rapporto profondo di amore e dedizione interiore che investe il cuore e dal cuore impregna la testa, le parole i sentimenti e le opere che si fanno. Gesù ha imparato e vissuto nel quotidiano questo riferimento appassionato e totale al Padre, che l’ha travolto e gli impregnato di gioia e di pienezza la vita. E ora non ha altro desiderio che comunicarcelo: tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi. Non per essere ringraziato o venerato o ubbidito… ma per amicizia, che è la voglia spontanea del cuore che il tuo amico goda di tutto ciò che tu sei e che hai, a partire dall’esperienza fondamentale della sua vita, il rapporto con il Padre! Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga
… chi tiene fisso lo sguardo su Gesù incontra Dio, immergendosi nel tempo. In lui incontriamo il Dio dei giorni e della storia: vivere il rapporto con Dio immersi nel tempo vuol dire imparare a raccogliere tutto il passato, purificandone la memoria, ad attendere il futuro, senza cedere all’immaginario, e a vivere intensamente il presente, senza perdere nulla dei doni vitali che esso ci consegna.Anche la preghiera liturgica ha questa movenza, ma spesso le sue formule restano esteriori, non incidono affatto nella vita di ogni giorno e nelle relazioni con gli altri. L’incontro con Dio rivelato da Gesù si realizza con l’immersione totale nel tempo: è il Dio che era, che è e che viene (Ap 1,8). Spesso però i discepoli di Gesù vivono il rapporto con Dio in modo non cristiano, cioè senza la modulazione trinitaria. Lo considerano Creatore, Legislatore o Giudice. Raramente è il principio di vita, che dà senso al passato, che promette il futuro e che nell’istante offre doni di vita da consegnare ai fratelli. Eppure questa è la specificità della spiritualità cristiana: la modulazione trinitaria del rapporto con Dio: Principio, Parola, Spirito: Dio che era, che è e che viene. … L’immersione nel tempo l’abbiamo scoperta attraverso Gesù: tenendo fisso lo sguardo su di lui (Eb 3,1; 12,2) abbiamo capito la sua fedeltà al Padre, di cui ha incarnato la Parola, giorno dopo giorno, e di cui ha accolto lo Spirito. Nella preghiera e nell’ascolto ha percorso il cammino che, attraverso il tragitto della croce, dove ha espresso il suo amore ‘fino alla fine’, è giunto alla risurrezione... Chi impara da Lui a incontrare Dio nelle dimensioni del tempo o a vivere il tempo nella presenza di Dio, diventa consapevole della forza che lo investe, dell’amore che lo avvolge, dell’energia che in ogni istante irrompe nella sua storia come un dono nuovo. Per lui non ci sono più situazioni resistenti alla vita. Anche gli eventi che suscitano ansia o procurano sofferenza possono essere attraversati con serenità, nella certezza che l’offerta che viene da Dio conduce ad un destino eterno, a quel compimento che in Gesù è stato indicato, ma che non è dato ancora sapere in che cosa consista – se non che produrrà in noi una gioia piena come la sua (cfr C. MOLARI, Rocca 15.07.’07, p 52s)!

Non possiamo più dirci cristiani perché non siamo disposti a dare la nostra vita

Perché ci sia uno scatto nella natura e nella portata della nostra fede trinitaria e cristologica, è necessario mettere mano alle forbici e operare una netta semplificazione della nostra vita. Ma dove cercare questa sintesi semplificante? Dice l’apostolo Giovanni: colui che non è nell’amore non conosce Dio. Quindi, se vogliamo fare una revisione della nostra fede battesimale e cristiana, dobbiamo parlare del nostro amore: la sintesi semplificante e fortificante non la possiamo trovare altro che in una considerazione nuova del nostro amore e della nostra carità.

