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mercoledì 30 dicembre 2009

Buon anno!

In questa seconda domenica di Natale (prima, del nuovo anno civile) la Chiesa ci invita a soffermarci sul Prologo di Giovanni. Esso è talmente ricco che provare a dirne qualcosa risulta davvero arduo: lì infatti si concentra come in un nucleo incandescente, la sintesi cristologica più alta che la tradizione scritturistica ci tramanda, come se tutto ciò che si può, si deve, si vuole sapere di Cristo sia lì condensato in maniera insuperata ed insuperabile.
L’accostamento delle letture tratte dal libro del Siracide e dalla lettera di Paolo apostolo agli Efesini, può però instradare verso alcune sottolineature; in particolare tre: innanzitutto la prospettiva che approccia il mistero del Figlio nella sua preesistenza rispetto all’esperienza storica di Gesù; preesistenza segnata tradizionalmente dall’accostamento alla figura della “sapienza”, rintracciabile soprattutto nel brano del Siracide, ma anche nelle espressioni paoline «Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo», e certamente anche nella qualificazione cristologica di “Verbo”, parola, contenuta nel Prologo stesso, con tutte le affermazioni ad essa connesse, «il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste».
Questa prima sottolineatura, mette in luce quella che tecnicamente viene denominata “cristologia dall’alto”, il tentativo cioè – sempre a partire dall’esperienza storica di Gesù – di dire la sua personale differenza qualitativa rispetto a tutti gli altri uomini (Egli è Dio, è il Salvatore del mondo) e la differenza qualitativa della sua relazione col Padre (Egli è il Figlio, l’unigenito, della stessa sostanza…)!
Queste puntualizzazioni – forse un po’ scontate – risultano invece tanto più urgenti, quanto più ci si accorge che non siamo più abituati ad averle presenti. La loro eccessiva sottolineatura nel passato ha infatti come creato un “effetto pendolo” per cui oggi ciò che risulta strenuamente ed appassionatamente (e giustamente) sottolineata è soprattutto l’umanità di Gesù; la sua vicinanza a noi, più che la sua distanza; la sua consanguineità con la nostra carne, più che la sua preesistenza divina. Di questo figlio meticcio (razza umana – Maria – mescolata alla razza divina – Spirito santo) oggi si sottolinea pressoché univocamente quello che De Andrè in Laudate hominem Lyrics, magistralmente cantava: «Non voglio pensarti Figlio di Dio, ma figlio dell’uomo, fratello anche mio».

Ma come in tutti gli “effetti pendolo” il rischio è quello di buttar via, con l’acqua sporca, anche il bambino; in altre parole cioè, la giusta correzione della prospettiva cristologica, univocamente rivolta alla divinità, soprannaturalità, miracolosità di Gesù, non deve farci dimenticare che essa – prima di scadere in unilaterali incastri apologetici – in realtà stava lì a ricordare come l’uomo Gesù su cui si fonda la fede dei cristiani è realmente Colui che può salvare la vita, dunque Colui nel quale la suddetta fede è davvero ben riposta!
In questo senso i testi evangelici sono molto più trasparenti e limpidi rispetto alle tortuosità e fangosità della storia della loro comprensione. Non a caso la seconda evidenza che emerge dai testi proposti dalla liturgia è che questo “Verbo” viene a dimorare tra gli uomini.
Infatti, contro ogni possibile deviazione che la sottolineatura della sua divinità poteva lasciar profilare, il vangelo è immediatamente lì a specificare di quale inaudita divinità si tratti, di quale inaudita salvezza, di quale inaudito Dio!
Il “Verbo sapiente” che è il Figlio amato, è un Dio che prende casa, che prende carne: «Allora il creatore dell’universo mi diede un ordine, colui che mi ha creato mi fece piantare la tenda e mi disse: “Fissa la tenda in Giacobbe e prendi eredità in Israele, affonda le tue radici tra i miei eletti” . Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi ha creato, per tutta l’eternità non verrò meno. Nella tenda santa davanti a lui ho officiato e così mi sono stabilita in Sion. Nella città che egli ama mi ha fatto abitare e in Gerusalemme è il mio potere. Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso, nella porzione del Signore è la mia eredità, nell’assemblea dei santi ho preso dimora». Prospettiva culminante – evidentemente – nelle sbalordenti affermazioni di Giovanni: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità».
Un Dio dunque, affidabile davvero in quanto alla nostra salvezza, ma un Dio che sceglie di farsi uomo, di salvarci così, di essere così. È il mistero del Natale, che ancora celebriamo. È ciò su cui in questi giorni abbiamo sentito tante parole, abbiamo fatto tante considerazione… è ciò che quotidianamente cerchiamo di “fare nostro”…
Oggi perciò una sottolineatura diversa, l’ultima che proprio i testi di domenica suggeriscono: il modo di salvarci di questo Dio fatto uomo è quello di farci figli: «Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso, nella porzione del Signore è la mia eredità», «Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo», «A quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio».
Molti sono i modi in cui potremmo arrivare ad immaginare la salvezza che un dio può portare agli uomini e molti sono i modi in cui i cristiani stessi la pensano… ciascuno di essi rispecchia l’immagine del dio che abbiamo in testa… Allo stesso modo, la scelta di salvarci, rendendoci figli, dice molto su chi sia Colui che questa salvezza l’ha pensata (e attuata!).
Purtroppo molto spesso l’uomo tra tutte le cose che pensa di dio, non arriva ad immaginarlo come Padre (molto più frequentate sono infatti le figure del “padrone”, del “dominatore”, del “soggiogatore”, in versioni più o meno evidenti); ma purtroppo molto spesso persino i cristiani, che dovrebbero fondare la loro fede sul vangelo, che non fa altro che ripetere precisamente la buona notizia che Dio è Padre, se la scordano e reintroducano le stesse figure pagane di un dio che semplicemente è altro da quello rivelato da Gesù.
Ma più radicalmente ancora, il problema sembra essere quello per cui anche chi incontra davvero questa buona notizia, fatica a convertirsi ad essa… a mantenerla salda in cuore… a tornare sempre a farci affidamento… La paura di un’orfanità in cui spesso ci sentiamo abbandonati e il gelo che essa fa scorrere per la spina dorsale sembra spesso prevalere… tornando a farci “vivere” da schiavi… imbruttiti dal timore della morte e dalla paura dell’altro che me la può dare…
In questo tetro scenario sentir risuonare la parola del Prologo di Giovanni, «A quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio», diventa come un caldo balsamo che penetra i nostri terrori e apre scenari nuovi, riallarga gli orizzonti, dona ossigeno all’anima: un mondo fatto di figli… fratelli…
Chissà se riusciremo a dargli credito… per quest’anno… è il mio augurio più caro.

domenica 27 dicembre 2009

“Io devo occuparmi delle cose del Padre mio!”

Il Vangelo mette in «fibrillazione» il nostro DNA
Non è ancora passato il Natale, la novità misteriosa di un Dio fatto uomo, e già la liturgia ci fa fare un sussulto, con questo figlio – un ragazzo, ormai – che sa cosa vuole e lo difende come “volontà del Padre”, contrastando la sua famiglia – padre e madre sgomenti! La famiglia è la nostra matrice, che ci collega alle radici dell’umanità (… pelle, sangue, ormoni, DNA, strutture psichiche … trasmessi con infinite vicissitudini nei millenni) che fluisce da chissà quanto tempo sulla terra. In un cammino – unica specie vivente, pare! – che l’ha portata alla coscienza, alla consapevolezza di sé, con un indistruttibile briciolo di libertà, nei dinamismi biologici e psichici della necessità vitale in cui siamo intessuti. Il paradigma culturale famigliare che nei vari secoli e nelle varie popolazioni si è imposto, nelle più diverse forme, come incontro della coppia umana e nido dei piccoli, è in disfacimento pressoché da per tutto, tanto più in questi ultimi tempi, sotto la pressione della globalizzazione, che può divenire talora appiattimento dei valori che hanno custodito l’uomo per generazioni.
Gesù ha colto con sorprendente lucidità il dramma della continuità e della rottura, della libertà e della sottomissione, del confronto e della sofferenza che il crescere della persona comporta, senza rinunciare mai alla propria identità in mezzo agli altri, ma anche senza deprezzare mai la diversa impostazione culturale altrui! In questo ragazzo di dodici anni siamo tutti noi uomini e donne, dei millenni passati come dei prossimi, che tentiamo faticosamente di uscire dal guscio degli archetipi culturali, i quali, dopo averlo avviato, impediscono o frenano il nostro destino personale e irripetibile, differente da ogni altro. Una destinazione interiore che a tutti urge dentro – perché non viene solo da noi, ma attraverso noi, da urgenza misteriosa di livelli di coscienza superiori (diciamo così – per intendere gli ampi spazi o i progetti creativi o le diverse espressioni che il Padre di tutti i destini ha spalancati per noi, più dilatati, più vasti, più intensi e più personalizzanti … che ci fecondano e ci nutrono, se gli diamo ascolto). Questo ragazzo, secondo Luca, ne è il profeta … e gli altri, uomini o forse ancor più, donne silenziose e fervide, prima di lui soltanto lo annunciavano, nei templi o nei deserti o nel segreto delle tende e delle case … Il criterio che lo guida, fin dalle sue prime parole, è sempre il “Padre”. Appositamente usa questo termine, perché è lo stesso che nella famiglia tribale accumulava ogni potere di vita e di morte, di autorità suprema. Di modo che soltanto la chiamata in causa del legame personale supremo di ogni uomo al Creatore, vero unico “Padre” di ogni cosa, può attenuare e poi superare l’oppressione che lo schema culturale imponeva al singolo. Diveniamo uomini e donne maturi in proporzione a che prendiamo coscienza di quello che dobbiamo compiere come individui personali, attraverso la consapevolezza della nostra propria identità, che ci commisura e ci distanzia da ogni altro, attraverso il nostro pensiero, il nostro lavoro, soprattutto attraverso la trasformazione della nostra coscienza, attraverso i nostri tentativi di gesti nuovi, che la confermano e la orientano.
È assolutamente determinante, come annuncio evangelico, questo gesto iniziale della vita di Gesù, che prende coscienza di sé, della propria libertà e responsabilità, non sostituibile né suffragabile da nessuna autorità esteriore, per quanto sacra e veneranda. Se non ritroviamo nella vita questa libertà di Gesù di fronte alle varie istanze autoritative, che pure riconosciamo utili e necessarie, avverrà che queste ci pongono in uno stato di difficoltà inibente, di sofferenza paralizzante, ci spengono la libertà, ci soffocano nelle ristrettezze mentali di quelli che possono anche non comprendere le nostre aspirazioni, perché rimasti chiusi su altre posizioni.

Io devo occuparmi delle cose del Padre mio! Queste parole di Cristo, e tutte quelle che nella sua vita si rifaranno alla stessa sorgente interiore di vita e di comprensione, sono alla base di tutto il cammino di liberazione che la coscienza umana ha portato avanti nel corso dei secoli – che lo sappia o meno! – con ribellioni, sofferenze dolorose, resistenze indomite, soprattutto di ignari martiri, testimoni e ricercatori di aneliti più veri, di orizzonti più adeguati, di spazi interiori più vivibili nel divenire della coscienza umana: Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo (Mt 11,26s).



