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mercoledì 30 settembre 2009

Il Circo Minimo

Per la verità quando l'ho letta non ci ho creduto. Mi son detto "è una bufala!"... Possibile che un Onorevole si esponga a tanto? No! sicuramente è un falso! Poi però ho letto la notizia e allora mi son detto: Tanta sicumera può voler dire soltanto una cosa: che ormai, se uno così apertamente arriva a tanto, vuol dire che "il regime" oramai "gira a pieno ritmo"... e c'è ancora qualcuno che attende i carri armati per le strade per poter parlare di "fine della democrazia"! Eppure stento ancora a crederci: è dura da accettare questa realtà!
Leggete qua:

Ecco, di seguito la mail inviata da Marcello Mancini e la risposta del consigliere Patrizio Bianconi.
«Caro Patrizio, scusa se ti disturbo, ma in via Tacito l´Ama ha piazzato dei cassonetti in modo assolutamente sconcio, senza nessuna logica, seguendo probabilmente delle pressioni di qualche raccomandato. Mi fai sapere se esiste una normativa comunale in merito ed eventualmente come agire per far ripristinare un regolare ordine?» Marcello Mancini

«Egr. Dott. Mancini, nella sua e-mail Lei mi segnala una problematica personale che esula dalle mie competenze. Sarebbe svilente se un On. si dovesse occupare di cassonetti - o monnezza, come dicono a Roma - tanto più se gli stessi si trovano dinanzi ad un´attività imprenditoriale di un privato. Con profondo rammarico noto (...) che lei non comprende il senso, né la ratio della Mia attività politica! Cercherò di essere chiaro.Lei, alle elezioni che mi hanno visto trionfatore non mi ha votato - anzi più volte nel corso degli anni ha manifestato antipatia nei confronti di Berlusconi (...) E allora nasce spontanea una domanda: perché si rivolge alla mia persona? Io per quale motivo dovrei adoperarmi per lei? Forse mi reputa un idiota che si fa sfruttare da chiunque? Oppure, cosa ancora più offensiva, il suo servetto? Io lavoro solamente per chi mi vota in quanto faccio politica, non il missionario (...) Sarebbe svilente e umiliante per la mia persona, la mia competenza e la mia professionalità consentire a chiunque di chiedermi favori che, come nel caso di specie, esulano dalle mie competenze.

Pertanto: 1) O si impegna formalmente - stipulando un patto di sangue con il sottoscritto - a votare nel 2013 il sottoscritto on. Patrizio Bianconi al Comune di Roma ed il dir. Andrea Zaerisi al municipio XIX; 2) O, se lei non è intenzionato, non si rivolga alla mia persona.
Desidero infine segnalarle che per avvalersi della mia professionalità deve preventivamente fornirmi: nome, cognome, indirizzo di residenza affinché io possa schedarla nella mia rubrica individuando la sezione elettorale dove lei vota al fine di controllare se esprimerà o meno la preferenza nei miei riguardi. E poi: il suo telefono di casa, il cellulare e l´e-mail al fine di poterla rintracciare quando ci servirà il voto suo e della sua famiglia. Se non se la sente di instaurare con il sottoscritto tale tipologia di patto la invito a rivolgersi alle persone che lei vota (...) Io non mi faccio prendere per il culo da nessuno!». On. Patrizio Bianconi

giovedì 24 settembre 2009

Quando ogni uomo “è dei nostri!”, è arrivato il Regno!

dal Padre Nostro, al Nostro UomoGesù conosceva bene questo antico tragico dramma del sistema immunitario socio-religioso, che cova sotto la pelle di ogni organismo vivo, e poi scatta al momento del pericolo… pronto a tutto – anche all’omicidio, simbolico o reale!: “è meglio che uno uomo solo muoia per il popolo!”, diceva un esperto del potere ecclesisastico come Caifa (Gv 18,22). Gesù ne era stato scottato amaramente dai suoi stessi parenti – la sua tribù di sangue. Appena, infatti, s’era permesso di criticare il suo gruppo sociale, erano venuti a prenderlo, perché dicevano: “è diventato matto!”(Mc 3,21). Ma in seguito era arrivato il peggio, quando i compaesani “pieni di sdegno, si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio” (Lc 4, 29). Eppure proprio là, a Nazareth, era cresciuto, bimbo e ragazzo, aveva lavorato, lo conoscevano tutti…
Adesso lo stesso perverso meccanismo spuntava nel suo gruppo, tra i suoi discepoli, che stava educando con tutte le sue cure. Un uomo si era messo a scacciare i demoni nel nome di Gesù… e ci riusciva, anche se era un “discepolo” anarchico, ma convinto che la forza, che vinceva il male, fosse non sua, ma “del nome di Gesù”! Ma non era del gruppo (chiesa) dei discepoli. Allora Giovanni, il figlio del tuono, dal cuore ancora angusto, a nome di tutti, vuole bloccarlo. Non ha diritto di far il bene ‘senza autorizzazione’ - neanche se la gente guariva davvero. Ovviamente il problema era scoppiato tra i cristiani già nella chiesa dei primi anni. Per questo i discepoli tornano all’insegnamento del Signore… cercando la soluzione del dissidio tra “istituzione e profezia”, risalendo alle tante esperienze del popolo d’Israele, fino allo stesso fondatore dell’istituzione: Mosè…
Sono così emerse - talora contrapposte - nella comunità cristiana le due reazioni o propensioni di sempre:
  1. la centralità della chiesa - attraverso la quale (normalmente se non esclusivamente) Dio salva il mondo. La chiesa è il luogo di “salvezza”, ne possiede “la verità” e i mezzi (nonostante le debolezze), la sua missione è diffonderla e gestirla con un senso di appartenenza fortissimo, e una certa aggressività settaria verso l’esterno ostile…o l’interno poco ossequiente (fino alle scomuniche, condanne, torture, conversioni forzate, crociate…)

  2. la centralità del Regno, che è la pluriforme opera stessa di Dio nel mondo: Gesù ha predicato questo evento (l’amore di Dio nella storia), sempre presente nel cosmo, ma orami giunto a maturazione con la sua presenza e la sua opera, continuata dai suoi discepoli nella comunità cristiana, la quale è tuttora “il segno del Regno” elevato tra le nazioni, della salvezza già in corso! Anzi, il mandato missionario di Gesù si fa più consapevole di sé proprio nell’incontro con il mondo (cfr. le scoperte di Pietro e Paolo…nei primi passi dell’annuncio, raccontati negli Atti). Prevale lo spirito di solidarietà, umiltà, tolleranza. La chiesa è il dono insostituibile, che lo Spirito ci rinnova oggi, nell’ascolto della Parola e nello spezzare il pane… per donare noi stessi ai fratelli, come Gesù ci ha insegnato.
Uno sguardo ai vangeli sinottici aiuta a vedere le differenze di spinta propulsiva, non la contrapposizione, tra “Istituzione e Profezia”, che fanno nascere in ogni chiesa, il pericolo denunciato da Mosè fino a Gesù: la gelosia, l’esclusione degli estranei, la competizione per la gestione monopolistica della salvezza e quindi, talora, la manipolazione inconscia dei criteri di appartenenza.
Ecco uno sguardo d’insieme di alcune caratteristiche:
CRITERI DI APPARTENENZAREGNO DI DIOCHIESA storica
Soggetto storico “centrale”Il popolo: poveri, piccoli, malati, peccatori, le folle smarrite senza pastoreclero gerarchico, ordinamento in classi a piramide…
segni rivelatoriI segni profetici: andate e vedete: ciechi, storpi, zoppi, indemoniati… guaritiSacramenti, catechismo, culto, precetti… e istituzioni di carità
Ingresso … conversioneSe vuoi, vai … vendi tutto, poi vieni, e seguimiIncorporazione sacramentale e giuridica, sottomissione intell. morale
Giudizi di valoreBeatitudini… e rovesciamento dei comportamenti (… ma io vi dico!)Morale di fatto medio borghese: proprietà, famiglia, educazione
Gerarchie di importanza - precedenzaProstitute peccatori bambini servi… malatiPapa, vescovi, Preti (maschi), religiosi, …santi
EspertiPiccoli, ignoranti… ascoltatori e facitori della Parola – donne…Teologi, canonisti, esegeti…

Da questa tensione irrisolvibile storicamente nasce la tentazione... di minacciare e ingabbiare i “diversi” da noi: “è dei nostri! – non è (più) dei nostri!”. Quante volte… abbiamo visto o partecipato a queste reazioni inimicali e ostili, contro chiunque non si sottomette agli schemi di consenso e alle regole di comportamento, ma segue strade e progetti in proprio: …(salvo dichiararlo profeta dopo morto).
Quando ci si mette con qualcuno (comunità, matrimonio, amicizia…) in verità ci si mette (o ci si trova) a vivere “insieme” con qualcuno, ma non si sa bene “con chi”. Ognuno è ancora un mistero che viene alla luce pian piano – se viene alla luce! In qualche modo ci si “promette al buio”, compagnia, sostegno amicizia, solidarietà: ma ci si svela reciprocamente con grande fatica e tante zone di mistero.
O si accetta, dunque, l’avventura di stare con “un mistero” – disposti ad educarci progressivamente a fare spazio a quanto l’altro riesce a tirar fuori di sé, rischiando a sua volta… O scatta la reazione immunitaria, quando sentiamo la nostra identità in pericolo : “non sei più mio!” – non sei più dei nostri! Perché? Ovviamente il nostro legame di connivenza e di consenso era uno schema “convenzionale”, un contratto tacito o manifesto a difesa della propria sopravvivenza… Non era un dono di sé all’altro, per farlo crescere con il proprio bene, come dice l’esempio e il comandamento di Gesù!. Allora appena i patti sono incrinati e l’altro diventa un pericolo, o appena un altro esterno vuol entrare nel circuito, senza rispettare le regole e le gerarchie, scatta l’allarme… : “Non sei dei nostri!L’esperienza e l’insegnamento di Gesù sono invece la dedizione assoluta “previa” della propria vita per l’altro!
Pietro e tutti i suoi compagni faranno una drammatica e amara esperienza di tradimento dell’appartenenza – proprio loro, che sono gelosi di un’appartenenza non autorizzata. Basterà che una portinaia gli dica: “tu sei forse dei suoi!?” per spingere Pietro a rinnegare sfacciatamente l’appartenenza al gruppo di Gesù: non lo conosco! per tre volte. Ed era già designato fondamento e riferimento centrale della chiesa! L’appartenenza a qualcuno è, infatti un sentimento forte ed estremamente ambiguo e pericoloso: è il tessuto del grembo nel quale siamo cresciuti, personalmente e socialmente… e rimane l’alveo di protezione che ci sostiene e difende nel cammino verso la prova della solitudine definitiva, che attende ogni uomo, e verso cui camminiamo (come Gesù!). Ma è anche il rifugio del rifiuto di crescere, della voglia di potere collettivo, delle imposizioni mute e violente, delle sopraffazioni nascoste, dei tradimenti… per il cosiddetto “bene comune” – che si dimentica del bene della persona e tende a sacrificarla.
Allora “l’appartenenza”, secondo Gesù, ha questi due premure o sollecitudini radicali:
  1. un’appartenenza che salva, accoglie e custodisce: ecco il motivo di tanta tenerezza: Chiunque vi darà da bere un bicchiere d'acqua nel mio nome – perché siete di Cristo… Ecco il compiacimento, non la gelosia, per il bene che altri fanno: Non glielo proibite, perché non c'è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. Chi non è contro di noi è per noi.

