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venerdì 28 novembre 2008

L'uomo è il destino

In questa prima domenica di Avvento, il primo brano con cui la liturgia della Parola ci chiama a confrontarci è tratto dal libro del profeta Isaia: esso ci invita a riflettere sulla storia di Israele. La Bibbia di Gerusalemme infatti intitola la sezione in cui è contenuto questo testo (Is 63,7-64,11) “Meditazione sulla storia di Israele”.
Nel ripercorrerla però ci si accorge immediatamente come essa trasbordi rispetto a Israele stesso e sia emblematica non solo per la storia di quel popolo, ma addirittura per la storia dell’umanità tutta e in essa di ciascun uomo.

Isaia infatti fa fare questo percorso al lettore:

gli ricorda i benefici del Signore («Voglio ricordare i benefici del Signore, le glorie del Signore, quanto egli ha fatto per noi», v.7), la sua fiducia nelle sue creature («Certo, essi sono il mio popolo, figli che non deluderanno», v.8); e nonostante questo la loro ribellione («Ma essi si ribellarono e contristarono il suo santo spirito», v. 10); di fronte però all’inimicizia col Signore esse «si ricordarono dei giorni antichi» e iniziarono a porGli domande sulla sua lontananza: «Dov’è colui che fece uscire dall’acqua del Nilo il pastore del suo gregge? [...] Dove sono il tuo zelo e la tua potenza, il fremito della tua tenerezza e la tua misericordia? [...] Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema?» (63,11-17); fino ad arrivare all’invocazione del suo ritorno: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!» (64,2) e alla fatidica domanda: «Resterai ancora insensibile, o Signore, tacerai e ci umilierai sino in fondo?» (64,11).

Percorso, che, tradotto in termini che travalicano i confini israelitici, potrebbe suonare in questo modo:

l’origine umana (la nascita di ciascuno) ha in sé inequivocabilmente una promessa. Al di là di come si arrivi a nascere e anche nelle condizioni peggiori in cui lo si possa fare, già l’esserci, il venire al mondo è portatore di questo nucleo esplosivo promettente Vita (per lui che nasce e per il mondo intero). Ma altrettanto inevitabilmente questa promessa si adombra, questa luce si oscura, questa speranza si rabbuia, questa vita si ferisce, questa libertà si fa del male, questa storia si arena... Ed ecco le domande che ogni uomo, che ha attraversato questa storia con anche solo un briciolo di consapevolezza, si pone: Dov’è la promessa che mi hanno fatto mettendomi al mondo? È questa la vita? Citando Vasco Rossi: «Questa felicità, dov’è?»... Che senso ha tutto questo? Fino alla disperazione di alcuni, alla fuga nella superstizione (che è sempre religiosa!) di altri, all’attesa di salvezza dei rimanenti che lascia trapelare un “Fino a quando ci toccherà patire?”.

Ma perché a Israele è successo questo? Perché pare succedere ad ogni generazione con cui l’umanità tenta di rinnovarsi? Perché succede a noi?
La svolta sembra concentrarsi tutta in quel «si ribellarono»: un ribellarsi che biblicamente per Israele ha come referente Dio, e, nella nostra “traduzione” esistenziale, la promessa iscritta nella vita (che cristianamente parlando è ancora Dio, il suo vangelo: la buona notizia di Dio sulla vita dell’uomo).
Eppure questo termine “ribellione” in noi non risuona solo con echi negativi: il piccolo contestatore che c’è in ognuno di noi infatti identifica in esso tutta la sua possibilità di libertà, la sua possibilità di essere contro il sistema costituito, di potersi dire come “Io” e non come chiunque! Non a caso anche pedagogicamente parlando, è solo nell’opposizione a ciò che è altro da me che divento “Io”: avviene con i genitori nell’infanzia, con le autorità nell’adolescenza, con l’omologazione nell’età adulta...
Riteniamo dunque giusto affermare la nostra identità – perché senza di essa non solo non saremmo noi stessi, ma semplicemente non saremmo – contro tutto e tutti, se necessario anche contro “Dio”...
Forse però in modo un po’ meno perentorio saremmo disposti ad affermare la nostra identità contro tutto e tutti, se necessario anche contro “la promessa di Vita iscritta nella nostra vita”... Se lo facessimo infatti cadremmo ipso facto in contraddizione... Come si può infatti per essere sé stessi – dunque per vivere – ribellarsi contro la Vita stessa?
Per chiarire meglio il ragionamento urge forse porre qualche chiarificazione capace di mettere un po’ in ordine i pensieri:
- Siamo partititi dicendo che ci si ribella per essere, per esser-ci; ci si ribella dunque da tutto ciò che pare impedirlo (cfr genitori-professori per un adolescente...), che pare impedire la vita;
- In questo senso spesso ci si ribella anche contro Dio, contro colui che percepiamo (o che ci hanno insegnato) essere un despota, colui che vuole dirigere la nostra vita (che ha scritto un progetto per noi, che sa già cosa faremo domani...), o anche solo colui che mi vuol per forza far fare il bene e per farlo mi ricatta col suo inferno...
Giusto dunque sottoscrivere l’affermazione della nostra identità (libertà, individualità, irripetibilità...) contro tutto e tutti, se necessario anche contro “Dio”...
Ma a ben guardare... in tutti questi passaggi logici, c’è un punto debole (evangelicamente parlando), che fa crollare il ragionamento intero: quello descritto non è Dio, non il Dio di Gesù almeno... quella descritta non è infatti una promessa iscritta nella vita ma un mostro che toglie ogni respiro vitale alla sua creatura, che la soffoca e la opprime, tenendola sempre sotto ricatto...
Gesù ha rivelato un Dio diverso (“la mia banca è diversa” direbbe la pubblicità del Credito cooperativo): il Dio di Gesù è il Dio della vita, è il Dio della bellezza della vita, di colui che ci vuol convincere (questa è la fede) che è più bella una vita buona che una vita malvagia; una vita onesta, di una disonesta; una vita che vuol bene davvero, rispetto a una vita che sfrutta, arraffa e mangia tutto quello che trova sul suo cammino.
L’errore più grande del Cristianesimo in questo senso, forse, è stato proprio questo: non riuscendo a essere convincenti sulla assoluta bellezza di una vita buona (nel senso di evangelica), aver introdotto come deterrenti vari spauracchi per una vita malvagia (inferno, penitenze, conseguenze negative); accettando però in questo modo la premessa mondana che fare il male è più bello...
Dio invece è il Dio della vita; di quella stessa che noi nascendo aneliamo; quella stessa per cui noi siamo disposti a ribellarci a tutti pur di salvaguardare... Ecco perché ribellarsi a Lui è deleterio. Non perché si va all’inferno, ma perché ci si ribella alla vita, quindi a noi stessi, quindi all’esser-ci... Ma se l’uomo non ha Vita, appunto non c’è...
Ecco che allora anche le parole del Vangelo di questa I domenica di Avvento assumono un senso nuovo: non sono lo spauracchio che Gesù pone appena prima di morire per assicurarsi che “faremo i bravi”... quasi che dicesse: se non lo sarete quando arrivo vi sculaccio – come si fa coi bambini.
Esse sono piuttosto il tentativo di ribadire la decisività della vita: non si sa quando essa avrà il suo compimento storico (la morte fisica di ciascuno); addirittura neanche il Figlio sa quando la storia intera avrà una fine («Quanto poi a quel giorno e a quell' ora, nessuno li conosce, neppure gli angeli dei cieli, ma soltanto il Padre mio», Mt 24,36). Eppure è in essa che ci si gioca tutto: il compiere o il fallire la propria destinazione umana, e cioè nient’altro che il quotidiano ridare credito alla promessa della vita, al fatto cioè che ne valga la pena; che esser-ci e esser-ci nella modalità dell’amore vero (cristico) per gli altri è la Vita...In modo da ricordarci sempre – come dice il mai così citato Zavoli – che “tutto è rimandato alle nostre responsabilità, com’è giusto che sia. Perciò non chiediamoci, così virtuosamente, celestialmente e pigramente quale sarà il destino dell’uomo, perché l’uomo stesso è il destino”.

