Pagine

ATTENZIONE!


Ci è stato segnalato che alcuni link audio e/o video sono, come si dice in gergo, “morti”. Se insomma cliccate su un file e trovate che non sia più disponibile, vi preghiamo di segnalarcelo nei commenti al post interessato. Capite bene che ripassare tutto il blog per verificarlo, richiederebbe quel (troppo) tempo che non abbiamo… Se ci tenete quindi a riaverli: collaborate! Da parte nostra cercheremo di renderli di nuovo disponibili al più presto. Promesso! Grazie.

venerdì 27 febbraio 2009

Più scuro di così... si muore!

Javier Lozano Barragan
Se Beppino Englaro ha ucciso la figlia Eluana, «è un assassino» perché «ha violato il quinto comandamento che dice di non uccidere»: è chiaro il cardinale Javier Lozano Barragan, ministro Vaticano della Salute, commentando l’accusa rivolta a Beppino Englaro di aver ammazzato la figlia. «Abbiamo un comandamento, il quinto, che dice di non uccidere - ha spiegato Barragan a margine del convegno su "Malattie rare e disabilità" promosso dall’Associazione Giuseppe Dossetti - chi uccide un innocente commette un omicidio e questo è chiaro. Se Beppino Englaro ha ammazzato la figlia allora è un omicida, se non l’ha ammazzata allora non è un omicida. Questo mi sembra totalmente chiaro».
clericalismo, cattolicismo, stupidità
Matteo 5, 20 Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. [...] 22...chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna.

E se gli dice "assassino"? ...lo fanno cardinale!

Un arcobaleno sempre nuovo…

Il linguaggio e i simboli, le promesse e le tentazioni, i luoghi e i numeri… di queste brevi righe del Vangelo sono “biblici", e impregnano il testo di Marco, come hanno impregnato la cultura, cioè il cuore e l'anima di Gesù negli anni della sua vita terrena. Appena prima era scritto: "… In quei giorni - Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E subito, uscendo dall'acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento (1,10s). Da qui la liturgia ci fa ripartire per iniziare la Quaresima. Smarrimenti e ricominciamenti! Si riapre la vicenda dell'uomo sulla terra… secondo il suo vero destino, sulla filigrana dell'avventura drammatica di Adamo… su quella tragica di Noè nel diluvio… su quella errabonda e dolorosa di Israele nel deserto. Anche Gesù entra nelle acque ambigue, soffocanti o purificanti, della storia umana…

Nel deserto era “tentato” da satana: è l'antico dramma della storia
E “subito” lo Spirito lo spinge nel deserto… Gettato anche lui nella storia degli uomini smarriti, malati, oppressi (e oppressori) come si vedrà subito dalle prime vicende del racconto. “Tentare", nel corrispondente termine greco, significa provare, sperimentare, esperire… (attraversare da parte a parte – penetrare la vita…). Dunque, vivere pienamente da uomo nella storia, sul crinale della fragile libertà responsabile di dire di sì o di no… Ma Marco non racconta le singole tentazioni, come Matteo e Luca. Emergeranno nello svolgersi della sua vita e dell'avventura della predicazione della “buona novella di Dio". La tentazione nel Vangelo di Marco è una sola, che le assorbe tutte: il pericolo costante di anticipare la gloria e la missione del Figlio come fosse potenza terrena, l'impazienza di trovare la scorciatoia che eviti la sofferenza e l'usura estenuante dell'attesa, la sfida perfida dell'apparente trionfo delle forze del male sulla resistenza profetica non violenta. Per questo ha grande importanza il “segreto messianico", che sottende tutto il vangelo di Marco, cioè l'imposizione di riservatezza ogni volta che un gesto, un miracolo, una manifestazione della sua messianicità suscita entusiasmo, illusione di vittorie facili, protagonismo socio religioso, ricerca di potere e di consenso. La tentazione nasce in Gesù gettato nel deserto umano, stretto tra le due frontiere della condizione dell'uomo sulla terra, la natura inospitale di questo mondo “disumano", tra le sue bestie selvagge, da una parte, e la promessa di un accudimento inaspettato dagli angeli di Dio… ‑ cioè di un Dio amico dell'uomo, dall'altra.
È giunto il momento
…adesso è il tempo di ricominciare l'esperienza dell'uomo sulla terra. Mentre gli altri ancora attendono o il compimento della legge, come i farisei, o la purificazione del paese, come gli esseni, o il dominio di Israele sul mondo, come gli erodiani, Gesù, che ha udito la voce amante del Padre che si compiace della sua immersione nell'avventura della storia umana… pensa diversamente. Egli ha un'altra maniera di leggere i fatti. L'attesa è terminata! il tempo ricomincia da lui! Da noi! è ridiventato lineare, cammina verso una meta, è orientato a una promessa. L'uomo è “gettato” nel tempo, ma sotto la luce di benevolenza del Padre, preannunciata dai profeti fino a Giovanni. Ora il tempo ha uno scopo, che è di essere storia di salvezza.
Il Regno è vicino
Il Regno di Dio dunque è giunto! Il progetto di Dio sul mondo non è fallito né in sonno. È in azione! Ma non è il risultato degli sforzi ascetici o morali degli uomini, per quanto benemeriti. Il Regno già stava lì, tra la gente. Quello che tutti attendevano, era già presente in mezzo al popolo, ed essi non lo sapevano e nemmeno lo percepivano (cfr Lc 17, 21). Gesù lo vede, perché legge la realtà con le viscere di compassione e misericordia con cui lo guarda il Padre. E scopre e risveglia questa presenza nascosta del Regno in mezzo al popolo e ne rivela ai poveri la bella notizia, proponendo loro di passare dal desiderio alla realtà, da un'esistenza “gettata” in un'avventura inconcludente, alla consapevolezza che è arrivato il tempo promesso. In questo tempo 'presente' si gioca la salvezza dell'uomo – che è accoglienza della Parola del Padre.
Convertitevi e credete al Vangelo
Ecco la proposta di fondo, appunto, la premessa di ogni salvezza! Cambiate mentalità - cambiate testa e cuore! Le due cose sono strettamente legate. Non si tratta della conversione ad una dottrina morale, perché vorrebbe dire ancora agire secondo la propria visione delle cose! E scontrarsi con gli altri uomini che hanno una loro diversa visione delle stesse cose. Ma è, più in profondo, disponibilità a cambiare radicalmente l'orientamento interiore. Prendere atto che il cuore dell'uomo nel suo contesto vitale, famigliare e sociale è impregnato da un principio/motore, la competizione, che è l'ipoteca tendenzialmente omicida sulla vita di chi vive con me: l'istinto invincibile di salvare la mia vita ‑ il mio io, soprattutto, sopra tutti! Non si può percepire questa presenza del Regno… se non si comincia a pensare, a vivere e ad agire in modo differente. Questa “differenza” dal modo normale (mondano!) di pensare e vivere è il Vangelo di Gesù! Il suo insegnamento, le sue beatitudini, i suoi gesti, i suoi sentimenti… Occorre “affidarsi” totalmente a lui. Un volto, non una dottrina…
…non sarà mai più distrutta nessuna carne dalle acque del diluvio!
Ci sono voluti millenni per disincagliare la concezione di Dio dalla maschera che l'uomo se ne fa. Attribuendo alla sua volontà divina ogni male che non ha spiegazione, ogni evento superiore alle sue forze, l'uomo fa di Dio un mostro che divora i suoi figli. Il Dio della paura e del castigo! La Bibbia ci indica i passi di questa evoluzione della concezione di Dio: Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male, sempre. E il Signore si pentì di aver fatto l'uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo. Il Signore disse: «Cancellerò dalla faccia della terra l'uomo che ho creato e, con l'uomo, anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo» (Gn 6,5ss)… Ma poi Dio “si pente” e insegna all'uomo come salvarsi… dalle acque – per non annegare in una storia senza sbocco! L'arca, la colomba e l'arcobaleno segneranno la scoperta umana… della eterna volontà di pace di Dio!
Cos'è che fa l'uomo così inquieto, e, nel caso di lotta competitiva, malvagio? Il discredito, l'invincibile sottostima che l'uomo ha di sé, la sua paura di inconsistenza, di non esser nulla… o peggio ‑ che ha una radice profonda, e fa l'uomo inconfondibile con ogni altro essere vivente: l'uomo patisce troppo ciò che gli manca, al punto di farne la propria identità. L'uomo si percepisce come essere mancante: un “deficit", un recipiente vuoto da riempire, arraffando da ogni dove ciò che crede possa soddisfarlo. “Esser signore” ‑ padrone di tutto ‑ è il suo ideale… fin dalla nascita. Gesù è venuto ad annunciare il contrario. Lui, che di natura era Signore, non ritenne di conservare questo privilegio, ma si è fatto servo come noi… come dire: è tempo di cambiare antropologia (la concezione di noi stessi!). Gesù va a cercare l'umanità proprio dove il deficit è maggiore… dove è più limitata, oppressa, schiavizzata: i suoi interlocutori sono poveri, pescatori, pastori, indemoniati, monchi, peccatori e prostitute… Lì il Regno di Dio è più vicino! Lì avviene la conversione dell'umanità, quando fa dei suoi limiti “umani” la sfida della libertà e dell'amore. Perché il limite, il finito, la malattia e la morte (che con tanta angoscia fuggiamo!) non sono catene esterne all'uomo, barriere che si possono allontanare senza fine. E la libertà non è un liberarsi da ogni limite, tentando di conservare all'infinito vita, potere, salute… I limiti sono dentro l'uomo. È dentro di lui che si gioca la conversione alla libertà, perché la libertà è affidarsi al Vangelo! Questa è la buona notizia che si è verificata in Cristo, che se l'uomo è in deficit di umanità, Dio è venuto ad abitare proprio dentro questo limite, è venuto ad assumere la nostra impotenza, per convertirla in luogo di libertà. Ha smentito che “esser signore” sia fonte di salvezza, ma ha assunto la nostra “servitudine” e ne ha fatto la condizione della vera signoria, quella capace della cosa più importante al mondo: dare la vita per amore!
Se le acque sterminatrici del diluvio, ci dice Pietro, sono “il tipo", il simbolo dell'usura inesorabile della storia, del cronos che ci divora, e della conseguente competizione che ci avvelena la vita, le acque del battesimo sono “l'antitipo". Dunque le acque della storia, da arma di distruzione di massa dell'umanità, sono divenuto luogo di salvezza, da quando Gesù, messo a morte con il corpo, ma reso vivo nello spirito, ci è passato in mezzo. Sono divenute luogo di …“invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo”.