La solennità liturgica di questa domenica costituisce qualcosa di nuovo nella nostra Chiesa, che come spesso capita, prende decisioni ed elabora interventi volti a salvare strutture in crisi, pescando nel tesoro della tradizione antica cose nuove e cose antiche, come il vecchio scriba del vangelo, senza tenere in conto, forse, che la novità evangelica è sempre esplosiva, in ogni contesto culturale venga seminata.
Il disfacimento della famiglia tradizionale ha suggerito di ricorrere al modello e alla testimonianza esemplare della famiglia di Nazareth. Soltanto che tanto è grande la dipendenza che noi abbiamo attraverso la famiglia dalla carne e dal sangue e dalla cultura, tanto più è dirompente la parola e sono provocatori i gesti di Gesù, che proprio nel cuore di questo nodo vitale della vita umana che è la famiglia, pone il seme sconvolgente della propria libertà inappellabile – e quindi della libertà di ogni uomo. Una reazione tanto determinata e imprevista, quella di Gesù, da sgomentare i genitori, ma altrettanto sapiente e mite che subito si è sottomessa alla normalità della vita quotidiana, dei suoi bisogni e dei suoi ritmi. Soltanto dopo, però, che ne ha denunciato vistosamente la precarietà e l’ambiguità. Si sottomette con la decisione di chi consegna lucidamente la propria libertà, mantenendone sempre la chiave, per riprendersela appena rischiasse di tradirla. Perché non è libertà per sé, ma per la verità!
La madre aveva tutti i diritti – secondo il modello ebraico della famiglia – di rimproverare il figlio di essersi allontanato dai genitori senza aver avvertito e senza aver detto dove andava, ma la risposta di Cristo è una di quelle parole luminose e taglienti che scendono nel nostro cuore (oltre che in quello dei genitori) come una spada, che ferisce e illumina… Ma, al momento, è troppa la sofferenza sconvolgente che provoca, per capire subito il dono di futuro che ci porta. E il Vangelo lo nota espressamente: non capirono quello che lui aveva detto. “E anche noi molto lentamente comprendiamo le parole di Cristo, perché, a differenza delle parole degli altri uomini, sono come il grano che viene gettato nella terra e lentamente porta a fecondità la terra e a maturazione il grano. E lentamente le parole di Cristo maturano nel nostro spirito, anche se non sempre ne siamo pienamente coscienti. E la parola che Cristo dà ai genitori costituisce una rottura con il modello della famiglia veterotestamentaria e romantica” (Vannucci).
Viviamo in una società e in una chiesa tanto disorientate e ripiegate su di sé da perdere spesso di vista i grandi orizzonti e gli spazi umani, che mai sono stati così a portata di mano di tutti gli uomini, come in questo nostro tempo! Ogni uomo che prende coscienza di essere chiamato a “compiere le cose del Padre”, è chiamato a essere “differente”cioè libero, ma per amore, per il suo compito di essere se stesso di fronte agli altri, non per contrapposizione competitiva. Soffrirà, ma porterà la novità delle sue piccole conquiste personali, che sono conquiste di coscienza, e che possono trasmettere agli altri, attorno a noi, la novità dei minuscoli interventi o gesti che nessun altro può sostituire. Purtroppo invece una delle più grandi tentazioni della nostra vita è quella di diventare dei ripetitori di un passato, che non ha più aderenza alla vita. Ora, queste novità, queste piccole invenzioni non previste nel fluire del nostro quotidiano, non nascono da noi, non provengono da un ragionamento umano. Perché è la parola di Dio che scende in ogni uomo e ogni uomo è chiamato sulla terra a compiere la volontà del Padre, non la volontà di un altro uomo, di nessun altra autorità. Il Padre infatti, in Gesù, non è più una realtà lontana, ma la Presenza vivente, incombente e immanente nel creato e nelle creature, per orientarle in amore e libertà, verso il compimento del loro specifico e personale destino. Gesù ne è cosciente e cresce (e ci propone di crescere) imparando e trafficando le “cose che sono del Padre nostro”, per la salvezza di tutti. E Maria, che è la figura della Chiesa, tiene nel cuore tutte queste cose, aspettando e pregando che diano il loro frutto nella pazienza dei tempi.

Il Figlio di Dio un dodicenne impertinente?

In questa prima domenica dopo il Natale, la Chiesa ci invita a soffermarci sulla Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe; e lo fa presentandoci come brano del vangelo il testo di Luca che parla di Gesù dodicenne.
Il testo – molto curioso nella sua composizione – può essere avvicinato da due punti di vista, che però non vanno mai separati: da un lato, infatti, è necessario ricordare come questo brano faccia ancora parte dei cosiddetti “vangeli dell’infanzia” e dunque vada letto precisamente come testo teologico, non cronologico-descrittivo: siamo infatti di fronte ad un testo epifanico, che attraverso la narrazione di una vicenda vuole rivelare chi sia il bambino di cui si parla; dall’altro non ci si può esimere dal lasciarsi coinvolgere dalla narrazione in quanto tale, dall’episodio inusuale che vede come protagonista Gesù e dalle situazioni, emozioni, reazioni che l’Autore mette in campo: da questo punto di vista ciò che cattura maggiormente l’attenzione è l’ordinarietà più disarmante delle dinamiche familiari descritte.
Il testo epifanico, che, attraverso il gioco di parole «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo» / «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» sottolinea la straordinarietà di questo bambino, addirittura la sua divinità, il suo essere figlio del Padre, contemporaneamente lo presenta come il “classico dodicenne che si sente grande e con le sue scelte un po’ in-coscienti fa disperare (angosciare) i genitori”…
Due profili, apparentemente contrapposti e contraddittori, eppure inscindibili: Gesù, il Figlio di Dio, è questo ragazzino dispettoso e anche un po’ impertinente!


Questa constatazione rimanda ad una problematica di uno spessore assolutamente rilevante, e cioè: in che modo il Figlio di Dio ha incarnato l’essere Figlio di Dio? Con che consapevolezza, con che modalità di presa di coscienza, con quale prassi attuativa?
La domanda è interessante, perché non si tratta solo di un filosofare su tematiche che possono apparirci significative (si sta pur sempre parlando del Figlio di Dio…), ma perché precisamente il modo di farsi uomo del Figlio di Dio, può diventare paradigmatico per il nostro tentativo – spesso così mortificante e mortificato – di farci uomini.
Luca dà subito un’indicazione: «Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini»: vanno dunque sbaragliate immediatamente quelle risposte alla nostra domanda che vanno nel senso di annullare l’umanità di Gesù, per salvaguardarne la divinità (Gesù sapeva già tutto… faceva finta di essere bambino… per far contento Giuseppe, fingeva di non saper lavorare il legno, così lui glielo insegnava… ecc, ecc, ecc) – vie che la storia della Chiesa ha visto presentarsi al suo orizzonte ma che ha presto rifiutato come “eresie”.
Rimane però il problema… Pur ammettendo che Gesù non facesse finta di essere bambino, ma che lo fosse veramente, come si coniuga il fatto che lui fosse anche il Figlio di Dio?
Un felice orientamento lo dà il classico confronto con la nostra esperienza umana: noi quale consapevolezza abbiamo di essere i figli di nostra madre? E la consapevolezza che avevamo a 3 mesi, 3 anni, 12 anni, è la medesima che abbiamo ora? È giusto dire che rispetto a questa consapevolezza ci sia stata una crescita? Non lo sapevamo forse già da subito che nostra madre era nostra madre?
L’esempio può aiutare… Infatti, se è vero che da sempre noi abbiamo la consapevolezza che nostra madre sia nostra madre, è altrettanto vero che l’esplicitazione e la capacità di elaborazione di questa medesima consapevolezza non è uguale nelle diverse fasi della vita: a tre mesi, mamma vuol dire un seno che mi allatta; a tre anni, la sicurezza che mi fa vivere; a 20, 30, 50 la mamma è simbolo della problematizzazione dell’origine, della cura, della custodia, della vita, del senso della vita…
Si potrebbe dire che da sempre si ha una consapevolezza sintetica di chi sia mia madre e di chi sia per me, ma il suo sviluppo analitico, lo scioglimento in una storia, la presa di coscienza narrativa, avviene appunto percorrendo la temporalità, crescendo, agendo una vicenda.
La stessa cosa si potrebbe applicare all’esperienza di Gesù: questo bambino ha la consapevolezza sintetica di essere Figlio di Dio («Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?»), ma – proprio perché veramente uomo – deve agire una vicenda, vivere una storia, far trascorrere una temporalità, per vivere da uomo (e non da bambino) quella medesima consapevolezza: ha bisogno di crescere «in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini».
Il brano di vangelo dice tutto questo in maniera molto meno teorica, semplicemente raccontando un episodio, in cui colui che pronuncia una frase così altisonante come «Devo occuparmi delle cose del Padre mio» è, sulla scena, un ragazzino che, perso nella sua curiosità di scoprire il mondo, non si era ricordato l’orario di partenza della sua carovana ed era rimasto, affascinato dai sapienti della città santa, ad ascoltarli e interrogarli, senza accorgersi del tempo che passava, della preoccupazione della mamma, dei pericoli in cui poteva incorrere: né più né meno come i nostri dodicenni, bambini che si sentono grandi e ci fanno sorridere ed angosciare…
A noi forse sembra inconsueto, addirittura scandaloso, in ogni caso da non dire, che questo impertinente fanciullo, impavido e sfrontato, eppure con i lineamenti ancora da bimbo piccolo tranne qualche baffetto ribelle che spunta qua e là, sia il Figlio di Dio. Per noi il Figlio di Dio o è il bimbo che nasce a Betlemme, divino per il candore che emana in quanto neonato, o il predicatore di Galilea, il grande sapiente taumaturgo che il potere politico-economico-religioso del suo tempo ha fatto crocifiggere: quello è il Figlio di Dio.
Questo ragazzino no…
E invece quell’uomo che tutto il mondo allora conosciuto, arriverà a proclamare Figlio di Dio è precisamente questo dodicenne smemorato di Gerusalemme: perché fino in fondo il Figlio ha accettato la dinamica dell’incarnazione, fino in fondo si è fatto uomo, fino in fondo si è intessuto delle fibre dell’umanità, della crescita, dell’evoluzione del fisico, del necessario costruirsi temporale delle categorie mentali, della fatica della maturità affettiva… passando per l’attonito stupore dei piccoli, gli sfrontati tentativi di crescita dei ragazzi, gli struggenti turbamenti degli adolescenti...
Così il Figlio di Dio è diventato uomo: patendo i tempi lunghi di una vicenda umana che pian piano lo ha costruito come uomo (e come Figlio di Dio – in modo “analitico”), patendo l’oscurità di alcuni frangenti, il non senso di altri… insegnandoci in questo modo che per essere uomini o – detto altrimenti – per essere graditi a Dio, per avere una vita buona/bella/felice/piena, non servono strappi (“Da oggi in avanti sarò più…”), non servono volontarismi, rinunce, estraneazioni dalla storia, dalla nostra storia, prese di distanze da noi, da ciò che siamo stati, abbiamo fatto, ci hanno fatto…
Per diventare uomini (e Figli di Dio, in senso “analitico”) è necessario piuttosto stare dentro alla storia, starne “sottomessi” («Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso»), cioè lasciarla agire, agirla, viverla, imparandone pian piano l’intelligenza, perché se alle verità che intuiamo non facciamo seguire con fatica, e pazientando tutto il tempo che ci vuole, anche le nostre viscere, le fibre della nostra umanità, quelle verità – pur vere – non sono reali: e ci ritroveremmo come dei dodicenni che “fanno i grandi” al Tempio, dimentichi per un attimo della mamma, di cui però abbiamo ancora vitalmente bisogno…

venerdì 25 dicembre 2009

Il Natale: la “marginalità” al centro della Storia!

