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venerdì 27 marzo 2009

Verso la Pasqua: dall’età della pietra… all’età del cuore!

Cuore di pietra
“Gesù è il centro di gravitazione universale!” …è la scoperta sconvolgente e incredibile dei discepoli: proprio Gesù, l’amico e il maestro, “… quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono” (1Gv 1,1)!- Lui l’aveva detto: “Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. Questo hanno capito, una volta che l’hanno rivisto risorto e hanno cominciato a ripensare tutto quanto aveva annunciato e fatto. La liturgia, come preparazione più ravvicinata alla Pasqua, ci riposta oggi a questo mistero originario della fede cristiana. Mistero… perché non è una gravitazione “di necessità”, come una legge fisica o psichica, ma è una gravitazione di amore. Perché passa attraverso il dramma insondabile della libertà umana, in una natura ferità, lacerata tra il fascino di questa attrazione salvatrice e la nostra appartenenza inscindibile ad una struttura interiore e tribale arcaica, dura come la pietra, abbarbicata alla propria salvezza, refrattaria al dono rischioso della propria vita… L’età della pietra e l’età del cuore, sono separate da quest’abisso insuperabile alle nostre forze. Eppure le due contrastanti dinamiche di vita sono compresenti nell’intimo di ogni uomo. La grazia del passaggio da una dinamica di vita all’altra, è, appunto, la “pasqua” a cui ci prepariamo… per rinnovare in noi quello che è avvenuto in Cristo. Un passaggio, fatto tante volte, rimesso altrettante volte in discussione e oscurato (o regredito o tradito) ogni volta che l’istinto di sopravvivenza ad ogni costo, si tramuta in paura — e, in fin dei conti, in rifiuto di rinnegare il proprio io… per lasciarci strappare “dolcemente” un pezzetto della nostra vita — e donarlo a chi ne ha fame.
La prima alleanza non è finita, ma si trasforma nella seconda! Ha raggiunto il suo compito, ma non è sparita storicamente, nel senso che non sia più presente nel cuore dell’umanità. Anzi è fenomenologicamente dominante, con tutte le sue tragedie sanguinanti senza fine. Il cammino del popolo d’Israele, simbolo dell’umanità tutta, prosegue anche dopo il dono della Legge sul Sinai, tra serpenti velenosi. Fino ad oggi, ancora la storia è un deserto disseminato di poche oasi e tanta sabbia. Perché la Legge, pur segno irrinunciabile di civiltà, è impotente a cambiare il cuore dell’uomo, e non può che difendersi con la sanzione, la punizione, la forza coattiva (violenta!), per far osservare ciò che gli uomini altrimenti violerebbero metodicamente. Non solo la legge e le istituzioni civili hanno bisogno della violenza coattiva, ma la legge religiosa e la Chiesa stessa sono impotenti, radicalmente inadeguate al loro stesso scopo fondamentale, che è la salvezza “per amore”, ricevuta e donata in Cristo! Per cui sono purtroppo ancora necessarie le sanzioni, le minacce, le scomuniche… L’età dell’Alleanza di amore, profetizzata da Geremia e dai suoi amici, profeti dell’esilio, è ancora di là da venire. O meglio, è già definitivamente stipulata ed efficace in Gesù, nostro salvatore. Il quale però, ha soltanto aperto le iscrizioni, perché l’adesione è e rimane libera e mai automatica, come fosse data una volta per sempre! La seconda Alleanza, infatti, è preceduta da una condizione sempre messa ben in chiaro da Gesù stesso: “se vuoi”!... L’aver dimenticato o messo in ombra questa premessa fondamentale dell’esser cristiano provoca le incomprensioni, i fraintendimenti, le pretese… e le delusioni, che spesso feriscono il singolo discepolo di Gesù e la chiesa! La quale non può fare a meno di usare dei mezzi ambigui di questo mondo in cui vive, ma dovrebbe essere conscia della radicale inidoneità di ogni mezzo “umano” alla logica evangelica, che può fiorire solo nell’adesione di una coscienza libera! Pagando sempre salato i costi di questa libertà… fino ai nostri giorni, quando ci tocca leggere l’amaro e patetico ritorno del lamento di Paolo: «Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!" Sono stato sempre incline a considerare questa frase come una delle esagerazioni retoriche che a volte si trovano in san Paolo. Sotto certi aspetti può essere anche così. Ma purtroppo questo “mordere e divorare” esiste anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata. È forse motivo di sorpresa che anche noi non siamo migliori dei Galati? Che almeno siamo minacciati dalle stesse tentazioni? Che dobbiamo imparare sempre di nuovo l’uso giusto della libertà? E che sempre di nuovo dobbiamo imparare la priorità suprema: l’amore?» [Benedetto XVI. Lett. ai Vescovi, 10.03.’09]. Non è ancora, dunque, come sperava Geremia, il tempo in cui non ci saranno più leggi e sanzioni , emarginazioni e scomuniche, il tempo in cui i credenti “non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore»… Ma appunto “sempre di nuovo dobbiamo imparare la priorità suprema: l’amore!”: Ma questo non avviene senza riappropriarsi ancora una volta della Pasqua!
Il passaggio… “la Pasqua”, è avvenuta in Gesù!
La condizione storica dell’uomo è vivere sul crinale tra la legge scritta sulla pietra, e la legge iscritta nel cuore (noi diremmo nella coscienza che ama…). Il passaggio dall’una all’altra è il dramma appassionato descritto dalla lettera agli Ebrei: Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. La sua “carne terrena” era dello stesso impasto della nostra, rifiutava istintivamente, con grida e lacrime, lo stritolamento del meccanismo perverso del potere che lo voleva eliminare. Anche lui, come ogni uomo schiacciato dalla prepotenza del male (proprio e altrui!), si rivolge al Dio può liberarlo… Ma il Dio dell’onnipotenza è un idolo costruito dal “bisogno dell’uomo”, è la personalizzazione del gemito della creatura oppressa! La quale, invece, — l’abbiamo visto troppe volte! — si sente proprio abbandonata… alla sua sorte sulla terra! Anche Gesù, “pur essendo figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì”! Ha dovuto sperimentare l’abbandono del Padre, che non l’ha ascoltato nella sua implorazione di evitargli la morte. Pur pregando e sperando, con disperata speranza, come noi, ha dovuto “passare attraverso” il non senso della totale solitudine, del rifiuto, del dolore e della morte, senza che nessuno intervenisse, ad alleviarlo e curarsi di lui! Se non ci fosse passato dentro (cioè senza la passione della pasqua!) non l’avrebbe imparato — osa dire la lettera agli Ebrei! Perché l’adesione umana alla volontà del Padre è storica non virtuale, cioè si avvera e si rinnova nelle drammatiche vicende della vita! Il nuovo testo che dice: fu esaudito” per il pieno abbandono” al Padre, spiega bene, rispetto alla traduzione precedente cui eravamo abituati: per la sua pietà! Ma letteralmente si potrebbe dire: per aver “preso bene” ( dolcemente) la sua dolorosa vicenda — come volontà del Padre! Ovviamente non era la volontà del Padre che Gesù fosse ucciso dalla malvagità, vigliaccheria e gelosia dei rappresentanti del potere del tempo! Anche se da questi mali non l’ha liberato. Dio non ha mai avuto bisogno di questi sacrifici di sofferenza per soddisfare o compensare l’offesa della malvagità degli uomini. Sarebbe bestemmia pensarlo! Ma Gesù “fu esaudito”, per il fatto che, perseguitato dalla coalizione del male contro di lui, innocente e inerme, rimase fermo nella sua totale dedizione all’amore, alla verità, alla fedeltà… su cui si fonda la nuova Alleanza (il legame di amore indistruttibile con Dio e con gli uomini, anche suoi uccisori). A questo suo amore totale va il “compiacimento” di cui il Padre ha detto al battesimo e alla trasfigurazione e che qui rinnova. Per questo l’ha mandato nel mondo, a portare a compimento, con il suo sangue, l’antica Alleanza!
Se il chicco di grano… L’aveva detto e ripetuto ai discepoli, ma adesso è venuta l’ora di proclamarlo a tutte le genti, rappresentate da questo gruppetto di “greci” che vogliono vedere Gesù. Sta per iniziare il racconto dell’ultima cena e della successiva passione e morte, perché ormai è giunta l’ora di svelare “la sua gloria”: che letteralmente si potrebbe tradurre “il suo peso” — di baricentro gravitazionale dell’universo. Loro chiedevano di poterlo vedere! Ecco, guardate e ascoltate: questa è la sua identità più intima. È lui il seme che deve marcire sotterra per poter dare frutto… È lui che è costretto dalla morsa entro la quale lo schiacciano, a odiare la propria vita, cioè preferire d’esser torturato e ucciso, piuttosto che tradire o rinnegare l’amore, come invece faranno i suoi deboli discepoli, terrorizzati dalla paura di finire allo stesso modo! Questa totale fedeltà all’amore e alla verità (al Padre suo e ai suoi fratelli!) è l’alleanza nuova. Non è un nuovo patto con nuovi comandamenti: è il principio che da sempre muove la sua vita, la dinamica interiore o la forza propulsiva e pervasiva di tutto il suo cuore, di tutta la sua anima, di tutte le sue forze… Un mistero interiore così scarnificante (l’anima mia è angosciata), ma pure così determinato (per questo sono giunto a quest’ora!) che l’esito non può essere che l’implorazione e la consegna al Padre, “perché sia glorificato il suo nome”, come ha insegnato anche a noi, a pregare! E infatti scoppia — incompressibile a chi non crede! — la risposta dall’alto della vera gloria di Gesù, che è l’unione indissolubile tra la croce insanguinata e la resurrezione gloriosa che essa contiene. Oramai per il principe di questo mondo (il promotore della competizione e dell’odio tra gli uomini) la fine è segnata!