I domenica di Quaresima: il problema del vero volto di Dio

I testi che la liturgia ci propone per questa prima domenica di Quaresima, in particolare il testo del vangelo, non possono non suscitare una certa difficoltà ai vari tentativi di commento: innanzitutto infatti l’essenzialità di Marco appare disarmante; egli non concede nessuno spazio alla divagazione, come si può evincere chiaramente da un confronto con gli altri racconti sinottici delle tentazioni. Mentre Matteo e Luca infatti si dilungano, Marco risolve tutto in un versetto: «In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana». In secondo luogo i versetti 12-15 del primo capitolo di Marco, sono gli stessi che la Chiesa ci proponeva anche qualche domenica fa, per cui questo ricorrere dello stesso brano ha la conseguenza di suscitare non poca fatica nel trovare ancora qualcosa da dire in proposito…
Inevitabilmente sorge allora la domanda, un po’ stanca e un po’ sconsolata per la fatica che il calendario liturgico ci fa fare nel volerci riconcentrati su questo testo, riguardante il perché della riproposizione degli stessi versetti a inizio Quaresima… Ovviamente la domanda è retorica… La scelta infatti non è casuale e non ricorre solo quest’anno: le ragioni dunque sono sostanziali, non occasionali.
In effetti il brano contiene numerosi elementi cari al tempo forte della preparazione alla Pasqua: innanzitutto il riferimento numerico ai quaranta giorni trascorsi da Gesù nel deserto; in secondo luogo la tentazione (che non dovremo scordare è teologica) avvenuta in quei quaranta giorni; infine l’annuncio della compiutezza del tempo, del sopraggiungere del Regno, della necessità della conversione alla buona notizia di Gesù.Tutti questi elementi, mi pare convoglino sulla stessa tematica: in gioco cioè, c’è la lotta per l’adesione al vero volto di Dio; una lotta che è stata di Gesù nel deserto e che continua per ogni suo discepolo, in particolare di fronte al mistero della Pasqua e dunque nel tempo forte della Quaresima.
Interessante infatti che Gesù, subito dopo la grande conferma avuta al Battesimo da parte di Dio («Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento»), senta il bisogno di ritirarsi nel deserto da solo per riflettere tra sé e sé, tra sé e Dio: «lo Spirito sospinse Gesù nel deserto». È una dinamica che si vede molto bene per esempio nel film “I giardini dell’Eden” di D’Alatri, per tanti aspetti criticato dall’istituzione ecclesiale, ma che nello specifico, mi pare abbia colto nel segno. La sceneggiatura infatti, tra il battesimo di Gesù al Giordano e i quaranta giorni nel deserto, introduce un dialogo tra Gesù e Giovanni non presente nei vangeli, ma congeniato in modo tale da indicare bene il senso delle tentazioni:
GB: “Qualcosa di grande sta per accadere, tutte le profezie si compiranno: i figli si rivolteranno contro i padri, l’acqua e la terra contro gli uomini, i fulmini del Signore presto si abbatteranno sui peccatori, la terra diventerà cenere e il peccato sarà cancellato per sempre”.
G: “Stai attento cugino, a Lui si arriva soltanto con l’amore: non puoi predicare spaventando”.
GB: “Dipende di chi hai paura… Guarda [indicando le guardie]: sono diventato pericoloso, mi seguono ovunque”.
G: “Vuol dire che stai sulla strada giusta”.
GB: “E tu, che cosa aspetti?”.
G: “Io sento che il Signore mi sta indicando qualcosa, ma non ho ancora capito. Sto inseguendo un dubbio e non riesco a raggiungerlo”.
GB: “Fa che sia lui a raggiungerti, portalo con te nel deserto: là non potrà più nascondersi”.
G: “Ho paura”…
Forse da questo dialogo emerge un volto di Gesù che non siamo immediatamente abituati a immaginare: un Gesù che ha paura, un Gesù che non sa, che “non ha ancora capito”… Eppure la tematica della scienza e coscienza di Gesù è una delle più indagate, teologicamente parlando. Una anche delle più percorse dalla produzione filmica. Oltre al già citato “I giardini dell’Eden” è interessante guardare in quest’ottica anche “L’ultima tentazione di Cristo” di Scorsese.
Tornando a noi: ciò che mi pare interessante è questa messa a fuoco della fatica di Gesù di individuare la sua identità e quella del Padre; quasi una fatica storica, un lento emergere (seppur già sinteticamente presente) del proprio volto e del volto dell’Altro nella determinazione quotidiana di sé, nel decider-si di fronte alle cose, alle persone, alle situazioni.
Non a caso l’esplicitazione che Matteo e Luca fanno delle tentazioni, va proprio nella direzione di una tentazione teologica. Gesù non è tentato su cose banali né su questioni morali: in gioco, vi è piuttosto e radicalmente il volto di Dio. La prima tentazione infatti («Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane», Mt 4,3) non mette alla prova la resistenza di Gesù alla fame (di lui si è appena detto infatti «Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame», Mt 4,2), piuttosto l’uso del potere che ha a disposizione. Esso se è usato per il bene degli altri, per la liberazione dal male degli uomini (come sarà sempre in Gesù, dove il miracolo non è mai (!!!) gesto di potenza) rivela un certo volto di Dio, ma se è usato per sé (per esempio per trasformare pietre in pane quando si ha fame), a proprio vantaggio, rivela ben altro dio. In gioco allora tra Gesù e Satana c’è la faccia di Dio, chi è Dio veramente! Infatti, non casualmente, Gesù, alla provocazione teologica, risponde con una citazione del testo biblico: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4).
Satana si fa allora più raffinato. Anch’egli si mette infatti a citare la Bibbia: la tentazione diventa quindi quasi una lotta esegetica. Sia Gesù che Satana hanno come punto di riferimento le Sacre Scritture, ma le leggono diversamente a seconda di che idea di Dio hanno in testa… Questo dovrebbe insegnare molte cose anche a noi oggi… Non basta citare la Bibbia per proclamare la volontà di Dio… Ogni interpretazione del testo infatti va verificata sul volto di Dio che lascia emergere. Satana infatti, ponendo Gesù sul punto più alto del tempio, dice: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra» (Mt 4,6). Ma Gesù ribatte: «Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo» (Mt 4,7).
Infine la tentazione teologicamente più esplicita: Satana pretende di farsi dio, di far sì cioè che Gesù si prostri a lui: «Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: “Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai”. Allora Gesù gli rispose: “Vattene, Satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”» (Mt 4,8-10).
La vittoria di Gesù sulle tentazioni allora non deve essere vista come l’esempio morale di un uomo che ha saputo resistere alla fame, alla presunzione di essere Dio, ai soldi e alla gloria. Piuttosto è la simbolizzazione della lotta (che per Gesù durerà tutta la vita, fin sulla croce) per l’adesione al vero volto di Dio.
Non a caso Gesù, esce dal deserto con un annuncio inequivocabile: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». Potremmo dire che Gesù, riprendendo il dialogo di D’Alatri, proprio perché ora ha capito chi è (e soprattutto chi non è) Dio, lo annuncia.
E il volto di Dio che egli – pur conoscendolo sinteticamente da sempre – ora inizia ad esplicitare è quello che emergerà da tutta la sua storia. Essa infatti, per i cristiani, è il luogo della rivelazione di Dio: essa dice chi è Dio all’uomo, il decider-si (= decidere di sé) di una libertà, che era quella di Gesù. Noi infatti di lui proclamiamo: “Questi è Dio”, che è l’originaria confessione di fede cristiana.
E da questa storia emerge il volto di un Dio che è Padre, di un Dio che è amore, di un Dio che per non venir meno a se stesso (per non cadere in tentazione) accoglie la scelta di suo Figlio di morire sulla croce per amore, per non smentire l’amore, per non tradire la sua identità!
È questa dunque la conversione che ci è richiesta in Quaresima: non una rinuncia formale, un simbolo vuoto, un fioretto fine a se stesso; non l’entrata in una cappa austera, in cui sentirsi sempre nella condizione – ovviamente morale – sbagliata; piuttosto una con-versione teologica, una messa in discussione seria del volto di Dio che abbiamo in cuore (se è Dio o se è qualcosa che mi sono inventato io) e dunque un conseguente ripensamento serio dell’idea di uomo, di altro, di noi… perché la nostra forma mentis sia davvero evangelica!

mercoledì 25 febbraio 2009

Giustizia nuova...

Matteo 6,1-6.16-18
«1State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. 2Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 3Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, 4perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
5E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 6Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
[… Padre nostro…]
16E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 17Invece, quando tu digiuni, profùmati la testa e làvati il volto, 18perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà».

Elemosina, preghiera, digiuno, tre dimensioni della giustizia nuova annunciata sul Monte delle Beatitudini (capitolo 5,1ss) e ribadita con forza poco prima (5,20): se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.
Giustizia nuova, perché nuovo è il rapporto che Gesù instaura con Dio, col prossimo e con se stessi!
Con il prossimo prima di tutto: l’elemosina! (Nessuno può dire di amare Dio che non vede se non ama prima di tutto il fratello che vede! Cf 1Gv).
Caratteristica dell’elemosina è che fa giustizia dell’ingiustizia subita dal fratello… La rivela, la smaschera: se ci fosse giustizia non ci sarebbe bisogno dell’elemosina… E non può fare giustizia se lo umilia! Allora è necessariamente nascosta, caratteristica principale perché sia giusta della vera giustizia è che non sappia nemmeno la destra quello che fa la sinistra, nemmeno quella del fratello/sorella a cui la offri!
La preghiera, è “l’elemosina” data a Dio: fa giustizia di ciò che pretendiamo di togliergli: dà a Dio ciò che è di Dio! Prima di tutto la paternità su di me: “Padre” appunto! Dà a Dio la paternità che pretendiamo esercitare sui fratelli: “nostro” appunto!
E allora è nascosta, se si potesse farla senza che Dio lo sapesse, sarebbe il top! (cf Santa Teresa del B.G.). Come l’elemosina…
Il digiuno: è dare veramente a sé stessi quello che il “sé” cerca in ogni cosa che “ingoia”! Così nascosto come l’elemosina, che la “bocca” resta vuota! E lo stomaco pure! È farsi giustizia, non autoingannarsi (digiuno), autoinsultarsi (preghiera), autorubarsi (elemosina)…

Tre bracci di una croce (cf 5,10: perseguitati per la giustizia…) ben piantata in terra… Tre coordinate di un dialogo tripartito, che lascia a ciascuno lo spazio per la propria libertà, anche a costo della propria!