Dio s’allontana per venirci più vicino

Oggi, prima domenica di avvento, il nuovo anno liturgico inizia là dove il vecchio è finito. La stessa pagina finale del Vangelo (di Marco, questa volta!), con l'ultimo avvertimento di Gesù, prima del racconto della passione, come domenica scorsa, nel vangelo di Matteo. Il linguaggio è diverso, ma la preoccupazione è la stessa del racconto del giudizio finale: introdurre il discepolo di Gesù nella consapevolezza 'cristiana' del significato della vita in questo mondo e nella storia presente! Un messaggio forte e ribadito come essenziale per tutti: vigilate, state attenti, "sorvegliate" il vostro cuore, la storia, gli eventi, il loro senso e il vostro coinvolgimento.

La visione teologica del mondo e della storia

Nel linguaggio vivace e concentrato di Marco c'è, come premessa e motivazione del richiamo alla vigilanza, un breve tracciato teologico della salvezza che risponde alla domanda: cosa è successo, perché dobbiamo spendere la vita in questa attesa del Signore ? ‑ il quale è in arrivo, di sicuro, ma non si sa né come, né a che ora verrà! Il riferimento a Gesù, cioè il racconto della redenzione, è in sovrapposizione su quello della creazione e lo assorbe totalmente nell'attuale condizione del discepolo, il quale si scopre come abbandonato e lasciato solo due volte: dal Padre che l'ha creato e poi abbandonato nei pasticci di questo mondo inospitale; poi dal Figlio, che il Padre stesso ci aveva mandato per salvarci. È lui, infatti che, sotto la figura di questo "signore" strano, è espatriato dal suo popolo e ha abbandonato la sua casa, lasciando ai suoi servi la piena responsabilità dei suoi beni. Il vangelo di Giovanni spiegherà addirittura che proprio per questo il Signore glorificato ha dovuto lasciare i discepoli e se ne è tornato al Padre (Gv 16,7). Perché i discepoli e tutti noi ci affidassimo al suo Spirito, imparassimo ad assumerci le nostre responsabilità, capissimo che Dio non è il rimedio dei nostri problemi e il tappabuchi della nostra imperizia o il grande meccanico a cui ricorrere, perché aggiusti i guasti del mondo quando la terra e la gente vanno in corto … come certa teologia provvidenzialistica tuttora suggerisce. C'è una distanza di Dio necessaria per lasciare spazio all'uomo, perché i servi del Signore (pur coscienti che la casa è sua!) assumano le proprie piene responsabilità, secondo le competenze e il contributo che è loro richiesto e affidato.

Dio vicino e Dio lontano

"Fede in Dio e assunzione totale del proprio compito nella storia non sono contrastanti. L'azione creatrice di Dio non è come la nostra. Dio non aggiunge qualcosa a quello che c'è già. Dio concede alla creatura di fare quello che egli intende realizzare, immette nella creatura un'energia nuova, conduce la creatura a esprimere in se stessa la perfezione cui Egli l'ha destinata, la conduce così alla pienezza della sua perfezione, a raggiungere quella identità autentica e vera di figlio di Dio che è immagine del Padre. Quando noi diciamo che Dio agisce, vogliamo affermare che la creatura accetta di fare quello che Dio le offre di fare, senza che lei neppure se ne accorga. Essa potrebbe pensare di essere il soggetto autosufficiente dell'azione, mentre è Dio che opera perché possa essere e fare. Egli in questo modo comunica alla creatura la sua perfezione a piccoli frammenti attraverso i quali, nel tempo, la creatura va verso la sua perfezione. Se la creatura accetta questi piccoli passi verso la perfezione cresce, se li rifiuta si blocca, se li rifiuta coscientemente pecca" (Molari). Perché, sappiamo, "tutto è compiuto" con la passione, morte e resurrezione di Gesù! Ma la responsabilità del credente nella creazione e nella storia è esaltata non cancellata, dalla redenzione di Gesù.