  2. un’appartenenza gelosa e rigorosa: Durissima la condanna di chi, invece di accudire, “scandalizza uno di questi piccoli che credono”…. Ma altrettanto chiaro e inaspettato è il comando di reagire violentemente a ciò che “in me” esclude l’altro. E ne ferisce l’appartenenza. Se la tua mano ti scandalizza (qualche tua attività va in crisi a causa dell’altro) buttala. Se il tuo piede (la tua libertà di movimento…) ti è di inciampo verso tuo fratello, tagliala. Se il tuo occhio (la tua visione delle cose …) ti oppone a tuo fratello e lo esclude, rinuncia…
Perché? È sempre meglio buttare in discarica queste tue possibilità umane … che buttarci il fratello – e così finirci poi tutto intero anche tu, per aver perso la più grande appartenenza... che è appunto l’amore!

venerdì 18 settembre 2009

La coscienza credente dell'uomo

Le letture che la Chiesa ci propone per questa venticinquesima domenica del tempo ordinario, sono davvero lucide nel descrivere il “funzionamento” dell’animo umano e – sebbene ognuna proceda col suo linguaggio e il suo contesto – tutte e tre paiono andare nella direzione del dis-velamento della dis-umanità in cui esso cade quando segue la logica del “mettere alla prova la Vita”, piuttosto che quella dell’affidarvisi.
In questo senso, estremamente chiaro è il brano tratto dal libro della Sapienza, soprattutto se si fa lo sforzo di leggere anche quanto lo precede, e cioè Sap 1,1-2,16: lì infatti il porsi nella vita nell’orizzonte del metterla alla prova è addirittura esplicitato («Amate la giustizia, voi giudici della terra, pensate al Signore con bontà d’animo e cercatelo con cuore semplice. Egli infatti si fa trovare da quelli che non lo mettono alla prova, e si manifesta a quelli che non diffidano da lui», Sap 1,1-2) e stigmatizzato come empio.
Il perché di questo giudizio lo si coglie proprio nel parallelismo di Sap 1,2, quando il “mettere alla prova” è correlato al “diffidare”: e infatti la matrice mortifera (nel senso letterale di “portatrice di morte”) del mettere alla prova, consiste precisamente nel fatto che essa va a minare la struttura fiduciale dell’uomo; chi infatti mette alla prova, è precisamente colui che non si fida.
Ma di chi non ci si fida? E perché non ci si fida?

Stando al testo della Sapienza, è Dio colui che non deve essere messo alla prova, colui di cui ci si deve fidare; ma provando ad allargare per un attimo l’orizzonte – e constatando che l’uomo è strutturalmente fondato sul fidarsi-non fidarsi, prima ancora che sul sapere-non sapere, o sul potere-non potere – si potrebbe dire che l’“oggetto” della fiducia è la Vita stessa, è la qualità della nostra struttura originaria, riguarda il nostro modo di essere al mondo.
Per noi uomini del XX-XXI secolo è forse difficile pensare che la struttura originaria del nostro essere sia una struttura fiduciale, credente, prima che sapiente o potente, eppure se provassimo a soffermarci anche solo per un attimo sulle forme pratiche dell’agire – se cioè per un attimo ci fermassimo a pensare a ciò che abitualmente mettiamo in campo nel nostro vivere più usuale – ci accorgeremmo che la prospettiva non è così strampalata.
Tutto ciò che facciamo infatti – anche il sapere e il potere – in realtà implicano sempre una previa determinazione della libertà: il nostro vivere è sempre un acconsentire o meno alla realtà che ci viene incontro. In questo im-battersi infatti emerge la caratura promettente di ciò che ci si fa prossimo e per il quale decidiamo di sbilanciarci: appunto di conoscerlo (sapere riflesso) o di viverlo (poter fare); e – come si diceva – in questo sbilanciamento c’è sempre un decidere di sé, un moto della libertà, un consenso da dare, una fiducia da giocare, un dar credito, un credere.
Ecco perché il problema del “mettere alla prova” non riguarda solo e immediatamente il Dio di una particolare confessione religiosa, bensì ogni uomo che viene al mondo, che si inserisce (o meglio: che viene inserito) nella Vita. Il “mettere alla prova”, il “non fidarsi” della caratura promettente in essa inscritta, diventa infatti – non solo religiosamente, ma anche – esistenzialmente mortifera.
Non si può vivere non dando credito. Questo rivela il nostro agire quotidiano: da quando siamo “cuccioli d’uomo” e siamo completamente affidati alle mani di altri, pena la morte, a quando ci innamoriamo e – senza magari conoscere l’amato – ci giochiamo con lui perché abbiamo dato credito (fiducia) a ciò che il quel rapporto ci sembrava promettente, fino alla morte, che – come scrive C.Molari – ci chiederà di fidarci talmente della vita da saperla perdere per ritrovarla.
Ma al di là di questi casi emblematici, tutta la vita “funziona” così, noi “funzioniamo” così: un continuo decidere di noi stessi (un continuo decidere chi essere) fondato nella fede data a ciò che si è ritenuto affidabile.
Per questo risultano sempre un po’ ingenue le obiezioni mosse alla fede religiosamente connotata per il suo carattere di credito – e dunque di non certezza – che implica: infatti si può parlare di fede antropologica come struttura fondante non solo la religiosità dell’uomo, ma più radicalmente l’umanità dell’uomo: l’uomo (e non solo l’uomo religioso) è coscienza credente!
Ecco perché smentire la fede nella Vita, il credito da darle, l’affidamento attraverso cui consegnarsi ad essa, non è solo un problema morale: è giusto / non è giusto, è bene / non è bene fidarsi ed af-fiadarsi alla Vita, ma molto più radicalmente: o della Vita ci si fida (o – che è lo stesso – alla Vita ci si affida) o semplicemente non si è, non si vive, si muore.
Banalmente se una persona non si fida dell’autista che guida il pullman che lo porta al lavoro, del vigile che governa il traffico per evitare incidenti, del postino che recapiterà la nostra posta, del benzinaio che ci mette il carburante, ecc… ecc… ecc… semplicemente rinuncia a vivere. Ogni nostro piccolo gesto, ogni nostra scelta, ogni nostro decidere di noi stessi, dipende da una fiducia da dare ad altri.
Ecco perché non c’è niente di più morti-ficante del tradimento: del tradimento di chi ci ama, del tradimento di chi ha costruito le case d’Abruzzo, del tradimento di un genitore che mette al mondo e poi abbandona… perché ciò che lì viene messo radicalmente in discussione non è tanto o solo l’affidabilità dei singoli traditori, quanto piuttosto l’affidabilità della Vita.
Da lì nasce la s-fiducia… da lì arriva il mettere alla prova… esso è sempre figlio della paura, della paura di essere feriti, traditi, mis-conosciuti; radicalmente il mettere alla prova è figlio della paura di morire, di rimetterci, di “rimanere – esistenzialmente – fregati”.
È sempre lo sfondo della prima lettura a mostrare con chiarezza questo legame della paura della morte con lo stravolgimento della nostra struttura “naturale” (che è l’affidarsi) e il suo tramutamento nel mettere alla prova. Il capitolo 2 del libro della Sapienza inizia infatti nel modo seguente: «Dicono [gli empi] fra loro sragionando: “La nostra vita è breve e triste; non c’è rimedio quando l’uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dal regno dei morti. Siamo nati per caso e dopo saremo come non fossimo stati: è un fumo il soffio delle nostre narici, il pensiero è una scintilla nel palpito del nostro cuore, spenta la quale, il corpo diventerà cenere e lo spirito svanirà come aria sottile. […] Venite dunque e gustiamo dei beni presenti. […] Lasciamo dappertutto i segni del nostro piacere, perché questo ci spetta, questa è la nostra parte. Spadroneggiamo sul giusto, che è povero, non risparmiamo le vedove, né abbiamo rispetto per la canizie di un vecchio attempato».
E qui si vede anche esplicitamente perché il mettere alla prova sia chiamato empio dai testi biblici e mortifero da noi: perché il modo di porsi nella vita tenendo sempre sotto verifica gli altri, la realtà, il Signore, piuttosto che affidarvicisi, blocca la possibilità dell’incontro vero, intimo, profondo. È come se ci si tenesse sempre sulla soglia o con l’uscita di sicurezza, mai pronti e mai disposti a darci completamente, a spenderci generosamente, ad affidarci totalmente.
Ma questa vita col freno a mano tirato per paura, è Vita? Corrisponde davvero a ciò che il sangue che ci scorre nelle vene continuamente invoca come compimento, come idealità, come passione?
Senza contare poi le conseguenze mortifere che questa logica ha anche ad extra. Lo anticipava già il testo della Sapienza («Spadroneggiamo sul giusto, che è povero, non risparmiamo le vedove, né abbiamo rispetto per la canizie di un vecchio attempato»), ma lo espone con altrettanta lucidità Giacomo: «dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni». La gelosia e lo spirito di contesa indicano infatti la necessità di volersi/doversi salvare la vita per chi non ha fiducia in essa. E il volersi/doversi salvare la vita, implica necessariamente l’entrare in conflitto con gli altri, che inevitabilmente ai nostri occhi diventano rivali, concorrenti, nemici.
«Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera»: è la pacificazione di chi ha la vita “al sicuro”, perché affidata alle mani altrui, alle mani di un Altro.
È la stessa tematica che attraversa anche il vangelo. Ai discepoli che all’annuncio della passione e morte di Gesù, reagiscono domandandosi chi tra di loro fosse più grande, Egli mostra precisamente questa dinamica: «Se uno vuole essere il primo», se uno cioè vive di quegli atteggiamenti di cui diceva Giacomo (gelosia, spirito di contesa), è perché sta assecondando il suo istinto di sopravvivenza, il suo bisogno di salvarsi la vita, di essere primo (sugli altri, ovviamente), sentendo inevitabilmente come un qualcosa di tolto a lui il bene che capita ad un altro, come amore tolto a lui quello dato ad un altro…
Ma questa logica arriva e finisce alla tomba: «l’uomo non può riscattare se stesso né pagare a Dio il proprio prezzo. Troppo caro sarebbe il riscatto di una vita: non sarà mai sufficiente per vivere senza fine e non vedere la fossa. Vedrai infatti morire i sapienti; periranno insieme lo stolto e l’insensato e lasceranno ad altri le loro ricchezze», dice il Salmo 49 (48).
Gesù invece propone la logica della vita consegnata («Se uno vuole essere il primo , sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti»), l’unica che rimane, perché messa nelle mani altrui.
Questa è la fede in Dio, questa è la fiducia nella Vita. Questa è tutta la proposta di Gesù: mettere la vita nelle mani di un Dio che è Padre e – proprio per questo – viverla senza l’ansia di salvarsela, senza il bisogno di fare degli altri dei nemici… ma appunto col solo unico scopo di Viverla, cioè di farne una dedizione d’amore per i fratelli.
Ma propriamente questo è il problema di tutta la vita, per ciascun uomo, sicuramente per ciascun cristiano: vivere di un affidamento. Ed è il problema di tutta la vita perché continuamente risorge in noi la paura, il dubbio, il volerci preservare uno spazio nostro (non dato), un’uscita di sicurezza… Ed è un risorgere molto subdolo, che si presenta sotto forme infingarde, che facciamo fatica a vedere, a lasciar parlare (per pudore o vergogna), ad affidare (anch’esse) al Signore.
E questo capita perché – che ci piaccia o no – “siamo stati costruiti così”, con l’inevitabile istinto di salvarci la pelle e sopravvivere. Se non avessimo questo non saremmo nemmeno cresciuti, non saremmo – appunto – sopravvissuti.
Il problema non è dunque tanto il chiederci perché Dio ci abbia costruiti così o se poteva costruirci meglio (se non avesse introdotto in noi e nel mondo che ci circonda l’istinto di sopravvivenza, saremmo morti appena nati, quando la fame non ci avrebbe costretto all’urlo sdentato dei neonati, ma ci avrebbe condotto inconsapevoli a morire di stenti), quanto piuttosto il riconoscere che in questa struttura progettata per sopravvivere (anch’essa struttura fiduciale, coscienza credente, solo che autoreferenziale), Egli ha inserito un principio di libertà inaudito: a noi e solo a noi in tutto il creato ha fatto l’affascinante e terribile proposta di passare dalla sopravvivenza alla Vita, dal mettere alla prova alla fede, dalla paura all’amore… solo fidandoci…

Il mistero della sofferenza e ... il bimbo in braccio a Gesù

I ragionamenti dei materialisti peggiori si introducono nella mia mente: Più tardi, grazie ai nuovi progressi raggiunti incessantemente, la scienza troverà una spiegazione naturale di tutto, e avremo la ragione definitiva di tutto ciò che esiste e che è ancora problema, perché ci sono ancora tante cose da scoprire... (VIII.97) . Ecco guarda là quel buco nero (sotto i castagni
vicino al cimitero) dove non si vede più niente; io col corpo e con lo spirito sto in un buco così. Oh! Sì, che oscurità! Eppure ci sto in pace (28.8.979).
Non credo alla vita eterna, mi sembra che dopo questa vita mortale non ci sia più niente. Non posso descriverle le tenebre nelle quali sono immersa (IV/97) Mi pare che le tenebre assumendo la voce dei peccatori mi dicano, facendosi beffe di me: "Tu sogni la luce...credi di uscire un giorno dalle brume che ti circondano. Vai avanti! vai avanti! Rallegrati della morte che ti darà non già ciò che tu speri, ma una notte più profonda, la notte del niente" (C 278)
S. TERESA di Lisieux, dottore della chiesa