giovedì 26 marzo 2009

Lo j’accuse dell’Africa

L'Africa ci accusa
Perché è stata importante la missione africana di Benedetto XVI, nonostante le tante e ingenerose critiche che gli sono piovute addosso da ogni parte? Perché il Papa ha confermato di essere l’unico autorevole difensore del continente africano presso il resto del mondo. Ma attenzione: non dei Governi africani, per lo più corrotti [da noi!], ma dei popoli africani. Molti leader, saldamente al potere da anni, come in Camerun e Angola, si arricchiscono a dismisura sulla pelle della gente, senza alcun rispetto per le regole della democrazia. Oligarchi senza pietà all’arrembaggio dei propri popoli.
Di fronte ai gravissimi problemi del continente (guerre, sfruttamento, carestie, malattie...), nessun leader occidentale alza mai la voce. Lo fa solo la Chiesa. A Luanda il Papa ha dato una lezione di democrazia all’inossidabile presidente Dos Santos, al potere da 1979 e con nessuna intenzione di mollare, prima marxista e ora campione del "turbocapitalismo" senza pietà, con l’aiuto di Pechino. Ma i soldi del petrolio e dei diamanti di questa nazione ricchissima di risorse finiscono nelle tasche del presidente e di 120 famiglie sue fedelissime, mentre 15 milioni di angolani sono ridotti alla fame.
Nel palazzo del presidente un Papa coraggioso ha dettato le regole: trasparenza, rispetto, onestà, media liberi e magistrati indipendenti. Preoccupazioni diplomatiche? Nessuna, perché l’unico riferimento è il Vangelo.
L’Africa è un continente dimenticato e rapinato. Il Papa è il solo a esortare gli africani a «non svendere la propria dignità», al contrario di quanto sollecita il ricco Occidente. E la Chiesa, oggi, pubblica un documento coraggiosissimo per il prossimo Sinodo speciale dei vescovi africani. Testo che andrebbe letto per intero, non soltanto in Africa. È una lezione geopolitica, un esame di coscienza, per noi e i governanti africani, mette in crisi l’egoismo dell’Occidente, che spesso scivola nel razzismo.
Il viaggio del Papa aveva lo scopo di consegnare quel testo ai vescovi del continente. Forse, dovrebbero leggerlo per primi tutti coloro che, nel nome di una globalizzazione tragica, operano autentiche nefandezze, depredando l’Africa delle sue ricchezze. Sono gli stessi che paracadutano milioni di preservativi, a pioggia, illusi d’aver trovato la scorciatoia per debellare l’Aids. E per mettersi a posto la coscienza.
Intellettuali e politici di tutto il mondo hanno gridato allo scandalo, hanno dato del «leggermente folle» al Papa, perché ha osato mettere in dubbio che il profilattico sia la soluzione di tutti i mali. Davvero non c’è dietro la sollecitazione delle multinazionali del condom? Domanda legittima, anche perché i medici del Camerun e dell’Angola ritengono sia meglio abbassare il prezzo del cibo che quello dei profilattici. Lo stesso vale per le cure, che non ci sono. I successi del progetto "Dream" della Comunità di Sant’Egidio sono lì a dimostrare che con acqua pulita, cibo e una sanità che funziona, la carica del virus può calare.
L’investimento solo sul preservativo condanna a morte 22 milioni e mezzo di africani che l’Aids ce l’hanno già. È una soluzione minimale, che nasconde gli interessi di industrie, Governi e grandi Ong. Distribuire preservativi – dicono medici e associazioni africane – blocca nella gente una riflessione seria sulla sessualità, la violenza sessuale, la dignità della donna. Evidentemente, a chi ha dimezzato gli aiuti allo sviluppo e alla cooperazione, e nega dignità ai popoli dell’Africa, va bene così.

V domenica di Quaresima: "Vogliamo vedere Gesù"

Il vangelo che la liturgia ci propone per questa quinta domenica di Quaresima è tratto dal capitolo 12 di Giovanni. Sebbene questo possa far pensare che si è ancora abbastanza all’inizio della vita pubblica di Gesù (i capitoli totali di Giovanni sono infatti 21), in realtà siamo ormai prossimi alla fine: con il capitolo 12 infatti si chiude la prima parte del vangelo di Giovanni e con il capitolo 13 iniziano i racconti degli ultimi giorni (la lavanda dei piedi).
Il nostro passo è dunque particolarmente significativo perché dopo la risurrezione di Lazzaro e l’ingresso trionfale a Gerusalemme, questo è l’ultimo discorso pubblico di Gesù. Esso è occasionato da un gruppo di Greci, probabilmente proseliti o simpatizzanti del giudaismo, che avvicinatisi a Filippo gli pongono una delle domande esistenzialmente più pregnanti di tutto il Vangelo: «Vogliamo vedere Gesù».
La questione è fondamentale perché essi in questo Gesù che vogliono vedere individuano qualcuno che potrebbe essere significativo in ordine alla risoluzione del problema dei problemi: il rapporto dell’uomo con Dio. Evidentemente la prospettiva in cui questi uomini guardavano a questa problematica non era quella di oggi (per esempio era pressoché data per scontata l’esistenza di Dio o degli dei), eppure anche le nostre corde interiori suonano di fronte a questo “voler vedere”.
Ciò che c’è in gioco infatti non è tanto o non è solo il corretto rapporto dell’uomo con Dio: cioè banalmente cosa l’uomo deve o non deve fare per stare in pace ora e nell’aldilà. Sebbene a volte anche il cristianesimo si sia appiattito su questa visione riduttiva, non si può negare che essa non sia in grado di rispondere all’anelito originario dell’uomo.
Il problema infatti è quello molto più radicale e determinante di quale sia l’origine (non in senso biologico, ma fondativo) della nostra vita, il suo senso, il suo compito e compimento, il suo fine da conciliare con la sua fine. La questione è cioè se ci sia o meno Qualcuno che tenga in mano le fila disperse di quello che siamo (come singoli e come storia), se ci sia Qualcosa su cui vale la pena fondare una vita e anche perderla, se c’è Qualcuno insomma che non permetta che tutto questo sia un meschino gioco del caso che ci fa tornare e rimanere in polvere per l’eternità.
Per questo diventa così importante il vedere. Anche oggi spesso si sente dire: “Ah, se solo potessi vedere Dio”, o viceversa “Non credo in Dio perché non l’ho mai visto”… E quante volte anche a noi sale questo desiderio di una conferma, di una certezza, di una risposta…
È lo stesso anelito di questi Greci: hanno sentito parlare di questo maestro e vogliono vederlo; vogliono anche loro poterlo interrogare, ascoltare, valutare, perché forse ha da dare un’acqua che davvero placa il gemito interiore di un fondamento.
Non a caso la tematica del vedere in Giovanni non compare solo qui: l’evangelista infatti più volte riesce ad intercettare questa affannosa dimensione esistenziale e a riproporla in maniera originale: in proposito è utile ricordare che Egli è l’ultimo a scrivere un vangelo, dunque probabilmente aveva a che fare con tanti cristiani della seconda generazione, che, appunto, non avevano visto Gesù.
Giovanni per esempio introduce l’argomento già in 1,18, «Dio, nessuno lo ha mai visto»; e lo ripropone in 1,32.34, «Giovanni testimoniò dicendo: […] io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio»; oppure ancora in 1,39 è Gesù stesso a dire ai discepoli del Battista che lo seguivano: «Venite e vedrete». Ma al di là di questi esempi, che si sprecano, ciò che è interessante è notare come progressivamente nel vangelo, si scivoli da un “vedere” colto in chiave fisica a un vedere di altro tipo, tanto diverso da rendere l’altro superfluo. È sempre Giovanni infatti che in 20,29 fa dire a Gesù: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto».
Quest’affermazione, di cui noi forse per eccessiva abitudine non ci sorprendiamo più, in realtà se ascoltata alla luce di quanto detto finora sulla pregnanza esistenziale del vedere Dio, fa sobbalzare dalle sedie. In che senso infatti sarebbe beato chi non vede?
Per rispondere proviamo innanzitutto a farci aiutare da uno dei più grandi studiosi italiani di Giovanni, don Roberto Vignolo. Alla luce di quanto emergerà dalle sue considerazioni, torneremo poi al nostro testo per interrogarlo nella giusta prospettiva.
«In che cosa consisterà la forma specifica della fede che non vede rispetto alla visione che conduce Tommaso alla fede? Come dovrà intendersi una fede “beata perché crede e non vede”? In che termini il lettore sarà non solo penalizzato rispetto a questi personaggi, ma piuttosto fortunato, paradossalmente anche più di loro? L’enigmatico macarismo di 20,29 […] non intende affatto celebrare l’esaltazione di una fede cieca (e quindi più pura) contro una fede appagata di visione miracolistica (e quindi mediocre). Nemmeno rappresenta un deprezzamento per l’esperienza di Tommaso, e dei testimoni oculari in genere. […] Ma questa forma della fede si rivela singolarmente “felice” per le seguenti ragioni: 1- è una fede che dipende da una testimonianza – proprio come la fede degli stessi testimoni oculari. Come il Verbo incarnato, testimone del Padre, implicava e incorporava testimoni, così implica e incorpora anche un Libro [il vangelo] quale sua estrema forma testimoniale destinata a valicare il fossato delle generazioni: […] i segni fatti da Gesù sotto gli occhi dei suoi discepoli appaiono in una veste assai diversa rispetto al loro primitivo prodursi: non solo “selezionati”, ma anche già “contemplati”; non più allo stato grezzo, ma trasformati tutti in “parola”; non più isolabili rispetto ai discorsi di Gesù, ma al contrario tutti corredati dalla sua parola che li interpreta; non più frammentati rispetto alla totalità della sua missione, ma invece illuminati dalla intelligenza pneumatica postpasquale, organicamente assemblati nel racconto complessivo che il Libro offre della storia di Gesù; 2- questo kerygma specificamente testimoniale chiede e sollecita un ascolto che, lungi dall’essere cieco, intende piuttosto “far vedere” e “insegnare come vedere”. […] Mentre si fa ascoltare come testimonianza verbale scritta infatti, il Libro fa vedere sia ciò che i testi oculari hanno potuto vedere nella fede (il contenuto cristologico della rivelazione), sia come essi abbiano potuto farlo (il loro cammino di fede). La visione indiretta dei segni di Gesù attraverso il Libro favorisce ulteriormente il lettore proprio in quanto passa attraverso una duplice mediazione: quella dei personaggi e quella dell’autore» [R.Vignolo, Personaggi del Quarto vangelo, Glossa, Milano 1994, 89-97].
Questa la risposta che Vignolo dà a partire da Giovanni 20,29; essa non è affatto banale, tanto che riesce a incanalare nella giusta prospettiva anche il nostro episodio: in che modo infatti va letta la risposta di Gesù al desiderio dei Greci di vederlo? Ad una prima lettura le sue parole sembrano infatti non centrare il bersaglio, sembrano quasi divagare. In realtà proprio in esse si può rintracciare un percorso esistenziale all’altezza della domanda postagli, un vedere non più banalmente fisico o dimostrativo, ma coinvolgente una dinamica di libertà.
Procediamo con ordine. Le prime parole che Gesù pronuncia sono: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato». Come anticipato, sulle prime, questo incipit della risposta di Gesù non sembra andare esattamente incontro alla richiesta dei Greci. Eppure è un incipit importante: se si hanno nelle orecchie i capitoli precedenti del vangelo infatti, ci si accorge che qui per la prima volta Gesù afferma che la sua ora è giunta. Finora aveva affermato il contrario (cfr Gv 4,1; 7,1; 8,59; 10,39). Adesso però Egli intuisce che il suo tempo si è fatto breve, la sua morte incombe. Di fronte allora a questi uomini che manifestano il desiderio di vederlo, imposta una risposta nuova: l’ora è giunta e «se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto».
Con queste parole, ancora apparentemente elusive della domanda dei Greci, in realtà Gesù sta dicendo che “venire a Lui” non può essere solo un fatto materiale, fisico, un vederlo con gli occhi del corpo, ma un incontro vitale con la sua esperienza di morte: solo essa infatti renderà possibile vederlo per chi è realmente e definitivamente. Solo essa inoltre permetterà un autentico decidersi per lui: «Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore». Incontrarlo vorrà dire allora assimilarsi a Lui, proprio come anche nel campo dell’esperienza umana “vedere” realmente una persona vuol dire intrecciare la propria libertà con la sua: esistenzialmente infatti, gli occhi più oggettivi sono quelli di coloro che si amano! Solo chi ama infatti conosce veramente e sa dare il giusto peso alla vita altrui… Chi ama infatti sa che il “peso” della vita dell’altro è sempre più grande del peso della propria: solo lui infatti è disposto a “perdere la vita” per l’altro, un perdere la vita inteso proprio come lo intende qua Gesù: non un buttarla via, ma un consegnarla all’amato e per l’amato. Non a caso è la via seguita da Gesù con l’uomo: è a lui e per lui che la sua vita è consegnata! E questa è la nuova alleanza che già Geremia descriveva in modo così toccante: «Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro dicendo: “Conoscete il Signore”, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato».
Eppure non è un’alleanza “facile”: l’atmosfera di anticipata glorificazione in cui Giovanni racconta la passione di Gesù non deve essere fraintesa. Non è un’anestetizzazione per i deboli di stomaco. Questo modo di essere uomo e di essere Figlio, Gesù l’ha imparato in un quotidiano decidere di se stesso, in uno storico patire la vita e la morte con l’univoca risposta dell’amore: «Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì».
Anche nel nostro brano questo emerge con chiarezza. In queste parole di Gesù infatti sono contenute tutte le tematiche dell’agonia nel Getsemani dei sinottici che Giovanni invece non racconta: «Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome».
E proprio in queste ultime parole sta la risposta più esplicita ai Greci: essi chiedevano di vedere Gesù, ma Egli rimanda al Padre, il quale, per l’unica volta nel vangelo di Giovanni, risponde dal cielo, «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».
«La croce allora – come commenta un altro grande biblista – è il momento in cui si manifesta la piena consonanza, la perfetta unità tra Gesù e Dio. Il momento dell’innalzamento è quello in cui Gesù rivela, “racconta” la sua unione con il Padre: […] i suoi gesti sono i gesti di Dio, il suo amore è l’amore di Dio. […] La croce allora diventerà il momento in cui Cristo attirerà a sé tutti coloro che desiderano vederlo, perché lì essi contempleranno Gesù come manifestazione di Dio che chiama a sé l’umanità» [P.Pezzoli, Scuola della Parola 1997, Bergamo, Litostampa Istituto Grafico, 229].