“Clandestini”: una nuova “marginalità” al centro della Storia
Chi ci ha seguito con pazienza nel cammino che la chiesa ci ha proposto in queste settimane in preparazione dell’avvento del Natale, si sarà reso conto come il Signore Gesù capovolge la nostra prospettiva religiosa, il nostro modo di pensare, vedere e rappresentarci, il rapporto con Dio, con i fratelli e sorelle, con il creato, con le cose…
Abbiamo spesso sottolineato come la prima conversione che il Signore ci chiede è proprio quella di lasciarci sconvolgere in profondità, nella nostra mentalità e cultura, dalla Sua prospettiva. Per renderci consapevoli che anche se apparteniamo a una cultura cristiana, essa non è mai così cristiana da non potersi ritenere bisognosa di ulteriore conversione, perché non si è mai cristiani abbastanza, neanche culturalmente…

Questa conversione che il vangelo chiama specificatamente metanoia, cioè cambio di mentalità, non esige da parte nostra uno sforzo particolare… La conversione che il vangelo “esige” da noi, è provocata in noi dal vangelo stesso… dalla buona, bella, gioiosa, inaudita, stupefacente notizia che ci viene continuamente donata, come possibilità veramente nuova, completamente “altra”, della nostra vita, a tutti i livelli. Solo a partire da qui, da questa “gioiosa notizia”, può nascere una conversione morale cristiana, perché solo un comportamento che nasce come risposta a un dono; solo una morale che nasce dalla riconoscenza, è gioiosa e quindi liberante. Altrimenti essa viene “giustamente” percepita come imposizione esterna, fatica tanto titanica quanto sterile e vana, perché non apportatrice della gioia liberante del vangelo, ma mortificazione della grazia, sterile “ingabbiamento” dell’io…
Infatti – per usare un’immagine che Gesù oramai adulto ci proporrà spesso –: che sforzo devo fare per sedermi alla tavola imbandita dal Padre?… nessuno! Devo solo, paradossalmente, ascoltare il mio limite (la fame!) e lasciarmi “ingolosire” dalla tavola imbandita… “Impossibile non convertirsi” a tutto questo “ben di Dio”!
E allora, ascoltando il profeta Isaia, cosa dobbiamo fare noi che camminiamo «nelle tenebre» per vedere «una grande luce»? semplicemente… aprire gli occhi: niente di più! E lasciarci contagiare dalla gioia del Signore e gioire davanti al mondo «come si gioisce quando si miete e come si esulta quando si divide la preda»; cioè, come si gioisce quando gioiamo del risultato delle nostre fatiche… E allora, già qui, «è un bel faticare!».
Ma il Vangelo ci spinge ad andare oltre e ad aprici ad una prospettiva nuova, alla visione del Dono di questo Bambino!
E allora ci chiediamo: Come è possibile che un bambino, questo Bambino, sia il nostro Salvatore, il nostro definitivo Liberatore? Come è possibile che questo bambino insomma, per usare le parole di Paolo, sia «la grazia stessa di Dio che porta salvezza a tutti gli uomini»? Come è possibile che egli sia colui, sempre secondo Isaia, che «spezza il giogo», toglie «la sbarra sulle nostre spalle», e disarma «il bastone del nostro aguzzino»?… quando se ci guardiamo intorno, non sembra che da duemila anni le cose siano granché cambiate…

A ben guardare, ci sono due modi per “toglierci un peso”. Uno è quello che potremmo definire “nostro”, secondo la nostra mentalità e cultura e che si presenta immediatamente ai nostri occhi come l’unica soluzione possibile: quello di scrollarci di dosso il “peso che ci opprime”. Questo modo, ci fa credere che, per essere veramente liberi, occorra eliminare l’ostacolo, eliminare il nemico, scendere dalla croce che ci schiaccia, “risolvere il problema” che ci soffoca, nella ricerca illusoria della soluzione definitiva di ogni problema… Ora, questa soluzione a mio parere è peggiore del male perché, tra le altre cose, esige la nostra uscita dalla storia, in definitiva la nostra morte (altro che quella del nemico!)… Infatti se uno non vuol morire non dovrebbe nascere… se uno non vuole problemi, dovrebbe vietarsi di vivere… Ma non trovo convincente nemmeno il discorso di coloro che vorrebbero rimandare la liberazione definitiva alla fine dei tempi, come se le Beatitudini – per fare solo un esempio drammatico – fossero un discorso che si realizza solo nell’«altro mondo». Quello della «fine del mondo» o comunque della fine di questo mondo…

Occorre allora lasciarci istruire da questo Natale per trovare una soluzione che non butti via il bambino insieme all’acqua sporca… che cioè non butti via la nostra vita insieme ai nostri problemi…E la risposta la troviamo nel Vangelo di questa santa notte. Seguiamo allora i pastori, mischiamoci in mezzo a loro, per nutrirci dei fatti che hanno vissuto…
Ad un certo punto nella notte un angelo appare ed annuncia «una grande gioia», perché, oggi, ora, adesso è nato il Cristo Signore, Salvatore-Liberatore per tutti, ma proprio tutti. E l’angelo indica un segno, quale? «un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». E che cosa fanno i pastori? vanno subito a vedere il «segno»! E che cosa trovano? «Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia». Tutto qui! Tutto qui? E – ci dirà il seguito del vangelo – se ne tornano alle loro occupazioni «glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto». Tutto qui!
Ma insomma, dove sta il segno? Da dove scaturisce quella «grande gioia» che sembra esplodere dentro i loro cuori e sconvolge loro – attenti! – non il loro vivere: «tornano infatti sui loro passi!»; ma il loro modo di vivere: infatti «glorificano e lodando Dio!», ci dice Luca…
In verità quello che i pastori hanno visto nella loro quotidianità (notturna!) è un liberatore, un inviato dal Signore che finalmente “era uno di loro”, uno come loro: reietto dalla storia, “cacciato” dal convito umano, e che – oramai adulto – sarà anche “maledetto” dalla religione ufficiale… Insomma non hanno visto un liberatore come avremmo potuto aspettarci: un cavaliere «figlio di papà», un «principe azzurro» vestito con abiti firmati e abitante in una reggia con parco e piscina… ma uno che vive la loro stessa drammatica esistenza…

Mi capita spesso di sentir dire: «Gesù era Figlio di Dio, anzi Dio stesso, per lui era più facile che per noi»… ora, così dicendo, noi censuriamo che veramente in Gesù, Dio si è «spogliato completamente della propria divinità, diventando in tutto simile a noi», assumendo in tutto i nostri problemi, il nostro giogo, la nostra croce, i nostri drammi… ma senza il peccato, cioè vivendoli in modo diverso, dicendo “sì” alla storia che incontrava e non come fuga da essa (e quindi da Dio Padre: vi ricordate come Adamo ed Eva fuggono nascondendosi?).

Quello che i pastori hanno visto e compreso, è che questo Bambino-Messia e Signore, ha voluto fin da subito, sedere all’ultimo posto alla tavola della vita: reietto, “impuro” tra gli “impuri” come loro stessi. Hanno visto il Liberatore, il Signore, condividere in tutto i loro disagi umani, il loro essere considerati dagli uomini dei “maledetti da Dio”… In questo Natale possiamo capire meglio che Gesù – che si rivelerà più chiaramente ai discepoli, come l’Alfa e l’Omega, la “A” e la “Zeta” della storia – sarà compreso come “Colui che è fin dal Principio”, proprio perché ha scelto, entrando nella storia, di essere l’ultimo, di viverla “dal” fondo: perché ha scelto di essere l’ultima lettera dell’alfabeto umano! Nella grande carovana umana che vaga nel deserto della storia, Gesù è nostra guida perché ha scelto da subito di essere uomo per davvero, stando in fondo alla carovana, ma così in fondo che nessuno può essere più disperato, più “maledetto”, più abbandonato, più disprezzato, più ultimo di lui… E – anche questa è una novità – lo fa da figlio (cioè da fratello che è l’unico modo per essere nella storia «Figlio/figli del Padre»)! Non brontolando contro una vita ostile (e quindi contro il Padre e contro i fratelli), ma aprendosi ad essa, consegnandosi in un rapporto, in una prossimità, che diventa la Via per una vita rinnovata anche per coloro che non sono in grado di cambiarla, come in fondo, Gesù non ha cambiato la sua!…Gesù insomma scegliendo l’ultimo posto nella storia, si offre come possibile soluzione per chiunque, anche per l’ultimo (anzi oramai “penultimo”), dei disperati, perché anch’egli possa – nel vivere in pienezza la propria comunione (questo è lo Spirito Santo) col Padre – trovare la propria dignità di figlio nella propria umanità sfigurata…

Se c’è una soluzione possibile ai nostri problemi essa non può che partire da qui, da questa comunione già data, altrimenti non sarà altro che un tentativo violento di esigerla da altri: la pace che scaturisce da questa comunione, insomma non è data dalla soluzione del problema, ma è la pace stessa (così intesa e così radicalmente vissuta) che diventa sorgente di soluzione. Soluzione che oramai non è più strettamente necessaria alla pace-comunione, ma ne è “semplice” “epifania”, al limite “verificazione” storica, “segno” di ciò che la precede, della pace-comunione che c’è già! Pace che resta anche davanti al fallimento immediato di ogni soluzione storica, anzi che cresce proprio nel suo lasciarsi gettare nel fondo della storia…

Ecco allora svelarsi in pienezza la vera liberazione, la luce che illumina questa notte, presente qui, ora, adesso, senza bisogno di attendere oltre, senza fuggire in un mondo ideale sia esso passato, presente o futuro… In questo Messia bambino, avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia viene svuotato dal di dentro il peso di ogni oppressione, viene resa “ogni croce leggera”, in modo che non solo non possa più nuocerci spaventandoci, ma anzi diventi occasione di una comunione-pace ancora più grande… perché solo la sofferenza che costruisce un rapporto può essere vissuta senza che uccida la vita e perché solo la comunione vissuta fino a questa profondità – fino a questo abisso sprofondata – dà senso a una vita che non teme più nessuna morte.
Questo è il miracolo di questa notte, questo è quanto ci viene riofferto ogni giorno dell’anno dal Natale del Signore.
Questa è la Grazia che domandiamo per coloro che ancora oggi si “sentono” ai margini della vita, affinché si scoprano al centro della Comunione, al centro della Pace!