La purificazione della fede

Il profeta che si ispira ad Isaia, tanti anni dopo, è portavoce dell'esperienza di Dio in un momento drammatico del "resto" di Israele, deportato e decimato, che torna a Gerusalemme, chiamato a ricostruire, ancora una volta, città e tempio e vita sociale, dopo il grande esilio. Sa, per sofferenza dolorosa, cosa vuol dire vicinanza e lontananza (desiderio e abbandono) di Dio. Sa che il bisogno dell'uomo di catturare Dio e tirarlo a forza dalla propria parte, con parole e gesti, preghiere e sacrifici, benedizioni e maledizioni, rischia la magia e l'idolatria. La fatica ad accettare la lontananza di Dio, senza sostituirlo con altri pseudo assoluti, è stata l'esperienza di purificazione della "fede spoglia" che ha imparato lontano dalla sua terra e da Dio. Ogni esilio o offuscamento di Dio ha questo significato. Se Dio è lontano, se di fronte alle difficoltà della vita si svuotano i segni sacri, se sacerdote, re, profeta… rivelano la loro insufficienza, l'uomo deve lasciare mettere a nudo la propria miseria e piccolezza. Cioè il senso della propria totale alterità rispetto a Dio. Ferito nella sua fede, il credente scopre la sua inconsistenza esistenziale, la fragilità morale e l'angoscia del peccato.

"Ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema". S'insinua così il dubbio amaro che proprio la nota più caratteristica dell'esperienza di Israele e cioè la convinzione che Dio si è fatto vicino ed è intervenuto nella storia del "suo" popolo, sia un'illusione! … Siamo diventati come coloro su cui tu non hai mai dominato, sui quali il tuo nome non è stato mai invocato. Ma il desiderio di risentire e rivedere Dio riesplode: Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Il profeta sa la barriera che s'interpone tra Dio e l'uomo: abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli… Per cui lo smarrimento totale: perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto, ci hai messo in balìa della nostra iniquità. Non si tratta solo della debolezza congenita dell'uomo: si tratta della bruciante esperienza che tutti i nostri atti di giustizia sono come un panno immondo con cui inutilmente cerchiamo di ripulirci… Condannati a soffrire l'impossibilità della giustizia, come se fossimo colpevoli di una malattia mortale, da cui non possiamo guarire.

La centralità di Gesù Cristo

Questa distanza insuperabile che ci toglie la parola, questo smarrimento che ci impedisce di intravvedere il volto di Dio, s. Paolo li vede superati in Gesù Cristo, che è la parola e il volto del Padre. L'entusiasmo esuberante con cui scrive questo inizio della lettera ai Corinzi (la comunità più vivace ed esplosiva) manifesta l'intensità appassionata e totalizzante del suo riferimento al Signore. In sei righe, per otto volte trova modo di riferirsi a lui. Ogni verbo gli richiama la sua azione o la sua presenza: in lui la grazia del Padre si è riversata su di noi, per restituirci parola e consapevolezza. Con la forza della sua testimonianza, così radicata in noi che nessun dono ci può mancare, siamo in attesa della sua piena manifestazione, confortati nella fede, fino alla fine! Eppure Paolo è immerso e talora sopraffatto da difficoltà e contrasti, incomprensioni e tradimenti, ostacoli senza fine…, ma vive questa attesa della manifestazione del Signore con un entusiasmo ed una dedizione inesauribili. Il segreto sta lì, nella passione per Gesù che lo impregna: non son più io che vivo, ma Cristo che vive in me! (Gal 2,20) Il Dio 'lontano' (a badare al suo non interventismo storico!) è tanto vicino al suo discepolo da intriderne tutta l'esistenza, fino a divenire la spinta vitale di ogni sua passione e attività.

Provvisorietà non è disimpegno: quello che dico a voi lo dico a tutti!

Sembra una contraddizione. Molti pensano che sia difficile o anche impossibile conciliare la consapevolezza della precarietà di tutti i progetti con un coinvolgimento totale nella continuità di un impegno storico. Non potrebbe, la precarietà, condurre al disimpegno e al deprezzamento di ogni progetto? A questa domanda vuole rispondere la Parola di oggi. Per i credenti in Dio, soprattutto nella prospettiva cristiana, la Vita esiste già in forma piena e definitiva e può esprimersi in modo sempre più ricco nello sviluppo della storia, a condizione però che vi siano ambiti accoglienti. L'impegno nella storia quindi continua ad essere assolutamente necessario, non perché i progetti umani siano definitivi, adeguati e compiuti, ma perché attraverso di essi prende forma concreta, anche se ancora provvisoria, l'azione creatrice e redentrice di Dio. Noi siamo invitati a camminare nella via di Gesù (i primi cristiani sono chiamati «seguaci della via di Cristo» in At 9,2) tenendo lo sguardo fisso su di Lui, che è e che viene, anche se sembra essere partito per un paese lontano. Ne consegue che tutta la spiritualità cristiana si sviluppa sulla scia della fede di Gesù, come rapporto con Dio riconosciuto in Lui come Principio di una Parola che illumina e di una Forza che dona vita e ci rende figli… che servono il Padre e i fratelli sulla terra, ma il cui nome è già scritto nei cieli.