martedì 24 marzo 2009

cei pride

Il vero orgoglio
Ieri è stata la giornata dell’orgoglio cei!

L’orgoglio non solo è il più grave dei peccati ma proprio per questo rende ciechi… doppiamente ciechi: rispetto ai propri peccati e rispetto ai meriti altrui!

Infatti nella vostre tredici pagine di prolusione non c’è nessuna autocritica, nessun riferimento ai vostri errori, ai vostri insulti, alle vostre orgogliose condanne scagliate come pietre che lapidano l’anima… c’è solo, puro, diabolico, orgoglio…

Ne emerge un concetto di chiesa italiana, che si concepisce fuori dal mondo o comunque al di sopra di esso… una bella differenza con l’atteggiamento di Gesù che si tolse le vesti (non se le stracciò come fate voi caro Bagnasco & C.ei) e si piegò e inginocchiò ai piedi dei suoi sporchi discepoli e si mise a lavare i loro piedi, lerci e maleodoranti, senza turarsi mai il naso!

Non è quello che dite che ci preoccupa, che potremmo persino condividere, noi contrariamente da voi siamo per il dialogo come unica fonte di manifestazione storica della verità che viene dallo Spirito di Dio: è quello che vi ostinate a non dire che ci spaventa...

«Stare con il Papa, sempre e incondizionatamente» poi, e come state facendo voi, appartiene solo a quelle dimensioni “meschine” del carrierismo umano che niente hanno a vedere con l’atteggiamento di Gesù e la vera Tradizione (con la T maiuscola) della Sua chiesa che sceglie sempre e qui sì incondizionatamente solo l’ultimo posto del peccatore e della peccatrice…

Nessuno, tanto più nella chiesa come anche gli Apostoli insegnano, è quindi al di sopra di ogni critica e di ogni consiglio, tanto più se rimane vero che siamo tutti chiamati a dare ragione della speranza che è in noi... Critiche che tanto sono penetranti quanto più grande è la vostra impermeabilità ad esse, con una ostinata e orgogliosa sordità alla voce di Dio che viene dal Suo Popolo e a cui voi siete stati chiamati per servire e non per servirvene nei vostri piani politico-religiosi!

Per fortuna noi sappiamo, e questo ci riempie di speranza e di gioia, che questa che voi rappresentate, nonostante sembri il contrario per il clamore della ribalta, è una chiesa minoritaria, disperata, psicotica, che vede perdere giorno dopo giorno, grazie a Dio, i propri privilegi, perché rifiuta di farsi umile ancella e di mettersi in ginocchio in rispettoso ascolto senza sindacare sulla purezza del linguaggio di coloro che domandano di diventare figli!

E allora appare inaccettabilmente offensiva questa vostra eresia papalista e fideista che rifiuta alla fede, le ragioni di una speranza pensata, verificata, provata e soprattutto capace di dare ragione di sé nel proprio personale (e non dei propri membri!) vissuto concreto, facendosi serva e rifiutandosi di affidarsi ciecamente, sempre e comunque, perché anche contro la stessa “dottrina” della chiesa di Cristo, al comando di chicchessia…

So che la stragrande maggioranza dei cristiani che hanno il cuore rivolto a Cristo e al suo rappresentante in terra, il povero, vivono un’altra chiesa, un’altra comunione… e sappiamo che molti vescovi vivono questa dimensione… nel silenzio!

Credo che sia giunta l’ora che questi vescovi alzino la voce… Che questi vescovi che sono la maggioranza, che non condividono questo orgoglio mal riposto, vengano finalmente allo scoperto, riparando al loro peccato di omissione e gridino a gran voce il nostro “ora basta!”.

Signori rappresentanti-di-una-chiesa-che-non-esiste-da-tempo, toglietevi le vesti e scendete dalle vostre cattedre a forma di troni e fatevi servi veri, di una umanità il cui orgoglio state calpestando da troppo tempo!

lunedì 23 marzo 2009

La lingua

Parlare parlare... noi lo facciamo spesso. Ma siamo così sicuri che... “Del resto bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo.
Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi. Appartiene alla ditta.
Invece la lingua che parla e scrive Gianni è quella del suo babbo. Quando Gianni era piccino chiamava la radio alla. E il babbo serio: «Non si dice lalla, si dice aradio».
Ora, se è possibile, è bene che Gianni impari a dire anche radio. La vostra lingua potrebbe fargli comodo. Ma intanto non potete cacciarlo dalla scuola.
«Tutti i cittadini sono eguali senza distinzione di lingua». L’ha detto la Costituzione pensando a lui.” Don Milani, Lettera a una professoressa, pag. 18