giovedì 24 dicembre 2009

Natale: oltre la fiaba

Natale con gli occhi di un bambino (Niki)
Solo alcuni spunti dalle letture bibliche di questo tempo di Natale…
Sono i testi lasciati dai profeti o dai “testimoni” più vicini e più interessati ai fatti narrati, ma anche per loro si tratta di eventi già ricevuti dai testimoni diretti e celebrati da una comunità credente ed orante che vi ha scoperto e vissuto un incontro vivificante, e l’ha tramandato fino a noi. Natività, Epifania, Risurrezione, sono dei fatti (o la condensazione simbolica di vari eventi) che sono collocati in un determinato luogo e in un tempo preciso, come momenti intensi della Rivelazione. Ma il loro senso è questo: annunciano e propongono al credente un legame indissolubile tra l’umano e il divino, tra il mondo della storia e quello del mistero, e non possono essere accostati se non da una mente e da un cuore che ne accolga questo loro segreto storico e metastorico, terreno e celeste, legato al tempo e allo spazio, ma insieme trascendente queste due dimensioni. La prima di queste – la banale vita quotidiana – ci è facile e naturale, ma talora pesante e insoddisfacente. L’altra, tormenta l’uomo da quando ha memoria della sua presenza sulla terra. Per fargli superare questo limite e penetrare territori che ci sembrano più sperati che sperimentati, nell’ostinata sfida all’impossibile: vedere, sentire, toccare, capire cosa c’è al di là … dei nostri limiti e delle nostre misure.
Allora la Bibbia ci appare come il racconto di tanti testimoni che hanno visto questo raccordo tra la loro storia e l’impossibile, che hanno ascoltato e intrasentito la mano di un “dio” che li accompagnava sul crinale dell’ulteriorità incredibile e inaccessibile. La creazione, la promessa nel paradiso fallito, la malvagità umana autodistruttiva e l’arcobaleno di Noè, la fecondità del vecchio Abramo, la lotta di Giacobbe con Dio, la liberazione dell’uomo dalla schiavitù del Faraone, la trasformazione del cuore di pietra in cuore di carne … sono i passi impossibili a cui l’uomo è stato chiamato da colui che “
dà la vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono” (Rom 4,17). Allora, nel Natale, così diversamente raccontato dai vari testimoni, sta comunque il cuore della storia, cui tutta la creazione anelava. Natale vuol dire che la meta e, insieme, il centro propulsore di questo inarrestabile flusso dell’amore creativo di Dio è adesso il seno, anzi prima il cuore, di Maria. E anche lei sa, come racconta il vangelo di Luca, che è impossibile ciò che le è annunciato – eppure si consegna, perché nulla è impossibile a Dio! A Natale, la Parola non è solo la metafora per indicare il legame di benevolenza gratuita del Padre con tutto ciò che lui fa esistere. Non è solo la sua sorprendente decisione, libera e amorevole (cioè non prodotta da necessità fisica o psichica o morale) di cercare il consenso e la gioia dell’umanità: rallegrati, Maria! La Parola stessa, nella sua passione di incontro con l’uomo, si fa seme e diventa bimbo d’uomo nell’inimmaginabile assunzione o impregnazione divina di un germoglio di carne umana. “Il verbo si è fatto carne!”. E la verginità è il timbro della suprema libertà di Dio da ogni legge di necessità. Nella catena dei miliardi di natali umani, un Natale impossibile, incredibile… che tacitamente sconvolge tutto. Tanto impossibile che, per non esserne accecati, i cristiani ne hanno fatto una favola, ormai così innocua, che viene anestetizzata nei tanti festeggiamenti natalizi commerciali, coloriti di simboli o fantasie le più disparate.
La fede che questi testi rivelano e domandano è tutt’altro: spinge il discepolo di Gesù a riscoprire sempre daccapo il rapporto faticoso tra libertà e necessità, invitandolo ad entrare nella dinamica assiale della storia della salvezza: possiamo svincolarci dalle catene delle necessità istintuali? liberarci dall’io, che ci fa fare quello che non vogliamo? della cultura dominante e dalla sua logica di competizione e sopraffazione? è possibile o è impossibile convertirsi all’amore, come nuovo motore potente ed insieme inerme della vita? Noi sappiamo per adesione umile all’obbedienza della fede, che è un regalo capirlo e tanto più riuscire a praticarlo. Che dunque è presunzione pensare di imporre questa fede, di esigerla e tanto meno di condannare coloro che si ritraggono … nella esperienza dolorosa dell’impossibilità! Luca premette al suo Vangelo l’esempio dei semplici e degli umili, direttamente coinvolti dalla disponibilità della loro adesione: Maria, Elisabetta e i loro due bimbi, il sacerdote ammutolito, i parenti e i vicini, i pastori… umili e ignari testimoni del mistero fondamentale della fede cristiana: il Natale! Il primo atto cristiano (continuamente primo – a cui cioè bisogna tornare per ricominciare, senza stancarsi mai!) è quest’adesione del cuore alla fede. Nell’affidamento di sé alla “parola”, il Natale ripropone la sua scansione di salvezza: non temere, il Signore è venuto e viene! in questo bimbo ti riempirà di vita, e coinvolgerà gli altri attorno a te! La nostra speranza è una Vergine gravida dell’impossibile, ultimo (o primo) anello di una successione infinita di uomini e donne, che hanno creduto e si sono affidate. E camminano nella esperienza della fatica e della gioia di seguire la luce in un mondo ottenebrato.
L’obiettivo di ogni annuncio, di ogni manifestazione della Parola è la proposta di amore e di vita che c’è dentro, certo, ma è raggiungibile solo attraverso l’obbedienza della fede: questo è il dinamismo di fuoco a cui siamo chiamati – questo è la consegna di sé … al presepio. Ogni altro aspetto di culto o di ascesi, di dottrina o di sacramento, di magistero o di sacerdozio è strumento e mezzo per riconoscere, entrare in contatto, accogliere questa “grazia”, cioè il regalo del Natale di Gesù! l’inaspettato accesso all’impossibile che ci mette allo sbaraglio, ci provoca allo sbilanciamento di fronte agli accadimenti che non sono adeguati alle forze dell’uomo. Ecco perché lo annunciano gli angeli! E annunciano che non siamo più servi, ma amici e figli di Dio. Annunciano che adesso è possibile “il divino in noi”… il perdono (nessuno può perdonare i peccati se non Dio solo); il corpo e sangue di Dio in materia cosmica per nutrire il credente (come può costui darci la sua carne da mangiare?); l’amore ai nemici (fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico), il coinvolgimento coi poveri (di essi è il Regno dei cieli – sono “in società” con Dio!); la “necessità salvifica” della chiesa, pur fatta più di peccatori che di santi (su di te fonderò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno su di essa!)…
… è questa la dinamica evangelica che dice cosa succede a noi la notte di Natale – ogni notte di Natale. In proporzione alla nostra libera trepida adesione, il mistero diventa di un’attualità assoluta nell’intimo dei noi stessi e nella chiesa, che è il segno levato tra le genti… un segno difficile a dirsi a noi stessi, cui si può solo consegnarsi. Ed immediatamente avviene che questo mistero ci spinge fuori da noi stessi per trasformarci progressivamente, per ottenere maggiore coinvolgimento delle nostre facoltà, della nostra conoscenza e delle nostre opere (con quanta resistenza e fatica e rifiuti… lo registra la segreta biografia spirituale di ognuno)
… quello che conta è il momento di fede che avremo vissuto nella nostra vita e la capacità di accumulare, di condensare atti di fede, magari piccolissimi, uno dopo l’altro, giorno per giorno, che rendono sempre più attuale e sconcertante la proposta di questo misterioso “incontro” che abbiamo in cuore … Sbilanciamenti di fede che ci fanno di nuovo ripartire come i pastori, in base a quel poco di luce nelle tenebre. Ci fanno vedere la verità del segno (un bimbo nella mangiatoia …). La luce poi non c’è più, o è intermittente, ma c’è la consapevolezza che… era vero, una consapevolezza presto sola, sostenuta soltanto dalla conferma umile che scaturisce dall’ascolto docile della Parola. Allora noi che abbiamo creduto al Natale dovremmo risplendere … anche nelle nostre opere. E invece possiamo trascorrere tutta la nostra vita in una posizione scomoda, tra la fede che illumina nella mente la venuta del Signore e la sua proposta evangelica, e le nostre opere che non splendono affatto. Non si deve per questo scoraggiarsi e consegnare le armi. L’incontro di fede che ci ha cambiati dentro rimane ed è irreversibile. La fatica di questa fedeltà incompiuta, perseguita in modo onesto e leale, per quanto poco fecondo… forse non dipende del tutto da noi. È partecipazione misteriosa alla renitenza delle tenebre ad accogliere la luce, è accompagnamento al doloroso cammino dell’umanità ad accogliere un Dio che nessuno ha mai veduto, ma del cui amore il suo figlio unico “ci ha raccontato”! E ci ha irrimediabilmente contagiato.

venerdì 18 dicembre 2009

…Dio nel corpo umano

I Lettura: Michea 5,1-4II Lettura: Ebrei 10,5-10Vangelo: Luca 1,39-48
Così dice il Signore: «E tu, Betlemme di Èfrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall'antichità, dai giorni più remoti. Perciò Dio li metterà in potere altrui, fino a quando partorirà colei che deve partorire; e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli d'Israele. Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio. Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra. Egli stesso sarà la pace.Fratelli, entrando nel mondo, Cristo dice: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: "Ecco, io vengo, poiché di me sta scritto nel rotolo del libro per fare, o Dio, la tua volontà"». Dopo aver detto: «Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato», cose che vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: «Ecco, io vengo per fare la tua volontà». Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo. Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell'offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre. In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto»



Può essere utile mettere a confronto tra loro le letture di questa domenica – ultima di preparazione al Natale – per rilevarne l’intima connessione, pur nel così diverso approccio al mistero della centralità del “corpo umano” (e di chi lo mette al mondo) – nella travagliata storia della nostra salvezza.
Michea raccoglie e rimanda fino a noi un’antica segnalazione profetica: siamo tutti in potere “altrui”, fin quando non partorirà colei che deve partorire … Allora soltanto, anche il resto dei fratelli ritornerà … ed “egli” stesso sarà la pace. Se c’è un’illuminazione nuova delle scritture antiche, a ritroso, a partire da Cristo (come Gesù stesso insegnò ai discepoli dopo la sua risurrezione), qui i simboli oscuri si illuminano… e nello stesso tempo accolgono (adempiono) e sconvolgono (convertono) le aspettative dell’uomo. È caratteristica della profezia biblica questa spada a doppio taglio. In modo umilissimo ed esplosivo, insieme, anche Luca racconta di due “partorienti”, che si incontrano e si dicono, in questa “scena madre” della nuova storia, il mistero a cui siamo chiamati. Lontano dai templi, lontano dalle regge del potere e dell’intelligenza, per la strada, sulla soglia della casa... I loro due piccoli d’uomo, ancora incompiuti nel seno delle madri, già si comunicano il passaggio del testimone della speranza, dal “più grande tra i nati di donna” (il Battezzatore, sempre chiuso però nella sua appassionata ma sterile ricerca della salvezza), al piccolo germoglio nuovo, di un’altra qualità a noi sconosciuta, che lo fa sussultare di gioia. Elisabetta, l’umanità senza futuro, graziata nel suo desiderio irraggiungibile di tramandare la vita, si domanda il motivo della grazia che l’inonda: a che debbo che il mio Signore venga da me? Ma subito intuisce il segreto del mistero che si è aperto sulla terra: beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto. La fede in Dio è fede nella salvezza della carne, perché proprio questa è la sua volontà di benevolenza sul mondo: ciò che è nato da lei (dalla sua carne e dallo Spirito) sarà santo e chiamato figlio dell’Altissimo. Questo “venire”, adesso, di Maria nella casa che l’accoglie, non è semplicemente annunciare e preparare, come farà Giovanni, ma è portare colui che viene.
Maria viene a portare una Salvezza ancora in germoglio, ma pronta, viva e personale, che, secondo la lettera agli Ebrei, esprime già con il suo “esserci” la propria identità: ecco io vengo per fare, o Dio, la tua volontà! questa è la vocazione dell’uomo, finalmente consapevole e compiuta. La struttura religiosa profonda dello psichismo umano, la ricerca affannata e ambigua, quanto irreprimibile, di un “oltre sé” (esser come il Dio immaginario – imporsi come padroni onnipotenti) di cui racconta la pagina biblica delle origini, è radicalmente capovolta. Nella sua originaria e mai sopita passione di essere «un laboratorio unificatore del tutto» (San Massimo Confessore), l’uomo ha espresso una capacità di fabulazione religiosa che mentre doveva servirgli nella sua ricerca di Dio, ha prodotto e poi istituzionalizzato steccati, veli santi, templi, teologie e riti, sacrifici e caste sacre, che fanno da schermo e sono divenuti un ostacolo nel suo viaggio verso sé, gli altri e Dio stesso: Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato, cose che vengono offerte secondo la Legge, … «Ecco, io vengo per fare la tua volontà». Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo.
Il “nuovo sacrificio” mina alla radice ogni altro espediente religioso, perché rovescia la religione dell’uomo, sì che non sono più i meccanismi psichici umani (paura della morte e pretesa di amore senza fine) ad esserne protagonisti, ma il corpo di Cristo offerto come luogo dell’inveramento della volontà del Padre: Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre. Il dramma della libertà, il rifiuto da parte dell’uomo di essere persona, di realizzarsi ad immagine divina, ha trasformato la libertà in arbitrio cieco, sete di possesso e dominio, per consegnarsi al disordine ontologico e morale, il cui esito è la morte, la ferita finale che ammala già in anticipo ogni nostra relazione … Che ne siamo consapevoli o meno, nel nostro cammino culturale, la religione non serve più, è assorbita nel corpo di Cristo, al quale il nostro è chiamato ad assimilarsi: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. L’umanità del Cristo è testimonianza dell’amore assoluto di Dio, incarnato nella nostra polvere, alla quale dovremo ritornare, ma è più forte della morte. Senza peccato, ma capace di discendere al fondo dell’abisso della libertà umana deviata, sprigionandone ed attuandone la dimensione profonda, la corporeità gloriosa di Cristo, quella natura umana divinizzata che ha già in Lui la primizia di una nuova genesi – è il seme deposto in noi, da sviluppare in una vita di preghiera e di ascesi (cioè di vittoria evangelica sul mondo!), per imparare ed esercitare l’amore. Nella sua carne, nel suo Spirito, senza più distanze sacrali, anche a noi è dato rigenerare e dilatare la nostra umanità oltre noi stessi, per farne dono di sé all’Altro nell’amicizia (non vuole più servi!) – e a tutti gli altri nella carità, dono totale della nostra vita sino alla morte, fino a fare della morte stessa un dono. Ritroveremo custodito ed eternizzato ogni momento di offerta di sé, ogni atto creativo di bellezza e di tenerezza, di vittoria sui determinismi della vita biologica, ogni momento di comunione, custodito nell’umanità risorta del Cristo e nella nostra in Lui (cfr Massimo Bolognini in Corpo di morte e corpo di gloria)
Forse nessun esperienza o testimonianza come quelle riportate nel nuovo Testamento riguardo al “natale” di Gesù nella carne umana, indica così decisamente il “corpo” come il luogo della nascita dell’uomo a se stesso! Rivelando e illuminando così intensamente l’umile terrestre miracolo quotidiano per cui il nostro corpo fisico può nascere allo spirito e lo spirito nascere come carne riplasmata dall’amore (mistero di libertà e grazia del nostro feriale natale). Carne che imprigionata nei suoi ripetitivi e ciechi dinamismi corporei, contagiata ormai dal “natale” di Gesù, si riapre alla creatività della vita, abilitata a donare se stessa, a crescere nella dilatazione della persona in comunione, trasformando in sua memoria il nostro corpo, in offerta eucaristica che, unita al Verbo incarnato, ne rivela l’intima verità ed il compimento definitivo.Visita di Maria a Elisabetta (Giotto)Perché mai le donne, secondo il vangelo di Luca, sono protagoniste dell’incontro con il Signore – anche a Natale? Persino in queste storie antiche – quando non era pensabile che potessero neanche fare da testimoni affidabili di incontri umani? credo che la tentazione monofisita, (la tentazione più subdola e diabolica contro l’incarnazione – cioè il dubbio o il rifiuto di credere che l’umanità di Gesù sia vera) non le tocca. Cioè, il corpo, la carne, pure sporca e malata, perfino il cadavere dell’amato… per loro hanno sempre senso. Sono sempre il luogo della vita vivente o vissuta, il territorio della comunicazione vera, l’unico alveo dove si trasmette la vita – sempre amata! Sono quindi più vicine all’accudire che al razionalizzare; a comprendere invece che proporre, a servire invece che pretendere. Anche loro sono intrise della congenita debolezza umana (e biblicamente sono state la prime a volerne uscire a tutti i costi) ma il circuito culturale non le chiude mai del tutto. La vita vale sempre più dell’idea della vita!
Qui lo Spirito si trova più a suo agio, nella terrestrità che accetta la Parola-Promessa, perché è il brodo più fecondo di cultura della fede. E allora avviene che in una casa normale, in visita a parenti normali, bisognosi di accudimento, si può incontrare l’anziana cugina incinta, moglie di un prete ammutolito dal mistero, portando Dio nel ventre. E nessuno si gira a guardare, solo loro sanno … e raccontano ciò che ancora non si vede, ma illuminerà la storia.
Dunque la laicità è abitabile dallo Spirito divino, molto meglio che il sacerdozio, il tempio, la legge, l’accademia teologica, il monastero esseno… Ma non per diventare anch’essa, a sua volta, sacra, (cioè potente, separata, normativa, teocratica…), ma per rimanere terrestre, povera, fragile, radicata sempre nelle vicende difficili dell’affettività, dell’economia, del potere, che compongono l’ordito del tessuto della vita. Aperta però al natale dell’amore, al natale di Dio con noi, nel nostro corpo!