Dark Age?

Una interpretazione che trova le sue radici nelle polemiche positivistiche ottocentesche, vuole che il Medioevo abbia rimosso tutte le scoperte scientifiche dell’antichità classica per non contraddire la lettera delle sacre scritture. È vero che alcuni autori patristici hanno cercato di dare una lettura assolutamente letterale della Scrittura là dove essa dice che il mondo è fatto come un tabernacolo. Per esempio nel IV secolo Lattanzio (nel suo Institutiones divinae), su queste basi si opponeva alle teorie pagane della rotondità della terra, anche perché non poteva accettare l’idea che esistessero degli Antipodi dove gli uomini avrebbero dovuto camminare con la testa all’ingiù.
E idee analoghe aveva sostenuto Cosma Indicopleuste, un geografo bizantino del VI secolo, che nella sua Topografia Cristiana, sempre pensando al tabernacolo biblico, aveva accuratamente descritto un cosmo di forma cubica, con un arco che sovrastava il pavimento piatto della Terra.

Ora, che la terra fosse sferica, tranne alcuni presocratici, lo sapevano già i greci, sin dai tempi di Pitagora, che la riteneva sferica per ragioni mistico-matematiche. Lo sapeva naturalmente Tolomeo, che aveva diviso il globo, ma lo avevano già capito Parmenide, Eudosso, Platone, Aristotele, Euclide, Archimede, e naturalmente Eratostene, che nel terzo secolo avanti Cristo aveva calcolato con una buona approssimazione la lunghezza del meridiano terrestre.

Tuttavia si è sostenuto (anche da parte di seri storici della scienza) che il Medioevo aveva dimenticato questa nozione antica, e l’idea si è fatta strada anche presso l’uomo comune, tanto è vero che ancora oggi, se domandiamo a una persona anche colta che cosa Cristoforo Colombo volesse dimostrare quando intendeva raggiungere il levante per il ponente, e che cosa i dotti di Salamanca si ostinassero a negare, la risposta, nella maggior parte dei casi, sarà che Colombo riteneva che la terra fosse rotonda, mentre i dotti di Salamanca ritenevano che la terra fosse piatta e che dopo un breve tratto le tre caravelle sarebbero precipitate dentro l’abisso cosmico.

In verità a Lattanzio nessuno aveva prestato troppa attenzione, a cominciare da Sant’Agostino il quale lascia capire per vari accenni di ritenere la terra sferica, anche se la questione non gli sembrava spiritualmente molto rilevante. Caso mai Agostino manifestava seri dubbi sulla possibilità che potessero vivere esseri umani ai presunti antipodi. Ma che si discutesse sugli antipodi è segno che si stava discutendo su un modello di terra sferica.
Quanto a Cosma, il suo libro era scritto in greco, una lingua che il medioevo cristiano aveva dimenticato, ed è stato tradotto in latino solo nel 1706. Nessun autore medievale lo conosceva.

Nel VII secolo dopo Cristo Isidoro di Siviglia (che pure non era un modello di acribìa scientifica) calcolava la lunghezza dell’equatore in ottantamila stadi. Chi parla di circolo equatoriale evidentemente assume che la terra sia sferica.

Anche uno studente di liceo può facilmente dedurre che, se Dante entra nell’imbuto infernale ed esce dall’altra parte vedendo stelle sconosciute ai piedi della montagna del Purgatorio, questo significa che egli sapeva benissimo che la terra era sferica, e che scriveva per lettori che lo sapevano. Ma della stessa opinione erano stati Origene e Ambrogio, Beda, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, Ruggero Bacone, Giovanni di Sacrobosco, tanto per citarne alcuni. La materia del contendere ai tempi di Colombo era che i dotti di Salamanca avevano fatto calcoli più precisi dei suoi, e ritenevano che la terra, tondissima, fosse più ampia di quanto il nostro genovese credesse, e che quindi fosse insensato cercare di circumnavigarla. Naturalmente né Colombo né i dotti di Salamanca sospettavano che tra l’Europa e l’Asia stesse un altro continente.

Tuttavia proprio nei manoscritti di Isidoro appariva la cosiddetta mappa a t, dove la parte superiore rappresenta l’Asia, in alto, perché in Asia stava secondo la leggenda il Paradiso terrestre, la barra orizzontale rappresenta da un lato il Mar Nero e dall’altro il Nilo, quella verticale il Mediterraneo, per cui il quarto di cerchio a sinistra rappresenta l’Europa e quello a destra l’Africa. Tutto intorno sta il gran cerchio dell’Oceano. Naturalmente le mappe a t sono bidimensionali, ma non è detto che una rappresentazione bidimensionale della terra implichi che la si ritenga piatta, altrimenti a una terra piatta crederebbero anche i nostri atlanti attuali. Si trattava di una forma convenzionale di proiezione cartografica, e si riteneva inutile rappresentare l’altra faccia del globo, ignota a tutti e probabilmente inabitata e inabitabile, così come noi oggi non rappresentiamo l’altra faccia della Luna, di cui non sappiano nulla.
Infine, il Medioevo era epoca di grandi viaggi ma, con le strade in disfacimento, foreste da attraversare e bracci di mare da superare fidandosi di qualche scafista dell’epoca, non c’era possibilità di tracciare mappe adeguate. Esse erano puramente indicative. Spesso quello che preoccupava maggiormente l’autore non era di spiegare come si arriva a Gerusalemme, bensì di rappresentare Gerusalemme al centro della terra.

Infine si cerchi di pensare alla mappa delle linee ferroviarie che propone un qualsiasi orario in vendita nelle edicole. Nessuno da quella serie di nodi, in sé chiarissimi se si deve prendere un treno da Milano a Livorno (e apprendere che si dovrà passare per Genova), potrebbe estrapolare con esattezza la forma dell’Italia. La forma esatta dell’Italia non interessa a chi deve andare alla stazione (...).

Si veda ora questa immagine del Beato Angelico nel duomo di Orvieto. Il globo (di solito simbolo del potere sovrano) tenuto in mano da Gesù rappresenta una Mappa a T rovesciata. Se si segue lo sguardo di Gesù si vede che egli sta guardando il mondo e quindi il mondo è rappresentato come lo vede lui dall'alto e non come lo vediamo noi, e quindi capovolto. Se una mappa a T appare sulla faccia di un globo vuole dire che essa era intesa come rappresentazione bidimensionale di una sfera.


di Umberto Eco in Repubblica.it, 23 febbraio 2009

sabato 21 febbraio 2009

giovedì 19 febbraio 2009

Il perdono dei peccati sulla terra: i paralitici camminano!

paralitico, Gesù, guarigione, peccato
…faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia!
L’uomo, anche il più santo, ha assunto dalla carne con cui è intessuto, una specie di perverso istinto (la “legge della carne” che contamina anche il piano morale) di sopraffare e “mangiare” il più debole, quasi non si possa sopravvivere senza prevaricare su qualcuno, o desiderare di farlo. Questo istinto congenito convive con le migliori intenzioni… Anche il discepolo convertito è tuttora preso nel dramma tra la paura di perdersi e la scoperta evangelica che il dono della vita, come insegna Gesù, è la strada migliore per salvare la vita stessa. E allora è lacerato in questo dilemma interiore e rischia di consumarsi dibattendosi dolorosamente tra il “sì” e il “no”, come dice Paolo: “Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto” (Rom 7,15). Incapace di imitare la fede totale e duratura che ha sostenuto la vita di Gesù, nel quale invece “tutte le promesse di Dio sono «sì»”. Dio è stanco che ci siamo stancati di lui…, proclama il profeta. Ma questo intenso dispiacere in lui non genera il rifiuto di noi, anzi provoca una voglia ancor più grande di perdono e di proposta di rapporto nuovo. Gli antichi testi profetici hanno plasmato l’animo di Gesù e la sua concezione di Dio – Padre! La gente capisce che il suo atteggiamento verso il male (morale, come peccato, ma anche fisico e psichico – esistenziale!) è completamente diverso da quello che insegnano i loro maestri. Pur tenendone conto, Gesù non guarda tanto alla trasgressione della legge divina, che effettivamente è perdonabile solo da Do – ma guarda al malessere interione della gente che incontra, lo soffre dentro di sé (è preso da compassione nelle viscere!), perché è un male che blocca la vita come esperienza e processo di amore, di comunione con gli altri, di stima umile di sé (perché amati!), di speranza in un futuro… sostenuta dalla fede che spera in un Dio che ti dice: “Io, io cancello i tuoi misfatti per amore di me stesso, e non ricordo più i tuoi peccati”.
Il vangelo che Gesù vive, prima ancora di annunciarlo, è la notizia sorprendente che Dio non è né la legge né la coscienza, è più grande di ogni legge e del nostro stesso cuore e dei suoi scrupoli e rimorsi… Anche se da soli non riusciamo ad uscirne e bisogna che uno che ci ama ce lo dica! Incontrandoci paralizzati dalle catene interiori che neppure noi conosciamo del tutto, prima ancora che apriamo bocca per implorarlo, Gesù dice: figliolo, sono rimessi a te i peccati! Non dice: io ti rimetto, perché è vero che solo Dio può farlo, ma Dio esercita questa sua prerogativa divina nel Figlio dell’uomo sulla terra. Il giaciglio (nominato quattro volte) in cui è steso il paralitico è la legge, che è necessaria per contenerlo, ma nello stesso tempo lo tiene legato a sé, senza riuscire a guarirlo, perché effettivamente la legge non può perdonare. Così gli uomini, fratelli e sorelle, sono la necessaria mediazione per “calarlo” davanti a Gesù, ma non sono loro che lo salvano!