venerdì 20 marzo 2009

Dio ha tanto amato il mondo…

Anthony Van Dyck (Flemish, 1599-1641) - Il serpente di Bronzo - (c. 1618-120), Olio su tela, 205cm x 235cm, Museo del Prado, Madrid
Dio ha tanto amato il mondo…
Questa è la nostra consolazione più sicura! Che a Dio piace amare! È solo capace di amare!… da Dio, cioè immensamente e instancabilmente! “Laetare!” vuol dire rallegrati! Hanno scelto questo vangelo perché è la domenica della gioia, a metà quaresima. Il dialogo notturno con un onesto fariseo della classe dirigente, che viene a parlargli di nascosto, conquistato, pur con tanti dubbi, dalla testimonianza affascinante di Gesù di Nazareth, ci apre al mistero centrale, il nostro stesso mistero, del rapporto tra Dio e noi, e la nostra storia, il nostro mondo. Anche noi, come l’antico rabbino, abbiamo percorso tanta strada, con tante fragilità e reticenze, ma senza smettere di cercarlo, dentro le leggi e le istituzioni, le tensioni morali personali e comunitarie, necessarie ma incapaci di salvare né noi né il mondo – e non abbiamo smesso di cercarlo neanche fuori dei nostri recinti sacri, perché da sempre “… un interrogativo bruciante ci assilla: come far penetrare il messaggio evangelico nella civiltà delle masse? Come agire ai livelli in cui si elabora una nuova cultura, in cui si instaura un nuovo tipo di uomo, che crede di non aver più bisogno di redenzione? (Paolo VI, Evangelica testificatio 52). A questo ricercatore notturno Gesù non parla di come cercare Dio, ma di come Dio cerca noi, da sempre! Parla di un “Dio” perdutamente innamorato del mondo, che lui stesso ha creato e che però lo misconosce: questo è il mistero paradossale a cui conduce il lungo cammino dell’avventura giudeo-cristiana. … Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito… non… per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Dopo 2000 anni dall’avvento di Gesù, l’autore del vangelo ripeterebbe anche oggi che il mondo rimane immerso nelle tenebre! Ma ribadirebbe pure che non per questo Dio diventa il nostro “giudice” (come l’uomo di ogni tempo e di ogni latitudine invincibilmente lo percepisce e lo teme), ma rimane sempre solo un Dio “salvatore”! Al punto da “dare” tutto se stesso, anzi più che se stesso, il figlio suo… perché il mondo, destinato di natura sua alla morte, trovi in lui – il figlio suo, che è la “sua” vita! la via della salvezza. Questo è l’asse centrale del tortuoso errabondo percorso biblico. Il cuore del vangelo, della “buona notizia”, che brilla nelle nebbie del mondo… Ad ognuno di noi, vecchi cristiani, che dovremmo ben sapere di questo Dio, ma troppo spesso ne perdiamo le tracce nelle fatiche e disperazioni proprie e altrui, Gesù ripete: tu sei maestro in Israele e non sai queste cose?
…come può rinascere un uomo quando è vecchio?
La tentazione di fondo, di allora come di oggi, per chiunque creda e si trovi coinvolto in questo mistero di dolore e smarrimento, è quella di Nicodemo: “Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?”. Anche noi talora ci illudiamo che la cultura, le credenze, i segni e i simboli, le liturgie e le teologie… del passato, che pure hanno plasmato la fede dei nostri padri e hanno impastato la loro carne con il vangelo e i sacramenti, possano ridiventare anche per noi l’utero in cui rinascere… Ma la proposta di Gesù e incessantemente e radicalmente sempre nuova : In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito. Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito«. «. Ogni credente e ogni generazione si ritrova di fronte a questo mistero di amore totalmente “offerto” da Dio al mondo, perché questa è la testimonianza ineludibile di Gesù, il centro del suo vangelo. Ma nella nostra quotidiana esperienza questo privilegio di amore è un dono non verificabile coi parametri della “carne”, ma solo con quelli della fede. La Parola infatti ci racconta delle medesime nostre difficoltà: I padri moltiplicarono le infedeltà … essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti. Le disgrazie del popolo che seguirono, fino all’esilio, furono interpretate come castigo di Dio. Uno strano castigo… perché quando ormai tutto sembrava perso, senza più profeti, né sacerdoti, né re, né tempio, e il popolo stesso era disperso in esilio, a compimento della Parola del Signore predetta per bocca di Geremia, il Signore suscitò lo spirito di Ciro re di Persia. Un re pagano, che nemmeno conosceva il Dio di Israele, diventa per un attimo il messia del Signore.
Chi crede nel figlio…
La vita nuova, che la legge propone ma non dà capacità di “fare”, che i profeti promettono, ma hanno intravisto solo da lontano, man mano che la storia ci impone situazioni nuove e ci coinvolge in condizioni drammatiche senza uscita, troppo più grandi di noi, è “la vita eterna”! È questa che Gesù dona a chiunque crede in lui, affinché chiunque crede in lui non si perda. La nostra destinazione naturale è tornare polvere della terra da cui proveniamo. La vita eterna non è una vita aliena, “di là”, futura!… É la vita generata in noi dall’alto, cioè dallo Spirito, adesso, dentro la nostra carne, in questo nostro frammento di storia che stiamo vivendo. Non è quella prodotta dalle nostre industriose ma carnali, cioè mortali, possibilità umane. Per quanto riguarda noi, dice bene Paolo: ricordatevi che voi eravate incirconcisi, esclusi, senza speranza - Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati , ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati! Per la sua totale estraneità al male e all’oppressione, per la sua appassionata dedizione all’amore, si sono coalizzati contro Gesù i poteri del male, per eliminarlo, perché da lui, inerme ma indomabile, si sentivano minacciati, quasi avesse condensato in sé, come l’antico serpente, tutto il veleno dell’umanità. Stritolato dai meccanismi del potere politico, religioso, economico, Gesù ha vinto il male ed è divenuto così sacramento e modulo di salvezza, per tutti quelli che credono in lui. Che non solo ha salvato, donando la vita per loro e per tutti noi, ma ci ha insegnato il modulo di salvezza, la possibilità cioè di guardare a lui e rinnovare anche in noi, e attorno a noi, la sua salvezza: Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. L’innalzamento del Figlio dell’uomo è l’anticipo della sua morte e risurrezione. Lasciarsi innalzare è lasciarsi crocifiggere dagli uomini. Ma lasciarsi innalzare è anche essere glorificato dal Padre! E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me. Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire (12,32). Inizia una salvezza per attrazione! La vita eterna è questa commistione di terra “glorificata”, di passione “salvatrice”, di peccato “santificato” – perché, impregnate dello Spirito, le “nostre cose” diventano evento di salvezza e durano in eterno!
Chi fa la verità viene alla luce
La salvezza è “fare verità”! Questa verità, manifestata in Gesù, dentro di noi e attorno a noi, e così divenire… la nostra intima verità! Ma per sapere qual è la nostra verità bisognava che Gesù fosse innalzato, perché vedessimo bene qual è il destino del nostro congenito desiderio di onnipotenza, come prediceva, senza saperlo, l’antico serpente (non morirete… sarete come dei!). Nella storia, Dio l’onnipotente è Gesù innalzato sulla croce per amore, e proprio per questa sua estrema totale attitudine di amore, glorificato in eterno: Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. È questa la fede discriminante di ogni esistenza. Il nome di Gesù sintetizza questo mistero, questa specie di magia universale di attrazione gravitazionale all’amore. Non lasciasi attrarre è l’autocondanna. Perché il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. L’unico giudizio che sovrasta l’umanità è l’amore del Padre: la chiamata a vivere nella luce. Chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio. Tutto ciò che in qualche modo, pur fragile e ancora ambiguo, cade sotto i raggi dell’amore eterno, fermenta la carne e la riveste di luce. Ma questa luce “cristiana” vuol dire passione, dono di sé per amore. Per cui la croce a cui Gesù glorioso è ancora inchiodato per attirarci a sé, diventa non il giudizio conclusivo con cui Dio pone fine a questo mondo ostile, ma l’accoglienza sorprendente della totalità del mondo e dell’umanità. L’abbandono, la sofferenza, il male permangono storicamente, ma vengono per sempre agganciate già adesso al futuro di Dio, per cui la storia ormai cova dentro di sé il futuro di Dio – la vita eterna. Allora il tempo che passa - e il suo pungiglione che è la morte - viene svelenito e diventa il tempo di Dio, che in Cristo ha trasformato lo strumento della nostra condanna nello strumento della nostra salvezza.

IV domenica di Quaresima: Gesù e Nicodemo

Le letture che la Chiesa ci propone per questa quarta domenica di Quaresima sono davvero complicate… Risulta faticoso trovare un nesso tra di esse e, anche scegliendo di concentrarsi solo sul vangelo, il compito non pare semplificato.
Questo forse dipende innanzitutto dal fatto che i versetti di Giovanni proposti dalla liturgia sono solo una sezione del più lungo discorso tra Gesù e Nicodemo, iniziato 10 versetti prima; in secondo luogo forse dal fatto che il brano scelto è una sorta di approfondimento teologico su quanto precede: una specie di commento a mo’ di monologo (non si coglie con precisione se riferito da Gesù o dall’evangelista), in cui si concentra quasi una sintesi di tutto il messaggio di Gesù nel quarto vangelo.Prima di indagare questi nostri versetti è allora forse utile fare un piccolo passo indietro per cogliere cosa si sono detti Gesù e Nicodemo fino a questo punto.