mercoledì 16 dicembre 2009

E Maria pensò: "Ma questo angelo, avrà davvero ragione?"

In questa quarta e ultima domenica di Avvento la Chiesa ci propone di riflettere sull’episodio del vangelo di Luca, tradizionalmente titolato “La visitazione”: Maria – dopo aver ricevuto, da parte dell’angelo Gabriele, l’annuncio del concepimento di Gesù – parte «in fretta» per andare da Elisabetta, sua parente.
«Per quale motivo Maria si reca da Elisabetta? Secondo un diffuso sentire popolare, e anche secondo diversi esegeti, Maria sarebbe stata spinta dalla carità e dalla volontà di servizio. “Maria poteva aiutare sua cugina nelle sue occupazioni quotidiane, offrendole quei servigi che le donne usano rendersi in tali circostanze” [scrive L. Deiss, ne Elementi fondamentali di Mariologia]. La “Serva del Signore” si fa serva degli uomini, come è nella logica del vangelo, dove l’amore di Dio si dimostra e si verifica nell’amore del prossimo. E. Bianchi annota che l’intenzione caritativa di Maria si trasforma però – nel racconto di Luca – in un viaggio missionario: “Maria va per fare il bene e finisce per portare Cristo” [E. BIANCHI, Magnificat]. In realtà da nessuna parte del testo è suggerito che il viaggio di Maria sia stato motivato dal desiderio di aiutare Elisabetta. Tanto più che, come si è visto, Maria ritorna a casa sua prima della nascita del Battista (1,56). E l’espressione “Serva del Signore” (1,38) sottolinea l’obbedienza a Dio, non di per sé il servizio al prossimo. L’unico motivo, che può trovare un appoggio nel testo, è il desiderio di Maria di osservare il segno che l’angelo le ha indicato» [B. MAGGIONI, Il racconto di Luca, Cittadella Editrice, Assisi 2001, 36-37].

Pochi versetti prima infatti – durante l’annuncio dell’angelo a Maria («Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine», Lc 1,30-33) – Egli aveva aggiunto, quasi a indicare una traccia di attendibilità del suo messaggio: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,35-37).
Maria che «diversamente da Zaccaria [come annota ancora Maggioni], non ha chiesto un segno», individua nelle parole dell’angelo un’indicazione: un’indicazione che «nasconde un invito. Il segno e la sua verifica fanno [infatti] parte della logica delle rivelazioni. Dio mostra [N.B. “mostra” NON “dimostra”] la sua verità e non vuole che l’assenso della fede avvenga al buio»!
Precisamente in queste ultime indicazioni – purtroppo abitualmente soffocate dal continuo rilancio della lettura di questo brano che vede in Maria l’esempio di carità da seguire, accontentandosi ancora una volta di proporre semplicemente i luoghi comuni di una religiosità che troppo disinvoltamente fa “tornare i conti” della drammatica evangelica – sta la straordinarietà e – mi sia permesso – la spregiudicatezza di questo testo.
Esso infatti – precisamente mentre sta descrivendo il paradigma della fede di ogni credente: Maria, appunto – non ha paura di mostrare come la fede – cioè la relazione dell’uomo al suo Dio – non sia assolutamente da intendere come una fede cieca! Questa constatazione – che è un’evidenza che emerge da ogni interstizio evangelico – purtroppo ancora nel 2009 risuona come una prospettiva sospetta: la catechesi neoscolastica degli ultimi secoli ha infatti radicalmente fatto sedimentare nelle nostre menti l’idea che se di fede si tratta, non c’è spazio per l’esercizio della ragione… Essa è “un salto nel buio”, se no che fede è?
“Curiosamente” invece proprio Maria – da sempre cantata come l’esempio della fede di ciascun cristiano – a fronte di una rivelazione di Dio, di un “farlesi” incontro di Dio, di un imbattersi in Dio, si appiglia all’unica “traccia” che l’angelo le ha lasciato per andare a constatare se effettivamente l’esperienza che ha vissuto ha una sua attendibilità. Il problema di Maria è infatti quello di ciascuno: “Questa rivelazione, questa lieta notizia, questo vangelo, – in ultima analisi –, questo Dio, è un Dio affidabile, è un Dio credibile, è un Dio degno di fede, della mia fede? Vale la pena dedicargli la vita, instaurare con Lui una relazione che diventi l’orizzonte di senso in cui comprendere il reale, incarnare la sua logica che conduce al dono della mia vita per amore dei fratelli?
L’angelo aveva parlato di Elisabetta… E Maria, «in fretta», va da lei!
Altro che fede cieca (che tra l’altro il Concilio Vaticano I ha stigmatizzato – con la Costituzione dogmatica Dei Filius – come inaccettabile)! La relazione che il Signore propone all’uomo onora fino in fondo la caratura pienamente umana (e dunque anche razionale) dell’uomo! Nessun salto nel buio, ma il paziente riconoscimento del farsi prossimo di Dio, l’intercettazione, nel nostro ordine degli affetti, di una promessa di senso lì contenuta, il credito dato a questa intuizione e il conseguente sbilanciamento verso un approfondimento della conoscenza di questo suo rivelarsi (fatto anche – non solo, ovviamente – di faticosa indagine sui testi, che invece molti cristiani non solo non hanno mai studiato, ma nemmeno mai letto…), la verifica di ciò che attraverso lo studio (Parola di Dio), il dialogo personale (preghiera), la vita ecclesiale (sacramenti), il volto dei fratelli (storia) emerge come volto del Dio di Gesù Cristo… per giungere ad un assenso consapevole… che riapre la circolarità appena descritta, dove infatti il consenso raggiunto, diventa occasione di nuove illuminazioni nell’ordine degli affetti, credito concessogli, ecc…
Ecco perché questo testo è coraggioso, perché non ha paura di mostrare come – per entrare in relazione con Dio – non ci sia affatto bisogno di uscire dalla carne, di censurare i nostri dubbi, di spegnere la nostra razionalità, di rispettare la nostra umana natura che prevede che per “farci” uomini, diventare uomini, ci si immerga nella storicità…
Maria – donna a tutti gli effetti, fatta di carne e sangue, sudore e fatica, gambe per andare in fretta da Elisabetta, “voce forte” per salutarla, entusiasmo e trepidazione per l’annuncio dell’angelo in cui le è capitato di imbattersi, tenerezza per il figlio che porta in grembo, desiderio di dirlo a qualcuno (a qualcuna…) –, l’esempio di fede dei cristiani di ogni generazione, non risulta affatto l’eterea semi-dea a cui spesso purtroppo ancora oggi è spesso ridotta dalla devozione popolare, colpevolmente alimentata da chi mente sapendo di mentire, ma ci appare – aprendoci ad un sorriso compiaciuto e tenerissimo – la ragazza a cui è capitato di tenere in pancia Dio, colma di paura e trepidazione, sospetti e incomprensioni, che non ha avuto paura di andare a vedere se davvero quell’angelo diceva il vero su Elisabetta! Perché forse – se diceva il vero su Elisabetta – diceva il vero anche a lei…
E così Luca ci regala l’indimenticabile pagina della rivelazione del Signore (Elisabetta è la prima che chiama Gesù con questo titolo nel vangelo di Luca), chiusa fra le quattro mura di una casa normalissima, con protagoniste due donne – una ragazza madre e una donna sfiorita – e le loro pance (con i rispettivi abitanti) che si parlano di una gioia incontenibile: è il Signore che viene, nel mondo laico delle donne, nella quotidianità di quelli che non contano, nel cuore dell’umanità.

martedì 15 dicembre 2009

Lo sfregio

Di Marco Belpoliti dal sito Nazione Indiana

Che cosa suggerisce la visione del viso insanguinato del Presidente del Consiglio? Quello di un uomo che ha subito un incidente, che si è rotto il labbro, che si è fratturato il naso, che sanguina copiosamente. Un accidente casalingo, un incidente d’auto, un’effrazione improvvisa e inattesa. Qualcosa di fortuito e casuale. In realtà, come sappiamo tutti per averlo visto nei telegiornali, o su You Tube, Silvio Berlusconi è stato colpito da un oggetto scagliato con forza da un uomo.
Un attentato dissennato, dato l’oggetto usato per ferirlo – un souvenir, un simbolo della città di Milano in miniatura –, e vista la situazione. Un gesto folle, eclatante, assurdo. Un attentato in miniatura, si dovrebbe dire, perché non mortale, nonostante la situazione e il contesto, simile a quello di mille altri attentati a uomini politici negli ultimi due secoli: all’aperto, tra la folla, all’inizio o alla fine di un comizio. Qualcuno si sporge tra la massa dei sostenitori e compie l’atto fatale. Ma qui non accade.