…amare l’uomo scrutandolo fino in fondo…
Gesù, infatti, non rimprovera ai suoi interlocutori di ritenere che solo Dio perdona i peccati, ma contrasta la loro rigida mentalità di preclusione del perdono divino, qui, sulla terra, senza il quale siamo condannati alla falsità e all’ipocrisia. Conoscere il cuore dell’uomo, le sue caverne interiori, le sue ferite sanguinanti, è possibile solo al Padre che ci ha creati e, mantenendoci in vita con il suo amore misericordioso, penetra e abita nelle pieghe più intime del nostro essere, contenendo il nostro male dentro di sé … Il perdono dei peccati non è tanto un problema del peccatore, che ci è immerso come in un pozzo da cui non ha forza e strumenti per uscirne da solo, ma di Gesù che si pone di fronte a lui… Proprio davanti al peccatore, più che mai, Egli manifesta “il suo potere” interiore, cioè la libertà e l’amore, l’ineguagliabile maturità umana di non esserne a sua volta schiavo del peccato – e quindi in atteggiamento di paura, aggressività, condanna verso di sé e verso gli altri! Mentre Lui è, dentro di sé, “signore” del peccato, non ha paura della morte, non si lascia vincere dal panico della solitudine e della sofferenza, non perde dignità e non tradisce mai il fratello o sorella… non ha complessi di colpa che lo impaniano nel passato, ma solo un’immensa compassione misericordiosa – quella stessa di Dio, suo e nostro Padre che si espande come forza risanante attorno a lui… Non – come si dice con un pericoloso cortocircuito – perché ha pagato al Padre il dovuto prezzo del peccato degli uomini, attraverso la passione e la croce! Piuttosto si è scontrato con la coalizione delle forze del male (come ricorda subito Marco : 3,6) determinate a bloccarlo e distruggere la sua umile amorevole “signoria” sul peccato e sulla sua causa che è la paura della morte. A Dio non lo obbligava il prezzo da pagare alla Sua offesa. È il Padre stesso che genera incessantemente nel Figlio l’irriducibile passione di amare tanto il mondo da mandare il proprio figlio, non a giudicare, ma a salvare gli uomini.

…io cancello i tuoi misfatti per amore di me stesso.
Questa sorgente di amore e benevolenza inarrestabile che sgorga dal cuore del Padre nel Figlio, proprio perché è gratuita e gioisce di coinvolgere tutti in sé, al di là di ogni legame o restrizione contrattuale o di ricompensa o di castigo, è l’identità stessa di Dio! Non c’è una formula o un potere magico… È “l’amore dell’amore” che cancella i peccati, l’incontenibile desiderio che l’amore si diffonda e faccia “vivere” tutti e tutto… Gesù né è impregnato appunto perché è senza peccato, cioè senza freni o impedimenti o ostacoli che impediscano dentro di lui di assorbirlo pienamente, al punto che “in lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9). Da qui scaturisce la misericordia sconfinata per i peccatori e gli sventurati della società… perché sono un vuoto di amore, e gli stanno a cuore più di quanto loro amino sé stessi. È consapevole di cosa è capace il cuore dell’uomo (e lo patirà amaramente!), ma è anche in grado di percepire il reale desiderio di bene di chi ha peccato e vorrebbe riconciliarsi e tornare a vivere. È questo il mistero che gli scribi, legati al valore giuridico della legge, non riescono a capire. Gesù compie il miracolo perché anch'essi sappiano che “il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati”. E il paralitico è completamente guarito. Qui, per la prima ed unica volta, Gesù dichiara apertamente il motivo vero del suo miracolo: è il segno che indica il suo potere divino, che riguarda proprio il perdono. Dio è amore, e l’amore per l’uomo è anzitutto perdono risanante o preveniente! Come dice Giovanni: In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. (1Gv 3,19).

La radice profonda del problema del peccato.
L’uomo religioso (come era normale nel mondo antico) o l’uomo ateo (come oggi è culturalmente diffuso) sono imparentati tra loro da una tenacissima radice comune: la falsa immagine di Dio! Accettata e strumentalizzata nel primo o rifiutata e combattuta nel secondo, è sempre idolatria, che vuol dire appunto adorare l’immagine. L’uomo, secondo la Bibbia, non ha dentro di se la causa di se stesso, ma raggiunge la sua pienezza nell’esser relativo ad altro da sé… è fatto ad immagine di un altro. Impara dalla mamma o da chi lo accudisce, poi dai rapporti di amicizia e di coppia, se ha la grazia di sperimentarli… a maturare sempre più la scoperta che il suo riferimento definitivo, intimo a tutti i suoi riferimenti che lo fanno crescere sulla terra, è l’Altro! La sua avventura umana è uscire da sé! Se non gli nasce dentro questa capacità interiore (consapevole o meno) l’uomo si consuma nella rincorsa continua di immagini fallaci, fondate sull’affermazione insaziabile di sé, che lo ingannano e lo conducono all’angoscia, perché non raggiungono mai il bersaglio. Allora si consuma nei sensi di colpa (che sono provocati dalla lesione della immagine di sé!) e non dal senso del peccato (che è il rifiuto o la paura dell’amore che chiama fuori di sé). Ma l’immagine di Dio, come si è manifestata nella storia, non è “l’onnipotenza”, che l’uomo “religioso” ricerca in Dio o che l’ “ateo” ricerca in sé … ma è Gesù, e questo crocifisso! Per aver insegnato agli uomini che Dio è “amore impotente”, cioè storicamente inabile alla potenza e alla violenza, ma capace solo di perdono e benevolenza! Un amore che si manifesta donando a tutti perdono e misericordia e insegnando agli uomini a fare altrettanto, già qui sulla terra! ingenuità o bestemmia? Così pensano i realisti, sia religiosi che atei! … comunque, un passo duro, per chi non ha provato un troppo di amore!

In gioco l'identità di Dio

In questa settima domenica del tempo ordinario, le letture che la Chiesa ci propone – in particolare la prima e il vangelo – pongono in campo la tematica dell’identità di Dio. Seppur in modo diverso infatti, entrambe contengono un pronunciarsi del Signore (di JHWH in Isaia, di Gesù in Marco), un suo dirsi, un suo dire di sé, non privo di conseguenze.

Per quanto riguarda la prima lettura ci troviamo nella sezione del libro che i biblisti attribuiscono al cosiddetto Deuteroisaia, o secondo Isaia, cioè il profeta anonimo vissuto ai tempi dell’esilio in Babilonia (circa II secoli dopo il I Isaia), il cui lavoro è stato poi redazionalmente unito a quello del profeta dell’VIII secolo a.C.

La situazione storica che fa da sfondo alla “dichiarazione d’intenti” pronunciata dal Signore nei nostri versetti, è dunque l’esilio in Babilonia, tempo in cui l’abbattimento, la sfiducia e la tristezza opprimevano il cuore dei deportati. Ci si domandava se il Signore si fosse dimenticato del suo popolo, se la sua parola contasse ancora, se vi fosse ancora speranza.

Ed è inutile sottolineare l’attualità di questa condizione interiore dell’uomo; come queste stesse caratteristiche appaiano adattissime a descrivere anche il cuore dell’uomo di oggi, forse dell’uomo di sempre… lo scoramento, il dubbio se ne valga veramente la pena, l’angoscia, la domanda su una speranza ancora possibile…

Ma forse proprio perché non si tratta solo della situazione contingente dei deportati in Babilonia, ma della condizione umana tout court, ha ancora più rilevanza l’irrompere di Dio in questa desolazione, il suo dirsi, il suo annunciarsi come colui che porta un nuovo esodo, una liberazione attuale.

Proprio nel tempo dell’abbattimento più cupo, proprio allora quando sembra impossibile tornare a dare credito a un senso, proprio quando in discussione è messo il Signore stesso, la sua identità, Egli decide di rivelarsi, di tornare a intrecciarsi “l’anima” con l’uomo.

Il Signore infatti si annuncia non più solo come colui che nel passato ha liberato il suo popolo dall’Egitto (un episodio del passato, certo originario, fondante, ma forse proprio per questo quasi mitico, lontano, etereo), ma come colui che attualmente libera le nuove generazioni del suo popolo, che è fedele sempre, che rinnova le sue promesse e la sua alleanza con ciascun figlio dell’uomo che nasce su questa terra: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova». 

Questo “fare cose nuove”, questo dirsi nell’attualità, per quanto forse alle nostre orecchie di cristiani del duemila suoni scontato, in realtà ha bisogno di essere continuamente ribadito, perché è la chiave di lettura della vita cristiana e umana: il Signore è colui che mi si rivolge, mi interpella, mi si dice, mi libera, mi fa fiorire l’anima.

Va ribadito soprattutto perchè non sempre è stato così evidente nella vita della Chiesa. Troppo spesso infatti essa, ovviamente nelle sue “alte sfere”, ha temuto che questa prospettiva rischiasse di incastrarsi in dinamiche intimistiche, relativistiche, solipsistiche (un rischio serio e da tenere certo in considerazione e che probabilmente è stato anche più volte percorso, se la Chiesa ha sentito il bisogno di arginarlo così duramente). Però per paura di individualismi (un paura positiva quando l’obiettivo era favorire l’unità dei cristiani e il bene del singolo, negativa quando mirava semplicemente a evitare la messa in discussione del proprio potere), la Chiesa ha proposto per secoli una religiosità “cameratista”, irreggimentata, orchestrata, considerando invece i singoli non all’altezza di un rapporto personale serio con il Signore (cfr l’accesso al testo biblico da parte della gente comune prima degli anni ’60 del ‘900!!!). E se si può riconoscere che certo, le persone vanno educate, aiutate, accompagnate, non si può nascondere che la meta fosse quella della relazione personale col Signore, che la Chiesa avrebbe dovuto portarle lì e invece per secoli non lo ha fatto, se non in epifenomeni particolarmente fortunati e comunque anch’essi contrastati dall’istituzione…

E non a caso, perso di vista il rapporto personale col Signore, la gente si è accorta che tutta l’impalcatura religiosa che la società e la vita personale continuavano a portare avanti, perdeva senso, anzi rischiava di diventare ingabbiante, minacciosa, violenta. E di fatti l’hanno abbandonata.

Per questo è allora così fondamentale tornare a queste parole del Deuteroisaia: egli rivendica la contemporaneità di ciascun uomo al Signore stesso, la possibilità di mescolare con lui la libertà, di scrivere con lui la storia.

E come si accennava già in precedenza, quella di Isaia è una rivendicazione ancora più pretenziosa (e però più realistica) perché cade proprio nel tempo della prova, nel tempo della disfatta umana, nel tempo della sfiducia. È in questa situazione (che è la situazione più percorsa dall’uomo di sempre), che il Signore ribadisce chi lui sia. Proprio quando tutto entra in crisi e lui stesso ai nostri occhi appare un’illusione, la sua parola per noi è che con lui il deserto fiorisce: dove passa lui vengon fuori le margherite dalla sabbia! Che fuor di metafora vuol dire che dove passa lui la morte diventa vita, la stanchezza vigore, la depressione voglia di vivere, la solitudine abitata, la paura pacificazione…

Così Dio si dice: e non a caso Gesù è proprio colui che risana il dentro e il fuori dell’uomo. A Giovanni Battista in carcere che manda i suoi discepoli a chiedergli se era davvero lui quello che doveva venire o se ne dovevano aspettare un altro, lui risponde mostrando il deserto che fiorisce: «Andate a riferire a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il vangelo» (Mt 11,4-5).