La storia di Nicodemo e del suo sopraggiungere di notte, con tutti i significati simbolici che sono stati attribuiti a questa oscurità, sono fin troppo noti; per questo preferiamo addentrarci subito sulle parole. Il primo a parlare è Nicodemo («Rabbi, sappiamo che sei un maestro venuto da Dio; nessuno infatti può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui», Gv 3,2), che però almeno esplicitamente non pone nessuna questione a Gesù, non gli fa infatti nessuna domanda diretta. Dalla riposta di Gesù però («In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio», Gv 13,3) si può evincere facilmente che c’era un’implicita problematica che turbava questo fariseo, capo dei giudei e maestro in Israele e che essa suonava più o meno in questi termini: Che cos’è necessario alla salvezza? Come si entra nel Regno? O più precisamente – dato che stiamo parlando di un rabbino fariseo – quali opere bisogna compiere per entrare nel Regno?
In sostanza, è la stessa problematica del capo giudeo di cui parla Luca nel capitolo 18 al versetto 18: «Che cosa devo fare per ottenere la vita eterna?» o del giovane ricco in Matteo: è cioè il problema dei problemi, il campo su cui il contrasto con Gesù diventerà forte, radicale, fonte di incomprensioni… tanto da risultargli fatale.
Infatti nei versetti che seguono («In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito. Non ti meravigliare se t’ho detto: dovete rinascere dall’alto», Gv 13,5-7) emerge con chiarezza la prospettiva evangelica di Gesù contrapposta a quella farisaica di Nicodemo: «Non sono le opere dell’uomo a inaugurare i tempi messianici e il Regno, ma le opere di Dio! […] È quest’opera di Dio, non la buona volontà dell’uomo, o le sue azioni, o anche la sua conversione, che gli permettono di entrare “nel Regno di Dio”. La “carne”, cioè l’umanità nella sua povera nudità, abbandonata a se stessa, non può che offrire risultati di “carne”, cioè di umanità mortale e fragile. “Non può” arrivare a compiere opere di tipo superiore e divino, come l’ingresso nel regno, partecipazione alla vita di Dio nel mondo stesso di Dio. Solo Dio, mediante il suo Spirito, lo può realizzare. […] Siamo così nel cuore stesso del vangelo: la divina iniziativa per la salvezza dell’uomo e la sconfitta di tutte le (farisaiche) presunzioni umane» [M. Laconi, in il racconto di Giovanni, pp. 76-78].
Ed è proprio qui che si inseriscono i versetti di questa nostra quarta domenica di Quaresima.
Essi, come si diceva, rischiano, ad una prima lettura, di apparire come bruscamente discostanti rispetto al discorso finora portato avanti, ma in realtà sono semplicemente un suo approfondimento.
La prospettiva proposta da Gesù a Nicodemo infatti attende ancora di essere chiarita: Cosa significa nascere dallo Spirito? O rinascere dall’alto? Di che tipo di uomo nuovo sta parlando Gesù? E in che senso è una condizione non da conquistare, ma da accogliere?
Ecco dunque questa sorta di digressione teologica che spazza definitivamente ogni rigurgito farisaico (quali opere devo adempiere per salvarmi?) e fa risplendere l’annuncio evangelico: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui».
Ecco il lieto annuncio: l’entrare nel Regno (che tradotto nel nostro linguaggio potrebbe suonare come il trovare senso e pienezza alla vita, il far tralucere da essa autenticità e dedizione, il lasciarsi inondare d’amore rilanciandolo a costo della vita) è insieme frutto dell’iniziativa di Dio e suo desiderio sull’uomo; la buona notizia è perciò questa: che chi ha in mano la storia (Dio) sta dalla parte dell’uomo e non da tifoso lunatico o da freddo calcolatore, ma come un padre, disposto anche a dare suo figlio, per gridare il suo amore per l’uomo. Un Padre dunque che non può essere confuso con un giudice che misura le nostre opere per valutare dove andremo a finire… Non è questo il Dio di Gesù: quello continua a proclamarsi interessato solo ad una relazione d’amore con l’uomo!
Noi invece siamo ancora qua a chiederci come evitare di andare all’inferno, che fare per salvarci l’anima, ecc…
E da questo punto di vista è paradossale la proporzionalità inversa tra l’uso (e abuso) dei versetti del vangelo di oggi («Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna») per reclamizzare eventi cattolici o titolare i volantini della parrocchia, e la consapevolezza media dei cristiani del loro contenuto autentico. Se fossero colti davvero, se fossero davvero presi sul serio, se con fiducia ci si affidasse alla promessa che contengono, avrebbero una portata talmente ribaltante da sconquassare il mondo!
Credere cioè che c’è qualcuno che tiene in mano le nostre vite e che lo fa con amore di Padre, senza una doppia faccia punitiva o retributiva, tanto da dare il suo Figlio unigenito per la nostra vita, sarebbe davvero liberante: libererebbe dalla paura della morte, dalla paura del peccato, dalla paura dell’inferno, dalla paura dell’incompiutezza, dalla paura dei fallimenti… Instaurerebbe davvero una possibilità di vita sempre rinnovata, rigenerata, rinata (dall’alto, appunto!)…
Non era questo infatti che come Chiesa avremmo dovuto annunciare? Non era di questo che avremmo dovuto rendere persuasi gli uomini e le donne che hanno attraversato 2000 anni di storia? Liberandoli ad una vita che fosse davvero Vita?
Era la bellezza che dovevamo fargli intuire, sentire, scegliere e vivere: la bellezza di una vita fondata su un amore solido, irreversibile, eterno e per questo abilitata a sua volta a farsi irradiazione di quel vero amore per gli uomini di cui parla Etty Hillesum, capace perfino di perdere la vita, per ritrovarla.
Ma forse era troppo difficile: era difficile convincere del bene e col bene e allora la nostra predicazione si è concentrata sull’evitare il male, pensando che non fosse un obiettivo poi così diverso da quello di Gesù… Abbiamo allora inventato l’inferno e le sue pene, perché sempre più ci siamo accorti che le persone – e anche noi – non credevano più che fosse più bello l’amore incondizionato, di una vita in cui accaparrarsi il meglio a scapito degli altri: troppo rischioso per la propria pelle e troppo impegnativo per esserci sempre e incondizionatamente. Ecco che allora si è iniziato a pensare – e si continua tutt’oggi, fuori, ma purtroppo anche dentro nella Chiesa – a credere che il male sia indubbiamente molto meglio, che però – va beh – c’han sempre detto che non va bene e allora tentiamo di contenerlo, di migliorarci un po’, di non esagerare… arriviamo fin dove arrivano tutti, giusto per “saper stare al mondo”… Sarebbe molto meglio avere tante donne che una sola, però va beh, cerchiamo di fare i bravi e concederci solo qualche scappatella ogni tanto; sarebbe bello poter fare l’amore con tante donne prima di sceglierne una, però va beh, cerchiamo di contenerci un po’ e proviamo solo con qualcuna; sarebbe molto meglio prendere un sacco di soldi in più, però va beh truffare è troppo, limitiamoci a qualche aggiustamento sul sette e quaranta; sarebbe molto meglio avere il posto del mio collega che prende di più, però va beh fare carte false è troppo, limitiamoci a “lavorarci” il capo; ecc… ecc… ecc…
E non ci accorgiamo che tutti questi nostri “va beh limitiamoci a”, cioè questi nostri piccoli rattoppi a un male che sentiamo seducente e che però tentiamo di limitare per “paura delle conseguenze” (terrene ed eterne), non hanno niente a che fare con il vangelo e la proposta di Gesù, che proclamava qualcosa di decisamente altro: la possibilità di una vita autenticamente buona/bella (ovviamente non in senso morale ma di pienezza esistenziale).
Non a caso è curioso come oggi i ragazzi non sognino più in grande: ho chiesto a circa cento sedicenni chi volessero diventare – non tanto cosa volessero fare nella vita, ma chi volessero essere – e le loro risposte mi hanno allibita: non perché abbiano scritto chissà che cose oscene o aberranti… ma perché hanno quasi tutti scritto cose normali, senza sogni, senza idealità. Non voglio scadere nei luoghi comuni, eppure mi pare questo il rigurgito attuale del percorso descritto sopra: i ragazzi hanno smesso di sognare in grande (nessuno o pochi credono per esempio nel grande amore di coppia: fare una famiglia risulta un obiettivo equiparabile a trovare un buon lavoro) e contemporaneamente hanno smesso di credere agli spauracchi infernali che le chiese hanno finora proposto per “farli venire a messa”… ma ovviamente dopo dieci volte che provano e vedono che continuano a vederci benissimo… chi glielo fa fare di gestirsi diversamente?
Forse è davvero ora di piantarla con tutta la coreografia del sacro e del religioso, con un ordine simbolico che non sa più far esperire il reale, e tornare, noi adulti per primi (adulti, sia dal punto di vista personale che istituzionale) a riscoprire e incarnare l’autentica proposta evangelica. Ma per persuadere gli altri che il Dio di Gesù è Dio così, per fargli intuire che c’è una conversione da fare nella loro idea di Dio e dunque di uomo e dunque di vita e dunque di morte, e dunque di felicità e dunque di amore e dunque di volto dell’altro, ecc… le parole sembrano non servire più… Forse è il tempo di creare nuovi spazi, dove il vangelo passi attraverso il bene di persone che insieme scelgono di legare il destino tra di loro e a un uomo (che era anche il Figlio di Dio) morto per amore… chissà che questi piccoli nuclei amanti, irraggiando un po’ di bene intorno non riescano a sanare almeno un po’ le ferite di questa nostra umanità disillusa, impaurita, senza speranza.

Gli occhi di Dio

Racconta Simpliciano in Minima episcopalia che, promosso vescovo del minuscolo resto della mitica Atlantide, al fine di esiliare ai confini del mondo la sua libertà di parola, prese a celebrare le Sante funzioni faccia a faccia col popolo dei pescatori nella lingua del luogo, invece che rivolto all’abside cieca della rocciosa cappella nell’algido latino della romana liturgia.
Fu allora, prosegue, che, avendogli il papa, Benedictus vattelapesca, intimato, sotto minaccia di scomunica, di officiare i riti nella lingua del clero con le spalle ad rusticos e il viso al Santo dei Santi, così rispose: «Mai pregherò Dio (Numquam orabo Deum) in una lingua che né Lui, né i suoi profeti, né il suo divin Figliolo, né il mio popolo, mai hanno parlato, e forse capito. Né mai mi rivolgerò a Lui, guardando il Suo divin Posteriore (divinissima terga Eius conspiciens), quando Lui stesso ci ha insegnato che solo a quello possiamo direttamente aspirare, mentre se vogliamo stare con Lui facies ad Faciem dobbiamo cercare il Suo volto nel volto degli ultimi. Sta scritto, infatti: nessuno può pretendere di rivolgere lo sguardo a Dio se non cercandolo per speculum negli occhi dei suoi poveri e nel viso umile delle peccatrici (Nemo potest Deum conspicere nisi per speculum in oculis pauperum Eius et in humilitate meretricium vulti). Se proprio vuoi, gira tu le spalle al popolo della chiesa, che tanto disprezzi, ma sappi che così Dio rivolgerà a te le spalle con terribili e incomprensibili parole, in dies irae et supernae salutis, nell’ora dell’ira e della suprema salvezza»
a. v. m. in il foglio” - n. 359, Torino, febbraio 2009

giovedì 19 marzo 2009

L’ombra delle lobby

L’ombra delle lobby
Una bella bufera non c’è che dire, quella sui preservativi e c’era da aspettarselo… anche perché di una cosa si è certi ancora una volta siamo davanti a una difetto di comunicazione…

Certo che chi mi legge da tempo sarà stupito da questo post, ma quello che dico si basa su un’esperienza personale di 14 anni d’Africa (mese più, mese meno).

E comunque sia, ho sempre scritto senza guardare in faccia a nessuno… quindi continuo imperterrito!

La domanda che mi faccio e vi faccio è: il preservativo serve a chi?

Mi è sempre piaciuta la matematica, la ritengo una scienza ecumenica:

Ho sempre spiegato che 1+1=2 e che 1+1+cattolico=2; 1+1+ateo=2; 1+1+musulmano=2; 1+1+idiota=2; 1+1+genio=2: il risultato è sempre uguale indipendentemente dal grado di fede o razionalità! E allora? Facciamo due calcoli…

Sappiamo da Wikipedia che uno studio americano ne rivela l’efficacia all’85%, ne deduco l’inefficacia al 15%. Se i miei calcoli non sono errati vuol dire che su 100 persone, sicuramente per 15 è “inutile”; su 1000 fa 150! Su 1.000.000 fa 150.000, su 6 miliardi fa 900 milioni!

Sapete quanti morti di cancro si hanno in un anno nel mondo?
Sapete quanti morti per incidenti stradali?
Sapete quanti morti per malaria?
Sapete quanti morti per infarto?
Sapete quanti morti per fame?
Sapete quanti morti tout-court?... andate a vedere…

Si può dire quel che si vuole sul Papa, ma checché Adriano Sofri ne dica, tirando in ballo il Brasile, non sempre uno stupido è sempre stupido… se poi sa far di conto!

E allora ripeto, al di là delle motivazioni di morale sessuale di qualunque credo, io domando ancora “statisticamente”: il preservativo a chi serve?

A prevenire l’AIDS! Dicono i saggi europei… Spagna, Germania, Francia, UE compresi!

Saggi o supini al potere economico?

Ma guarda un po’, proprio ieri la saggia e generosa Spagna ci informa che saranno donati gratuitamente in Africa 1 milione di preservativi (forse aveva letto in anticipo l’articolo di Sofri su Repubblica)! E il governo spagnolo li trova sull’albero? No! Evidentemente li compra e li paga! Quanto? Dal sito xyz sappiamo il costo di un preservativo, diciamo scontato, è di 1 euro a testa! Totale 1 milione di euro! Non c’è che dire un bell’aiuto criptico alle industrie interessate, spero soltanto che per non nuocere ai principi della concorrenza l’Unione Europea controlli che non siano solo “spagnole”… Ma forse non c’è bisogno di controllare perché sicuramente ogni nazione fa e farà altrettanto quindi la partita finisce in “patta”: ogni nazione sostiene le sue fabbriche (e i suoi operai elettori)!

Se suppongo che ogni nazione europea faccia altrettanto (e ché sono meno della Spagna?) e calcolando che siamo in 27 membri viene fuori più o meno, facciamo cifra tonda, tra i 20 e 30 milioni di euri, se poi aggiungiamo quelli della UE come istituzione siamo sicuri che arriviamo ai 30 senza batter ciglio, facciamo cifra tonda con un bel 50 milioni di euri con USA e Giappone? Cioè, a dir poco, circa 100 miliardi di vecchie lire! Tutti in lattice! L’industria farmaceutica almeno ringrazia? Naturalmente nulla vieta ai singoli africani, di comprarseli personalmente, ecc. ecc. La cifra allora è veramente notevole… Degna di far gola a chiunque… Mafie comprese! E non parlo mica di quelle siciliane, ma nel senso “generico” di mafia: lobby, al plurale!