martedì 25 novembre 2008

L’Amore è più forte di ogni interrogativo

Ho esitato molto a scrivere di questa mia esperienza familiare. Quando si vive in una casa divenuta chiesa, accanto a un letto divenuto altare, le parole si svuotano fino a scomparire. È il silenzio che parla. Poi pensi che, se abiti in una vera chiesa, anche se domestica, devi lasciare le porte spalancate, devi permettere che la vita entri ed esca per accogliere ed essere accolta.
Sono passati tre anni da quando un ictus ha interrotto la vita di mio marito e capovolto la nostra, più niente è stato come prima. Dopo dieci mesi d’ospedale ci siamo trovati di fronte a una difficile scelta: affidare il nostro caro a una clinica, in una lunga degenza, o riportarlo a casa. Separarci da lui nella quotidianità del vivere o iniziare con lui una nuova vita, un’avventura al buio.
Ha scelto lui per noi, per quello che era stato, discreta e affettuosa presenza di marito e di padre, testimonianza silenziosa di altruismo e di etica quotidiana. Lui che la sindrome Locked-In ha lasciato ai confini fra la vita e la morte, la corteccia cerebrale vigile, inerte il corpo in un’immobilità che ha tolto la parola, la deglutizione, anche il più piccolo movimento. Nutrito attraverso la macchinetta della Peg collegata con un tubo nello stomaco, la tracheotomia per respirare.
Un’invalidità rara, forse settecento casi in tutta Italia, una malattia poco conosciuta dagli stessi medici, che tiene prigionieri dietro un simbolico cancelletto di cui si è persa per sempre la chiave: senti tutto, ma non puoi rispondere né manifestarti in alcun modo. Agli inizi un filo tenue di comunicazione con il battito delle ciglia che rispondevano alle nostre domande, come nel film La farfalla e lo scafandro, tratto dall’autobiografia del giornalista francese Jean-Dominique Beauby che la dettò comunicando con un occhio solo. Nel trascorrere dei mesi quel filo si è interrotto. Il nostro caro è andato ad abitare in una landa sconosciuta, sigillato in un silenzio dentro il quale soltanto le pupille si muovono, senza riuscire a esprimere che cosa accade nella parte del cervello rimasta intatta. Nessuno riesce a dirci in quale misura.
Anche noi abbiamo scelto di andare ad abitare con lui in quel deserto dei sensi, illuminato dagli occhi che ogni tanto si spalancano sul mondo e ci guardano. Uno sguardo che arriva da lontano, da un universo non praticabile che possiamo soltanto amare, senza cercare risposte. È stato l’amore, soltanto l’amore, ricevuto e dato per anni, a guidarci nella sfida intrapresa, nel viaggio verso l’ignoto, nelle giornate fatte di azioni sempre uguali, in un presente che non ha futuro perché ogni previsione clinica e umana è stata cancellata.
Con questo amore abbiamo arredato la stanza della sua nuova vita, al centro della casa, la più luminosa, lasciandogli attorno tutti gli oggetti che hanno accompagnato la sua esistenza ricca di interessi, a cominciare da quei libri che erano la sua passione, la sua fame di sapere e di esplorare. Lo abbiamo avvolto durante la giornata, e parte della notte, con la sua musica sinfonica, con quei classici che erano stati i grandi amici del cuore e della mente, il suo colloquio permanente con l’Assoluto e l’Invisibile. La vita familiare ha ripreso a pulsare attorno a lui nei ritmi di sempre.
«Anche se non parla, il nonno c’è»
Come se fosse seduto nella poltrona dove sprofondava per sognare i suoi quartetti e le sue sinfonie, nello studio dove accudiva ai suoi libri rari, nella cucina dove si divertiva a inventare quei risotti fatti "con residuati bellici", trovati nel frigorifero, che oggi ci mancano. Figli, nipoti, amici, infermieri gli raccontano, ricordano, lo interpellano, lo accarezzano, lo baciano, lo vegliano nella neonata esistenza. L’amico prete celebra la Messa sull’altare del suo letto dove "si salda la terra con il cielo".
«Anche se non parla, il nonno c’è», ha detto un giorno la nipotina di otto anni, accarezzandolo, e noi ci siamo riconosciuti nelle sue parole. Nessun accanimento terapeutico, ma cure e attenzioni per una persona rimasta viva, nella sua intrinseca dignità di essere umano con le sue funzioni vitali, con il suo corpo, anche se collegato a macchine che i progressi della scienza medica oggi offrono. Tutto questo meno di dieci anni fa non sarebbe stato possibile. Un bene o un male? Staccare la spina per porre fine a una vita all’apparenza innaturale? Aiutarlo ad addormentarsi per sempre nella irreversibilità della sua malattia? Che senso ha un’esistenza ridotta a una sopravvivenza vegetativa?
Sono domande umanamente comprensibili, angosciose, ma l’amore è più forte di ogni interrogativo perché "lui c’è". Esiste, noi lo amiamo nel mistero di una condizione che non ci è dato di capire. E se ami, fai di tutto, veramente tutto quanto è possibile, perché la persona amata non soffra, accetti che pratichi percorsi che tu non conosci, che la stessa medicina non riesce a esplorare. Anche se continui a interrogarti: quale dimensione ha assunto e in questa nuova esistenza che cosa vorrebbe? Potremmo interromperla perché non corrisponde più ai ragionamenti di persone abituate ad accettare soltanto ciò che toccano? Leggiamo nel Siracide che molte di più sono le cose nascoste di quelle che vediamo: «Non sforzarti in ciò che trascende le tue capacità, poiché ti è stato mostrato più di quanto comprende un’intelligenza umana. Molti si sono smarriti per la loro presunzione» (3,23-24).
Ma se non possiamo capire, possiamo scegliere di vivere nell’amore. Una scelta che sfida le logiche del mondo e quel Dio inconoscibile che ci chiede di fidarci di lui. "Mistero della fede", ho recitato per anni nella Messa. Ora ho capito che questo mistero deve inciderti nella carne, deve passare attraverso l’impotenza totale e la spogliazione di te stesso, per svelarti il suo profondo significato rivoluzionario che sovverte le esistenze. Già l’amore. Per incontrarlo, quello vero, autentico, occorre silenzio, umile ascolto, condivisione, uscire da sé stessi per vivere la vita degli altri, rimanere nudi nel tempo e nello spazio, vestiti soltanto del sentimento che ha dato vita al creato. L’amore allora diventa sapienza, non quella dei libri e dei trattati, ma sapienza del cuore, che è intelligenza profonda e profetica delle cose.