Il problema è che proprio questa identità di Dio in Gesù è messa in discussione: in gioco c’è l’identità di Dio, che, se malcompresa, è la cosa più pericolosa per l’uomo. Da essa infatti dipende il nostro modo di pensare la vita, gli altri, l’amore, la morte, ecc… Fallire l’idea di Dio è fallire la vita.

Ci si potrebbe dilungare sulle false idee di Dio (gli idoli, che non a caso sono a tema nei versetti successivi a quelli della prima lettura), ma per essere più aderenti al vangelo è necessario oggi mettere a tema una difficoltà diversa: qui non si sta parlando di un’idea sbagliata di Dio, ma del rifiuto dell’idea giusta. Che Gesù sia Dio così e quindi che Dio sia così come è Gesù, suscita reazioni di opposizione, di diniego, di rifiuto… non a caso anche il versetto che segue la risposta di Gesù ai discepoli di Giovanni Battista suona: «E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo» (Mt 11,6). Addirittura la contrapposizione diventa violenza: Gesù morirà in croce, condannato per bestemmia: «Si è fatto Dio»… che è la stessa accusa che emerge già nei versetti del vangelo di Marco proposto dalla liturgia di questa domenica: siamo solo al capitolo due e l’evangelista sente già l’esigenza di mettere in campo le reazioni contro Gesù.

Infatti a partire da 2,1 a 3,6 raggruppa una serie di cinque controversie contro Gesù: la nostra riguardante la possibilità da parte di Gesù di rimettere i peccati, la seconda riguardante la sua abitudine di mangiare con i peccatori, la terza sul digiuno, la quarta e la quinta sul sabato. Come già evidenziato, in gioco non è la disputa su cavilli interpretativi della legislazione ebraica, non sono questioni di scuola. In gioco c’è la messa in discussione dell’identità di Gesù e più radicalmente di Dio: il Signore non può essere così.

Se questa reazione è comprensibile per i farisei contemporanei a Gesù (che – non dobbiamo dimenticarlo – avevano davanti quello che a loro appariva in tutto e per tutto un uomo qualunque e che però pretendeva, per esempio nel nostro brano, di arrogarsi prerogative esclusivamente riservate a Dio: perdonare i peccati!), per l’evangelista diventano incomprensibili a posteriori. Dopo la morte e risurrezione di Gesù, dopo l’attesa di secoli, la stragrande maggioranza del popolo ebraico non ha riconosciuto il suo Messia. E non l’ha riconosciuto perché non gli sembrava vero un Dio così, un Dio che si fa uomo, un Dio che muore.

L’intento di Marco allora è quello di preparare l’animo del suo lettore, l’animo dell’uomo, l’animo di ciascun uomo, reso terreno accidentato dalle prove, dalle sofferenze, dalle delusioni e dalle infedeltà, perché possa accogliere che Gesù è Dio, colui che fa fiorire il deserto.

Per poter arrivare con Etty a dire: «Mio Dio, viviamo tempi di terrore. Questa notte, per la prima volta, sono rimasta sveglia nel buio, con gli occhi brucianti, e immagini di sofferenza umana si snodavano davanti a me, senza sosta. Ti voglio però promettere una cosa, mio Dio, una piccola cosa: […] Ti aiuterò, mio Dio, a non spegnerti dentro di me. […] Dietro la casa, la pioggia e la grandine dei giorni scorsi hanno devastato il gelsomino. Più in basso i suoi fiori bianchi galleggiano sparpagliati nelle pozzanghere nere, che ristagnano sul tetto del garage. Ma da qualche parte, dentro di me, questo gelsomino continua a fiorire, esuberante e tenero come in passato. Ed espande i suoi effluvi intorno alla tua dimora, mio Dio».

Da questo punto invece sovrascrivi a queste parole la sua continuazione in modo che la pagina principale del blog non sia appesantita e chi vuole continuare la lettura deve cliccare su continua. (naturalmente puoi dopo sopprimere la linea vuota

mercoledì 18 febbraio 2009

Cecità...



E' strano come talvolta i pensieri coincidano...è strano, ma, soprattutto, è bello. Mi riallaccio quindi alla suggestione di Mario, "integrando" (se mi è permesso) le sue riflessioni con un'immagine.

Tra le tavole del Miserere, strepitosa serie di incisioni del francese Georges Rouault, c'è anche questa. Come tutte le tavole della serie, la figurazione si accompagna ad un'iscrizione, il cui svolazzante carattere non deve trarre in inganno: non si tratta di "pensierini" infantili, ma di riflessioni di incredibile lucidità. In questo caso, essa recita

Talvolta chi non vede ha consolato il viandante
Immagine stupenda, e che si apre a suggestioni molto varie. La prima che vorrei suggerire è che il cieco, che ci appare sulla sinistra, è menomato fisicamente, ed è conscio di questa cosa. Come suggeriva Mario, è in grado di poter gridare per chiedere guarigione. L'altro vede, o pensa di vedere, ma è talmente prostrato che sembra quasi affidarsi nelle mani dell'altro, lasciarsi guidare. Quante volte anche noi pensiamo di vedere, di sapere verità su di noi e gli altri...gli occhi in realtà non ci servono più, è come se avessimo già visto tutto, saputo tutto. E in realtà sappiamo poco o nulla. Vedendo questa immagine mi vengono in mente le parole di San Paolo, sulla forza che risiede nella debolezza. E questo mi suggerisce un'altra riflessione, su quante volte dai "deboli", da quelli che ci sembrano meritevoli di aiuto, ci arrivano lezioni, ma soprattutto consolazioni che ci superano.


Vedere è vedere da lontano…

Cieco, Vedere, Guida, Chiesa, Marco 8:22
Dal vangelo della liturgia di oggi: Marco 8,[In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli] 22Giunsero a Betsàida, e gli condussero un cieco, pregandolo di toccarlo. 23Allora prese il cieco per mano, lo condusse fuori dal villaggio e, dopo avergli messo della saliva sugli occhi, gli impose le mani e gli chiese: «Vedi qualcosa?». 24Quello, alzando gli occhi, diceva: «Vedo la gente, perché vedo come degli alberi che camminano». 25Allora gli impose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente, fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa.
Certo, per un cieco riuscire a vedere è già qualcosa, riuscire però a vedere non basta…
A che serve vedere, se non si riesce a vedere da lontano?
No! vedere non basta. Quello che oggi occorre più che mai è saper vedere da lontano: nello spazio e nel tempo!
A che serve accorgersi di un muro quando già l’auto sta schiantandosi contro? Anche i ciechi se ne accorgerebbero… A rischio non c’è il muro, ma l’auto con i suoi occupanti…
A che serve prevedere uno tsunami quando l’onda sta già travolgendoci? Anche i ciechi la sentirebbero… A che serve non avere oramai più il tempo per salvarsi, affidando la propria salvezza al gioco delle forze dirompenti della natura, a una improbabile (cf Lc 12,56) provvidenza divina? Neanche i ciechi si salverebbero…

Saper vedere da lontano non è pre-veggenza, è la visione acuta, profonda, lucida, distinta appunto!
Saper vedere da lontano è questione di vita o di morte… Chi “vede” sopravvive, in attesa che il vento lo spazzi via (Lc 6,49), solo chi “vede da lontano” vive veramente perché nessun vento potrà coglierlo di sorpresa (Lc 6,48 e 1Tes 5,4)…

Non è cieco chi non vede, è cieco chi non sa vedere da lontano… Almeno non ci vedesse, almeno scoprisse di essere cieco: correrebbe ai ripari domandando di essere guarito (cf Ap 3,17ss)…

Ma proprio perché egli dice “ci vedo!”, senza però saper vedere da lontano, è peggio di chi è cieco… Meglio sarebbe allora per lui essere completamente cieco (cf Gv 9,39-41)!

Solo lo sguardo lucido e distinto del Vangelo e con la sua linfa vitale (saliva), capace di essere collirio salubre (Ap 3,18), ci rende capaci di vedere da lontano distintamente come se si vedesse da vicino…
L’occhio evangelico, annulla la distanza… l’occhio cristiano rende presente il futuro…

Questo è il dono della profezia di cui è portatore chi si lascia vivificare dal Vangelo… il resto è sì occhio funzionante, ma chiuso alla luce… Il resto è istituzione cieca ad ogni profezia…

Quello che diciamo da mesi, da anni, non è immaginazione visionaria, né preveggente allucinazione, è capacità che ci viene dal vangelo di vedere lontano, di vedere il futuro presente… Capacità che domanda di essere verificata… da un occhio che si lasci bagnare dal Cristo (cf Ap 3,18)… non ridicolizzare dal buio istituzionale…

La storia ci sta dando ragione, la storia vi sta dando torto… voglia iddio che ci sia ancora il tempo di impedire lo schianto, di fermare il disastro… non per magico dio, ma per l’umile riconoscenza della propria corta visione.

A proposito, se non lo sapevate... Io, grazie a Dio, sono un farabutto...

martedì 17 febbraio 2009

«L'unica opposizione»

Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me

È proprio rimasta nel cuore della giovane Chiesa questa pagina del vangelo di Marco (10, 46-52) e poi ha via via accompagnato anche lungo il cammino della comunità cristiana i passi importanti, ha dato origine, proprio questo brano di Marco, ad alcuni passaggi molto belli e preziosi della tradizione catecumenale della Chiesa. E perché? Forse i segni più evidenti sono da una parte scorgere che il senso di questa pagina non è primariamente quello di dire la premura di Gesù per un povero - certo, è evidentissimo, lo manda a chiamare, dice a loro di accompagnarlo - ma è quello di manifestarsi nella sua identità più profonda, tant’é che parla di fede, perché “adesso che mi hai visto, adesso che sei tornato a vedere, adesso riponi una fiducia vera in me”, il cammino della fede, appunto. Ma poi, ed è molto bella questa annotazione, perché proprio questo brano consegna una di quelle preghiere “Figlio di Davide, abbi pietà di me”, che sono divenute anche le preghiere intense dei poveri, di chi magari non saprebbe pregare diversamente, perché povero, perché la sua vita è travagliata, perché neppure ha il tempo per la preghiera. Nella grande tradizione russa quanto era incoraggiata questa invocazione come preghiera quotidiana, tuttora, ma è ancora bello trovare anche oggi persone, uomini e donne, che questa invocazione “Figlio di Davide, abbi pietà di me” l’hanno davvero quotidianamente a cuore. Qualcuno quando celebra la Riconciliazione dice proprio questa preghiera come atto di pentimento, una preghiera intensa, un’invocazione accorata. C’è anche un ultimo aspetto che la Tradizione spirituale della Chiesa ha messo in grande risalto, proprio nella parte finale, le ultime parole : “subito vide di nuovo”, è tornato a vedere, la gioia del vedere, “e lo seguiva”, ecco, termina con una sequela, con una scelta di sequela, perché quell’incontro non è stato solo il garantirsi di un dono eccezionale - tornare a vedere - ma è stato soprattutto il riconoscere un Maestro, e allora non basta tornare a casa con la proprio gioia, occorre dirgli: “Adesso io ti seguo, Signore, lungo la strada”. Ecco, stamattina il Signore ha preparato per noi questo pagina, perché dia luce e forza e speranza alle ore di questa giornata, perché alimenti la nostra preghiera. “ Signore abbiamo tante ragioni per invocare il dono del tornare a vedere, tante ragioni, e te le affidiamo con l’ implorazione del figlio di Timeo, Bartimeo, “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me”.
don Franco Brovelli, omelia al Carmelo di Concenedo, 17 feb ’09

Testimonianza cristiana...