Interessante infatti che non ci siano i soldi (e governi!) per obbligare le case farmaceutiche ad abbassare i prezzi dei medicinali anti HIV ma ci sono per i preservativi… un piccola pulce all’orecchio che forse forse, così disinteressati questi aiuti non lo siano, non vi viene? A me sì!

Se poi si viene a sapere che l’N-nitrosamina con cui vengono lubrificati tutti i preservativi, è cancerogeno, le pulci che mi vengono sono più di una! A voi no?

Diminuisce i rischi l’AIDS (a parte i 900 milioni di sfortunati), ma rischia di far venire il cancro agli organi genitali dei rimanenti 5 miliardi e 100 milioni! Bel progresso!

Dicevamo che diminuisce i rischi dell’AIDS? Chi l’ha detto? Come vengono acquisiti questi dati? Chi ne controlla l’autenticità? Sappiamo come vanno queste cose, non vorrei che fossero come quelli sul fumo!

Allora domando, se il preservativo non è riuscito nei miei 14 anni di Africa a impedire a chi ne faceva largo uso (parola di confessore!) a prendere le più disparate malattie veneree come faceva a impedire la contaminazione dell’HIV? Solo io so quante ricette ho dovuto pagare (all’industria farmaceutica occidentale!) per coloro che venivano da me piangendo che non avevano i soldi per curarsi di gonorrea, di sifilide, ecc. ecc. E non erano degli “inesperti”… Ma allora i 900 milioni sono molti di più…

I test di depistaggio si sa, in Africa più che altrove, non erano affidabili, (pare oggi lo siano di più, ma quanto?) e intere popolazioni risultavano infette all’80%, poi si è scoperto che tifo, malaria, denutrizione, ecc. influivano sui test facendo apparire positivo chi positivo non era… e di colpo con nuovi testi la percentuale era crollata, ma non certo grazie al preservativo!

Potrei continuare parlando delle prostitute di Kinshasa che sembrano immuni dall’HIV (la presunta generosità dei governi cosa aspetta a finanziare la ricerca? Ma si sa rende di più una malattia cronica che una malattia curata...); o sul fatto che nessuno vuole seriamente affrontare la denutrizione e le malattie che diminuiendo la resistenza al virus ne facilitano la contaminazione… oppure che se veramente avessimo a cuore la vita degli africani daremmo i soldi a loro per elevare il loro livello di vita e non alle nostre industrie farmaceutiche; o ancora potrei parlare dell’industria del sesso e non solo tailandese e vorrei veder come si possa negare a priori che ci sia un problema di “educazione” al controllo — se non altro turistico — dell’esercizio stesso della sessualità; ecc. ecc. ma mi fermo qui!

Non voglio affermare niente, né negare l’uso del preservativo, che in caso di male minore, diventa lecito anche per la morale cattolica, ma io domando ai lor signori scienziati, politici e giornalisti così pronti a difendere democrazia e libertà (ma a questo punto mi domando: di chi?): il preservativo è veramente il male minore?

A me sembra il “bene maggiore” soprattutto per le industrie farmaceutiche e turistiche… Per gli “utenti” è solo una roulette russa dove le percentuali di lasciarci le penne sono ben oltre il 15% dello studio americano (che come si sa di questi studi, sono sempre… “ottimisti”)… E voi consigliereste responsabilmente una roba del genere? Io no! Se poi uno vuole usarlo comunque, sono affari suoi, ma che non mi si chieda la benedizione per tacitare la propria suicida presunta responsabilità politica, scientifica e mass-mediatica…

Allora si può anche non esser d’accordo con questo “bigotto” di Papa, ma come negare in tutta la sua drammatica verità la frase — al di là delle motivazioni più o meno condivisibili dai vari “credo” — calcoli alla mano, che il preservativo NON è la via sicura a prevenire l’AIDS? Non basta urlare allo scandalo integralista, occorre dare prove scientifiche autentiche e soprattutto togliere ogni ombra di dubbio che quello che è un affare colossale per l’industria farmaceutica occidentale si stia trasformando anche in una forma moderna di colonizzazione culturale (e quindi razzista) da parte del “sistema” occidentale, stampa e TV comprese.

L’Africa (e il cosiddetto Terzo Mondo che sarà “Terzo” ma non è scemo!), attendono ancora una risposta oggettiva, non ideologica! E io pure!

Turismo Sessuale

sabato 14 marzo 2009

Il tempio di Dio… e il corpo dell’uomo

Il tempio di Dio… e il corpo dell’uomo
L’uomo compiuto
C’è una autorevolezza che viene dalla verità interiore di una persona, il fascino dell’autenticità, che tutti attorno sentono, alcuni accogliendola come un dono e uno stimolo, altri rifiutandola come un rimprovero o una sfida. Uomo compiuto, uno lo può essere soltanto diventando progressivamente quello che è, perché si è costruito così fin dall’inizio, orientando i suoi sentimenti, i suoi gesti, le sue parole nella costante, faticosa e gioiosa, fedeltà del processo della vita, a partire dall’istintualità infantile congenita in noi, in ascolto della “voce” che lo chiama da dentro – nella sua piccola nicchia socioculturale che lo permea da fuori.
Se lo sdegno della passione talora esplode, è sempre per la difesa dei diritti altrui violati o vilipesi, non per sé, perché non ha bisogno di difendere se stesso, confortato interiormente dalla testimonianza viva della verità. Allora il suo corpo, luogo, strumento e materia del crearsi dell’identità personale, da minuscolo germoglio di carne a uomo compiuto, è diventato la creta dove l’antica immagine di Dio ha trovato espressione, dove il progetto va compiendosi, la casa dove il Padre è venuto ad abitare, ormai indistruttibile, perché impregnata dal suo amore.
Gesù, erede della millenaria storia di Israele, è l’ebreo compiuto che ne incarna l’anelito ininterrotto di cercatori e ascoltatori della parola di Dio. Finché questo cammino non è terminato, e morte e risurrezione non hanno ancora sigillato l’alleanza nuova nel suo corpo, l’antica casa di Dio, il tempio, doveva servire solo alla preghiera incessante, che implora nell’attesa dell’ “eletto”, nel quale Dio potesse finalmente compiacersi. Gli idoli non devono assolutamente profanare la casa del Padre, tanto meno il dio alternativo, che è mammona, il denaro, il mercato – la svendita dell’amore!
Le dieci parole
Per capire la qualità intensa delle dieci parole, l’intenzione profonda che le definisce nella loro diversità irriducibile alla normativa morale e giuridica, occorre vederle dal punto di vista di Gesù, l’ebreo fedele, in cui hanno raggiungo il loro compimento e manifestato il loro vero senso. E allora si illuminano e, se materialmente appaiono come orientamenti fondamentali di diritto naturale, sono invece proposte di amore e vanno vissute come il tessuto dialogico di un’alleanza personale, nelle quali Gesù assume e porta a compimento la storia di predilezione di Dio per il suo popolo. Dove Dio si rivela un interlocutore appassionato fino alla gelosia, sin da quando, preso da compassione per il popolo che soffriva e piangeva nella condizione servile, lo ha liberato dalla schiavitù d’Egitto e condotto con affettuose ali d’aquila nel deserto, verso il Sinai, per farne il suo popolo libero e fedele. Un Dio affamato di un contraccambio del suo popolo, dal quale desidera un’appartenenza totale, per introdurlo in un mistero di amore dove ogni raffigurazione, concetto o nome è inadeguato ed osceno, come imprigionare l’amore in una gabbia. Un amore innominabile per troppa intensità, non per distanza o reticenza. Allora la pretesa esasperata di fedeltà assoluta della prima parte di queste “parole” è la conseguenza della trepidazione di un amore che sente come un tradimento personale (un adulterio) ogni perversione verso gli idoli, perché questi prima che “dei” concorrenti o alternavi, sono la deturpazione del volto e l’abbrutimento del cuore del popolo amato. Non dai comandamenti si allontanano, infatti, ma dal suo amore, che li farebbe felici! La tentazione è sempre la stessa, nelle sue diverse forme storiche condizionate dalla situazione culturale del momento: impossessarsi della potenza di Dio, per farne uno strumento al servizio dei propri desideri di onnipotenza. Per questo nella storia, man mano che ci si purifica da questa pretesa e ci si immerge nell’umile condizione umana, Dio è silenzio, cioè sempre meno si osa mettere in bocca a Dio le nostre parole. E perfino chi ne ha incarnato totalmente, senza uguali, le dieci parole… alla fine gli rimane solo l’implorazione, di fronte al silenzio di dio, di non essere abbandonato! Nessuno come Gesù patirà sulla sua pelle il mistero abissale del silenzio di Dio, al quale, nel momento supremo della vita (come dice il vangelo di Marco) potrà rispondere solo con un grido inarticolato di totale consegna (15,37).
I giudei esigono segni
Gesù rifiuta apparentemente la provocazione dei giudei (e dei credenti di ogni tempo) che chiedono segni, ma di fatto la esaudisce, prevedendo e lasciando che la logica perversa del rifiuto dell’amore distrugga il suo corpo: Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra. (Mt 12,40). Questa forza interiore di fedeltà assoluta all’amore è la sua vera “autorità”, contro la quale ogni potere spezza le sue armi, pur sicure di poterlo vincere! e dimostrando proprio con questo, che l’amore, che sembra inerme e disarmato, di fatto è invincibile… nella sua impotenza! Ed è proprio per questo che il corpo di Gesù umiliato, torturato e ucciso, diventa la nuova vera abitazione, il vero tempio di Dio, che è amore! E qui, in questo luogo sacro, il Padre scende a compiacersi di trovare chi ha ascoltato la sua parola fino a diventare, come Dio, amore. Un corpo di carne che diventa amore è il luogo di Dio, è divino!
Egli parlava del tempio del suo corpo
…il nuovo tempio del culto di Dio è dunque il corpo dell’uomo, attraverso un passaggio, una pasqua, che proprio per renderci capaci di questo amore abissale, passa attraverso il dono “fisico” della vita, e scende come ogni corpo nel ventre della terra. L’osservanza radicale e compiuta della legge, pallida immagine del progetto di Dio sulla natura e sulla storia, porta fino a questa soglia, non può andare oltre. È esterna all’uomo, scritta su lastre di pietra, non ancora incisa sul cuore degli uomini. Giudei, che si fidano solo di segni divini, e greci, alla ricerca di una superiore sapienza umana, sono parimenti bloccati di fronte a questa soglia. Noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani. La maturità cristiana è il lungo cammino, alla sequela di Cristo, per fare del proprio “corpo di carne” il tempio, il luogo di “riconoscenza” del Padre, dove la legge e la giustizia sperimentano la propria impotenza, per l’invincibile tentazione contrattuale di cui sono intrise, che fa di ogni rapporto con Dio un consapevole o inconsapevole mercato, dove non il volere, ma il potere di Dio è la merce più ricercata. Ma Dio è stoltezza, scandalo e debolezza… in questo mercato! e la religiosità del credente, come la sapienza dell’ateo, giustamente aborrono un tale scambio!
I suoi discepoli si ricordarono… e credettero “nella scrittura” e “nella parola di Gesù”.
Il male della storia, la sofferenza dell’innocente, come del colpevole, l’ineluttabilità della morte… ci mettono di fronte alle fauci dell’incomprensibile o del nulla… dove il non senso mette a nudo la nostra precarietà - la nostra radicale lontananza da Dio. E la fede non è l’esenzione dall’angoscia del male nella storia, al contrario. Perché credere nell’unicità del Dio di Gesù sta proprio in questo, credere che egli è capace di stare dove non c’è posto per lui! E il posto dove non c’è posto per Dio, deve essere attraversato da chi vuole unirsi a Dio, cioè seguire Gesù, Servo e Signore, … fin dove la sua avventura umana ha toccato il fondo! Non è stato Gesù ad abbandonare Dio, ma è stato l’amore del Padre a spingerlo fin dove c’era l’assenza, il non senso della sofferenza e del silenzio di Dio (G. Ruggeri). Che Dio abiti, ormai, l’umile impotenza del corpo dell’uomo, la precarietà del suo desiderio inesausto, molto più che il simbolo sacro e religioso dove noi lo costringiamo, dovremmo ormai ricordarcelo e crederlo, perché ce l’aveva detto… e la sua Parola, confermata dalla Risurrezione, è ormai il compimento delle Scritture, che proprio questo di Lui avevano profetizzato!