Ce ne siamo resi conto attorno al letto del nostro caro. Il suo silenzio ha iniziato a parlarci. A farci capire ciò che vale e ciò che non vale, ci ha folgorati sulla precarietà e sulla vanità di tutto quanto prima pareva importante: denaro, successo, potere, prestigio, salute stessa, per unirci alle fatiche degli abitanti del mondo, per spalancare le finestre e le porte della nostra casa in una comunione nuova con tutti coloro, vicini e lontani, che camminano nel mistero della vita. Con coloro che "non hanno voce" e che stanno fuori dal coro. Dimenticati, senza diritto di cittadinanza. Ci ha parlato dell’essenza dell’uomo che non è legata alle apparenze e allo status sociale, alla provenienza e a quanto possiede o non ha, ma al suo solo esistere.
Ci ha confermato quanto ha scritto il cardinale Carlo Maria Martini in un intervento sulla vita, dal concepimento all’accanimento terapeutico: «II volto non può essere usato o sfruttato per nessun motivo, deve essere soltanto riconosciuto, rispettato, amato. "II volto" dell’altro ci parla per sé stesso senza bisogno di altri argomenti, anche se la cosa non è più così evidente quando non si vede direttamente il volto, ma solo alcune manifestazioni biologiche di un esserino ancora informe o prossimo al totale degrado». Il volto, anche se velato dalla malattia, è sempre il Volto.
Spiragli di luce nel buio del dolore
Sono le dilatazioni dell’amore, dato in modo totalmente disinteressato. Sono i "miracoli" che provoca: una conversione umana e interiore che rimette a nuovo le persone, apre spiragli di luce nel buio della sofferenza e "ti fa sentire bene", nonostante la fatica dell’usura quotidiana, i momenti di disperazione, le frequenti tentazioni di fuga e di resa. Ti permette di alzarti ogni mattina con il coraggio di una battaglia che non fai solo per te, ma per tutti, credenti e non credenti, indifferenti e partecipi, per accendere quella speranza che soltanto l’amore sa inventare e che dà colori, suoni, profumi all’esistere. Ti dice che la vita vale la pena comunque di essere vissuta.
Etty Hillesum, la ragazza ebrea di ventinove anni, scomparsa ad Auschwitz, il cui Diario dopo essere rimasto quarant’anni in un cassetto, si sta diffondendo in modo profetico e così attuale, mentre infuriava l’apocalisse nazista, continuava a ripetere che «la vita è bella e ricca di significato», nonostante la sua assurdità. Aveva percepito dietro all’orrore dei lager e dopo «essere morta mille volte in mille campi di concentramento», quel barlume di eternità che filtra nelle piccole azioni e percezioni quotidiane. Un barlume che le aveva fatto incontrare Dio e reso l’esistenza amica se «vi si fa posto per tutto e se la si sente come un’unità indivisibile... Così, in un modo o nell’altro, la vita diventa un insieme compiuto».
Accettare di convivere con la farfalla nello scafandro, ti fa scoprire che la vita e la morte sono significativamente legate fra di loro, appartengono l’una all’altra, si completano. Ma allora che cos’è la vita , che cos’è la morte? Le risposte che per anni ti poni e che cerchi nelle pagine del mondo, le certezze con le quali ti sei difeso, le maschere che hai indossato per nasconderti, cadono. Le parole, scritte e dette, perdono forza. Tacciono.
Di fronte soltanto il suo e il tuo corpo, nudi e spogli, senza difese nell’impotenza di comunicare e di capire. Ma ci sono e si avvertono. E imparano un linguaggio nuovo, quello che non ha bisogno di suoni, arriva direttamente dai sensi. Quelli che stanno sotto la pelle e che per anni hai usato con la fretta e la superficialità che li ha svuotati della loro ricchezza, limitandoli e spesso castrandoli nei rapporti con gli altri, nei rapporti familiari, in quelli fra uomo e donna, con gli amici, con la vita. Sono stati spesso strumento di sopraffazione, di possesso, di rabbia, di stordimento, di perdita di te stesso. Adesso, nel silenzio in cui si manifestano, nella gratuità in cui si esprimono, ricuperano la propria sacralità. Diventano di nuovo capaci, come all’origine dei tempi e nell’infanzia, di gustare la semplicità del vivere, la bellezza della luce e del buio, dell’alba e della notte, l’armonia dei colori, il profumo della pioggia e quello del sole, l’odore dell’umanità che ti circonda o che incroci. Ti rivelano la "vera vita" che è l’amicizia con Dio in cui trova compimento la vita terrena, diventando un anticipo di quella eterna.
È una sensualità che riempie tutti i pori e trasforma il corpo, spezzato dalla malattia, in una presenza fisica che ti avvolge con il suo calore, con le vibrazione di una dimensione nuova, sconosciuta, ma tangibile. È la dimensione dell’amore nella sua libertà di dono che celebra la vita: il bacio, la carezza, l’abbraccio, il sorriso, la cura delle membra piagate. E che non si ferma in quella stanza, attorno a quel letto, ma si dilata fuori, nell’esistenza quotidiana, dove i gesti dell’amore diventano più importanti delle parole e ti permettono di comunicare come non eri più capace di fare. Ti fanno entrare nel corpo dell’altro, per abitarlo e lasciarti abitare in un’Eucaristia permanente.
La farfalla esce dallo scafandro, vola nello spazio e nel tempo, riempie l’aria di suoni e di echi che sciolgono la violenza di giornate vissute troppo in fretta, senza soste, senza silenzio, senza ascolto.
E chi entra con tremore nel cerchio di questo volo, nella stanza affacciata sulla piazza, piccola chiesa con altare, ne esce diverso, trasformato nell’intimità dei propri sentimenti, rasserenato e riconciliato con sé stesso. Stupito e commosso che da tanto dolore possa scaturire la conoscenza di un mondo altro, di un mondo nuovo. Che da tanta spogliazione possa esplodere tanto vigore. «Dio non ci salva in virtù della sua onnipotenza, ma in virtù dell’impotenza che ha vissuto in Cristo, fattosi uomo uguale a noi», ha ricordato di recente monsignor Gianfranco Ravasi, citando Dietrich Bonhoeffer. In quel letto, in quella stanza ogni giorno accade qualcosa di grande e di imperscrutabile. Cristo si è fermato lì. L’impotenza è diventata luce e speranza.
Mariapia Bonanate in Famiglia Cristiana n. 47 del 23 nov. ‘08