La follia ha sempre metodo, e più di una ragione. Chi ha scagliato l’oggetto contro il Presidente del Consiglio, Massimo Tartaglia, voleva violare il corpo del Re, un corpo sacro, che diventa tale attraverso l’investitura del potere, i rituali della vestizione, le cerimonie della proclamazione, il culto che lo circonda. In queste settimane Silvio Berlusconi ha spesso parlato dell’investitura che avrebbe ricevuto dal Popolo; ha parlato, seppure con metodi mediatici da telegiornale e tele-spot, del proprio potere in termini sacrali, simili a quelli dei sovrani medievali e rinascimentali. Ha caricato di segni e simboli la sua stessa persona.

Si tratta di un processo che va avanti da tempo, in modo postmoderno, e non più medievale, attraverso tecniche che tendono a rendere giovane e quasi eterno il suo corpo: fitness, lifting, liposuzioni, trapianti dei capelli, cure di vario tipo e grado. L’eternità del corpo di Berlusconi sfida la mortalità stessa del corpo tradizionale del Re, destinato, alla pari di tutti i corpi, a invecchiare e morire. Nella tradizione medievale e moderna la regalità, il corpo immortale del Re, è trasmessa ai discendenti: “Il Re è morto, viva il Re”, si proclama quando muore il vecchio re e gli succede il nuovo.
Nel caso di Berlusconi il corpo vivo coincide con la regalità. Il corpo del Capo è diventato il corpo politico stesso, la sua regalità riposa sul suo stesso corpo che egli cerca di sottrarre al passare del tempo, al suo naturale logoramento, per renderlo, e qui sta il paradosso, eterno nel tempo: “una giovinezza eterna senza passato”.
È una mescolanza di aspetti antichi e moderni, medievali e postmoderni. L’aver posto tutta l’attenzione sul proprio corpo, in sintonia con quello che accade all’intera società occidentale, fondata sul “narcisismo di massa” e sulla cura ossessiva del corpo, è l’elemento centrale della sua politica. Abbiamo un solo corpo, ci dice continuamente la pubblicità, bisogna curarlo. Si tratta dell’unico bene di cui disponiamo, per questo va conservato, modellato, ringiovanito. Berlusconi si trova al culmine di questo processo, lo incarna e lo orienta con i suoi stessi comportamenti.
Ma la sacralizzazione del corpo mortale del Capo ha sempre messo in moto meccanismi opposti di desacralizzazione, come è accaduto molte volte nella storia. Nel 1990 a Sofia, la folla inferocita assaltò il mausoleo del Capo, Gheorghi Dimitrov, fondatore del Partito comunista bulgaro, e cercò di bruciare la sua mummia. Nel 1945 il corpo morto di Benito Mussolini fu gettato sul selciato di Piazzale Loreto, e dissacrato mediante una sconcia impiccagione a testa in giù. La folla l’aveva acclamato, ora la folla l’ha deturpato. Sono tanti i gesti del genere che traggono la loro motivazione nel rovesciamento della sacralità stessa del leader.
Il messaggio sacrale della ritualità moderna, ci spiegano gli antropologi, fa a meno della sfera religiosa tradizionale, e non ha più bisogno di ricorrere alle magie e alle superstizioni del medioevo, quando ai Re di Francia veniva attribuito il potere taumaturgico del tocco che guariva dalle malattie perniciose della pelle. Tuttavia il sacro non è scomparso, si è solo trasformato. Meglio: si è travestito, è entrato a far parte della nostra vita quotidiana attraverso gli schermi televisivi, le riviste patinate, i messaggi pubblicitari, i personal computer. Che lo sappia o no, che sia studiato o meno, Silvio Berlusconi mette in moto meccanismi che funzionano per gli attori come per i santi, per Marylin Monroe e per Padre Pio. Il corpo è sacro nella sua stessa materialità, in quanto corpo che muore, per questo viene investito di una significato totale e totalizzante.
Due gesti compiuti da Silvio Berlusconi ferito dall’atto del folle di ieri colpiscono. Col primo egli si china, si copre il viso con un pezzo di stoffa. Qui c’è il gesto umano, della persona ferita, che cerca riparo, che è stordita, che non capisce cosa gli è accaduto, e vacilla. Col secondo il Capo ritorna tale: dopo essere entrato nell’auto, spinto dai suoi guardiaspalle, esce di nuovo. Si mostra alla folla. Vuole far vedere che è vivo, certo, rassicurare i suoi sostenitori, ma vuole anche compiere un gesto di ostensione. Una sorta di Sacra Sindone al vivo: viva e sanguinolenta.
Si mostra perché è nell’ostensione che il suo potere corporale esiste e prospera. Ha compiuto tutto questo in modo istintivo, senza ripensamenti. Fossimo stati negli Stati Uniti, la sicurezza lo avrebbe caricato in auto e sarebbe partita a tutta velocità. Poteva esserci ancora pericolo. No, Silvio Berlusconi sfida il pericolo, si espone di nuovo, seppur dolorante, col sangue sul viso, atterrito ma vivo, allo sguardo dei fedeli, perché questo è la natura stessa del patto che ha stretto con loro.
La politica dell’immagine di Silvio Berlusconi, che passa attraverso sempre più attraverso la politica del proprio corpo, mostra qui qualcosa d’inquietante: il suo legame con la vita e insieme con la morte.
Il folle gesto simbolico di Tartaglia rivela quel lato in ombra che la sacralizzazione quotidiana delle immagini televisive e fotografiche nasconde, e che al tempo stesso ne è il rovescio: l’inconscio desiderio di desacralizzazione. Lo sfregio, l’abrasione, il colpo al viso sono antropologicamente – sacralmente, si dovrebbe dire – parte stessa di quella politica d’incentivazione del corpo. L’ostensione chiama implacabilmente la violazione. Il gesto di ieri a Milano è stato compiuto da un folle, che nella sua follia ci manifesta qualcosa di terribile. Il potere del sacro non perdona. Di Marco Belpoliti dal sito Nazione Indiana



Nota: "Il corpo ferito del Capo" è il titolo originale del post (citato anche da Filippo Ceccarelli in un suo articolo su Repubblica.it).

L'immagine con cui io l'ho accompagnato, spero non venga ritenuta "offensiva" o "fuori luogo". Essa cerca soltanto, nello stabilire un parallelo, di sottolineare la pertinenza delle argomentazioni e ricordare come "l'oggetto sacrale", artistico e non, religioso o profano, è "corporalmente" esposto , "radicalmente indifeso", allo "sfregio" dissacrante e desacralizzante...
La "morte" di Dio (o il suo tentativo), passa sempre per la morte del "corpo" (o il suo "ferimento"): tentativo che spesso coincide con la loro "riduzione idolatrica".
Il senso cristiano della "resurrezioni dei corpi", sta indicare anche questo: il ristabilimento, in Cristo, della regalità di Dio e della dignità dell'uomo nella loro "relazionabilità permanente", che nemmeno il ferimento o la morte possono oramai diminuire. Ed è anche questo il senso del Natale!

lunedì 14 dicembre 2009

«Ciascuno faccia la sua parte»... prima che sia troppo tardi!

Ci sono momenti in cui bisognerebbe abolire due parole: ma e però. L’aggressione di un uomo, in questo caso di un primo ministro, è uno di quelli. Di fronte alla violenza non possono essere accettate subordinate, ammiccamenti o tantomeno giustificazioni. Il giorno che la politica italiana tutta lo avrà compreso fino in fondo, allora sarà davvero matura.

Il volto ferito e pieno di sangue di Silvio Berlusconi non può che lasciare sgomenti, non riesco ad immaginare una persona seria o che ami definirsi democratica e perbene che possa avere una reazione diversa.

Se invece la prima cosa che passa in testa è pensare che se la sia cercata o meritata, allora siamo entrati in uno spazio in cui la dialettica politica è degenerata.

Abbiamo ricevuto numerose lettere di persone che spiegano l’accaduto e lo comprendono come reazione ad un governo che definiscono «xenofobo», «antidemocratico» o «razzista». Sono persone che mostrano di essere solidali con gli immigrati e i più deboli, sconvolte per gli attacchi di Berlusconi ai magistrati e preoccupate per la democrazia, ma non toccate da ciò che è accaduto ieri sera. Questo modo di ragionare mi fa paura: come è possibile mostrare sensibilità a senso unico, battersi contro le violenze e poi giustificare un’aggressione, essere democratici e pacifisti e provare soddisfazione per il volto tumefatto di Berlusconi. Significa che l’ideologia continua a inquinare le coscienze, ad oscurare le menti.

Si può pensare che il presidente del Consiglio sia inadatto a governare, essere convinti che le sue esternazioni contro gli altri poteri dello Stato così come contro gli organi di garanzia siano allarmanti e sbagliate, essere preoccupati per quelle leggi «ad personam» che rischiano di peggiorare lo stato della giustizia italiana, ma niente di tutto ciò può giustificare la violenza. C’è una linea che in democrazia non si può passare, un discrimine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è a cui non si può derogare. E dire che sembrerebbe essere chiaro a tutti: tanto che anche a sinistra si invita alla mobilitazione democratica in seguito ad ogni aggressione o violenza. Questo deve valere anche per il leader di un governo di centrodestra, anche per Silvio Berlusconi.

Da ieri sera i blog e Internet sono invasi da battute, ironia, festeggiamenti e dai deliri di chi ci spiega che se l’è cercata. Su Facebook sono già nati decine di gruppi di fans dell’aggressore, Massimo Tartaglia, che in poche ore hanno raccolto migliaia di sostenitori. La rete, purtroppo, mostra ancora una volta di raccogliere il peggio di noi, ma politici e giornali hanno il dovere di non dare sponde, di essere seri e di capire che le giustificazioni ci portano su strade senza ritorno e che non si può continuare ad alzare il livello dello scontro.

E questo riguarda non solo la sinistra ma anche il premier, la sua maggioranza e i giornali che gli sono più vicini. Da mesi quasi nessuno sembra capace di sottrarsi alla tentazione di alimentare il clima terribile in cui viviamo, l’Italia somiglia sempre più ad uno stadio in cui si sente solo la voce degli ultras che gridano mentre incendiano le curve. In questo scontro continuo, in cui si parla soltanto dei destini del premier, si è persa di vista qualunque considerazione sullo stato del Paese e sui suoi bisogni.

Il presidente del Consiglio, a cui va la nostra solidarietà sincera, speriamo sia così saggio da capire che proprio lui - l’aggredito - ora può fare la differenza: può abbassare i toni e aprire la strada per un confronto più civile e rispettoso. C’è da augurarsi che anche tutta l’opposizione lo capisca e sia capace di isolare chi delira. Di MARIO CALABRESI in LaStampa.it


Scarica qui il testo (in formato PDF) dell'Intervista rilasciata dal Presidente Napolitano a Mario Orfeo, direttore del Tg2. Per il video dell'intervista vai qui (dal sito della Presidenza della Repubblica).

venerdì 11 dicembre 2009

Tra menzogna vera e verità bugiarda

Una cosa non capisco, perché le parole di un bos come Filippo Graziano devono essere vere? e quelle di un bos come Spatuzza devono essere false? (Il fratello di Filippo, Giuseppe si è avvalso del diritto di non rispondere: mica scemo intanto già parla per lui il fratello e così lui non rischia, nel confronto, di contraddirlo).