venerdì 13 marzo 2009

Il vero culto è l'incontro con Gesù risorto

La prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, che la liturgia ci propone per questa terza domenica di Quaresima, propone il cosiddetto decalogo, ossia i dieci comandamenti che Mosè ricevette da Dio sul Sinai. È un testo molto noto e i cui commenti si sprecano. Più interessante è forse allora cercare di cogliere il senso del suo abbinamento al Vangelo di Giovanni (2,13-25), in cui è narrata l’altrettanto famosa scacciata dei mercanti dal tempio da parte di Gesù.
Dato che entrambi i brani contengono chiari riferimenti al culto – «Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai», Es 20,3-5; «Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”» – è lì che va concentrata la nostra attenzione.In proposito, bisogna intendersi bene su cosa significhi, biblicamente parlando, il termine “culto”; e il miglior modo per farlo è lasciar parlare i testi. In particolare il libro dell’Esodo, nei versetti costituenti la prima lettura, sottolinea come l’unico vero atto di culto sia quello riservato all’unico vero Dio. Anzi, più precisamente l’atto di culto sembra identificarsi con il non fare di nient’altro, Dio. Il culto vero quindi corrisponde coll’avere/ritenere Dio unicamente il Signore, colui cioè che ha condotto fuori dal paese d’Egitto – dalla schiavitù – il popolo di Israele.
Questa annotazione storica («Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile») non è stilistica o marginale; anzi, racchiude il senso stesso di tutto quanto segue: proprio perché c’è una storia di salvezza, una vicenda di liberazione, una relazione di custodia, Dio è il Dio del popolo. Solo per questo ha senso un culto: esso non è mai inteso come una mera pratica vuota, una ripetizione di gesti o parole magiche – che funzionano senza adesione del cuore; non è mai nemmeno un tentativo di ingraziarsi o imbonirsi la divinità. Molto di più, il culto è l’esplicitazione gestuale, vocale e rituale di quella relazione originaria che fonda la vita: proprio perché Dio è Colui che ha condotto fuori dall’Egitto il popolo, proprio perché cioè Dio è Colui col quale c’è una storia di reciproco disvelamento e affidamento, sono necessarie le mediazioni simboliche (culto) che permettono la relazione.
Ecco perché l’idolatria è considerata il peccato più grave del popolo: essa non è, come a volte capita di pensare a noi occidentali, una forma scaramantica nei confronti di statuette di poco conto, ma la scelta di fondare la propria vita su ciò che fondatezza non ha, su ciò che – anche linguisticamente – evoca l’inconsistenza, l’evanescenza, l’insignificanza («Gli idoli delle genti sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Le loro mani non palpano, i loro piedi non camminano; dalla loro gola non escono suoni! Diventi come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida!», Sal 115).
Il libro dell’Esodo ribadisce dunque l’unicità della relazione d’alleanza («io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo», Ger 7,23; 11,4; 30,22; Ez 36,28) e la necessità di un’autentica mediazione simbolica che la custodisca e la alimenti.
Anche il vangelo focalizza la sua attenzione in questo senso. Solo che in esso la questione sembra allargarsi, o meglio approfondirsi: la problematica infatti sembra essere quella rimandata dalla situazione per cui anche il culto codificato è diventato idolatrico.
Non si tratta certo di una tematica sconosciuta al Primo Testamento (basti pensare a cosa dice Isaia di sacerdoti e profeti al capitolo 28,7: «Sacerdoti e profeti barcollano per la bevanda inebriante, sono annebbiati dal vino; vacillano per le bevande inebrianti, s’ingannano mentre hanno visioni, traballano quando fanno da giudici»; o al capitolo 30,9-11: «Questo è un popolo ribelle. Sono figli bugiardi, figli che non vogliono ascoltare la legge del Signore. Essi dicono ai veggenti: “Non abbiate visioni” e ai profeti: “Non fateci profezie sincere, diteci cose piacevoli, profetateci illusioni! Scostatevi dalla retta via, uscite dal sentiero, toglieteci dalla vista il Santo d’Israele”»; o Geremia, al capitolo 2,7-8: «Io vi ho condotti in una terra che è un giardino, perché ne mangiaste i frutti e i prodotti, ma voi, appena entrati, avete contaminato la mia terra e avete reso una vergogna la mia eredità. Neppure i sacerdoti si domandarono: “Dov’è il Signore?”. Gli esperti nella legge non mi hanno conosciuto, i pastori si sono ribellati contro di me, i profeti hanno profetato in nome di Baal e hanno seguito idoli che non aiutano»), ma che certamente nella risposta di Gesù trova un’evoluzione sorprendente e scandalosa.
Gesù infatti compie un gesto fortissimo («Fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”»), ma in modo più radicale ancora usa parole di spiegazione sconcertanti.
Infatti, alla richiesta di spiegazione dei Giudei – che in questo versetto 18 del capitolo 2 si oppongono per la prima volta a Gesù, ma d’ora in poi diventeranno i suoi oppositori abituali e che qui indicano sicuramente i custodi del tempio – («Quale segno ci mostri per fare queste cose?»), risponde: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere».
Alla domanda, cioè, sulla sua εξουσία (exusìa), sull’autorità con cui compie il gesto simbolico della purificazione del tempio, Gesù risponde rimandando al suo corpo. Questo è evidentissimo, oltre che dall’esplicitazione «egli parlava del tempio del suo corpo», anche dal verbo εγειρω (egheiro), risorgere.
Al di là dunque dell’incomprensione contingente – i Giudei credono che Gesù parli del tempio di Gerusalemme – la rilettura dell’episodio da parte dell’evangelista, non lascia dubbi: il vero culto è quello della relazione personale con Gesù risorto. Ogni ordine simbolico che perde di vista questa centralità, seppur codificato istituzionalmente, è idolatrico. Ecco perché egli può dire alla Samaritana: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. […] Viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità» (Gv 4,21.23-24).Questo è dunque l’unico vero culto cristiano (e in proposito non mi dilungo sulle ripercussioni che questo dovrebbe avere anche su un’analisi critica della situazione ecclesiale odierna, rimandandola al percorso personale di ciascuno); culto cristiano autentico che – sorprendentemente – ha colto in maniera lucidissima Etty Hillesum, una Donna, che cristiana non era. Ma anche in questo caso è meglio far parlare i testi: «Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta da pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo»; «Mio Dio prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto e nel modo migliore. Ma concedimi di tanto in tanto un breve momento di pace. Non penserò più, nella mia ingenuità, che un simile momento debba durare in eterno, saprò anche accettare l’irrequietezza e la lotta. Il calore e la sicurezza mi piacciono, ma non mi ribellerò se mi toccherà stare al freddo purché tu mi tenga per mano. Andrò dappertutto allora, e cercherò di non aver paura. E dovunque mi troverò, io cercherò di irraggiare un po’ di quell’amore, di quel vero amore per gli uomini che mi porto dentro. Ma non devo neppure vantarmi di questo ‘amore’. Non so se lo possiedo. Non voglio essere niente di così speciale, voglio solo cercare di essere quella che in me chiede di svilupparsi pienamente. A volte credo di desiderare l’isolamento di un chiostro. Ma dovrò realizzarmi tra gli uomini, e in questo mondo. E lo farò, malgrado la stanchezza e il senso di ribellione che ogni tanto mi prendono. Prometto di vivere questa vita sino in fondo, di andare avanti»; «Mi meraviglio di quanto io mi stia già orientando verso la prospettiva di un campo di lavoro. […] Ieri è stato un giorno pesante, molto pesante; ho dovuto soffrire molto dentro di me, ma ho assorbito tutte le cose che mi sono precipitate addosso, e mi sento già in grado di sopportare qualcosa in più. Probabilmente è di lì che mi viene questa serenità, questa pace interiore: dalla coscienza di sapermela cavare da sola ogni volta, dalla constatazione che il mio cuore non s’inaridisce per l’amarezza, che i momenti di più profonda tristezza e persino di disperazione mi lasciano tracce positive, mi rendono più forte. Non mi faccio molte illusioni su come le cose stian veramente e rinuncio persino alla pretesa di aiutare gli altri, partirò sempre dal principio di aiutare Dio il più possibile e se questo mi riuscirà, bene, allora vuol dire che saprò esserci anche per gli altri. Ma su questo punto non dobbiamo farci delle illusioni eroiche. Mi chiedo che cosa fare effettivamente, se mi portassi in tasca il foglio con l’ordine di partenza per la Germania, e se dovessi partire tra una settimana. Supponiamo che quel foglio mi arrivi domani: cosa farei? Comincerei col non dir niente a nessuno, mi ritirerei nel cantuccio più silenzioso della casa e mi raccoglierei in me stessa, cercando di radunare tutte le mie forze da ogni angolo di anima e di corpo. Mi farei tagliare i capelli molto corti e butterei via il mio rossetto. Cercherei di finire di leggere le lettere di Rilke. Mi farei fare dei pantaloni e una giacchetta con quella stoffa che ho ancora per un mantello d’inverno. Naturalmente vorrei ancora vedere i miei genitori e racconterei loro molte cose di me, cose consolanti – e ogni minuto libero vorrei scrivere a lui, all’uomo di cui so già che mi farà morire di nostalgia. Certe volte mi sembra di morire già adesso, quando penso che dovrò lasciarlo e che non saprò più niente di lui. Tra qualche giorno andrò dal dentista per farmi otturare tutti quei denti bucati: sarebbe proprio grottesco che mi venisse mal di denti. Mi porterò una Bibbia e in qualche angolino dello zaino, il mio libro preferito. Non mi porterò ritratti di persone care, ma alle ampie pareti del mio io interiore voglio appendere le immagini dei molti visi e gesti che ho raccolto, e quelle rimarranno sempre con me. Anche queste due mani vengono con me, con le loro dita espressive che sono come giovani rami robusti. Spesso saranno congiunte in una preghiera e mi proteggeranno; e staranno con me fino alla fine. E così questi occhi scuri col loro sguardo buono dolce e indagatore. E se i tratti del mio viso diventeranno brutti e sconvolti dalla sofferenza e dal lavoro eccessivi, allora tutta la vita del mio spirito potrà concentrarsi negli occhi. Naturalmente si tratta di un semplice stato d’animo, uno dei tanti che si provano in queste nuove circostanze. Ma è anche un pezzo di me stessa, una possibilità che ho. Una parte di me che sta prendendo sempre più il sopravvento. Del resto: un essere umano è poi solo un essere umano. Già ora abituo il mio cuore ad andare avanti, anche quando sarò separata da coloro senza cui non credo che potrei vivere. Il mio distacco esteriore aumenta di giorno in giorno per far posto a un sentimento interiore – la volontà di continuare a vivere e a sentirsi legati per quanto lontani si possa essere uno dall’altro. […] La prosecuzione ininterrotta di un contatto, di una vita comune è possibile solo interiormente, e non rimane forse la speranza di trovarci ancora su questa terra. […] In questa nuova situazione dovremo imparare un’altra volta a conoscere noi stessi. Molte persone mi rimproverano per la mia indifferenza e passività e dicono che mi arrendo così, senza combattere. Dicono che chiunque possa sfuggire alle loro grinfie deve provare a farlo, che questo è un dovere, che devo fare qualcosa per me. Ma questa somma non torna. In questo momento, ognuno si dà da fare per salvare se stesso: ma un certo numero di persone – un numero persino molto alto – non deve partire comunque? Il buffo è che non mi sento nelle loro grinfie, sia che io rimanga qui, sia che io venga deportata. Trovo tutti questi ragionamenti così convenzionali e primitivi e non li sopporto più, non mi sento nelle grinfie di nessuno, mi sento soltanto nelle braccia di Dio per dirla con enfasi; e sia che ora mi trovi qui, a questa scrivania terribilmente cara e familiare, o fra un mese in una nuda camera del ghetto o fors’anche in un campo di lavoro sorvegliato dalle SS, nelle braccia di Dio credo che mi sentirò sempre. Forse mi potranno ridurre a pezzi fisicamente, ma di più non potranno fare. E forse cadrò in preda alla disperazione e soffrirò privazioni che non mi sono mai potuta immaginare, neppure nelle mie più vane fantasie. Ma anche questa è poca cosa, se paragonata a un’infinita vastità, e fede in Dio, e capacità di vivere interiormente. Può anche darsi che io sottovaluti tutto quanto. Ogni giorno vivo nell’eventualità che la dura sorte toccata a molti, a troppi, tocchi anche alla mia piccola persona, da un momento all’altro. Mi rendo conto di tutto fin nei minimi dettagli, credo che nel mio ‘confrontarmi’ interiore con le cose io stia saldamente piantata sulla terra più dura della realtà più dura. E la mia accettazione non è rassegnazione, o mancanza di volontà: c’è ancora spazio per l’elementare sdegno morale contro un regime che tratta così gli esseri umani. Ma le cose che ci accadono sono troppo grandi, troppo diaboliche perché si possa reagire con un rancore e con un’amarezza personali. Spesso la gente si agita quando dico: non fa poi molta differenza se tocca partire a me o a un altro, ciò che conta è che migliaia di persone debbano partire. Non è neppure che io voglia correre in braccio alla mia morte con un sorriso rassegnato. È il senso dell’ineluttabile e la sua accettazione, la coscienza che in ultima istanza non ci possono togliere nulla. Non è che io voglia partire ad ogni costo, per una sorta di masochismo, o che desideri essere strappata via dal fondamento stesso della mia esistenza – ma dubito che mi sentirei bene se mi fosse risparmiato ciò che tanti devono invece subire. Mi si dice: una persona come te ha il dovere di mettersi in salvo, hai tanto da fare nella vita, hai ancora tanto da dare. Ma quel poco o molto che ho da dare lo posso dare comunque, che sia qui in una piccola cerchia di amici, o altrove, in un campo di concentramento. E mi sembra una curiosa sopravvalutazione di se stessi, quella di ritenersi troppo preziosi per condividere con gli altri un “destino di massa”. […] Il valore della mia persona risulterà da come saprò comportarmi nella nuova situazione. E se non potrò sopravvivere, allora si vedrà chi sono da come morirò. Non si tratta più di tenersi fuori da una determinata situazione, costi quel che costi, ma di come ci si comporta e si continua a vivere in qualunque situazione»; «Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani – ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi ad ogni battito del mio cuore cresce la certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi. […] Il gelsomino dietro casa è completamente sciupato dalla pioggia e dalle tempeste di questi ultimi giorni, i suoi fiori bianchi galleggiano qua e là sulle pozzanghere scure e melmose che si sono formate sul tetto basso del garage. Ma da qualche parte dentro di me esso continua a fiorire indisturbato, esuberante e tenero come sempre, e spande il suo profumo tutt’intorno alla tua casa, mio Dio. Vedi come ti tratto bene. Non ti porto solo le mie lacrime e le mie paure, ma ti porto persino, in questa domenica mattina grigia e tempestosa, un gelsomino profumato. Ti porterò tutti i fiori che incontro sul mio cammino, e sono veramente tanti. Voglio che tu stia bene con me»; «Bisogna che cerchi quelle due o tre frasi che avevo già trascritto da una lettera di Rathenau. Ecco cosa mi mancherà: qui basta che allunghi una mano, e subito ritrovo le parole e i frammenti di cui il mio spirito ha bisogno in un determinato momento. Bisogna invece che abbia tutto in me stessa. Si deve anche essere capaci di vivere senza libri e senza niente. Esisterà pur sempre un pezzetto di cielo da poter guardare, e abbastanza spazio dentro di me per congiungere le mani in una preghiera».