...La rivoluzione culturale che la modernità ha indotto nella “cristianità”, ha fatto sì, che ciò che appariva detto “sragionando”... è entrato nel cuore del cristiano e la voce degli “empi” è entrata nella dinamica della fede. Le parole della Sapienza oggi ci trovano in qualche modo conniventi: Dicono fra loro gli empi, sragionando: «La nostra vita è breve e triste; non c’è rimedio quando l’uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dal regno dei morti. Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati: è un fumo il soffio delle nostre narici, il pensiero è una scintilla nel palpito del nostro cuore, spenta la quale, il corpo diventerà cenere e lo spirito svanirà come aria sottile (Sap 2,1ss)

... non abbiamo più bisogno di mettere una distanza di sicurezza (e di condanna!) tra noi e i lamenti di chi “sragiona” sulle questioni ultime di senso o non senso della vita, ma li assumiamo senza repulsione, perché sono “umani”. La loro cura radicale, come di una malattia genetica inguaribile, non sta nel censurarli. Sta nella possibilità di trasformare questa debolezza strutturale in risorsa, affrontandola, appunto alle radici... In epoche culturali nelle quali la fede personale in Dio e i contenuti della fede (cioè l’adesione esistenziale ad un Dio che ci viene incontro – e le parole e gli eventi entro i quali pensiamo di comprenderlo e recepirlo) formavano una sintesi omogenea, pressoché inscindibile, si è pensato che il disagio o le difficoltà del credere (sempre in aumento!) derivassero dal mettere in dubbio le categorie e i simboli che la contenevano e i valori morali che la custodivano e quindi su questi si concentrava l’attenzione apologetica in difesa delle verità della fede. Atteggiamento predominante anche oggi. Ma nel vangelo appare chiaro che la proposta di Gesù non trova ostacolo tanto nella pochezza umana, intellettuale e morale, ma piuttosto nella durezza di cuore del credente stesso, che ragiona ancora ‘secondo gli uomini’, come dice Gesù a Pietro... Non è la consapevolezza tragica della precarietà della vita umana, la ricerca spesso delusa di un senso della vita, la difficoltà a gestire le grandi scelte etiche, che sono di ostacolo al Signore, ma la repulsione verso il nucleo stesso di tutta l’avventura umana di Cristo: l’inscindibile legame tra la sofferenza e la salvezza, la morte e la risurrezione, la debolezza e la potenza, in lui come Messia – e quindi nell’uomo e nella sua storia.
Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: Il Figlio dell'uomo viene consegnato nelle mani degli uomini... La prima volta che ha parlato della sua passione (nel brano di domenica scorsa) Gesù ha manifestato “apertamente” la sua vera identità ( …e con franchezza diceva la Parola 8,31), e “Satana” stesso, secondo Gesù, esce allo scoperto nell’opposizione totale di Pietro, che manifesta appassionatamente la logica del mondo. Tu ragioni secondo gli uomini e non secondo Dio, gli ribadisce il Maestro, appena riconosciuto come il Cristo. Pur essendo intervenuta simbolicamente la trasfigurazione (“ascoltatelo!” 9,7), anche ora, come ad ogni annuncio della sofferenza del figlio dell’uomo, i discepoli sono spaventati e sopraffatti dalla paura. Non capiscono nulla sulla croce, perché non sono capaci di uscire dai propri schemi per accettare un Messia che invece di imporsi (avevano visto che ne aveva le forze) diventa servo dei fratelli, fino a perdere la vita per loro. Continuano a sognare un messia glorioso. L’ effetto, quindi, di questo secondo tentativo di rivelare la propria identità e destinazione è ancor più amaro: “…Essi non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.” (ridiventano sordomuti!)… e Gesù si ritrova solo nel cammino verso... casa, a precederli, perché i discepoli, rimasti indietro, “lungo la via”, stavano discutendo chi fosse il più grande! La reazione di Gesù dinanzi alla meschinità evidente dei discepoli, che si lasciano andare ad alterchi di competizione e gelosia, proprio dopo aver sentito della sua fine dolorosa, mette a nudo di fronte alla sua pedagogia fraterna la caparbia recidività del cuore umano, e la necessità di estirparne la radice profonda che lui chiama il "lievito dei Farisei e di Erode" (Mc 8,15), che rinasce ogni volta di nuovo! Ma Gesù non desiste, continuando, invece, a ripetere, nelle sue predizioni della passione, morte e resurrezione (tutte insieme inscindibili!) che questa è la sua messianicità. “Deve essere così”: il “Messia vero” è solo capace di questa salvezza – troppo incompiuta e troppo dolorosa, per la nostra fame di bene “facile e immediato”! Questa autoriduzione del Messia in tono minore, questa salvezza debole, ‘questa potenza che si manifesta nella debolezza’, contrasta troppo con la nostra brama insaziata di primato e di gloria, ed è causa continua di scandalo tra i cristiani e non cristiani, fuori e dentro ciascuno di noi… Questa messianicità storicamente inconcludente è la causa della nostra inconfessata delusione “evangelica” di cristiani, presi tanto spesso dalla malcelata voglia di menar le mani (pardon: adesso... menar la testa e le leve del potere!), tentati di rispondere con forza “efficace”… per ripagare con le stesse armi (con la stessa violenza) chi oscura la visibilità della nostra fede... e le sue traduzioni culturali, economiche, politiche. É questa nostra fede che di fatto ... non si fida di Gesù e del suo vangelo! Il nostro concetto di Dio, della sua onnipotenza e maestà, che dovrebbe appunto, come tale, imporre il suo primato assoluto su ogni altro potere... è incompatibile con la messianicità sofferente e oppressa di Gesù. Ma lui ribadisce che proprio perché uno è il più grande deve essere l’ultimo di tutti, il servo di tutti! Il suo vero potere – come dirà a Pilato è di un altro mondo – il mondo dell’amore.
Per la strada avevano discusso tra loro chi fosse più grande...
Il primato infatti, palese o inconfessato, è il vero obiettivo della vita umana, nelle forme più diverse e talora felpate! Gesù propone il rovesciamento di questa logica mondana nella quale i discepoli di Gesù (noi) siamo ancora immersi, come scrive Giacomo nella sua analisi drammatica della sua comunità cristiana: c'è gelosia e spirito di contesa, c'è disordine e ogni sorta di cattive azioni.... Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Si sta parlando proprio della nostra storia di chiesa (in casa!), appena ci siamo installati nella nostro contesto di fede e, superata la novità dell’incontro avvincente col Signore, emerge la nostra vera identità, rimasta intatta nel profondo, perché è la molla che spinge (e inquina) in realtà le nostre facoltà, desideri, sentimenti – guida ed orienta gli atti e le decisioni della vita e rimane sostanzialmente impermeabile e sorda di fronte alla Parola. E guai, quanto è anche muta, non fa più domande (non cerca e non prega più!). Proprio perché si è rassegnata alla propria pur meschina e bramosa im/potenza. È così ammutolisce la speranza di uscire dal proprio circuito sterile...Essere protagonisti (voler “imporre” l’io a un tu e al coro, per essere considerati e amati!) è un percorso inevitabile di autorivelazione e insieme di autocostruzione di sé, come bisogno di relazione. È il grande compito della nostra vita. Gesù sa bene che ognuno deve percorrere questo difficile cammino dell’autorealizzazione… Ma ad un certo punto il discepolo è messo di fronte alla sorte del Maestro. Se davvero vuol crescere, deve seguirlo: Se uno vuole essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servitore di tutti. Se le ripetute esperienze negative l’hanno omai disilluso sulle proprie forze di invertire la rotta del cuore, Gesù, con palese tenerezza, suggerisce un rimedio.
e preso un bambino
Gesù prende, lì attorno, un bambino nulla, davvero, nella società di allora, l’ultimo della scala sociale e lo pone nel bel mezzo del cerchio dei suoi discepoli sgomenti. Ecco il centro di gravità, l’assegnazione del primato di importanza nel suo gruppo. Ecco la nuova logica su cui è fondato il Regno. E, abbracciando il bambino: Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato! Al centro di tutta la Rivelazione c’è... una, anzi, tre identità concentriche, e sono il perno fuso attorno al quale ruota la storia della salvezza: il piccolo, il cristo, il padre – in coincidenza d’amore! Sono identificati in un paradosso di affermazione e di smentita, l’affermazione della fede e la sconvolta smentita dei sensi e della ragione. Come a dire: dunque, voi vedete qui solo un piccolo inabile a tutto: ma nel mio nome (nella mia logica) state accogliendo non lui solo, ma me stesso, il messia della salvezza immedesimato in ogni piccolo – e, in più, solo se mi accogliete io divento il Messia per voi, perchè guardate che non accogliete solo me , ma accogliete, unificato in me il Padre, che mi ha mandato, il quale solo in questo figlio immedesimato nel piccolo vede realizzato il suo amore per il mondo. È un osso duro per la teoria e per prassi ecclesiale, quest’annuncio. Non può essere ridotto ad una commovente esortazione morale al servizio dei poveri. Ma è teologale, cioè ... è Dio che è fatto così! Le tenebre dell’incredulità che ci prendono, noi discepoli, ieri e oggi, vengono dall’immensa fatica o repulsione ad accogliere non tanto la tenerezza di Gesù verso il piccolo, ma l’identificazione (di metodo!) del Messia con lui. Ma proprio per questo, quando Gesù sarà debole e sopraffatto dal potere, Pietro (con tutti noi) sarà cieco e sordo, lo tradirà e tradirà in Gesù ogni povero – e si denuda così la nostra fede monca, senza capacità di opere! L’amore vero, invece, direbbe Teresa (C 288) fa le opere anche in mancanza… di fede, proprio perché il cuore della fede è perdere la propria vita in quella dell’altro, affidati totalmente alle braccia di Dio.

mercoledì 16 settembre 2009

Un Dio da aiutare...

Roberto Saviano è diventato l’architrave della ribellione civile in Italia dopo l’uscita di Gomorra, libro che ha finito per odiare. L’incontro con lo scrittore dalla vita blindata si trasforma, inevitabilmente, in una riflessione sul ruolo della Chiesa in quelle terre del Sud, schiacciate tra l’arroganza dei forti e la codardia dei deboli; sul rapporto di Saviano con Dio e con la fede; sulla sua sfrenata ambizione, un peccato mortale che gli consente, però, di resistere. Riflessioni prive di embargo ai pensieri più scomodi.

Saviano, lei si è spesso rivolto alla sua terra, nella speranza di un gesto di ribellione. È cambiato qualcosa in questi anni? La scomparsa di Castel Volturno o della camorra dalle prime pagine dei giornali è figlia del successo della militarizzazione del territorio? O è il silenzio di sempre che accompagna le vite di scarto, che si possono dimenticare, dopo le emergenze contingenti?
«La militarizzazione del territorio è stata la risposta immediata dello Stato, forse inevitabile. Ha abbassato, in alcuni casi, la conflittualità tra clan; in altri momenti, ha aiutato qualche inchiesta. Ma siamo ancora lontani dallo sconfiggere la camorra. Purtroppo, la ciclicità mediatica impone sempre, dopo una fase di attenzione, un lunghissimo momento di disattenzione. Cosa che mi dispiace, perché queste storie hanno appassionato e appassionano i lettori. È evidente che non si può chiedere al giornale di dare una notizia solo per impegno morale o di orientare una linea editoriale solo in nome dei principi di giustizia. Ma queste notizie, in realtà, facevano vendere il giornale. Perché le persone vogliono sapere».