Se qualcuno mi sa dire a partire da quale logica si traggono certe conclusioni... Notare che non ho sottolineato che uno figura pentito e gli altri no... Anche immaginandoli tutti pentiti o tutti non pentiti (non credendo cioè al loro pentimento) con quale logica uno può affermare che gli uni dicono il vero e l'altro lancia solo calunnie? Dal pedigree?

E allora con che diritto si afferma che "Graziano smentisce Spatuzza" e non invece che "è Spatuzza che aveva smentito" con le sue precedenti dichiarazioni Graziano? Chi parla per ultimo ha ragione?

Con quale logica si decide chi ha ragione? A rigor di logica? nessuna! Fatti ci vogliono, fatti e non parole... e perché i fatti si trovino è necessario che la Magistratura sia lasciata in pace di cercare le prove...

Perché altrimenti, il sospetto, verso chi tira l'acqua al proprio mulino, è che si voglia nascondere una verità scomoda...

Fino a questo punto infatti, una persona logica, prendendo carta e penna per aiutarsi nel ragionamento, riconosce almeno cinque ipotesi:
  1. Spatuzza dice il vero, Graziano altrettanto...
  2. Spatuzza mente, Graziano mente...
  3. Spatuzza mente, Graziano dice il vero...
  4. Spatuzza dice il vero, Graziano mente...
  5. Spatuzza in parte mente e in parte dice la verità; Graziano idem...
La prima è da scartare perché le versioni sono contradditorie: non è possibile che entrambi dicano la verità!

Restano le altre quattro. Esse aprono a diverse possibilità o "scenari" e tutti rispondono alla seguente domanda: Perché ciascuno dice quel che dice? (e non dice quel che non dice?). Vediamoli.

Primo scenario: Spatuzza e i Graziano agiscono ciascuno per proprio conto. Uno vuole solo salvare la pelle, gli altri l'onore: in questo caso, entrambi potrebbero mentire! Questa ipotesi però mette Spatuzza in una situazione delicata, come diremo sotto (Terzo scenario).

Secondo scenario: Spatuzza finge di essere pentito e d'accordo con i Graziano dice cose che lanciano un avvertimento "a chi loro sanno"... Una volta il messaggio passato e avutone indiretta conferma (attraverso le dichiarazioni - pubbliche o private - dei destinatari) i Graziano rimettono le cose a posto (per ora) in attesa che le conferme a parole, diventino fatti... In questo caso Spatuzza pur mentendo (di essere pentito) dice il vero e ovviamente Graziano mente confermando la verità di non essere pentito.

Terzo scenario: Spatuzza è veramente pentito e mente, Graziano non è pentito ma dice il vero. Per valutare questa ipotesi bisognerebbe sapere perché un pentito mente rischiando ancor di più sulla propria pelle: non solo si rende odioso nei confronti dei Graziano, ma anche verso quello Stato a cui chiede protezione. Come minimo oltre a perdere lo status di pentito, si becca qualche anno in più per diffamazione e si espone (ancor più facilmente senza la protezione dello Stato) alla vendetta dei Graziano. Resta da chiarire la posizione dei Graziano: da quando in qua un mafioso che si ostina ad esserlo, diventa così "collaboriativo" verso lo Stato dicendogli la verità?

Insomma in ogni caso, lo scenario non è tra i più rosei...

Al lettore di scegliere la soluzione più logica che comunque va confermata da riscontri oggettivi.

Appare evidente però che le dichiarazioni di coloro che affermano che Spatuzza mente sono un'altrettanta menzogna, che non solo non ha riscontri nella realtà, ma non regge a un minimo ragionamento logico...

Solo i diretti interessati, che evidentemente conoscono la verità, hanno il diritto di affermare che Spatuzza mente, ma devono farlo con argomenti che vadano al di là della semplice (legittima) presa di posizione e sappiano farlo in modo argomentato e fondato.
Anche a questo serve la Magistratura, altrimenti tutto resta sull'opinabile e il minimo che si può fare è sostituire la forza della verità con la forza del potere (che si traduce in potere della forza)... che guarda caso è propria della "logica" mafiosa!

Che cosa dobbiamo fare?

Le letture che la Chiesa ci propone per questa terza domenica di Avvento, sembrano in qualche modo ricalcare la prospettiva che si voleva delineare già una settimana fa: lettura profetica di esultanza per la salvezza imminente (là Baruc 5,1-9 qua Sofonìa 3,14-18), scritto paolino che incoraggia la crescita nell’amore della comunità a cui si rivolge (in entrambi i casi, i cristiani di Filippi – là Fil 1,4-6.8-11, qua Fil 4,4-7), figura del Battista tratta in entrambi i casi dal capitolo III del Vangelo di Luca (là i versetti 1-6, qua i versetti 10-18).
La ripetizione di questa matrice dell’annuncio della Parola, che la Chiesa decide di proporre in questo tempo di Avvento (anno C), seppur crea qualche difficoltà di commento – perché il rischio di ripetersi diventa reale… –, in realtà è molto significativa: ancora una volta è ribadita (addirittura in maniera ridondante) l’impossibilità di avvicinarsi al Natale – e dunque di parlare dell’inizio dell’avventura storica di Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio, la sua piena Rivelazione – senza “passare” da Giovanni Battista.
I versetti del cap. 3 di Luca che la liturgia non ci fa leggere (quelli dal 7 al 9), indicano infatti questo necessario affluire delle folle (allora) e nostro (oggi) a Giovanni, nel deserto: «Le folle andavano a farsi battezzare da lui».
Perché questo bisogno di “passare” dal Battista? Cosa muoveva le folle di allora? E in che senso anche oggi, per noi, è imprescindibile il passaggio da Giovanni?
Un’intuizione si può avere dalla domanda che più volte gli viene rivolta: «Che cosa dobbiamo fare?», «Maestro, che cosa dobbiamo fare?», «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Questa domanda infatti rimanda al problema dei problemi, al risveglio della coscienza (dovuto ad un annuncio – in questo caso –, o ad un evento tragico o bellissimo, o alla noia di vivere, ecc…), per cui ci si rende conto che quotidianamente – anzi istante per istante – si ha a che fare con un abisso, con l’assoluto, con la scelta radicale di chi essere e chi diventare, col pericolo mortale di non risvegliarsi la mattina dopo e con la domanda inevitabile sul senso, che questa coscienza pone. Giovanni dice: «Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri», perché sta per arrivare l’atteso dai secoli, sta per succedere qualcosa di travolgente e che porta con sé una definitività; e la gente è immediatamente rimandata a se stessa. Di fronte ad un evento che sembra sconvolgere la storia, il problema di ciascuno diventa: “E io? Che cosa devo fare?”. Di fronte al Signore che viene, di fronte ad un mondo che finisce, di fronte alla mia vita che finisce, di fronte ad un figlio che mi nasce, di fronte ad un fratello che mi tradisce, che mi abbandona, che mi muore, che suda lacrime e sangue ogni giorno per i mille e mille motivi per cui nel mondo oggi si sudano lacrime e sangue, io che cosa devo fare? Come mi devo porre? Chi devo/voglio scegliere di essere?

È la domanda delle domande… ecco perché vanno da Giovanni: da uno che in quel momento sembrava poter dare delle risposte, sembrava poter indicare una via, dire qualcosa… Ecco perché anche la Chiesa, continuamente, ci invita a “passare” da Giovanni. Perché “Che cosa dobbiamo fare?” è la domanda che deve salire in petto a tutti: il problema – anche solo sul fronte umano – del senso non può essere eluso: Cosa dobbiamo fare? Cosa dobbiamo fare per vivere una vita buona? E come facciamo a capire cosa è una vita buona? E poi, “buona” per chi? Verso cosa corriamo? Verso dove andiamo? Verso chi? E perché? Qualcuno lungo la storia ha parlato di premi, di aldilà, di vita dopo la morte… Era vero? E come si fa per guadagnarseli? Quali prove, quali sforzi, quali sacrifici? E se non è vero, cosa sono qui a fare? Ha senso ciò che faccio, se è destinato al niente? E se decido di sfruttare comunque questa cosa – che è la vita – che mi sono ritrovato a vivere, cosa devo fare perché non sia un’occasione sciupata?
Giovanni – dicevamo già la scorsa volta – è – a detta di Gesù stesso – il più grande frutto della religiosità umana, che – nel suo senso autentico – è precisamente questo inevitabile imbattersi nella domanda del senso… Giovanni è come l’emblema di quella tensione umana per cui non ci si sente mai “risolti”, “finiti”, “arrivati”; per cui è sempre in atto (anzi: deve essere sempre in atto) un necessario migliorarsi, un cercare altrove, oltre; un con-vertirsi, per dirla con le sue parole…
In sostanza Giovanni rappresenta tutto lo sforzo dell’umanità e del singolo a trovare e a perseguire una risposta alla domanda “Cosa siamo qui a fare?”.
Ecco Giovanni! Ecco la necessità di “passare” da lui: perché senza questa tensione per la ricerca di un senso (del senso!), semplicemente essa non si dà. Non c’è vita senza senso, senza tensione – almeno – per un senso. E non c’è possibilità di trovarlo – o meglio di farsi trovare dal senso – se esso non è contemplato come possibile. Ecco perché – forse più che mai – per la nostra generazione contemporanea è indispensabile “passare” da Giovanni…
Anche perché poi – a ben guardare – Giovanni qualche risposta la dà… «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto», «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato», «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe»… Giovanni cioè sembra indicare, come possibile risposta al “Cosa dobbiamo fare?”, la via della solidarietà, intesa in senso forte, non in quello della carità “a distanza” della nostra società occidentale, per cui il povero – se lo si aiuta – lo si fa da lontano, lo si fa “lasciandolo a casa sua”: l’importante è che non venga da noi… No, qua Giovanni parla piuttosto di quella disposizione interiore – fondata, perché scavata nell’“anima” – che guarda all’altro – sempre e comunque – come ad un fratello, ad “uno dei nostri”, “uno dei miei”, per questo mi diventa caro e me ne prendo cura…
Precisamente in questa scia si porrà Gesù!
Eppure…
Gesù non è Giovanni! Anzi, a detta di Giovanni stesso, «viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali».
Infatti – a ben guardare – se è vero che Gesù si inserisce sulla scia della risposta giovannea alla domanda “Che cosa dobbiamo fare?”, proseguendo e radicalizzando l’amore al prossimo come criterio per “pesare”, “misurare”, giudicare la propria vita, è anche vero che Gesù non sarà esattamente come Giovanni se lo aspettava: «Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».
Giovanni infatti sembra ancora dell’idea (in questo ancora molto seguito da tanti cristiani) che il “bene” vada fatto (agli altri), per evitare di avere conseguenze negative (noi): evitare di “bruciare come paglia con un fuoco inestinguibile”, detto con le sue parole; “di andare all’inferno”, detto con le nostre… Dove l’oggetto vero di interesse, ancora una volta, siamo noi e la nostra salvezza: gli altri contano e “servono” solo come mezzi per i miei fini, per il mio bene, per i miei interessi (per quanto di interessi “spirituali” si tratti…).
La logica di Gesù è invece tutt’altra! Tant’è che Giovanni – racconta Matteo – all’inizio non era molto persuaso del modo di essere Messia di Gesù, tant’è che – dal carcere – gli manda i suoi discepoli a chiedergli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,3). Perché Gesù stravolge la logica umana (e giovannea) della necessità di salvarsi, del fare il massimo per migliorarsi, dell’essere il “più buoni possibile” per meritarsi il paradiso… La proposta di Gesù infatti non è un itinerario di autosalvezza, non è un percorso ascetico, in cui l’uomo sforzandosi raggiunge la perfezione morale o spirituale o mistica… Questo è ancora Giovanni – il massimo che la ricerca religiosa ex parte hominis può raggiungere…
Ma, come dicevamo anche domenica scorsa… uno sforzo destinato a farci sempre ritrovare seduti per terra: perché tutto parte da noi e arriva a noi; senza possibilità di (con)vincere davvero la nostra radicale consapevolezza di non poterci salvare da soli. Esattamente come non siamo potuti nascere da soli o farci uomini e donne da soli…
Precisamente qui sta il discrimine tra Giovanni e Gesù, tra l’Antico e il Nuovo Testamento, tra un itinerario di autosalvezza e il Vangelo. A differenza di Giovanni, infatti, Gesù non risponde (se non solo in seconda battuta) al “Cosa dobbiamo fare?”, ma al “Chi siamo?” e solo a partire da lì propone anche un “fare” – o meglio un “essere” che si media inevitabilmente in un “fare”.
Gesù infatti ricolloca l’uomo nella giusta posizione che da sempre egli agli occhi di Dio ha tenuto – ma della quale si era scordato (l’uomo, non Dio!) strada facendo: e cioè quella per cui l’uomo è figlio amato, sempre e comunque! Figlio, la cui vita è già sempre tenuta in mano dal Padre, salvata ex parte Dei. Vita – dunque – per la cui salvezza egli non deve dannarsi l’anima, sputare sangue, mortificare il corpo, primeggiare sugli altri… Essa infatti è già “al sicuro”. E se non lo fosse – per opera d’Altri – l’autosalvezza raggiunta sarebbe comunque sempre e solo illusoria, destinata inevitabilmente alla tomba!
Lo scardinamento di Gesù allora sta esattamente a questo livello: proprio perché rivela all’uomo la sua autentica identità filiale (umana in senso pieno), Egli gli consegna anche il “compito/dono” di incarnarla fino in fondo; un “da farsi” dunque, ma che trova senso solo in questa prospettiva, solo in seconda battuta, come risposta (accogliente) ad un regalo arrivato solo per l’incondizionata e inequivoca dedizione dell’Abbà-Dio. Ecco perché il “da farsi” non ha più i contorni dello sforzo, della rinuncia ascetica, del volontarismo, dell’apparire – ultimamente – contrario all’umanizzazione dell’uomo: perché esso diventa circolo d’amore in cui proprio perché inondato di bene, io irraggio sugli altri il bene; proprio perché figlio, divento fratello; proprio perché oggetto di dedizione, divento capace di dare la vita. Ecco in che senso allora Gesù – come concludevamo la scorsa volta – non va cercato, ma semplicemente accolto nell’intimità più intima della nostra interiorità.