giovedì 12 marzo 2009

L'uomo che sparava dritto: fra realtà e film.

 
Ecco il secondo..

Don Pino: ce lo ricorderemo?

Guardate questi due video che posterò... ne vale la pena. Sono il riassunto di un episodio, ma non di una vita. Sarebbe bello approfondirla insieme. Per ricordare con l'anima!

martedì 10 marzo 2009

Fede: certezza interiore che anticipa l'infinito


S. Kierkegaard

Il suo pensiero è, per me, assolutamente stupefacente. Un uomo dell'800 con idee che noi definiremo "moderne".
Un altro grande!!! 
Buona lettura...
La tensione peccato- fede è il contrasto cristiano che trasforma nel senso cristiano tutte le determinazioni di concetti etici, dando loro una nuova direzione. A base del contrasto sta il decisivo principio cristiano , principio che, a sua volta, implica il criterio della religione cristiana: l’assurdo il paradosso, la possibilità dello scandalo. E questo emerga in ogni determinazione de pensiero cristiano è di estrema importanza, perché lo scandalo è l’arma del cristianesimo contro ogni speculazione.

Dov’è qui la possibilità dello scandalo? La contiene l’affermazione che l’uomo deve avere la realtà di esistere come singolo uomo davanti a Dio; e d’altra parte, come conseguenza che il peccato dell’uomo interessi Dio. Quest’idea del singolo > non entra mai in testa alla speculazione, la quale non fa che universalizzare fantasticamente i singoli uomini considerandoli come un genere animale. […] 

Si è detto tante volte che gli uomini si scandalizzano del cristianesimo perché è così cupo e oscuro, se ne scandalizzano perché è così rigido e via dicendo; bisogna però una volta per sempre mettere perfettamente in chiaro che la vera ragione per cui l’uomo si scandalizza del cristianesimo è perché esso è troppo alto, perché la sua misura non è la misura dell’uomo, perché vuol fare dell’uomo qualcosa di così straordinario che supera ogni mente umana. […]

Ed eccoci ora col cristianesimo! Il cristianesimo insegna che questo singolo uomo, e quindi ogni singolo uomo, qualunque sia la sua condizione: uomo, donna e ragazza di servizio, ministro, commerciante, studente ecc.; che questo singolo uomo esiste davanti a Dio! Questo singolo uomo che forse sarebbe orgoglioso di aver parlato una volta in vita sua col re, quest’uomo che si vanta tanto di vivere in rapporti cordiali con questo e con quell’altro, ecco che quest’uomo esiste davanti a Dio, può parlare con Dio in qualunque momento, sicuro di essere ascolta: insomma, quest’uomo è invitato a vivere nei rapporti più familiari con Dio!

Inoltre per amor di quest’uomo, anche di quest’uomo, Dio viene nel mondo, nasce, soffre, muore; e questo Dio sofferente prega e quasi supplica l’uomo di accettare l’aiuto che gli viene offerto! In verità, se c’è qualcosa da fare perdere il cervello è certamente questo! Chiunque non abbia abbastanza coraggio umile per osare di credervi, si scandalizzerà. Ma perché si scandalizzerà?

Perché questo per lui è troppo difficile, perché non può capirlo, non può ritrovare la sua disinvoltura di fronte a ciò; e perciò lo deve eliminare , annientare, prenderlo per una sciocchezza, per un controsenso perché è come se dovesse soffocarlo.

Infatti, cos’è lo scandalo? Lo scandalo è ammirazione infelice. Esso è come un’invidia che si svolge contro l’uomo stesso, in un senso più stretto: è la peggiore invidia contro sé stessi. La grettezza dell’uomo  naturale non può invidiare a sé stesso il dono straordinario che Dio gli ha voluto concedere; perciò si scandalizza.

Ora il grado dello scandalo dipende dalla passione che un uomo mette nella sua ammirazione. I temperamenti prosaici, senza fantasia e passione, i quali perciò non hanno nemmeno la capacità di ammirare, forse anch’essi  si scandalizzano ma si limitano a dire: “Questo non lo posso capire, lo lascio stare”. Sono questi gli scettici. Ma più grande è la passione e la fantasia che un uomo ha e più vicino, in un certo senso (cioè in quello della possibilità) il diventare credente – l’umiliarsi in adorazione accettando il dono straordinario – e tanto più grande sarà la passione dello scandalo.

(S. A. Kierkegaard, La malattia mortale, in Opere, cit., pp. 664-666)

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