“C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare” ammoniva Qohelet, così come “c’è un tempo per nascere e un tempo per morire; un tempo per uccidere e un tempo per guarire...”. Veniamo da settimane in cui questa antica sapienza umana – prima ancora che biblica – è parsa dimenticata: anche tra i pochi che parlavano per invocare il silenzio v’era chi sembrava mosso più che altro dal desiderio di far tacere quanti la pensavano diversamente da lui. Soprattutto si è avuto l’impressione che l’insieme della nostra società non avesse certezze condivise sulla scansione dei diversi “tempi” e sul significato dei diversi verbi usati da Qohelet a indicare lo scorrere dell’esistenza umana: quando è “tempo” per questo o per quell’altro? E cosa significa parlare, morire, uccidere, guarire? Uno smarrimento di senso condiviso che ha coinvolto anche parole forti attinenti ai principi fondamentali dell’etica: dignità, libertà, volontà, rispetto, carità, vita...

Le settimane appena trascorse saranno sicuramente ricordate come “giorni cattivi” da molti cristiani, ma anche da molti uomini e donne non cristiani che tentano ogni giorno di rinnovare la loro ricerca di senso, soprattutto attraverso la faticosa lotta dell’amare in verità e dal lasciarsi amare da quanti sono loro accanto. “Giorni cattivi” è un’espressione biblica che indica tempi privi di una parola da parte di Dio, da parte dei suoi profeti e quindi anche privi di parole umane sincere, vere, autentiche: tempi in cui si fa silenzio per non aumentare il rumore, la rissa, l’aggressione nella comunità umana e per evitare che parole sensate vengano triturate insieme alle insensate e non si riesca poi più a recuperarle per giorni migliori. Per questo molti hanno preferito il silenzio. Da parte mia confesso che, anche se il direttore di questo giornale mi ha invitato più volte a scrivere, ho preferito fare silenzio anzi, soffrire in silenzio aspettando l’ora in cui fosse forse possibile – ma non è certo – dire una parola udibile.
Attorno all’agonia lunga diciassette anni di una donna, attorno al dramma di una famiglia nella sofferenza, si è consumato uno scontro incivile, una gazzarra indegna dello stile cristiano: giorno dopo giorno, nel silenzio abitato dalla mia fede in Dio e dalla mia fedeltà alla terra e all’umanità di cui sono parte, constatavo una violenza verbale, e a volte addirittura fisica, che strideva con la mia fede cristiana. Non potevo ascoltare quelle grida – “assassini”, “boia”, “lasciatela a noi”... – senza pensare a Gesù di Nazaret che quando gli hanno portato una donna gridando “adultera” ha fatto silenzio a lungo, per poterle dire a un certo punto: “Donna (non “adultera”), neppure io ti condanno: va’ e non peccare più”; non riuscivo ad ascoltare quelle urla minacciose senza pensare a Gesù che in croce non urla “ladro, assassino!” al brigante non pentito, ma in silenzio gli sta accanto, condividendone la condizione di colpevole e il supplizio. Che senso ha per un cristiano recitare rosari e insultare? O pregare ostentatamente in piazza con uno stile da manifestazione politica o sindacale?

Ma accanto a queste contraddizioni laceranti, come non soffrire per la strumentalizzazione politica dell’agonia di questa donna? Una politica che arriva in ritardo nello svolgere il ruolo che le è proprio – offrire un quadro legislativo adeguato e condiviso per tematiche così sensibili – e che brutalmente invade lo spazio più intimo e personale al solo fine del potere; una politica che si finge al servizio di un’etica superiore, l’etica cristiana, e che cerca, con il compiacimento anche di cattolici, di trasformare il cristianesimo in religione civile. L’abbiamo detto e scritto più volte: se mai la fede cristiana venisse declinata come religione civile, non solo perderebbe la sua capacità profetica, ma sarebbe ridotta a cappellania del potente di turno, diverrebbe sale senza più sapore secondo le parole di Gesù, incapace di stare nel mondo facendo memoria del suo Signore.
E’ avvenuto quanto più volte avevo intravisto e temuto: lo scontro di civiltà preconizzato da Huntington non si è consumato come scontro di religioni ma come scontro di etiche, con gli effetti devastanti di una maggiore divisione e contrapposizione nella polis e, va detto, anche nella chiesa. Da questi “giorni cattivi” usciamo più divisi e non certo per quella separazione in nome di Cristo che, con il comandamento nuovo dell’amore da estendersi fino ai nemici, può provocare divisione anche tra genitori e figli, all’interno della famiglia o della “casa” di appartenenza. Abbiamo invece conosciuto divisione in nome di quel male che affligge l’umanità e che trasforma la diversità in demonizzazione dell’altro, muta l’avversario in nemico, interrompe o nega il confronto e il dialogo, dando origine a posizioni ideologiche capaci di violenza prima verbale poi fisica e sociale. Da un lato il fondamentalismo religioso che cresce, dall’altro un nichilismo che rigetta ogni etica condivisa fanno sì che cessi l’ascolto reciproco e la società sia sempre più segnata dalla barbarie.

Per chi come me ha pensato di dedicare tutte le fatiche alla ricerca del dialogo, del confronto, del faticoso cammino verso la comunione, innanzitutto nello spazio cristiano e poi tra gli uomini, e in questo sforzo sentiva di poter rendere conto della speranza cristiana che lo abita e di annunciare il vangelo che lo anima, questi giorni sono davvero cattivi. Come ignorare anche gli altri segni di barbarie cui stiamo assistendo in questa amara stagione? Leggi che chiedono ai medici di segnalare alle forze dell’ordine la presenza di clandestini che necessitano di cure mediche, vanificando così il diritto alla salute riconosciuto a qualunque essere umano; episodi ormai ricorrenti di giovani e ragazzi che danno fuoco a immigrati o a mendicanti; senzatetto di cui si prevede la schedatura mentre li si lascia morire di freddo; esercizio della violenza in branco verso donne o disabili...
Sì, ci sono state anche voci di compassione, ma nel clamore generale sono passate quasi inascoltate. L’Osservatore romano ha coraggiosamente chiesto – tramite le parole del suo direttore, il tono e la frequenza degli interventi – di evitare strumentalizzazioni da ogni parte, di scongiurare lo scontro ideologico, di richiamare al rispetto della morte stessa. Ma molti mass media in realtà sono apparsi ostaggio di una battaglia frontale in cui nessuno dei contendenti si è risparmiato mezzi ingiustificabili dal fine. Eppure, di vita e di morte si trattava, realtà intimamente unite e pertanto non attribuibili in esclusiva a un campo o all’altro, a una cultura o a un’altra. La morte resta un enigma per tutti, diviene mistero per i credenti: un evento che non deve essere rimosso, ma che dà alla nostra vita il suo limite e fornisce le ragioni della responsabilità personale e sociale; un evento che tutti ci minaccia e tutti ci attende come esito finale della vita e, quindi, parte della vita stessa, un evento da viversi perciò soprattutto nell’amore: amore per chi resta e accettazione dell’amore che si riceve. Sì, questa è la sola verità che dovremmo cercare di vivere nella morte e accanto a chi muore, anche quando questo risulta difficile e faticoso. Infatti la morte non è sempre quella di un uomo o una donna che, sazi di giorni, si spengono quasi naturalmente come candela, circondati dagli affetti più cari. No, a volte è “agonia”, lotta dolorosa, perfino abbrutente a causa della sofferenza fisica; oggi è sempre più spesso consegnata alla scienza medica, alla tecnica, alle strutture e ai macchinari...

Che dire a questo proposito? La vita è un dono e non una preda: nessuno si dà la vita da se stesso né può conquistarla con la forza. Nello spazio della fede i credenti, accanto alla speranza nella vita in Dio oltre la morte, hanno la consapevolezza che questo dono viene da Dio: ricevuta da lui, a lui va ridata con un atto puntuale di obbedienza, cercando, a volte anche a fatica, di ringraziare Dio: “Ti ringrazio, mio Dio, di avermi creato...”. Ma il credente sa che molti cristiani di fronte a quell’incontro finale con Dio hanno deciso di pronunciare un “sì” che comportava la rinuncia ad accanirsi per ritardare il momento di quel faccia a faccia temuto e sperato. Quanti monaci, quante donne e uomini santi, di fronte alla morte hanno chiesto di restare soli e di cibarsi solo dell’eucarestia, quanti hanno recitato il Nunc dimittis, il “lascia andare, o Signore, il tuo servo” come ultima preghiera nell’attesa dell’incontro con colui che hanno tanto cercato... Negli anni più vicini a noi, pensiamo al patriarca Athenagoras I e a papa Giovanni Paolo II: due cristiani, due vescovi, due capi di chiese che hanno voluto e saputo spegnersi acconsentendo alla chiamata di Dio, facendo della morte l’estremo atto di obbedienza nell’amore al loro Signore.