Seguendo l’invito di Dossetti, parliamo allora del nostro amore: è infatti questa, la via per quello scatto della nostra fede che in questi tempi duri sentiamo il bisogno di fare (per la declinazione specifica di questi tempi duri rimando al post di Mario “Perché non possiamo più dirci cristiani –1-”).
Le tenebre infatti (individuali, sociali, ecclesiali) si vincono solo sopportando la tensione degli opposti dentro di sé – come diceva Jung nel 1954 durante un dibattito al Club psicologico di Zurigo a proposito di una domanda sul pericolo di una guerra atomica: «Ritengo che dipenda da quanti sono in grado di sopportare la tensione degli opposti dentro di sé. Se quelli in grado di farlo sono in numero sufficiente, penso che la situazione non presenterà fratture e che saremo in grado di evitare innumerevoli pericoli» [in N. NERI, Un’estrema compassione, Mondadori, Milano 1999, 46]. Che è poi la stessa consapevolezza della Hillesum quando scriveva: «L’unica cosa che si può fare è offrirsi umilmente come campo di battaglia. Quei problemi devono pur trovare ospitalità da qualche parte, trovare un luogo in cui possano combattere e placarsi, e noi, poveri piccoli uomini, noi dobbiamo aprir loro il nostro spazio interiore, senza sfuggire»; o ancora: «Quel che conta in definitiva è come si porta, sopporta, e risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima».
Ebbene anche oggi il compito per gli uomini e le donne – a maggior ragione per i cristiani e le cristiane – è quello di custodire la qualità alta della propria caratura umana, all’interno di un mondo che invece sempre più propone la dis-umanizzazione.
Dossetti diceva: è questione di fede; e si chiedeva “Quale fede?”. Per rispondere non poteva che indicare la necessità di parlare dell’amore: è dalla qualità del nostro amore che dipende la qualità della nostra fede (essa infatti non è altro che una relazione) e dunque la qualità della nostra vita.
I testi che la liturgia ci propone per questa sesta domenica di Pasqua sembrano venire esattamente incontro al nostro bisogno di soffermarci su questa tematica. È per questo che ci concentreremo in particolare sul ragionamento portato avanti nel vangelo di Giovanni...
Innanzitutto il Signore, nel lungo discorso fatto durante l’ultima cena, chiarisce bene i termini della relazione di fede: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi». Lo sbilanciamento è dunque suo: è lui che per primo ci ha amati. E questo – molto più che una bella frasetta o uno slogan che volta per volta i vari raduni cattolici ci propinano – ha una portata scaravoltante l’intero impianto su cui spesso è fondata la nostra religiosità: «Il livello assoluto è il solo livello assimilabile per l’uomo, egli è libero ovvero l’uomo è l’unico ente in grado d’arrischiarsi in maniera assoluta. Ma ciò accade poiché (comunque per primo) Dio si esprime in maniera assoluta, la sola misura favorevole per l’uomo. Donandosi fino all’abbandono Dio è chi consegna chiara dis-misura al reale, qualsiasi atteggiamento l’uomo ponga in campo non giunge dunque a misurarlo. […] Rispetto al libero dono divino, l’uomo ne diviene l’erede, egli non può restituirlo, lo traffica, non ne fa alcuna economia, lo dona a sua volta» [S. UBBIALI, Il sacramento cristiano, Cittadella Editrice, Assisi 2008, 69-70].
In questa relazione originata primariamente da Dio, il Signore invita però a rimanere: «Rimanete nel mio amore». E immediatamente dice come: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore». L’estrema logicità del procedimento (la fede-relazione è un dono, in esso bisogna rimanere, per rimanerci bisogna osservare i comandamenti) rischia però di far perdere la qualità vera di quanto Gesù – nelle parole dell’evangelista Giovanni – sta proponendo ai suoi: il pericolo – purtroppo effettivamente percorso dalla pratica ecclesiale – è infatti quello di perdere il contesto autentico di questo ragionamento e di farlo transitare – a mo’ di “copia e incolla” – in un altro ordine di problemi.
La riduzione a cui è andata incontro la proposta di Gesù è infatti quella di essere stata considerata come un comodo libretto di istruzioni per andare in paradiso: le indicazioni di Gesù sono infatti state sottratte dal loro contesto d’origine, dalla portata con cui e per cui lui le diceva, e sono state adottate come risposta a problemi diversi, a problemi altri dai suoi, a problemi originatisi molto più tardi nella storia della chiesa. La nuova e ristretta prospettiva era infatti quella dell’ansia di salvarsi l’anima, non quella della relazione attuale e vivificante col Signore; una necessità di salvarsi l’anima data dall’eccessiva accentuazione della malvagità dell’uomo: rimanere nell’amore di Dio, voleva infatti dire tentare con le