Anche di recente, lei ha difeso la memoria di don Peppe Diana, il parroco di Casal di Principe, ucciso per mano camorristica nel 1994. Al di là di alcune figure di martiri, qual è il ruolo della Chiesa locale nel combattere la camorra o la mafia?
«Non ci si può rapportare alla Chiesa come a un monolite. D’istinto, mi verrebbe da dire che se c’è stata resistenza nella mia terra e se io, nel corso degli anni, sono riuscito ad avere una qualche coscienza antimafia, lo devo ad alcune figure di Chiesa. Il vescovo emerito di Caserta, Raffaele Nogaro, è stato per decenni un riferimento in Campania, non solo nella lotta alla camorra, ma nel prendere le distanze dalla borghesia imprenditrice camorristica. A Napoli, poi, c’è il cardinale Sepe, figura di peso in un momento difficilissimo per la città, con la politica che ha perso autorevolezza, con la camorra che è tornata a sparare in modo indiscriminato, con gli arresti di importanti imprenditori. Devo dire che questa è la Chiesa in prima linea. Poi, purtroppo, c’è anche tutto il resto. La Chiesa, cioè, che preferisce girarsi dall’altra parte, che ogni volta che si parla di camorra pensa che sia un modo per spaventare i fedeli. Quando Nogaro arrivò nel casertano da Udine e nelle sue omelie citava la camorra, alcuni preti locali gli chiedevano espressamente di non pronunciare quella parola. Perché così s’infangava la povera gente».

E le ragioni di questa «posizione morbida»?
«Sono tante. Un prete che decide d’intraprendere una lotta del genere deve, ad esempio, essere disposto a subire anche l’oltraggio della diffamazione. Don Peppe Diana, ancora prima di essere ucciso, per il solo fatto che s’impegnava, che girava nelle scuole e scriveva documenti, veniva sistematicamente diffamato. Perché un prete che non sta nella sua stanzetta a confessare le vecchiette o a dare le caramelle ai bambini, è un sacerdote che viene visto con sospetto. Se indirizza la sua autorevolezza e la sua parola verso altro, mette paura. Soprattutto se quell’altro detiene il potere. Mi ricordo che don Peppe cominciò a denunciare il voto di scambio. Padre Puglisi, ucciso a Palermo, lo stesso. Non è un caso che, dal giorno dopo l’assassinio di questi due preti del Sud d’Italia, iniziò una campagna di diffamazione. Molto forte nei confronti di don Peppe; un po’ meno contro don Puglisi. Ma solo perché l’antimafia siciliana è molto più sviluppata di quella della mia terra. Impegnarsi vuol dire soprattutto rischiare. Non solo la vita, ma la propria serenità. Spesso è questa la ragione che spinge un sacerdote a non agire in questi territori. Perché è molto difficile vedere d’improvviso la propria vita in bocca a moltissime persone e la propria credibilità e onestà insultate da gomiti e venticelli della camorra. Per chi decide di combattere, il primo scoglio è questo. Poi, sul campo, si riesce a ottenere anche autorevolezza. Ma è un lavoro molto lungo».

Il fatto che la sua sia una terra di missione pastorale, come una qualsiasi parrocchia africana, che riflessione le suscita?
«Castel Volturno, dove c’è la missione dei padri comboniani, è davvero una città africana. Della diaspora africana, come ebbi modo di ricordare in occasione della morte della sudafricana Miriam Makeba, venuta a cantare e a morire a Castel Volturno in un concerto in onore dei ragazzi africani ammazzati e anche per me. Quello che fanno i comboniani in quella realtà – uso una parola che potrebbe apparire altisonante, ma non lo è – ha del miracoloso».

Lei ha detto: chi vive male diventa un uomo peggiore. Lei cova odio e grande voglia di vendetta verso chi la costringe a vivere nella sua gabbia. Non trova un po’ paradossale diventare una persona cattiva per il suo senso etico e di giustizia? Ha la percezione di quale potrebbe essere l’approdo di questo percorso?
«No. La mia è una vita abbastanza schizofrenica. Sul piano pubblico, riesco a essere sempre molto controllato; sul piano privato, sono spezzato. Ecco perché dico che chi vive male diventa male. Sei ossessionato da te stesso. L’opinione pubblica commenta ogni cosa che fai e la commenta con superficialità. Questo succede a tutti, lo so. Ma almeno gli altri possono passeggiare, avere una vita normale con cui ammortizzare il peso delle difficoltà. Invece, non solo la mia condizione mi pesa molto, ma mi pesa doverla farla condividere a chi mi sta vicino, il quale deve cambiare sempre casa e subire la scorta, una pressione forte, l’attenzione dell’opinione pubblica. E questo è molto difficile. Mi ha dato molto dolore, anche se adesso l’ho elaborato, vedere il deserto attorno a me nella mia terra d’origine. Sentire le parole più feroci partire da lì. L’indifferenza più forte, la rabbia, l’invidia. Mi sono spesso chiesto: ma davvero posso essere invidiato da qualcuno? E la risposta è sì: chiunque ha la possibilità di emergere crea un senso di rancore, perché, se tu parli, mi ricordi che io non ho parlato. Vedere l’atteggiamento che hanno avuto i miei amici è stata una delle cose più dolorose della mia vita. Quando ho ricevuto la scorta, nessuno è andato da mia madre a chiedere se aveva bisogno di qualcosa. Delle due l’una: o ho meritato di ricevere questo comportamento, o queste persone hanno talmente fatto il callo sul cuore, sull’anima circa queste vicende, che ormai non si accorgono più di niente. E la mia storia è una delle tante che vedono passare davanti a loro».

Qual è il suo rapporto con Dio? Problematico, inesistente, accantonato?
«Ho un rapporto costante con le letture religiose. Il mio rapporto con Dio passa attraverso i testi sacri. Soprattutto la Torah e i Vangeli. Mi è sempre piaciuta l’idea che ha Hans Jonas, filosofo di origine ebraica, di un Dio da aiutare. Di un Dio non onnipotente e che quindi si trova, come l’uomo, a doversi scontrare con un male. Un Dio non onnipotente è un Dio che mi è molto simpatico. Negli ultimi anni è aumentata esponenzialmente la riflessione religiosa. Che in gran parte della mia vita non ho avuto. E le persone che hanno creduto nel mio dolore e non hanno risposto con cinismo, con la solita tiritera che la mia era tutta un’operazione di marketing, sono state le persone religiose, con fede. Nel tempo, ho iniziato a percepire che la fede, spesso, è stato il vero motore delle persone di buona volontà che nelle zone più difficili del Sud han cercato di trasformare le cose». di Gianni Ballerini su Avvenire

La tv dell'obbligo

Ho avuto modo di apprezzare col tempo gli interventi di Aldo Grasso, giornalista e professore alla Cattolica di Milano, di storia della radio e della televisione. Sempre equilibrato (fin troppo, come qui) e arguto... Vi consiglio la lettura di questo articolo apparso oggi sul Corriere della Sera dal titolo perfetto che ho conservato...

La trasmissione che Bruno Vespa non avrebbe mai dovuto fare. Vespa ha sapientemente iniziato la puntata con la toccante storia di Giulia. Nel computer della studentessa, morta sotto le macerie del terremoto, è stato trovato il progetto per la costruzione di un asilo a forma di libro. Ieri, alla presenza dei genitori, è stata inaugurata la nuova scuola materna costruita con i soldi raccolti dalla trasmissione e firmata, appunto, da Giulia Carnevale. Nonostante la commozione, questa è la trasmissione che Vespa non avrebbe dovuto fare. Per evitare le violente polemiche suscitate. Ma anche per orgoglio professionale, per non rovinare quanto di buono aveva fatto a favore dei terremotati della sua città. Vada per «Porta a porta» spostata in prima serata per la consegna delle villette agli sfollati di Onna. Vada per Vespa cronista privilegiato al seguito del Presidente tornato gioiosamente impresario edile. Vada per il monologo del premier sulla ricostruzione, e il suo sciorinare cifre e sondaggi favorevoli.

Ma Vespa si sarebbe dovuto opporre allo slittamento di «Ballarò» e, visti i suoi buoni rapporti con Palazzo Grazioli, anche a quello di «Matrix». Perché, in questo modo, anche una cerimonia importante come l'inaugurazione delle casette antisismiche ha dato adito a ogni sospetto. E soprattutto è parso uno di quei rituali sovietici a reti unificate, in stile Putin, a metà strada tra populismo demagogico e culto della personalità. Ieri sera Vespa (con non poche resipiscenze) e il direttore generale della Rai Mauro Masi hanno fatto fare un passo indietro all'informazione tv, l'hanno riportata ai tempi del pensiero e del canale unico. La tv dell'obbligo. Dopo quello scolastico, è stato ripristinato l'obbligo televisivo. Non è tv di regime (c'era anche Piero Sansonetti) [qui non condivido: come se bastasse la presenza di chichessia per rendere diverso il giudizio sulle cose. Gli esempi storici non mancano. Ogni regime ha tra le sue fila un "volto" che cerca di renderlo "irriconoscibile" ai più: senza scomodare i Kapò di hitleriana memoira famoso è stato Tareq Aziz il ministro degli esteri cristiano di Saddam... o in salsa nostrana, nell'illusione di nascondere la propria xenofobia la Lega fa eleggere un "suo" sindaco "nero" (madre italiana, padre americano!). Operazioni di immagine e "stolto" chi si presta a questi giochi...], ma un brutto modo di fare tv. Il fatto è che i tempi mediatici sono cambiati e sull'episodio è sceso anche un velo comico. Specie quando a Berlusconi sono stati serviti su un piatto d'argento gli argomenti per la difesa scontata sul conflitto d'interesse.

Dicono che Berlusconi avesse paura che altre trasmissioni di approfondimento frazionassero l'ascolto e insinuassero dubbi, non veri secondo lui. Dicono che la concomitanza delle partite di Champions su Sky, che vedevano impegnate Juve e Milan, rappresentassero già un temibile diversivo. Dicono che... Qualunque cosa si sia detto o pensato la concorrenza, politica e televisiva, deve restare il sale della democrazia. Non si può accusare, in nome del libero mercato, il leader dell'opposizione Franceschini di voler abolire l'Auditel dai programmi informativi e poi accettare che vengano spostate due trasmissioni che avrebbero potuto sottrarre audience a «Porta a porta». Oggi l'Auditel ci dirà quanti spettatori hanno seguito la trasmissione, ci darà anche una radiografia della tipologia di questo pubblico. Ma l'unico dato certo è che ormai l'informazione tv è spinta a rafforzare il suo ruolo di «mediazione», di organizzazione dello sguardo sul mondo, di interpretazione e valutazione degli eventi, per quella parte della popolazione che, per diverse ragioni, non ha accesso alle nuove tecnologie. Per gli altri è tutta un'altra storia, informativa. di ALDO GRASSO (altri servizi in video di A. Grasso sul Corriere li trovi qui).
Altri articoli di analisi sulla trasmissione di Porta a Porta:

martedì 15 settembre 2009

Le infinite forme di un regime

"Non credo che siano possibili paragoni al mondo". Così Guido Bertolaso ieri al Tg1 delle otto. Tempi da record, meraviglia mondiale per le casette di Onna, i prefabbricati in legno costruiti dalla Provincia di Trento.

15 settembre 2009: 162 giorni trascorsi dal sisma 47 casette in legno tipo chalet consegnate. Circa 200 persone ricoverate.

26 marzo 1981: 122 giorni trascorsi dal sisma, 150 casette in legno tipo chalet (Rubner costruzioni) consegnate a Laviano, Salerno. 450 persone ricoverate.

E trent'anni fa non esisteva nemmeno la Protezione civile, non esistevano strade decenti, erano crollati i ponti. Per raggiungere l'Irpinia si impiegarono giorni...

Per leggere tutto l'articolo clicca qui (attenzione giornale messo all'indice)
Aggiornamento: qui un articolo ancor più dettagliato del 17 settembre sempre su Repubblica

venerdì 11 settembre 2009

Eroe o angosciato grumo di sangue?