Ti rinnoverà con il suo amore (il peccato, dalla parte di Dio!)

…i nostri vecchi chiamavano “gaudete” (rallegratevi)” questa domenica, a metà Avvento, perché nell’antico rito latino la liturgia eucaristica cominciava così. Nella storia della salvezza biblica, il motivo della gioia è uguale, da Sofonia fino a Paolo. “Grida di gioia, Israele! … Non lasciarti cadere le braccia!” E questo, perché : “In quel giorno non avrai vergogna di tutti i misfatti che hai commessi contro di me” (Sof 3,11) –le cose fatte male, quelli che pesano dentro di noi e ci intristiscono il cuore, da millenni. “Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla”… Questa è la buona notizia che fa rifiorire la speranza per ricominciare il cammino. “il Signore è in mezzo a te, un salvatore potente …” Un Salvatore che toglie la vergogna del male che ci rovina la vita. Dunque,come abbiamo ascoltato domenica scorsa, “Preparate la via del Signore!” Questo è l’invito pressante della voce che risuona dagli antichi profeti fino al Battista , per noi, persi tra i dirupi e le tortuosità della fame di senso. Anzitutto è necessario accogliere con cuore umile l’imperfezione e la precarietà di tutto ciò che viviamo e cerchiamo, riconoscere e soffrire l’incorreggibile miscela di tenerezza e aggressività dei nostri rapporti più cari, accettare l’inconsistenza delle cose che facciamo, la volatilità degli obiettivi per cui ci spendiamo, vedere con stupore e rammarico la processione dei volti che ci stanno vicino e si sperdono, senza che il nostro affetto li possa trattenere o consolare – come sarà per noi. Non è solo lo scoramento desolato dei nostri errori o insufficienze o peccati, che hanno fatto male dove volevamo portare il bene, dentro di noi e attorno a noi. C’è un supplemento di tristezza delusa che proviene dalla convinzione sincera, quanto illusoria, che ci entusiasmava nei momenti di fervore creativo, per la presuntuosa sicurezza d’essere senz’altro dalla parte giusta, di poter esigere consenso e adesione … senza accorgerci che progetti e sentimenti, ideologie e speranze hanno sempre una ferita alle radici che ne blocca o ammala i frutti. Anche se ortodosse e oneste, sono cose più nostre che evangeliche! Ci sembravano eterne, esenti dalla precarietà che invece presto ne corrode la pertinenza, rendendole oppressive e ostiche alla gente che ci sta intorno- e anche a noi. Alle folle che andavano a farsi battezzare da lui, Giovanni diceva: «Razza di vipere, chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente. Fate dunque frutti degni della conversione e non cominciate a dire fra voi: “Abbiamo Abramo per padre!”. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo. Anzi, già la scure è posta alla radice degli alberi …» (3,7ss). Allora“Preparare la via del Signore” è anzitutto lasciare che la Parola illumini, giudichi e disinquini tutte le nostre visioni umane dei sentieri di Dio e questo deve passare dalla nostra personale sofferta esperienza. Non ci salva l’appartenenza istituzionale né le radici cristiane. Per questo, di fronte a Giovanni, le folle che ascoltano l’invito penitenziale assumono poi volti di persone concrete con un lavoro, una professione, una configurazione precisa di vita, uomini e donne di casa con le loro piccole realistiche possibilità di decidere … Nasce la voglia di coinvolgersi di nuovo – una ennesima volta!
Il Signore, tuo Dio, gioirà per te … ti rinnoverà con il suo amore!
Il “rinnovamento” è una scossa interiore, una consapevolezza nuova, che nasce, nei modi più diversi, dall’ascolto della voce che annuncia anzitutto la cancellazione dei peccati del suo popolo: Il Signore ha revocato la tua condanna, … tu non temerai più alcuna sventura! Non si tratta semplicemente del perdono, sempre promesso e sempre concesso al cuore contrito. Si tratta di un evento nuovo, un cambiamento interno del cuore, non mai visto fino a quel momento … Fu predetto con parole appassionate dai profeti dell’esilio, ma adesso Giovanni ne vede il compimento, addirittura sente il calore del fuoco che brucerà ogni male dell’uomo, abolendo ogni senso di colpa e di condanna, chiamandolo alla sua vera vocazione originaria, sorprendente: la partecipazione alla gioia ardente e rigenerante di Dio, come aveva intuito Sofonia: il Signore Dio … gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia». Ben più che perdono! “Incredibile” partecipazione alla esperienza di gioia di Dio! L’unica dinamica capace di far sussultare e purificare alle radici il cuore dell’uomo … Pare una voce flebile, a non farci caso, ma quanto potente è la gioia che è nato nel cuore qualcosa di nuovo, impensabile! Questa metamorfosi del cuore si prepara con piccole cose (piccoli passi di risposta alla voce), che Giovanni suggerisce alla gente che gli chiede: che cosa dobbiamo fare? Minuscole risposte alla domanda importante, lo spartiacque della conversione. La stessa di Pentecoste (At 2,37). La domanda è già il primo frutto dello Spirito in arrivo! Che smuove il cuore da ciò che si sta facendo, per farci desiderare ciò che ancora non è si è capaci di fare. Il cuore è entrato in tensione, in attesa di qualcosa di “oltre”. L’autenticità è garantita dal cambio del baricentro interiore, che spalanca il cuore al fratello o sorella che è nel bisogno, per intessere rapporti nuovi, con un piatto di minestra in più, o la tunica non usata, con la bolletta dei pubblicani non alterata, con la violenza dei soldati, che diventa rispettosa benevolenza …
… tutti, si domandavano in cuor loro, riguardo a Giovanni, se non fosse lui il Cristo
Per i generosi che vogliono darsi da fare, è una tentazione inevitabile quanto micidiale, questa, nella lunga scarnificante sofferenza della fame, del bisogno, dell’attesa – di scambiare l’aiuto, la guida, il gruppo, l’amico, o il progetto affettivo, politico, economico … con lo “sposo” – il senso finale della vita. Giovanni si preoccupa di smentire questa illusione, questa specie di strisciante adulterio della fede, perché lui è il prototipo dell’amico fedele fino alla morte, l’uomo più vicino allo sposo, al Messia che viene! Eppure conferma: “io non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali di Gesù”. Giovanni, l’evangelista, gli darà spazio per spiegare più lucidamente questa sua totale indegnità (inadeguatezza) riportando le parole preziose con cui il Battezzatore ci radica alla inconvertibile durezza della nostra terra (il cuore di carne), che vorrebbe accogliere i semi per divenire feconda, ma è capace soltanto di spine e triboli: Voi stessi mi siete testimoni che ho detto: Non sono io il Cristo, ma io sono stato mandato innanzi a lui … Chi viene dall’alto è al di sopra di tutti; ma chi viene dalla terra, appartiene alla terra e parla della terra. Chi viene dal cielo è al di sopra di tutti. (Gv 3,28ss)
Che strana distanza e contiguità tra cielo e terra ci viene continuamente ribadita, lungo tutta la Bibbia! … da Adamo, fatto di terra, animata da alito di cielo, (e i pasticci che sono venuti da questa contraddizione congenita!), fino al “Padre nostro” che è sempre lì, nel suo compiersi mai esaudito: “così in cielo come in terra”… per arrivare alla nostra fede di oggi, in tormentata tensione tra queste due polarità: “cosa fare, in terra?”, (i piccoli passi dalla durezza di cuore, verso la conversione, cioè il cambiamento dei rapporti) e come continuare “a stare nel Regno”- nella situazione di tutti, senza fuggire o ritagliarsi nicchie spirituali, che lasciano intatti la sofferenza e il dolore della gente. Il Vangelo non è un progetto storico di giustizia politica, anche se annuncia instancabilmente le esigenze della giustizia. Con la confessione appassionata di Giovanni, di non essere il Messia, è tolto ad ogni uomo e ad ogni suo progetto la presunzione messianica: “Io vi dico, tra i nati di donna non c’è nessuno più grande di Giovanni, e il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui”. E il Regno di Dio non è, appunto, un progetto umano – è seminato nella storia e la fermenta, ma non è di questo mondo. Giovanni ha denunciato come nessun altro la necessità di immergerci nell’acqua della propria totale incapacità di essere giusti di fronte a Dio. Non potrà più esistere progetto storica o dottrina morale o tantomeno personaggio storico col timbro del messia. Eccetto Colui che Giovanni ha indicato.
Costui vi battezzerà in Spirito santo e fuoco! Gesù si ricorda e ribadisce questa profezia di Giovanni su di lui: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!” (Lc 12,49s). L’angoscia gli viene dalla consapevolezza che finirà come Giovanni. Egli porta davvero il giudizio escatologico (definitivo, senza più altra possibilità dopo di lui) ma assumendo il male e la sofferenza su di sé, per amore. Dunque il fuoco dello Spirito lo brucerà, lui e il nostro male che si è caricato sulle spalle, interrompendo la catena di contagio reciproco che lega ogni uomo all’altro, ma invece riconciliando tutti nel suo sangue. Questo fuoco dello Spirito, che, mentre si compiva, gli ha bruciato il cuore tra desiderio e angoscia, è quello che a Pentecoste, conquistata la pace del cuore, donerà ai suoi : “Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo”(At 2,3s). Paurosi rianimati, peccatori perdonati, singoli e gruppo … avvolti nella passione ri/creatrice di Dio.
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