Testimonianze come queste sono il patrimonio prezioso che la chiesa può offrire anche a chi non crede, come segno grande di un anticipo della vittoria sull’ultimo nemico del genere umano, la morte. Voci come queste avremmo voluto che accompagnassero il silenzio di rispetto e compassione in questi giorni cattivi assordati da un vociare indegno. La chiesa cattolica e tutte le chiese cristiane sono convinte di dover affermare pubblicamente e soprattutto di testimoniare con il vissuto che la vita non può essere tolta o spenta da nessuno e che, dal concepimento alla morte naturale essa ha un valore che nessun uomo può contraddire o negare; ma i cristiani in questo impegno non devono mai contraddire quello stile che Gesù ha richiesto ai suoi discepoli: uno stile che pur nella fermezza deve mostrare misericordia e compassione senza mai diventare disprezzo e condanna di chi pensa diversamente.

Allora, da una millenaria tradizione di amore per la vita, di accettazione della morte e di fede nella risurrezione possono nascere parole in grado di rispondere agli inediti interrogativi che il progresso delle scienze e delle tecniche mediche pongono al limitare in cui vita e morte si incontrano. Così le riassumeva la lettera pontificale di Paolo VI indirizzata ai medici cattolici nel 1970: “Il carattere sacro della vita è ciò che impedisce al medico di uccidere e che lo obbliga nello stesso tempo a dedicarsi con tutte le risorse della sua arte a lottare contro la morte. Questo non significa tuttavia obbligarlo a utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza che gli offre una scienza instancabilmente creatrice. In molti casi non sarebbe forse un’inutile tortura imporre la rianimazione vegetativa nella fase terminale di una malattia incurabile? In quel caso, il dovere del medico è piuttosto di impegnarsi ad alleviare la sofferenza, invece di voler prolungare il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va naturalmente verso il suo epilogo: l’ora ineluttabile e sacra dell’incontro dell’anima con il suo Creatore, attraverso un passaggio doloroso che la rende partecipe della passione di Cristo. Anche in questo il medico deve rispettare la vita”.

Ecco, questo è il contributo che con rispetto e semplicità i cristiani possono offrire a quanti non condividono la loro fede affinché la società ritrovi un’etica condivisa e ciascuno possa vivere e morire nell’amore e nella libertà.

domenica 15 febbraio 2009

Colloquio di studio su Edith Stein



La testimonianza filosofica ed umana di E. Stein continua ad interpellare i giovani d'oggi; il suo iter di maturazione umana che la condusse fino alla dedizione assoluta è iter di santità.
Al Coloquio di Studio organizzato dal Carmelo Teresiano di Enna, Cristiana Dobner, prenderà parte in video conferenza, soffermandosi in modo particolare sull'irruzione di Dio che, in Edith Stein, si palesò soprattutto come Verità.

Vedere dentro, Vedere il cuore!

“Vedi questa donna?” Questa domanda che Gesù rivolge a Simone sta proprio al centro del racconto bellissimo di Luca (7,36-50) che stamattina sta guidando la nostra preghiera, perché c’è modo e modo di vedere. C’è chi vede e prende nota, descrive, e c’è chi vede e scopre il cuore dei gesti che avvengono, il perché, questa è la differenza. I gesti di quella donna a tutti i benpensanti che erano nella casa di Simone il fariseo apparivano assolutamente inopportuni, anzi, francamente scandalosi anche perché fatti così, abusivamente, era entrata senza essere invitata nella casa e poi quella prossimità cercata con Gesù, con la persona di Gesù, bagnando di lacrime i piedi e asciugarli poi con i capelli, sono gesti che dicono una intensità di affetto e di vicinanza e “questa era una peccatrice, lo sapevano tutti”, pensa tra sé e sé Simone. Solo che Gesù ha visto dentro, non ha visto solo i gesti fuori, ha visto il cuore. Simone era fiero di aver invitato Gesù e che Gesù avesse accolto l’invito a venire in casa, a pranzo, ed era probabilmente un fariseo osservante, scrupoloso, conosce i dettagli della legge tant’é che non riesce assolutamente a sopportare che Gesù dia un credito così ad una donna che tutti conoscevano dalla vita sbagliata. Ma non legge dentro, neanche dentro di sé. Non riesce a leggere sé, sta ai codici della legge che conosce, e quindi non ce la fa a riconoscere la diversità profonda di Gesù. Quella donna invece aveva il peso di una vita sbagliata, se lo portava, quasi schiacciandola, ma aveva anche una voglia enorme di rinascere e allora, e allora bisognava esprimerlo e i linguaggi di una persona povera, che sa di essere con la vita sbagliata, i linguaggi sono quelli dei gesti, sono quelli dell’affetto, sono quelli dell’amore e Gesù ha visto questo, ampiamente. La parola bellissima che dice “lei ha molto amato, ha molto amato”, l’orizzonte con cui Gesù scruta e valuta è questo, è qui che tocchiamo con mano la buona notizia del Vangelo, che è la parola di grazia che il Signore ci fa, perché ognuno di noi dopo impari e scelga di amare il Signore e di amare molto il Signore, come “ha molto amato” questa dona peccatrice. E allora questa pagina guadagna un’intensità e una bellezza ancora maggiore di quanto percepisci ascoltandola, è davvero una pagina che dopo ti impegna la preghiera, che ti fa sgorgare dentro un senso profondo di gratitudine, quando evocavo all’inizio il titolo che è stato dato a questa domenica, “La domenica della divina clemenza” il titolo, bello, però è astratto, ma adesso la vediamo esercitata la divina clemenza e questo è infinitamente più bello, è commovente. La divina clemenza che si esprime in questi gesti ospitali che Gesù rivolge nei confronti di una donna dalla vita sbagliata. “Hai molto amato, và, la tua fede ti ha salvato, sei rinata”. E quando un’esperienza così entra nel cuore può cambiare davvero molto nella vita, del resto Paolo è il testimone più convincente di come la vita possa cambiare quando una condizione così entra nel cuore. Rileggo soltanto una frase del testo ai Galati (2, 19-3,7) che abbiamo ascoltato poco fa: “Sono stato crocifisso con Cristo e non vivo più io, ma Cristo vive in me” e aggiunge “e questa vita che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha consegnato sé stesso per me”. “ Mi ha amato”, questa è la mia nobiltà, questa è la mia grandezza e allora la vocazione della vita è evidente che diventa quella del restituire un amore, restituire, perché il suo è stato, ed è, sovrabbondante, immeritato, glielo restituiamo l’amore. Eppure, ed è l’ultimo accenno che faccio riprendendo il testo di Osea (6, 1-6), probabilmente è una pagina che guidava quella che noi oggi chiameremmo una liturgia penitenziale; da una parte dice la coscienza che il popolo ha della propria vita fatta di lontananza e di errori, ma “Lui ci farà rialzare”, “la sua venuta è sicura come aurora”, c’è dentro una speranza profonda perché sta toccando con mano, questo popolo in cammino, l’amore di Dio; e la risposta di Dio nella seconda parte del testo è bellissima: “Io vedo che voi promettete ma poi la vostra promessa dura il soffio di un mattino, ma io non abbandono, però, voglio l’amore e non i sacrifici”. “Voglio l’amore”: eccola qua la parola chiave che poi riecheggia nel Vangelo di Luca, “Voglio l’amore”. Questa è la parola forte il Signore stamattina ha preparato per noi, per questa eucaristia domenicale. “Voglio l’amore”, “ha molto amato questa donna”, l’ amore genuino al Signore, umile, fatto nella coscienza che siamo poveri e spesso diventiamo lontani da Lui, che non facciamo, non riusciamo a mantenere promesse espresse, la vita è spesso intrisa di fragilità, di sbagli, ma questo mai porterà via la possibilità gioiosa di amare. “Tu ci stai a cuore, Signore, Tu sei grande con me, Tu sei il Signore!”. Ecco, questa è la preghiera di oggi.

don Franco Brovelli, omelia al Carmelo di Concenedo, 15 feb ’09, penultima domenica dopo l’Epifania

venerdì 13 febbraio 2009

Una singolare immagine del figliol prodigo



Un'altra opera d'arte che ci aiuta a riflettere. Con un deciso balzo all'indietro rispetto alla modernità di Ensor, questa volta andiamo in Germania, a vedere un'opera di Albrecht Durer (1471 - 1528)

Artista tedesco di grandissima qualità, vissuto a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento, Durer ha segnato la storia dell'arte con le sue opere, che mettono in comunicazione le esperienze figurative nordiche e quelle italiane. Tuttavia, ciò che di quest'opera è notevole non è solo lo stile. Quello aiuta, certo: si tratta di un'immagine gradevole a vedersi, equilibrata nella composizione, e non si può non rimanere affascinati dalla perizia tecnica dell'artista (per inciso, questa dovrebbe essere la sua prima lastra a bulino a noi nota): tutto ciò che vediamo è realizzato incidendo una lastra di rame attraverso uno strumento tagliente, il bulino, appunto, e poi procedendo all'inchiostratura e alla stampa della lastra.
Ma ciò che la rende, a mio avviso, davvero significativa, è la scelta del soggetto. Durer sceglie di raffigurare la parabola del figliol prodigo, narrata dal vangelo di Luca al capitolo 15. Questo racconto è largamente rappresentato nella storia dell'arte, ma solitamente ciò su cui si concentrano gli artisti - da Rembrandt a Martini e De Chirico - è il momento conclusivo, con l'abbraccio del padre che riaccoglie in casa il figlio perduto. Durer, invece, ci mostra un altro momento. Per rievocarlo ci appoggiamo direttamente al testo evangelico:

Allora si mise con uno degli abitanti di quel paese, il quale lo mandò nei suoi campi a pascolare i maiali. Ed egli avrebbe voluto sfamarsi con i baccelli che i maiali mangiavano, ma nessuno gliene dava. Allora, rientrato in sé, disse: "Quanti servi di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Io mi alzerò e andrò da mio padre, e gli dirò: padre, ho peccato contro il cielo e contro di te: non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi servi".

L'opera, dunque, ci mostra il momento del pentimento, della presa di coscienza; e, secondo me, è questo il momento centrale del racconto. Se avessimo un cuore pronto a riconoscere il vero volto di Dio, sapremmo infatti che lui è già alla finestra, ci attende...sempre, aspetta il nostro passo. Tutto ciò che noi dobbiamo fare è accorgerci di questo, mutare il nostro pensiero, in una parola convertirci. Mi sembra dunque una bellissima immagine che, in modo indiretto, ci parla di perdono e di come, forse, dobbiamo mutare le nostre idee "mercantili" su questo argomento.

L’immondo espulso dall’accampamento è… Gesù!