Le letture che la Chiesa ci propone in questa ventiquattresima domenica del tempo ordinario, sono assai ricche e ognuna aprirebbe ampi spazi di riflessione e meditazione. Ciò che però più di tutto e immediatamente cattura l’attenzione – per chi ha un po’ di Bibbia nelle orecchie – è specialmente la seconda lettura, tratta dal capitolo 2 della Lettera di Giacomo. Essa infatti pare dire esattamente l’opposto di un altro testo – anch’esso biblico, anzi anch’esso neotestamentario, dunque canonico allo stesso modo del primo – che è quello del capitolo 3 della Lettera ai Romani di Paolo.
Mentre infatti Giacomo scrive: «A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo? […] La fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta», mentre cioè Giacomo sembra far prevalere la fondamentalità delle opere sulla fede; Paolo dice precisamente il contrario: «In base alle opere della Legge nessun vivente sarà giustificato davanti a Dio, perché per mezzo della Legge si ha conoscenza del peccato. Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai Profeti: giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. […] È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati mediante la clemenza di Dio, al fine di manifestare la sua giustizia nel tempo presente, così da risultare lui giusto e rendere giusto colui che si basa sulla fede in Gesù. Dove dunque sta il vanto? È stato escluso! Da quale legge? Da quella delle opere? No, ma dalla legge della fede. Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge» (Rm 3,20-22.25-28). Paolo dunque – all’inverso di Giacomo – sottolinea la fondamentalità della fede a scapito delle opere…

Chi ha ragione dunque? A chi dar retta?
Evidentemente son false domande… La diversa prospettiva di Paolo e Giacomo, nasce infatti dal fatto che le problematiche che originano le loro lettere sono diverse. Senza addentrarci troppo in una ricostruzione della situazione, è però facile evincere che mentre Giacomo si trova probabilmente di fronte al problema di quei cristiani che ritenevano sufficiente alla salvezza l’appartenenza formale alla Chiesa, senza di fatto incarnare esistenzialmente una vita cristica, Paolo si trova probabilmente di fronte ad un certo fariseismo cristiano, per il quale sufficiente alla salvezza sarebbe l’attuazione di una serie di pratiche (di opere, appunto) cultuali o morali, senza una vera conversione del cuore.
Un falso problema dunque?
Sì, se si tratta di risolvere la divergenza fra testi egualmente canonici. No, se si prende coscienza del fatto che l’interesse suscitato da questa apparente incongruenza risulta molto istruttivo dal nostro punto di vista, perché in fin dei conti non c’è cristiano che non abbia in sé la tentazione ad un certo fariseismo da un lato, o ad un’adesione solo nominale a Cristo dall’altro. Che tra l’altro – per sciogliere ulteriormente ogni ambiguità sul contrasto Giacomo-Paolo – sono le due facce della medesima medaglia: e cioè, il mai pieno affidamento e affondamento nel Signore e nei fratelli, ma una certa qual sempre “uscita di sicurezza” da mantenere, tra il mondo di Dio (aderisco ad una fede – metto in pratica alcune opere “ così sono a posto da quel punto di vista) e il mondo mio (poi c’è tutto il resto della vita).
In realtà ciò che la “contraddizione” tra questi due testi lascia emergere non sono due verità, apparentemente in contrasto, che poi noi rimaneggiamo e correliamo per buona creanza… Ma un’unica verità fatta di sottolineature che si implicano a vicenda e che non sussistono l’una senza l’altra e che dicono della verità dell’uomo.
Cosa voglio dire? Che ha perfettamente ragione Paolo quando dice che la fede (anche non quella immediatamente cristologica, ma più in generale la struttura antropologica del fidarsi ed af-fidarsi ad altro) inevitabilmente ha a che fare con un consenso, un affidamento dell’intimità del proprio io al Signore. Non è vera quella fede che si accontenta delle “pratiche” per “pagare”, “placare” Dio e sentirsi così poi autorizzati a lasciarlo fuori dalla nostra vita. È appunto il fariseismo contro cui Gesù più volte ha urlato “ipocrita”! E d’altro canto ha perfettamente ragione Giacomo a dire che la fede ha inevitabilmente a che fare con la plasmazione della vita, di ciò che si è e dunque di ciò che si fa (opere).
Si potrebbe dunque dire che Paolo e Giacomo usano i termini “opere” e “fede” in due accezioni diverse. Quando Paolo critica le opere, parla delle opere in senso farisaico, non nel senso di Giacomo, cioè di conformazione di ciò che si fa (che è strettamente legato a ciò che si è) a ciò per cui ci si è determinati (e cioè la fede, la vita in Cristo). Allo stesso modo quando Giacomo critica la sola fede, sbandierata qua e là senza un riscontro vitale e viscerale nella propria esistenza, parla della fede come consenso nominale al Signore, non della fede di cui dice Paolo, cioè di quel consenso senza “uscita di sicurezza” di chi pone la sua vita nel Signore.
Quest’ultimo infatti, se è autentico, cioè se è inteso come lo intende Paolo, non può non desiderare (almeno) di portarsi dietro tutta la carne, verso una conformazione cristica (quelle che Giacomo chiama opere) che però – appunto – è abilitata dalla relazione intima col Signore (cioè dalla fede in senso paolino). Relazione intima che, a sua volta, è alimentata-istruita dall’amore al fratello (di nuovo, le opere nel senso di Giacomo)…
L’uomo infatti non può imparare la grammatica della relazione con Dio che nella grammatica delle relazioni con i fratelli. Non a caso infatti Giacomo, fa proprio l’esempio di un fratello o una sorella senza vestiti: «Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta».
Questo gioco di rimandi – forse un po’ confusionario – mostra però bene l’inscindibile legame tra quella che noi chiamiamo “fede” e quelle che noi chiamiamo “opere”. Il loro senso riduttivistico che prima Paolo (opere) e poi Giacomo (fede) stigmatizzano, è certo da convertire. Ma il senso pieno che Paolo dà alla fede e Giacomo alle opere è invece da specificare bene, perché mette in luce la struttura antropologica del credente. Proprio l’inestricabilità e il necessario rimando dell’una (fede) alle altre (opere) rendono tale un credente.
Questo si vede in modo lucidissimo nella prima lettura e nel Vangelo. Il capitolo 50 di Isaia infatti presenta il terzo carme del servo, quella figura biblica con cui Gesù si identificherà e verrà identificato. Rispetto a quelli che lo precedono questo terzo carme è un monologo del servo, che riflette sulla propria dolorosa missione.
Dicevo che qui si visibilizza bene quanto tentavamo di dire sulla struttura antropologica del credente autentico, perché da un lato c’è la pienezza del senso della “fede” come la intende Paolo. Il servo sofferente infatti nella sofferenza che accompagna la sua missione, attua quell’assenso interiore al Signore, ribadisce la sua incrollabile fiducia, rimane affidato a Lui: «Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso. È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?». E però allo stesso tempo a morire ci va davvero. Non solo dà l’assenso, ma conforma la sua esistenza a quell’affidamento: «Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi». Ciò che rende vero l’assenso è la consistenza della vita. E ciò che abilita quella vita, è l’assenso autentico. Uno senza l’altro, non solo non hanno senso, ma neanche esistono.
Eppure… questa via («Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà») lascia sempre un po’ perplessi, quasi intimoriti… sembra un po’ la via eroica ma possibile a pochi, di cui parlava il Grande Inquisitore di Dostoevskij: «Il Tuo grande profeta dice nella sua visione e nella sua parabola di aver visto tutti i partecipi della prima resurrezione e che ce n’erano dodicimila per ciascuna tribù. Ma se erano tanti, vuol dire che quelli erano più dèi che uomini. Essi sopportarono la Tua croce, essi sopportarono diecine d’anni di vita famelica nel nudo deserto, cibandosi di cavallette e di radici; e certo Tu puoi appellarti con orgoglio a questi eroi della libertà, dell’amore libero, del libero e magnifico sacrificio da essi compiuto in nome Tuo. Ma ricordati che erano in tutto appena alcune migliaia, ed erano per giunta degli dèi, ma i rimanenti? E che colpa hanno gli altri, gli uomini deboli, di non aver potuto sopportare ciò che i forti poterono? Che colpa ha l’anima debole, se non ha la forza di accogliere così terribili doni? Possibile che Tu sia venuto davvero solo agli eletti e per gli eletti?».
La sicurezza dell’assenso del servo di Isaia e la sua autenticazione nell’andare davvero a morire sono certo emblema molto chiaro della struttura della fede… ma la nostra personale realtà rimanda a ben altro: alla fatica di un assenso, all’impossibilità di una presenza a sé sempre lucida e risolta, alla viscosità della storia e delle dinamiche relazionali in cui siamo gettati, alla mai piena chiarezza di cosa voglia dire “rinnegare se stessi” e “prendere la propria croce” e la fatica – pur quando si individua cosa “bisognerebbe fare” – a farlo davvero… rimanda a anime deboli!
Eppure questo non deve essere fonte di scoraggiamento. Infatti in questo senso è estremamente consolante che Gesù pur attuando pienamente la struttura della fede di cui il servo di Isaia era esempio (tanto che è stato scelto come suo termine di paragone) – dunque fidandosi e affidandosi al Signore e morendo davvero in croce – lo abbia fatto senza ostentare nessuna sicurezza, o eroicità, o stoicità… ma con la stessa angoscia e paura che ho io: «morendo come tutti si muore» [De Andrè] e gemendo un grido inarticolato: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?».
Questo è molto consolante anche rispetto all’invito di Gesù a “rinnegare se stessi”, “prendere la propria croce e seguirlo”, contenuto nel vangelo di oggi. Un invito che troppo spesso risuona in noi come “troppo eroico per una come me”… Un invito che se invece è messo – quasi come un quadro – immediatamente a fianco della morte per fede di Gesù (e di quella morte lì!), trova davvero un’intelligenza altra, una possibilità altra: non quella dell’eroe, ma di quell’angosciato grumo di sangue, che però ha imparato a dire “Padre”.