venerdì 21 novembre 2008

Vivere l'armonia

Nel monastero le dimensioni dell'esperienza umana

Di secoli ne sono passati proprio tanti, pari o tutt'al più inferiori, alle parole sprecate nel recriminare contro le claustrali, tanto da non valer neppure la pena di offrirne un assaggio!
Passiamo da questo "happy hour" al vero banchetto: quello della Parola che ogni giorno la Chiesa offre a chi voglia prendervi parte.
Vita contemplativa non significa vita reclusa o imbottigliata, significa fare dello spazio dello propria vita lo spazio della Parola. Esserne talmente magnetizzate che ogni uscita dalla Parola - Gesù Cristo, presente nell'Eucaristia e nella Sacra Scrittura - non viene neppure ipotizzata. La relazione con Colui che è presente e con le sorelle crea un'intersoggettività che innerva il quotidiano ed esige di sostare, intendendo così riconoscere alla clausura non il valore di un principio autonomo - si rischierebbe di essere assimilato agli ergastolani - ma la realtà che consente e custodisce la comunione amorosa con Dio e ne fonda la stessa possibilità.
Tutte le persone sono in cammino, lo ammettano o meno, dalla nascita alla morte (per usare il termine autentico e non ricorrere "alla dipartita della cara estinta!") da un dove preciso ad un altro dove, anch'esso preciso, conosciuto e amato nella fede: il Volto del Padre.
Tutta la vita monastica è un pellegrinaggio interiore parallelo a quello esteriore: attraversiamo il deserto guidate dalla colonna di fuoco e dalla nube. Lo attraversiamo come persone in relazione fra di noi, monache, ma dilatate ed aperte alla storia, alle sue vicende, a tutti i fratelli e le sorelle.
Il più piccolo monastero, situato nel borgo più sperduto del mondo, non è un buco in cui la donna-struzzo ha infilato la sua testa per rimuovere il grande spettro della falce... è il punto irradiante, centro del mondo delle relazioni, da cui la Luce di Dio si espande e si rifrange esattamente là dove deve andare, là dove la sofferenza è più acuta, là dove il fratello e la sorella gemono e patiscono.
Uno spazio amato che, purtroppo, viene definito con un termine, clausura, che suscita subito nell'immaginario umano un vortice di chiavistelli, di linee di demarcazione, di sanzioni disciplinari. Indubbiamente la Chiesa, da madre qual è, indica e tutela ma, soprattutto, suscita e incoraggia a permanere nell'ascolto dello Spirito, il solo che, nel silenzio e nella solitudine, sappia schiudere i sentieri del silenzio interiore.
Il rapporto fra le sorelle innerva il quotidiano e il monastero diventa così spazio di equilibrio fra le diverse dimensioni della vita: preghiera, lavoro, studio. Alla ricerca di un'armonia che è una grande sfida: vivere il Vangelo come anticipazione dei beni futuri.
L'insensatezza diventa allora la grande e unica sensatezza cui è chiamata la monaca: scoprirsi abitata per lasciarsi abitare da ogni gioia e dolore, da ogni evento, da ogni grido e da ogni richiamo. Non è un vuoto, è un'apertura proprio come la persona, così insegnava il prof. Ratzinger, è un'apertura all'Infinito. Noi Lo accogliamo e Lo doniamo, come Maria di Nazaret.
di C. Dobner, in SIR, 21 novembre 2008

Il Re dell’universo è il più piccolo degli uomini.

Ciò che avete fatto ai miei fratelli più piccoli, è a me che l'avete fatto.

Gesù conclude il lungo discorso sulla fine del mondo mettendo in scena, davanti ai suoi uditori, una rappresentazione drammatica, più che una parabola come le due precedenti. E in questo racconto figurato condensa la risposta decisiva, quanto mai esplicita e provocatoria, alla domanda dei discepoli: "Dì a noi, quando accadranno queste cose, e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo?" (Mt 24,2). L'obiettivo è lo stesso delle altre parabole, ma ancora più evidente: il discepolo è chiamato a sostituire l'ansia assillante per il suo futuro e per la fine del mondo con un'attenzione intensa e operosa al presente. Tutto si decide in questo nostro tempo, dunque! Ma il racconto dell'assemblea universale della storia offre una chiave e una luce in più: la vita del credente non è un'attesa di qualcosa che finalmente ci sarà dato, ma che adesso non c'è, e ci sarà svelato in un giudizio finale! Al contrario: la fede è il ribaltamento delle alienazioni religiose che la paura del futuro genera nell'uomo e che gli fanno credere che la sua sorte si giocherà alla fine di tutto, in un incubo apocalittico, quando tutto il mondo brucerà. L'incontro con la salvezza (con il Salvatore) avviene invece già adesso, in questa nostra storia ‑ dove e come, né fedeli né infedeli avrebbero mai immaginato, a stare alle parole del Signore.