opere buone di ingraziarsi quel Dio giustamente adirato con noi per la nostra pochezza, scordando il primato incondizionato del suo amore per noi e la qualità alta dei gesti dell’amore, che non possono mai essere ridotti a strumenti per salvare sé, se no non sono più gesti d’amore… Questi ultimi infatti hanno la peculiarità di essere per gli altri: tra l’altro non nel senso estrinseco di fare qualcosa per qualcuno, ma nel senso pregnante dell’essere implicati in quello che si fa, dunque di un mettere in gioco sé in quello che si fa, impegnandosi dunque in una relazione, in uno sbilanciamento, in un’implicazione, in un legame, in un essere per l’altro più che in un dare qualcosa all’altro… E ovviamente – come noto – i comandamenti da osservare per rimanere in quell’amore funzionale a salvarsi l’anima erano tutto un elenco di precetti morali, cultuali, folkloristici, perfino superstiziosi…
Ma che i “comandamenti da osservare” non fossero quelli è abbastanza evidente dai versetti successivi:
- Innanzitutto il riferimento alla pienezza della gioia («Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena»), pressoché sconosciuta ai cattolici pre-conciliari e di cui invece Dossetti scriveva: «Il Cristo risorto ci appare talvolta da un punto di vista umano, per una piega non ben chiarita del nostro animo, del nostro intelletto, come un essere evanescente che non ha più i sentimenti. […] Il Signore risorto – invece –, sì, è glorioso, è potente, è libero, è sovrano, è dominatore del mondo, delle anime e della storia, è il giudice che viene, ma è soprattutto un essere infinitamente felice. […] E questa gioia ce la vuole comunicare, questa gioia paradisiaca che sta nella compenetrazione piena, nella corrispondenza totale dell’amore del Padre e del Figlio e che si esprime finalmente in un amore completamente efficace per i suoi. […] Il Cristo, che è alla destra del Padre e che è completamente nella visione beatifica, del Padre, vuole, per amore, che noi raggiungiamo la pienezza di questa gioia: questo è il Risorto! » [G. DOSSETTI, Omelie del tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 242-243].
- In secondo luogo la precisazione: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi». Il discrimine cioè non è posto sull’adempimento di qualche norma o sull’assolvimento di qualche dovere, ma molto più radicalmente su un orizzonte di senso che investe la vita, il modo di stare al mondo, il modo di guardare a sé, agli altri, alle scelte…
È su questo che va valutata la qualità del nostro amore, e dunque della nostra fede, e dunque della nostra capacità di sopportare in noi la tensione degli opposti, e dunque di offrirci come campo di battaglia in cui i problemi possano trovare ospitalità, combattere e placarsi… È su questo che va valutata la nostra capacità di non sfuggire, di portare, sopportare e risolvere il dolore, mantenendo intatto un pezzetto della nostra anima.
È dalla nostra qualità amante che dipende la caratura umana della nostra identità (non a caso è sull’amore che verremo giudicati…). E l’indicazione di Gesù è chiara… La qualità amante è cristica, è nella sua prospettiva quando sa dare la vita: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici».
Un cristiano dovrebbe cioè alzarsi la mattina e avere come unica preoccupazione quella di disporsi in modo tale da essere uno che ama le persone che in quella giornata gli sarà dato di incontrare… che si tratti del marito, dei figli, dei fratelli, del panettiere, del capufficio, ecc… Tutto il resto è coreografia… Non a caso il brano di vangelo perentoriamente si conclude così: «Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».
Saremo allora persone con una qualità umana significativa se guarderemo a tutto quanto ci accade intorno con uno sguardo amante – che sa dare la vita.

È per questo che – rischiando di non essere politically correct e di far dispiacere qualcuno – non possiamo non cogliere questa occasione e questa sede per esplicitare il nostro dissenso sui recenti provvedimenti previsti dal “pacchetto sicurezza” del governo italiano, che essendosi nascosto diverse volte – quando gli faceva comodo – dietro la bandiera cattolica, dimostra, ancora una volta – se ce n’era bisogno – di tener conto, nelle sue scelte, di tutto, tranne che del vangelo… dimenticando forse che il cattolicesimo o è evangelico o non è…



P.S.: Vorrei allegarvi l'ultima vignetta che ieri sera Vauro ha mostrato alla trasmissione Annozero, perchè al di là della fede politica, contingentemente mi sembra davvero pregnante... Qui sotto si mostrano gli ultimi 5 min della trasmissione, quelli dedicati, appunto, alle vignette,.. a mio parere, merita: fa ridere, ma anche riflettere!

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