Il lebbroso andrà gridando: Impuro! Impuro


Le categorie puro/impuro (mondo/immondo, sacro/profano…) sono piuttosto estranee alla mentalità moderna, ma determinanti nella mentalità veterotestamentaria, come in ogni antica religione: per accedere a ciò che è santo o comunque relativo al divino, occorre essere puri. Lo stato di purità rende possibile la comunicazione col mondo della santità divina, quello di impurità la preclude. Detto questo diventa però difficile la distinzione dei piani morale e cultuale, religioso e igienico, mistico e politico. Qui facilmente si equivoca: la distinzione puro/impuro nella Bibbia non si riferisce subito alla situazione morale, ossia non equivale a buono/cattivo: si radica molto più sul piano fisico e poi cultuale fino a sconfinare, per noi moderni almeno, nel magico. Trovare motivazioni razionali a queste dinamiche non è sempre facile. In questo processo convergono vari fattori dipendenti dalle conoscenze naturalistiche e mediche, da tabù ancestrali, da motivazioni sociologiche, dall'incubo della morte e dei suoi prodromi. Sinteticamente questo si può dire che la purità è legata soprattutto all'integrità del vivente. Il contatto con quanto sta nell'ambito della morte, è "mortifero", E tutto ciò che è malato, mutilato, corrotto, alterato, rende impuro. Ciò è ben evidente nel caso della lebbra, che secondo le antiche tradizioni raccolte nel Pentateuco provocava la più grave forma di esclusione dalla società e di abbandono totale.


Un evento inaudito: un lebbroso si avvicina a Gesù! Ha sentito parlare di lui, visto che in tutta la Galilea se ne parlava, come si dice poco prima… Ma è un escluso, un impuro! Deve essere allontanato dalla convivenza umana, a colpi di pietra. Chi gli si avvicina diventava impuro anche lui. Questo lebbroso trasgredisce la legge di Dio, pur di parlare a Gesù. Chissà come ha intuito che Gesù era connivente con lui! Infatti Gesù l'ha già misteriosamente guarito ‑ "dentro" ‑ dal male più subdolo e devastante che lo opprime, che è l'inconsapevole introiezione della segregazione, come una maledizione accettata e meritata, in qualche modo, fino a convincersi che è giusta, e farsene colpa. Per questo la legge voleva che lui stesso gridasse di sé : Immondo! Immondo!... a convincere se stesso, ancor prima che per allontanare gli altri. Questo avvelenamento interiore che fa perdere a uno anche il minimo di stima di sé, provoca la disintegrazione della persona, perché ne taglia in radice la speranza, giustificando per di più, con questa auto-maledizione, la discriminazione che lo distrugge umanamente. Come lo schiavo, che si convince della "naturalità" della sua schiavitù… fino a spegnere perfino il desiderio di libertà!


Il passaggio dalla legge alla grazia!


Gesù sovverte questa oppressione sociale che da prevenzione sanitaria è divenuta una lenta condanna a morte fisica, affettiva e morale. Non fa un discorso teorico. Apre un orizzonte nuovo. Prima suscita misteriosamente un barlume di speranza, il desiderio di salvezza. Poi accetta di incontrare il segregato, di rispondergli, e soprattutto di toccarlo… Con conseguenze imprevedibili e sconvolgenti in un contesto culturale tragicamente impotente di fronte alla "necessità" che il malato contagioso sia espulso ed eliminato dall'accampamento. Inizia un processo delicato e misterioso, "gratuito" ed esplosivo, che qualifica la differenza di "regime" tra primo e nuovo Testamento. Un processo che innesca una dinamica inarrestabile nelle strutture mentali personali e comunitarie, come una nuova opportunità antropologica, il risveglio dell'impossibile sogno di reintegrazione, un sogno divenuto adesso realizzabile, possibile da quando Dio in carne umana sente smuoversi le viscere materne davanti al nostro male congenito, avvolgendolo di un immenso amore sanante e liberante, perché è Dio ‑ e non uomo, diceva il profeta antico (cfr. Os 11,9). Ma toccando adesso, con una carezza della sua mano, la pelle putrescente del corpo malato, perché è un Uomo, ove si è incarnata la tenerezza di Dio! La compassione sembra divenire il supremo valore etico, al di là di ogni religione e cultura: "la cosa che ha più senso nell'ordine del mondo" (E. Lévinas).


Nel lungo cammino biblico, questo è un momento luminoso del "misterioso passaggio" dalla struttura invincibilmente discriminatoria del sistema immunitario dell'accampamento … alla compassione profonda e coinvolgente con chi patisce l'emarginazione. Un passaggio dalla drammatica necessità di eliminare i propri figli malati (dove il criterio guida assoluto è la difesa del gruppo, legalizzata e sacralizzata), al coraggio dell'amore che sfida ogni norma segregante… alla tenerezza che rischia il contagio pur di veder rinascere la speranza… allo spirito autocritico sulla propria cultura e sulle sue certezze morali o religiose… al coraggio, infine, capace di sfidare l'opinione comune… quando il potere, la gente, il buon senso cominciano a guardarti male. E solo la passione di togliere l'altro dal dolore e dalla schiavitù fisica e morale e soprattutto dalla sottostima di sé, può sostenerti.


Dio vuole tutti guariti in un'unica comunione …


Con quale solitudine interiore Gesù sradica da sé le sedimentazioni mentali irriformabili perché giudicate indispensabili alla sopravvivenza della nazione, dunque necessarie "leggi di natura", e immutabili proprio perché giudicate sacre, cioè di volere divino. Gesù rompe questa barriera, intrecciando un "illegale" dialogo con il malato segregato, un approccio diretto "nuovo ed eversivo" tra uomo e uomo, che d'ora in avanti è seminato nel cuore del discepolo, come fermento messianico di nuove relazioni liberanti, dialogo tra desiderio e grazia, tra malattia mortale e rinascita alla vita, tra segregazione distruttiva e gioia dell'annuncio evangelico. Un dialogo di "scambio vitale": se vuoi, puoi mondarmi… ‑ lo voglio, sii mondato!… Con tutta discrezione, nonostante il desiderio straripante, il lebbroso dice: se vuoi... Il futuro suo (e del mondo) è appeso ad un «se vuoi», ad un misterioso "se"… che è la fede in Lui: Dio stesso accessibile quaggiù di fronte a te! È la grazia! Tanto "necessaria" per liberarci dalla malattia mortale quanto "gratuita" per responsabilizzare il nostro amore e non ridurci di nuovo a schiavi – che Dio non vuole più. Vuole solo amici! Il lebbroso si appella al desiderio di Dio, sotto e contro le sedimentazioni e le dure scorze tramandate dalle leggi e tradizioni religiose: tu (Messia, mandato da Dio?!) vuoi abbandonarmi, come dicono i sacerdoti e gli scribi ‑ o vuoi guarirmi? Gesù rivela il cuore di Dio di fronte al male: lo voglio, guarisci! L'esito – la guarigione totale! ‑ è tanto immediato e sconvolgente che Gesù stesso cerca di correre ai ripari, "ammonendolo severamente", per contenere la divulgazione di un fatto così delicato e difficilmente spiegabile nella sua complessità. Ma inutilmente! Il lebbroso si sente liberato nell'anima, non solo nella pelle. È troppo irreprimibile la gioia di esser tornato a vivere… troppo esaltante la voglia di condividere la gratitudine, irrefrenabile la fierezza di far sapere a tutti cosa gli è successo, quale miracolo dunque è possibile per tutti i disastrati della vita…


Tre condizioni sembrano necessarie al discepolo di Gesù, per poter evangelizzare, secondo questo racconto:


La "commozione" (delle viscere materne), che libera il cuore dalla sterile preoccupazione di sé… a imitazione di Gesù il quale, camminando in mezzo alla gente, ha accolto e fatto suo il dolore dei volti concreti che incontrava, con un coinvolgimento così intenso, che guarisce i malati e libera gli oppressi … Questo atteggiamento del cuore di Gesù è la radice stessa della sua missione nel mondo: "…sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore…. e si mise a insegnar loro molte cose.. (6,34)


Lo spirito critico che nasce da questo coinvolgimento nelle situazioni concrete di sofferenza e di oppressione, cercandone e denunciandone, sulla linea degli antichi profeti, le cause e le connivenze… con totale libertà e autonomia dalle strutture culturali e normative, rese immutabili dall'interesse o dall'inerzia intellettuale e spirituale delle classi dirigenti:"annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato Voi" (7,13).


Lo scambio dell'emarginazione: chi aiuta l'oppresso a liberarsi si scontra presto con un'opposizione, che in qualche modo si vendica ed emargina chi combatte l'emarginazione, se presto non viene a patti… e lascia i poveri al loro destino, per reintegrarsi nell'istituzione! Gesù sa bene come si concluderà la sua missione di liberazione e proibisce al lebbroso di parlare della sua guarigione. Ma finisce che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città. Aveva osato toccare un lebbroso… ora lui stesso è un impuro, e deve stare lontano da tutti. Questo è il "prezzo" che egli deve pagare per reinserire l'ex-lebbroso "nell'accampamento".


Gesù dunque non è un agitatore sociale che punta a sovvertire l'assetto del potere, per sostituirsi ad esso, ma non è neppure un predicatore di conversioni "spirituali": il suo è un inserimento di contrasto nella dinamica sociale di emarginazione che, con una sorprendente dottrina nuova e "potenza" di guarigione e liberazione, reintegra l'umanità. Ma suscita un'opposizione di diversi interessi che si coalizzano: "…tennero consiglio contro di lui per farlo morire" (3,6). Per loro – a ragione ‑ la sua non è una sostituzione sacrificale, ma sovversione politica, della quale paga i costi in prima persona. Non è per placare l'ira del Dio offeso dal peccato dell'uomo, che Gesù viene stritolato dallo stesso criterio d'emarginazione politica che vuole combattere, ma per dimostrare e realizzare l'amore del Padre sulla terra: "È bene che uno muoia per il popolo (Gv 11,50), sentenzia Caifa. Ma questo meccanismo perverso, che prima abbandona il lebbroso alla sua deriva di consunzione, poi si ritorce contro Gesù stesso, diviene il luogo d'incontro dell'umanità: Usciamo dunque verso di lui fuori dell'accampamento, portando il suo disonore… (Eb 13,13). Nessuna lebbra umana - grazie a Gesù – può essere più luogo di separazione o vergogna, ma diventa spazio di incontro e umanizzazione. Così proprio il nostro male diventa ponte di grazia sul quale Lui ci incontra e ci salva.

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...

I più letti in assoluto

Relax con Bubble Shooter

Altri? qui

Countries

Flag Counter