La tentazione diabolica nelle fondamenta della chiesa

Negli anni 70, quando il vangelo di Marco viene scritto, la situazione dei discepoli di Gesù, diffusi ormai nel bacino del Mediterraneo, non era certo facile. Era esplosa da poco a Roma la prima grande persecuzione di Nerone, travolgendo tanti cristiani tra i quali Pietro e Paolo. Gerusalemme sta per essere distrutta dai romani, con supplizi e sofferenze senza fine. Anche all’interno della chiesa non c’è pace tra giudei convertiti e giudei non convertiti, e all’interno stesso della chiesa, la tensione tra chi vedeva la salvezza solo nella grazia di Cristo e chi giudicava ancora necessaria la legge di Mosè, come testimoniano tante pagine del nuovo Testamento. Ma la grande difficoltà per tutti, che sempre più emergeva come il vero nodo della fede in Cristo, era il mistero incomprensibile della sua “croce”: la passione e morte di Gesù sul patibolo degli schiavi, divenuto il simbolo della nuova fede! La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio....Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani (1Cor 1,18ss). Ma la croce porta scandalo non solo tra i giudei o i pagani, ma nel cuore stesso dei cristiani: Perché molti – ve l’ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto – si comportano da nemici della croce di Cristo. La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio! (Fil 3,18s). Ogni ammorbidimento o edulcorazione di questo dato fondamentale rischia di rendere “vana la croce di Cristo” (1Cor 1,17).
il cammino della fede tra i due ciechi!
Il testo di Marco di oggi, apre la seconda parte del suo vangelo con una lunga istruzione di Gesù ai suoi discepoli, racchiusa tra due racconti di recupero miracoloso della vista (Mc 8,22-26 e 10,46-52). La guarigione del primo cieco (di Betsaida) fu laboriosa, come precedentemente quella del sordomuto: avviene fuori dal villaggio, sputandogli sugli occhi e imponendogli le mani: Vedi forse qualcosa? Il cieco si accorge di non percepire bene la realtà, nonostante una prima guarigione: vedo la gente, perché vedo come degli alberi che camminano. E allora gli impose di nuovo le mani... per aiutarlo a “vedere perfettamente e a distanza. La chiamata a camminare verso la verità e la luce, sintetizzata qui nel miracolo faticoso del cieco di Betsaida, passa dunque attraverso un laborioso percorso di maturazione cristiana, per arrivare davvero a riconoscere il Cristo come nostra speranza e ripromettersi di seguirlo. Perché capita poi di trovarsi , oltre ogni nostra speranza, a mani vuote, nel fallimento più o meno consapevole di quelle nostre speranze, per aver scambiato o confuso il “salvatore” con tante fascinazioni umane. Fino all’esperienza del dubbio angoscioso (se ci morde in cuore un minimo di lucidità autocritica) se lo avevamo individuato per davvero, Gesù il Cristo, al di là della ortodossia formale della nostra fede e quindi chi abbiamo seguito! È un’avventura davvero difficile la guarigione della cecità dei discepoli, pur già conquistati alla sua sequela. Ma è proprio il mistero della croce che irrompe nella sua (e nostra) vita, a farci scoprire la seconda cecità. Ecco il significato delle due guarigioni che aprono e chiudono la lunga istruzione di Gesù ai suoi discepoli, sul senso del sua preannunciata passione, morte e risurrezione. Solo passando da una iniziale vocazione, che insegnandoti a distinguere correttamente le persone e le situazioni, ti inoltra un poco nel cammino della fede, tra consensi, rifiuti e fraintendimenti, scopri il senso totalizzante della croce di Cristo e le sue conseguenze per la vita di chi vuole seguirlo. Infatti solo alla fine di questo “insegnamento” che comprende tre annunci della passione, morte e risurrezione di Gesù, e tre tentativi drammatici di convincere i suoi discepoli a entrare decisamente in questa ottica, si arriva alla guarigione totale e luminosa, del cuore e della mente, del secondo cieco, Bartimeo, il quale, appena ha ascoltatola voce di Gesù che lo chiama, butta il mantello, balza in piedi e corre da lui. Ma per arrivare a così totale affidamento alla Parola occorre, appunto, un lungo faticoso cammino alla luce delle spiegazioni di Gesù.
... e cominciò ad insegnar loro che il figlio dell’uomo doveva soffrire molto...
Nel Vangelo di Marco, appena Gesù comincia a parlare ed agire in pubblico, fin dai primi passi, subito avviene lo scontro tra il pensiero dell’uomo e il pensiero di Dio. Sembra addirittura lo scopo stesso di tutto il vangelo, di essere soltanto l’introduzione (o la preparazione) all’accoglienza del mistero difficile di questo modo di Dio di comportarsi nella vicenda di Gesù di Nazaret, nella sua passione e morte fallimentare (scandalosa) di figlio dell’uomo, abbandonato da tutti. Marco aveva già raccontato delle successive barriere d’incomprensione che Gesù incontra sul cammino: l’indurimento dei farisei (3,6), le paure dei parenti (3,21), il rifiuto dei concittadini (6,6), la cecità dei discepoli stessi (8,17: non intendete e non capite ancora? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite?...). Una cecità, che continuerà anche dopo le sue ripetute spiegazioni (9,32: Essi però non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni…) …; fino al Getsemani (14,50 : tutti, allora, abbandonandolo, fuggirono) e alla totale desolazione dell’ urlo inarticolato sulla croce (15,37 … Gesù, dando un forte grido, spirò… 40). Questo è il contesto della pagina di oggi, che sta al centro del Vangelo di Marco: la confessione di Pietro e immediatamente il preludio del suo rinnegamento. È impressionante che Pietro, che è il massimo garante del riconoscimento teologale più esplicito del Messia, è anche il protagonista del più cieco (diabolico) fraintendimento e addirittura della repulsione verso il mistero centrale della vita del suo e nostro Signore. Ormai Gesù non può che affrontare apertamente il problema del rifiuto totale che avrebbe umiliato la sua missione e la sua persona. Letteralmente: diceva con franchezza la Parola! Lui l’aveva intuita - la sua destinazione! - meditata, temuta e desiderata, ‘con forti grida e lacrime’ e con irrevocabile consegna al Padre, pregando sui testi di Isaia profeta, sui salmi, sulle vicende dei giusti perseguitati. I suoi annunci premonitori ai discepoli, anticipano la sofferenza del Getsemani: l’umiltà di Dio onni/impotente passerà attraverso il rifiuto, il disprezzo, la derisione, ma ancor più lo scoramento dell’abbandono degli amici. Ha toccato il fondo dell’abisso della disperazione umana, come racconterà lo stesso Marco più avanti: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate». Poi, andato un po’ innanzi, cadde a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora. Ma proprio questa sofferenza “divina” nel mondo sarebbe diventata la chiave di interpretazione della storia, per chiunque, dopo la sua morte e risurrezione, l’avesse riaccolta! Tutti siamo (continuamente!) azzerati di fronte alla croce del Signore: Pietro, i discepoli, la folla… ci riscopriamo tutti “mondani” o, peggio, diabolici! In Gesù Dio si rivela proprio facendo ciò l’uomo non è capace di fare: accogliere il rifiuto e la sofferenza come presenza storica del Padre. Perché non solo nella società, in famiglia, in comunità, ma anche in ciascuno di noi – nella Chiesa! (come ci ricorda Giacomo) noi “cristiani” torniamo (invincibilmente!?) alla logica mondana, molto più rassicurante ed omogenea al nostro istinto di allearci al più potente per affermarci ad ogni costo, anche al costo perverso di tradire l’amore. Allora Gesù ci riporta all’essenziale del Vangelo che è la sua vita stessa, la sua vicenda umana: vai dietro di me, satana – ci invita! – perché possiamo, dietro a lui, riprendere a seguirlo, invece che cercare di dissuaderlo e convertire lui ai nostri “diabolici” criteri di potenza o anche solo di sopravvivenza a tutti i costi.
la diabolica tentazione mondana di Pietro - nella chiesa
... in risposta all’opposizione di Pietro, Gesù, convocata la folla, insieme ai suoi discepoli, disse loro: Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Convoca “tutti”, perché sta annunciando il nuovo statuto antropologico: cioè il senso profondo, tormento e compimento della vita umana, la destinazione scritta ormai nell’intimo di ognuno – il progetto d’uomo che sta ricostituendosi in lui, mentre si inoltra verso la sua passione, morte e risurrezione. L’uomo “primitivo”, immesso nel mondo dalle lunghe invisibili braccia di Dio, ancora immerso nel sonno della pre-istoria, in qualche modo ingenuo e inconsapevole, arrivata la pienezza del tempo, è chiamato a prender atto della sua identità in un drammatico dialogo con se stesso e con Dio, per riconoscere la propria nuova identità nell’avventura umana di Gesù il Cristo, che domanda ad ognuno: chi dici che io sia?! La luce di questo nuovo paradigma di vita è il rovesciamento del cieco istinto di sopravvivenza che ci fa mangiare la vita degli altri: d’ora in poi chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà. Se il singolo credente è invitato spesso, per il suo cammino spirituale, ad imitare il suo maestro, dolce ed umile di cuore, “il destino di questa istanza evangelica come stile della missione della chiesa... è invece amaro e censurato! L’attuale ricorso da parte della gerarchia ecclesiastica a strumenti giuridici e politici per la difesa dei valori considerati essenziali è il riflesso lampante di questa censura. E quando si parla di povertà, esigita soprattutto dai ministri della chiesa, se ne parla in senso individuale, non come stile oggettivo e obbligatorio della chiesa stessa nell’annuncio e nella testimonianza del vangelo. Sta a noi, se vogliamo proprio evitare la ricaduta della chiesa nel temporalismo, nella pretesa di contendere e controllare gli altri poteri presenti nella società, di far valere la forza del vangelo con mitezza e testardaggine, nella parrhesia che lo Spirito dona a coloro che se ne lasciano conquistare” (G. Ruggeri in Statusecclesiae).

Vi ricorda qualcuno? ...non ci resta che ridere!

Un tipo sta guidando la macchina, quando a un certo punto capisce di essersi perso.
Avvista un uomo che passa per la strada, accosta al marciapiede e gli grida:

- Mi scusi, mi potrebbe aiutare? Ho promesso a un amico di incontrarlo alle due, sono in ritardo di mezz'ora e non so dove mi trovo...
- Certo che posso aiutarla. Lei si trova in un'automobile, tra 40 e 42 gradi latitudine Nord e tra 58 e 60 gradi longitudine Ovest, sono le 14 e 23 minuti e 35 secondi e oggi è venerdì e ci sono 21,5 gradi centigradi ...
- Lei è un impiegato? - chiede quello dentro l'automobile.
- Certamente. Come fa a saperlo?
- Perché tutto ciò che mi ha detto è 'tecnicamente' corretto, ma praticamente inutile. Infatti non so che fare con l'informazione che mi ha dato e mi ritrovo ancora qui perso per strada!
- Lei allora deve essere un dirigente, vero? - risponde stizzito l'impiegato.
- Infatti, lo sono. Ma... da cosa lo ha capito?
- Abbastanza facile: lei non sa né dove si trova, né come ci è arrivato, né tanto meno dove andare, ha fatto una promessa che non sa assolutamente come mantenere ed ora spera che un altro le risolva il problema; di fatto, è esattamente nella merda in cui si trovava prima che ci si incontrasse...ma adesso, per qualche strano motivo...risulta che la colpa è mia!

sabato 5 settembre 2009

La sindrome di Caino

Come può un regno diviso in se stesso non andare in rovina?
Leggete qui e vedete come si fa ad andare in rovina...
Intervista (si fa per dire), fuori luogo e fuori tempo di Gian Maria Vian, direttore dell’Osser­vatore Romano ma anche l'articolo di Vittorio Messori non scherza: una pugnalata alle spalle di Boffo (e non solo) in guanto di velluto e in penna di serpente: quando si dice "dagli amici (di fede?) mi guardi Iddio..."!

Assolutamente da escludere anche minimamente la buona fede... Sia perché non è buona sia perché non è fede, perché questa, come quella, o è nelle opere o è immaginata... Sulla visione veterocattolica e papalista di Messori mi prometto di ritornare...

venerdì 4 settembre 2009

L’uomo vive se impara ad ascoltare e parlare

Il brano di Marco di domenica scorsa riportava un duro rimprovero di Gesù verso chi soffocava la parola di Dio nel cuore degli uomini, sotto il peso di tradizioni rituali fuorvianti. Poi, nel racconto evangelico, Gesù entra in terra pagana e proprio lì incontra una fede... inaspettata, “davvero grande”, come conferma anche Matteo, perché il dolore della Cananea per la figlia che le lacera il cuore, fa nascere nella donna straniera, irresistibile, una “parola”, che converte Gesù stesso, e quasi lo costringe a prestarle ascolto, a travalicare i limiti della sua missione. La bimba è salva con un “intervento a distanza”, strappato in un dialogo serrato con il Maestro. Subito dopo – ed è il brano di oggi! sempre in terra pagana, emerge ancor più esplicitamente il vero problema dell’uomo di fronte a Dio, a sé e agli altri: l’uomo è sordomuto! Dunque questo è il tema centrale cui mirava tutto il Cap. 7 del Vangelo di Marco: la parola e l’ascolto, cioè il linguaggio, come dinamica fondamentale della nascita e crescita dell’uomo – e come il luogo dove si radica la fede. Il linguaggio questa facoltà propriamente umana di produrre segni e scambiarli con gli altri, in una reciprocità dinamica che coinvolge vitalmente i due soggetti trasmittente e ricevente, è la caratteristica fondante della cultura umana, dunque il tessuto entro il quale soprattutto si fa e si manifesta la persona come relazione.Gesù si inserisce in questa dinamica, nel punto dove è lacerata tra le due polarità che la tengono in tensione: da una parte la struttura consolidata dei codici di comportamento, trasmessi dalla tradizione abitudinaria, cioè il contesto psicologico, sociologico, ideologico nel quale avviene la trasmissione del messaggio – dall’altra la creatività soggettiva della ricezione dell’interpellato che riformula inevitabilmente (se il soggetto rimane vivace!) il messaggio che è stato trasmesso, e a sua volta ritrasmette la sua ricezione scambiando i ruoli tra ricevente e trasmittente. Così, quando la dinamica funziona, si crea tra gli elementi della comunicazione un circolo ermeneutico (trasmittente - rete di trasmissione – messaggio – ricevente) che sta alla base della cultura, come luogo ove “l’uomo diventa più uomo” ma anche come alveo all’interno del quale l’uomo apprende la nozione di Dio... e lo incontra. Perché l’uomo non è, ma “diviene” – diviene la parola cui presta ascolto. Il massimo danno umano è essere “sordomuti”: non si può crescere senza ascolto e senza parola!