Il giudizio finale è raccontato per convincerci che non ci sarà… alla fine, ma adesso!

Dunque la decisione definitiva di dannazione o di salvezza di tutti noi … e del mondo intero, non è in qualche misterioso meccanismo o magia o amuleto, ma neanche in formule di fede o nei sacramenti delle religioni, ma nella risposta che Gesù dà alla domanda centrale di chi crede in lui: qual è il senso della sua venuta, ora che non è più tra noi? La risposta è sconvolgente e inaspettata, appunto, per credenti e non credenti: come dire "Ma io sono già sempre in mezzo a voi, e non mi vedete?! Ciò che avete fatto ai miei fratelli più piccoli, è a me che l'avete fatto … La sorpresa di tutti per questa affermazione, è descritta e ripetuta (Signore, quando mai ti abbiamo incontrato?!), perché lo scopo del racconto è proprio di ribadire questa fondamentale verità del vangelo di Gesù: la salvezza (il regno) è qui, in mezzo a noi. Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo – è la garanzia, che chiude il vangelo di Matteo (28,20).Il giudizio finale è dunque raccontato per spiegare che non ci sarà . Lo stiamo facendo adesso! Gli spettatori di questa rappresentazione drammatica devono concludere guardandosi attorno, per scoprire che il grande momento non è da attendere con angoscia per chissà quando, ma che l'incontro con lui (che è il vero giudizio: la sua venuta!) sta già avvenendo nella processione di accoglienze o di rifiuti che abbiamo con i più piccoli, nostri e suoi fratelli, sotto le vesti feriali, sporche, incatenate o abbandonate dei più poveri …

La regalità di Cristo è la regalità dei poveri, e viceversa!

Chi è chiamato a giudicare solennemente in questo simbolico consesso generale dell'umanità è il "Figlio dell'uomo", finalmente intronizzato nella sua gloria suprema (divina!). Questa raffigurazione sublime rende ancora più sorprendente l'esito del dramma: il giudizio non mette per nulla in questione questo Re supremo e l'ossequio a lui o l'osservanza dei suoi precetti morali o religiosi… come c'era da aspettarsi dal Padrone della storia e dell'universo, che finalmente decide di tirare le conclusioni! Ma riguarda i più piccoli dei suoi fratelli, la loro fame e sete, l'accudimento premuroso che noi offriamo loro in ogni bisogno! Dunque, sono loro i nostri giudici, lungo tutto il corso della nostra vita, non alla fine, ma mentre stiamo vivendola (è questo il clou della rappresentazione!). La loro esistenza subumana e degradata ci denuncia e ci giudica. Per poter riparare l'offesa alla regalità divina del Cristo, sono loro che dobbiamo mettere a sedere sul trono della gloria. Dal vangelo noi sappiamo bene che la sua regalità non ha nulla a che fare col potere e col dominio, sappiamo che Lui ha donato tutta la sua vita per servire e non per essere servito. Forse non avevamo ancora colto, però, in modo così' luminoso, che la sua Regalità e Signoria l'ha tutta riversata nei più piccoli. Finché l'ultimo piccolo uomo è abbandonato, incombe su di noi, come una condanna, la deturpazione della "sua" dignità regale. Alcuni esegeti antichi e moderni suggeriscono che dicendo "i suoi fratelli più piccoli" Gesù intenda i discepoli missionari che sono perseguitati e imprigionati per il suo nome. Anche loro di certo! Ma viene ancor più da pensare globalmente agli ultimi di ogni società, a tutti i protagonisti delle "beatitudini", apparentemente travolti e sopraffatti nelle loro attese insoddisfatte e nelle loro sofferenze ‑ benedette da Dio! Perché lui sta dalla loro parte, e sono loro che effettivamente conducono la storia, dandogli direzione e senso!

Di certo rimane il dato che l'amore universale, aperto a tutti gli uomini, al di là di ogni steccato ideologico o religioso, è il fondamento del Vangelo, anzi è il senso della vita di Gesù. Il quale non ha soltanto predicato la sua identificazione di solidarietà morale con i piccoli travolti dalla macina della storia. Non li ha soltanto costituiti giudici simbolici e criterio del cammino di salvezza dell'umanità, ma ha prima vissuto davvero nella sua carne la loro sofferenza e la loro degradazione umana. Il racconto della passione che inizia la pagina seguente, ci mostra il "figlio dell'uomo" come un "Re" tradito e rinnegato, disprezzato, deriso, torturato, assetato, ignudo… senza che nessuno riesca a fermare questo meccanismo diabolico per cui il più innocente degli uomini è travolto dal più perverso dei mali! Finché muore nudo sulla croce, in un urlo di invocazione disperata al Padre. Per implorare che non sia mai più così, per nessun uomo, per quanto piccolo e insignificante! Ma appunto per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome nel quale tutti riconosceranno che la sua regalità è nata non dalla sua provenienza divina, non dal comportamento eccellente, ma dalla fedeltà appassionata all'amore del Padre, che l'ha mandato a identificarsi con i suoi fratelli, fino a patire in tutto la loro sorte.

Bisogna infatti che egli regni, finché non ha posto tutti i nemici sotto i suoi piedi.