un linguaggio esplosivo: un fermento inarrestabile nelle strutture culturali...
Perchè il messaggio di Gesù è esplosivo dentro i codici culturali del suo tempo (e addirittura dentro lui stesso, come nell’episodio della Cananea)? Perché il suo nucleo è l’amore, che incrina le distanze e le barriere che dividono gli uomini – e li rendono “sordomuti”, smascherandone le motivazioni fallaci, che li fanno incapaci di relazione vitale con Dio e tra di loro, maldestri nell’ascoltarsi e in più, per paura, aggressivi verso ogni diversità che li metta in crisi. Gesù rompe i codici di separazione che mantengono gli uomini divisi a causa di criteri, che se erano serviti per una tappa del camino di umanizzazione dei rapporti, sono poi diventati oppressivi nei vari settori della vita. Nel campo della purità rituale, per esempio, “i farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani immonde?” La tradizione degli antichi era omai lontana dalla vita e tanto “pervertita” che arrivava alla prassi di cinismo sacro di cui dice Gesù: Se uno dichiara al padre o alla madre: è Korbàn, cioè offerta sacra, quello che ti sarebbe dovuto da me, non gli permettete più di fare nulla per il padre e la madre, annullando così la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. La vita religiosa era diventata un ginepraio di prescrizioni inattuabili da chi viveva una vita normale, a causa di infinite prescrizioni di comportamento nel lavoro, nella malattia, nel mangiare, nel pregare, nelle relazioni sociali e religiose... per essere graditi a Dio! Gesù ribadisce che l’uomo è unico responsabile della propria relazione con Dio: non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo». Quindi soggiunse: «Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo”. Allo stesso modo proprio mentre dal popolo ebraico, con l’arrivo del Messia, ci sta venendo la salvezza, ci viene ribadito che questa è offerta a chiunque, anche pagano, senza che debba passare attraverso il groviglio di normative e sedimentazioni culturali discriminanti: la salvezza non è infatti questione di razza o di genere o di purità rituale o di privilegi economici o giuridici o religiosi... ma di ascolto della Parola per convertirci al suo Regno e imparare a “parlare” con lui e tra di noi!
l’umanità sordomuta
L’umanità è in questo uomo farfugliante, che emette mugugni, perché ha una voglia irreprimibile di parlare e prova anche lui, ma non ha mai sentito parlare come si deve, e quindi non può imitare i suoni convenzionali (le parole!) che gli uomini si scambiano. Non può entrare in dialogo. La gente sente che bisogna far qualcosa per introdurlo nella normale vita di relazione. Allora lo conducono a Gesù, perché il sordomuto non lo conosce. Non può averne sentito parlare, essendo sordo. E lo pregano perché gli imponga la mano, credendo che si tratti di uno dei vari impedimenti fisici o morali, che Gesù guariva spesso con l’imposizione delle mani. Ma Gesù se lo porta via, lo separa dalla folla. Non si può essere guariti da questo male radicale mentre si è ancora immersi nei codici pervasivi che ci hanno manipolato, ammutoliti o soggiogati con linguaggi disumanizzanti. Ci vuole una presa di distanza “dalla gente” e dal suo mondo, un distacco che permetta di concentrarsi per l’iniziazione ad ... un linguaggio nuovo. Occorre risanare orecchie e lingua! Gesù inizia a “parlargli”con il tatto! È il linguaggio materno, il più immediato, anzi l’unico contatto possibile con chi non parla ancora, il più coinvolgente fisicamente. Un’iniziazione articolata con gesti e parole simbolicamente potenti: “gli mise le proprie dite nei suoi orecchi! Infonde e plasma nel meccanismo delle orecchie una capacità di ascolto della parola “rimodulata” dalle dita di Dio… “ E con la saliva gli toccò la lingua” - come un’estrema concrezione corporea del suo soffio, dell’alito condensato del suo spirito. É l’immagine della parola non ancora parlata, fisicamente la più vicina, più percepibile al sordo. E questa primitiva elementare alfabetizzazione della carne innesca il sussulto, che dà la capacità al muto di “sentire” e poi di parlare, cioè di ripercorrere anche lui, accompagnato dalla lingua stessa di Dio che l’ha lambito, il cammino della parola parlante, che ha imparato ad ascoltare! Allora Gesù, come nei grandi momenti, alza gli occhi al cielo, geme, poi aggiunge ai gesti la parola che spiega, come nei sacramenti, ciò che sta avvenendo ad un livello profondo, ma parallelo a quanto i segni fisici umanizzati esprimono: effatà! La parola apre il cuore alla luce dell’amore… e infatti è l’intenso accudimento percepito in ogni fibra che apre alla capacità di relazione. Adesso che il sordomuto, risanato, sente – cioè sono risanate le orecchie si scioglie anche il nodo della lingua e parla “correttamente”, con le parole e il tono di voce appropriati, non con mugugni.
pieni di stupore... proclamavano...
Che cosa ha subito voglia di dire, l’ex sordomuto? proclamare, nonostante i dinieghi del Signore, ciò che gli era successo! Perchè tutti lo ascoltavano (adesso!) e gli rispondevano e parlavano con lui. Il Signore non riesce più a fermare il “dialogo” di gioia che aveva innescato lui stesso: e quanto più lo ordinava loro (di non dirlo a nessuno) tanto più abbondantemente essi lo proclamavano. Dunque il comando di tacere, per il timore di esporre alla magia il miracolo, non riesce a contenere la gioia espansiva di chi ha provato l’integrazione nella capacità di relazione, che fa umano l’uomo. L’espressione greca parla di una meraviglia tanto intensa che non troviamo in nessuna altra parte del Vangelo (B. Maggioni). Perché è il compimento del Vangelo stesso, cioè la gioiosa consapevolezza che la buona notizia si è avverata! L’uomo l’ha ascoltata ed è salvo. Per cui proprio questa è la lode, ripresa dal profeta: si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi, lo zoppo salterà come un cervo e la lingua di muto griderà di gioia. Il colmo di tutti i beni dell’uomo (ha fatto bene ogni cosa!) sta proprio nella possibilità offerta all’uomo di reimparare ad ascoltare e rispondere. Perché questo è il dono più grande ed esaltante che gli è dato: di potere accogliere in sé il mistero trinitario della Parola del Padre che si rivela in noi nella “forza” risanante dello Spirito di Gesù! forse per questo Gesù ricorre anche qui al gemito: alla implorazione al Padre, perché la salvezza è un puro dono della benevolenza di Dio. Un dono da chiedere, non da pretendere, come già nella moltiplicazione dei pani. Forse perché si tratta in questi casi della vita intima del Padre che Gesù ha appreso da lui per trasmetterla a noi, suoi fratelli
Le circostanze storiche hanno fornito la nostra condizione di credenti di nuove capacità di ascolto della Parola, impensate alle generazioni precedenti. Ma la nostra guarigione si è inceppata nella fase successiva all’ascolto. Forse non abbiamo osato rischiare di lasciarci toccare dalla lingua di Dio, perciò facciamo fatica ad imparare a parlare parole e linguaggi “divini” comprensibili agli uomini – a comunicare esperienze vitali che suscitino voglia di gustare nuovi moduli di vita... Forse siamo divenuti anche noi un po’ sordi alle sofferenze dei più lontani o affaticati, e pur di difendere la nostra malata identità, ci siamo lasciati contagiare il cuore dal criterio letale del respingimento e della discriminazione dei diversi, dei più poveri, dei più lontani che ci costringerebbero a riaprire orecchie e lingua: abbiamo introiettato dunque il contrario esatto del criterio propriamente “cristiano” che anche Giacomo ci ricorda Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano?

giovedì 3 settembre 2009

La rabbia e l'orgoglio

Sua Eminenza Reverendissima
Cardinale Angelo Bagnasco
Presidente della Conferenza Episcopale Italiana
Sua Sede

Eminenza Reverendissima,
da sette giorni la mia persona è al centro di una bufera di proporzioni gigantesche che ha invaso giornali, televisioni, radio, web, e che non accenna a smorzarsi, anzi. La mia vita e quella della mia famiglia, le mie redazioni, sono state violentate con una volontà dissacratoria che non immaginavo potesse esistere.

L’attacco smisurato, capzioso, irritualmente feroce che è stato sferrato contro di me dal quotidiano «Il Giornale» guidato da Feltri e Sallusti, e subito spalleggiato da «Libero» e dal «Tempo», non ha alcuna plausibile, ragionevole, civile motivazione: un opaco blocco di potere laicista si è mosso contro chi il potere, come loro lo intendono, non ce l’ha oggi e non l’avrà domani.

Qualcuno, un giorno, dovrà pur spiegare perché ad un quotidiano – «Avvenire» – che ha fatto dell’autonomia culturale e politica la propria divisa, che ha sempre riservato alle istituzioni civili l’atteggiamento di dialogo e di attenta verifica che è loro dovuto, che ha doverosamente cercato di onorare i diritti di tutti e sempre rispettato il responso elettorale espresso dai cittadini, non mettendo in campo mai pregiudizi negativi, neppure nei confronti dei governi presieduti dall’onorevole Berlusconi, dovrà spiegare – dicevo ? perché a un libero cronista, è stato riservato questo inaudito trattamento.

E domando: se si fa così con i giornalisti indipendenti, onesti, e per quanto possibile ? nella dialettica del giudizio ? collaborativi, quale futuro di libertà e di responsabilità ci potrà mai essere per la nostra informazione? Quando si andranno a rileggere i due editoriali firmati da due miei colleghi, il “pro” e “contro” di altri due di essi, e le mie tre risposte ad altrettante lettere che «Avvenire» ha dedicato durante l’estate alle vicende personali di Silvio Berlusconi, apparirà ancora più chiaramente l’irragionevolezza e l’autolesionismo di questo attacco sconsiderato e barbarico.

Grazie a Dio, nonostante le polemiche, e per l’onestà intellettuale prima del ministro Maroni e poi dei magistrati di Terni, si è chiarito che lo scandalo sessuale inizialmente sventagliato contro di me, e propagandato come fosse verità affermata, era una colossale montatura romanzata e diabolicamente congegnata. Fin dall’inizio si era trattato d’altro. Questa risultanza è ciò che mi dà più pace, il resto verrà, io non ho alcun dubbio.

E tuttavia le scelte redazionali che da giorni taluno continua accanitamente a perseguire nei vari notiziari dicono a me, uomo di media, che la bufera è lungi dall’attenuarsi e che la pervicace volontà del sopraffattore è di darsi ragione anche contro la ragione. Un dirigente politico lunedì sera osava dichiarare che qualcuno vuole intimorire Feltri; era lo stesso che nei giorni precedenti aveva incredibilmente affermato che l’aggredito era proprio il direttore del «Giornale», e tutto questo per chiamare a raccolta uomini e mezzi in una battaglia che evidentemente si vuole ad oltranza.

E mentre sento sparare i colpi sopra la mia testa mi chiedo: io che c’entro con tutto questo? In una guerra tra gruppi editoriali, tra posizioni di potere cristallizzate e prepotenti ambizioni in incubazione, io ––ancora – che c’entro? Perché devo vedere disegnate geografie ecclesiastiche che si fronteggerebbero addirittura all’ombra di questa mia piccola vicenda? E perché, per ricostruire fatti che si immaginano fatalmente miei, devo veder scomodata una girandola di nomi, di persone e di famiglie, forse anche ignare, che avrebbero invece il sacrosanto diritto di vedersi riconosciuto da tutti il rispetto fondamentale? Solo perché sono incorso, io giornalista e direttore, in un episodio di sostanziale mancata vigilanza, ricondotto poi a semplice contravvenzione? Mi si vuole a tutti i costi far confessare qualcosa, e allora dirò che se uno sbaglio ho fatto, è stato non quello che si pretende con ogni mezzo di farmi ammettere, ma il non aver dato il giusto peso ad un reato «bagatellare», travestito oggi con prodigioso trasformismo a emblema della più disinvolta immoralità.

Feltri non si illuda, c’è già dietro di lui chi, fregandosi le mani, si sta preparando ad incamerare il risultato di questa insperata operazione: bisognava leggerli attentamente i giornali, in questi giorni, non si menavano solo fendenti micidiali, l’operazione è presto diventata qualcosa di più articolato. Ma a me questo, francamente, interessa oggi abbastanza poco. Devo dire invece che non potrò mai dimenticare, nella mia vita, la coralità con cui la Chiesa è scesa in campo per difendermi: mai – devo dire ? ho sentito venir meno la fiducia dei miei Superiori, della Cei come della Santa Sede. Se qualche vanesio irresponsabile ha parlato a vanvera, questo non può gettare alcun dubbio sulle intenzioni dei Superiori, che mi si sono rivelate sempre esplicite e, dunque, indubitabili. Ma anche qui non posso mancare di interrogarmi: io sono, da una vita, abituato a servire, non certo a essere coccolato o ancor meno garantito. La Chiesa ha altro da fare che difendere a oltranza una persona per quanto gratuitamente bersagliata.

Per questi motivi, Eminenza carissima, sono arrivato alla serena e lucida determinazione di dimettermi irrevocabilmente dalla direzione di «Avvenire», «Tv2000» e «Radio Inblu», con effetto immediato. Non posso accettare che sul mio nome si sviluppi ancora, per giorni e giorni, una guerra di parole che sconvolge la mia famiglia e soprattutto trova sempre più attoniti gli italiani, quasi non ci fossero problemi più seri e più incombenti e più invasivi che le scaramucce di un giornale contro un altro. E poi ci lamentiamo che la gente si disaffeziona ai giornali: cos’altro dovrebbe fare, premiarci? So bene che qualcuno, più impudico di sempre, dirà che scappo, ma io in realtà resto dove idealmente e moralmente sono sempre stato. Nessuna ironia, nessuna calunnia, nessuno sfregamento di mani che da qui in poi si registrerà potrà turbarmi o sviare il senso di questa decisione presa con distacco da me e considerando anzitutto gli interessi della mia Chiesa e del mio amato Paese. In questo gesto – in sé mitissimo – delle dimissioni è compreso un grido alto, non importa quanto squassante, di ribellione: ora basta.

In questi giorni ho sentito come mai la fraternità di tante persone, diventate ad una ad una a me care, e le ringrazio della solidarietà che mi hanno gratuitamente donato, e che mi è stata preziosa come l’ossigeno. Non so quanti possano vantare lettori che si preoccupano anche del benessere spirituale del «loro» direttore, che inviano preghiere, suggeriscono invocazioni, mandano spunti di lettura: io li ho avuti questi lettori, e Le assicuro che sono l’eredità più preziosa che porto con me.

Ringrazio sine fine le mie redazioni, in particolare quella di «Avvenire» per il bene che mi ha voluto, per la sopportazione che ha esercitato verso il mio non sempre comodo carattere, per quanto di spontanea corale intensa magnifica solidarietà mi ha espresso costantemente e senza cedimenti in questi difficili giorni. Non li dimenticherò. La stessa gratitudine la devo al Presidente del CdA, al carissimo Direttore generale, ai singoli Consiglieri che si sono avvicendati, al personale tecnico amministrativo e poligrafico, alla mia segreteria, ai collaboratori, editorialisti, corrispondenti. Gli obiettivi che «Avvenire» ha raggiunto li si deve ad una straordinaria sinergia che puntualmente, ogni mattina, è scattata tra tutti quelli impegnati a vario titolo nel giornale. So bene che molti di questi colleghi e collaboratori non condividono oggi la mia scelta estrema, ma sono certo che quando scopriranno che essa è la condizione perché le ostilità si plachino, capiranno che era un sacrificio per cui valeva la pena.

Eminenza, a me, umile uomo di provincia, è capitato di fare il direttore del quotidiano cattolico nazionale per ben 15 degli straordinari anni di pontificato di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI: è stata l’avventura intellettuale e spirituale più esaltante che mi potesse capitare. Un dono strepitoso, ineguagliabile. A Lei, Eminenza carissima, e al cardinale Camillo Ruini, ai segretari generali monsignor Betori e monsignor Crociata, a ciascun Vescovo e Cardinale, proprio a ciascuno la mia affezione sconfinata: mi è stato consentito di essere, anzi sono stato provocato a pormi quale laico secondo l’insegnamento del Concilio, esattamente come avevo studiato e sognato negli anni della mia formazione.La Chiesa mia madre potrà sempre in futuro contare sul mio umile, nascosto servizio. Il 3 agosto scorso, in occasione del cambio di direzione al quotidiano «Il Giornale», scriveva Giampaolo Pansa: «Dalla carta stampata colerà il sangue e anche qualcosa di più immondo.

E mi chiedo se tutto questo servirà a migliorare la credibilità del giornalismo italiano. La mia risposta è netta: no. Servirà soltanto a rendere più infernale la bolgia che stiamo vivendo». Alla lettura di queste righe, Eminenza, ricordo che provai un certo qual brivido, ora semplicemente sorrido: bisognerebbe che noi giornalisti ci dessimo un po’ meno arie e imparassimo ad essere un po’ più veri secondo una misura meno meschina dell’umano.

L’abbraccio, con l’ossequio più affettuoso.

Dino Boffo
Milano, 3 Settembre 2009

La liberazione dal male, impedimento alla nostra amabilità

Dopo il duro scontro, che il vangelo di domenica scorsa (XXII del tempo ordinario B) presentava, tra Gesù e i farisei, il testo riporta l’annotazione per cui Gesù, «partito di là, andò nella regione di Tiro. Entrato in una casa, non voleva che alcuno lo sapesse» (Mc 7,24).
Gesù cioè, di fronte all’ennesima controversia con i suoi oppositori e di fronte all’ennesima conferma della durezza e ipocrisia dei loro cuori, sembra volersi ritirare in luoghi stranieri per starsene un po’ solo. Non vuole infatti che nessuno sappia della sua presenza.
Ma – come gli era già successo in occasione della moltiplicazione dei pani (cfr Mc 6,30-34), quando, volendosi ritirare in disparte coi suoi discepoli, era invece stato seguito da una grande folla – anche qui il suo intento sfuma: una donna siro-fenicia prima (Mc 7,25-30) e un sordomuto poi (Mc 7,31-37, che è il brano odierno) gli si pongono sul cammino e lo sollecitano a uscire dal nascondimento in cui Egli invece avrebbe preferito, per un poco, restare.
Anche in questa occasione, come con la folla a cui poi aveva moltiplicato il pane, Gesù non reagisce malamente, non rifiuta l’incontro per seguire il suo (giusto) desiderio di starsene un po’ in disparte, non riesce a «stare nascosto» (Mc 7,24); anzi, proprio come allora, quando si era intenerito perché tutta quella gente gli era apparsa come pecore senza pastore, anche qui in Gesù ciò che viene immediatamente a coscienza è la com-passione, è il lasciarsi interpellare dall’altro che gli si fa incontro, è il lasciarsi coinvolgere nella sua storia e nella drammatica della sua vita.
Nonostante dunque il bisogno di stare in disparte, ingeneratosi in lui dalla discussione coi farisei, nonostante il suo desiderio di essere lasciato in pace, Gesù di fronte alla donna pagana con la figlia malata e al sordomuto che gli portano – di fronte cioè ai piccoli dell’umanità – non riesce a non farsi intenerire e entrambe le volte fa ciò che gli chiedono.

In questa rapida analisi di come ha “funzionato” in quelle occasioni la libertà di Gesù, di come cioè Lui si sia determinato di fronte alla storia che anche a Lui, come per ogni uomo, veniva incontro, accadendo, e ponendolo in una situazione di originaria passività, emerge un tratto dell’interiorità di Dio davvero inedito.
La rivelazione di Dio infatti, la rivelazione cioè di chi Dio sia, cristianamente parlando coincide con la libertà storica attuata dall’uomo Gesù, perciò questo Suo modo usuale di reagire di fronte ai piccoli della terra, non è solo un bell’esempio posto perché noi lo seguissimo, ma molto più radicalmente è il “funzionamento”, fatto narrazione, delle viscere del Padre.
E le viscere del Padre sono allora quelle che, di fronte all’uomo che si ritrova in una situazione di dis-umanizzazione, si lasciano intenerire e promuovono una reazione di liberazione.
E questo è molto consolante soprattutto se si ha il coraggio di guardare la realtà con occhi disincantati e rendersi conto che non c’è uomo o donna sulla faccia della terra che in ultima analisi non sia e si senta questo “piccolo dell’umanità” verso cui il Signore prova com-passione.
La storia del mondo sembra raccontare altro: sembra parlare di grandi uomini, forti e impavidi, potenti e grandi, riusciti e risolti, ma è solo la storia di una finzione; la finzione degli uomini – di ogni uomo e anche nostra – di essere capaci di gestire questa nostra misteriosa storia, che proprio perché tritura tutto quanto c’è di umano (se non altro perché tutto va a finire nella tomba) ha bisogno di essere dominata, con i soldi, che illudono il ricco di comprare la felicità, il senso, la vita; con la violenza sugli altri, che illude il potente di sottomettere tutto a sé; con l’intelligenza ordinatrice, che illude lo scienziato di incasellare e prevenire e governare il misterioso futuro che gli si fa incontro; con la religione, che illude il pio di orchestrare l’imprendibile reale in categorie di necessità; con la morale, che illude l’uomo retto di interpretare il mondo secondo la retribuzione; ecc…
L’intima verità di ognuno racconta invece di un’altra storia: quella dei nostri tentativi sempre precari di costruirci un poco di felicità; della sempre ritornante frustrazione per l’incapacità di tenere in mano la vita; dell’infedeltà e inconsistenza che paiono definirci più di ogni altra cosa; delle speranze d’amore e del faticoso cammino per arrivare anche solo a capire l’altro; della paura di morire e della depressione di un’incompiutezza mai colmata…
Ma mentre questa realtà povera (che è la nostra verità più intima), in noi ingenera tutta una serie di meccanismi consci e inconsci di censura, di tentativi di nasconderla e nascondercela, e di manovre per superarla, vincerla, o per lo meno per far sì che gli altri non la vedano, dal Signore è guardata con altri occhi.
Noi infatti vorremmo dimenticarci della nostra miseria o riuscire a sconfiggerla perché essa ci pare sempre un ostacolo alla nostra amabilità (che è come dire: alla nostra sopravvivenza). E questo nasce da una constatazione giusta: il male è male; essere sordomuti o ciechi o handicappati o malati o infedeli o egoisti o permalosi (ecc.. ecc… ecc…) è male; è dis-umanizzante; e dunque va combattuto con tutti i mezzi in nostro possesso. Ma non ci rende meno amabili.
Qui sta lo scacco tra il nostro pensiero e il pensiero di Dio, tra il funzionamento delle nostre viscere e il funzionamento delle sue: l’essere affetti dal male (subito o commesso) non rende l’uomo meno amabile. Non perché Dio non riconosca quello come male (Gesù guarisce la figlia della siro-fenicia e guarisce il sordomuto) ma perché non lo identifica con un impedimento per il suo amore.
A noi questo atteggiamento sembra paradossale: noi abbiamo infatti stampata dentro la legge della sopravvivenza, la legge della vittoria del più forte, del mors tua vita mea; l’altro è concorrente, nemico, rivale “per forza”, cioè “di necessità”, altrimenti io muoio. E così cresciamo e possiamo rimanere nella vita, eliminando chi ce la minaccia. L’essere affetto dal male (fisico o morale) in questo meccanismo è dunque un grande impedimento. Nella lotta per la sopravvivenza, nella lotta per l’amabilità, chi è affetto dal male è “fuori gioco” in partenza: ecco perché censuriamo il nostro male e escludiamo chi ne è toccato.
Ma Dio non ha da fare questa stessa nostra lotta. Ecco perché può “funzionare” diversamente: perché può parlare di amore per i nemici e morire perdonando chi lo uccide.
Se ci fermassimo qui… sembrerebbe però che per noi è impossibile entrare nella logica del Padre, amare come Lui, guardare a noi stessi e guardare agli altri con i suoi stessi occhi… Abbiamo constatato infatti – ognuno lo sa sulla sua stessa pelle – che ci è impossibile da noi stessi uscire da quel nostro male che ci affligge, da questa legge del più forte che, se ci ha portato a sopravvivere fino ad ora, lo ha fatto chiedendoci di nascondere l’insuperabile male che è in noi.
Invece non ci fermiamo. Perché il vangelo di oggi, oltre a delineare la diversità del funzionamento delle viscere di Gesù dalle nostre, mostra anche dell’altro: Gesù libera dal male la figlia della siro-fenicia e, in maniera letterariamente somma, libera dal male il sordomuto. Dichiara cioè che il male insuperabile per l’uomo, è vinto in Lui, è cioè squalificato come ostacolo serio all’amabilità: dopo Gesù nessuno potrà più dire che il male di cui è affetto l’uomo è un impedimento per il suo rapporto con Dio, con la Vita, con il senso.
Come diceva un amico francescano: “Gesù non guarisce tutti i ciechi della terra, ma ogni cieco della terra può chiamare Dio col nome di Padre”.
Alle soglie del ricominciamento del vortice produttivo, efficientistico e sclerotico della nostra vita post-estiva, che semplicemente il male lo estromette (cioè lo mette fuori) perché nella lotta per la sopravvivenza e per l’amabilità è perdente, questo annuncio evangelico coglie proprio nel segno: ci invita infatti, nel ripartire, a farlo secondo quella liberazione dall’ostacolo del male alla nostra amabilità, che sola ci permette di vivere senza bisogno di uccidere.
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