Adesso è chiaro che i "nemici" di Gesù, l'ostacolo vero al diffondersi del suo vangelo di amore, sono tutti coloro che si oppongono alla regalità dell'uomo, o hanno "distrazione" che a questo assillo centrale tolgono il primato. Perché il suo regno è un regno di re, a cominciare dai più piccoli meno onorati. Un regno di "re"… in servizio alla regalità reciproca! Ovviamente cominciando da chi, attorno a noi, ha meno prestigio e potere, per avviarlo anche lui alla sua dignità regale. O decidiamo di sottomettere a questo obiettivo ogni altra preoccupazione o istanza, pure importante, "ogni principato e ogni potestà e potenza" … o rischiamo di essere messi dalla parte delle capre! È drammatica la censura che tuttora nella mentalità corrente della gente di chiesa, oscura questo criterio "finale" dell'annuncio evangelico, a favore di troppe preoccupazioni dottrinali, liturgiche, morali, istituzionali, che ci frastornano e ci accecano, togliendo la preminenza ai piccoli che soffrono, lontano o vicino a noi. E così alla fine, abbiamo solo ritagli di tempo per loro, che invece Gesù considera il discrimine determinante della fede come incontro con lui nella storia! E a chi ha inteso che proprio loro devono essere l'impegno fondamentale della fede cristiana e su di loro saremo giudicati, si continua a dire: ma non tocca a te, non è il tuo carisma, c'è chi ci deve pensare…

Ma allora, tolto questo, a noi ‑ su cosa ci giudicherà il Signore?

Quello che avete fatto a uno di questi miei fratelli l'avete fatto a me

Il Vangelo che la liturgia ci propone per questa trentaquattresima domenica del tempo ordinario, in cui la Chiesa celebra la festa di Cristo Re, prima di immergersi nel tempo dell’Avvento, è costituito per intero dalle ultime parole di Gesù che Matteo ha organizzato nel discorso escatologico (Mt 24,1-25,46): le ultime parole prima che inizi il racconto della passione.
Questo discorso, nell’organizzazione matteana, si svolge a Gerusalemme: Gesù è appena uscito dal tempio (Mt 24,1), dove aveva avuto duri scontri con i venditori (Mt 21,12-13), con i sommi sacerdoti e gli scribi (Mt 21,14), con gli anziani del popolo (Mt 21,23 ss), con i farisei (Mt 22,15 ss; Mt 22,34-24,39) e con i sadducei (Mt 22,23 ss) ed è interpellato dai suoi discepoli: «Mentre Gesù, uscito dal tempio, se ne andava, gli si avvicinarono i suoi discepoli per fargli osservare le costruzioni del tempio» (Mt 24,1). Questo invito diventa per Gesù (e letterariamente per Matteo) l’occasione per articolare una risposta dal sapore escatologico: Gesù infatti avverte che di tutte quelle cose «non resterà pietra su pietra che non venga diroccata» e, allargando il discorso, nuovamente sollecitato dai discepoli («Dicci quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo» Mt 24,3) inizia a parlare di guerre, carestie, terremoti, supplizi, uccisioni, falsi profeti... che anticiperanno, ma non saranno la fine. Il discorso si sposta allora sull’atteggiamento che i discepoli dovranno tenere in questa attesa del ritorno del Figlio dell’uomo: quello dell’essere vigilanti, sottolineato dall’inserzione di ben tre parabole: quella del maggiordomo (Mt 24,45-51), quella delle dieci vergini (Mt 25,1-13) e quella dei talenti (Mt 25,14-30).
È proprio a questo punto che, dopo l’annuncio dei tempi ultimi e l’invito ad un’attesa vigilante, inizia l’ultima parte di questo discorso escatologico, coincidente con il vangelo di questa domenica. In modo evidente quindi lo sfondo delle parole di Gesù presenti in questo brano è quello del giudizio.
Anche l’incipit mostra l’inequivocabilità dell’atmosfera giudiziale: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri».
Se però sia dal contesto del brano, sia dal suo incipit , è chiaro il tenore delle parole di Gesù o almeno il clima escatologico che le avvolge, forse risulta ancora necessario specificare alcuni tratti di questa prospettiva giudiziale, per evitare di cadere in banali luoghi comuni.
La prima cosa da evitare è quella di considerare le parole di Gesù come una mera descrizione materiale del “come” sarà quello che noi abitualmente chiamiamo il “giudizio finale”. In particolare non possono essere prese alla lettera alcune espressioni linguistiche contenute in questo brano, che, se lette senza contestualizzazione, ci farebbero sussultare non poco: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli»; «E se ne andranno: questi al supplizio eterno». È infatti esegeticamente errato usare queste affermazioni per rispondere alle nostre domande ansiose sulla realtà e densità demografica dell’inferno. Questo è chiaro, anche a chi non è uno studioso specializzato della Bibbia, già solo per il fatto che è il contesto a suggerire questa impossibile interpretazione: se Gesù avesse voluto spiegare costituzione e composizione di inferno e paradiso avrebbe impostato diversamente il discorso; se non altro, per evitare di essere frainteso, avrebbe dichiarato esplicitamente il suo intento. E invece né qui, né mai nel Vangelo noi troviamo riferimenti materialistici alla vita nell’aldilà. Forse anche per questo le interpretazioni e divagazioni sul tema, hanno avuto un spettro talmente vasto da risultare a volte addirittura folkloristiche... Nessuna parola di Gesù infatti è in grado di risolvere le nostre angosciose domande sull’aldilà... Ma perché – ci verrebbe da chiedere – il Signore non ha sciolto questo enigma sul post mortem che per l’uomo sembra così determinante? Perché non ha indicato qualche breve e netta indicazione per arrivare in paradiso, in modo che fosse chiaro il da farsi? Perché, in ultima analisi, il Signore è sempre così sbilanciato sull’aldiqua, quasi ignorando deliberatamente l’anelito angoscioso dell’uomo per una risposta sull’aldilà? E, tornando al nostro brano, se in questo capitolo 25° di Matteo il Signore non sta delineando come sarà materialmente il “giudizio finale”, in che senso vanno intese le sue parole?
Anche se sembra un’evidenza, è utile far notare il fatto che mentre Gesù parla non si sta attuando quanto dice: il resoconto di Matteo cioè non è quello di uno che ha partecipato al “giudizio universale” e lo racconta. Il discorso di Gesù fa riferimento a un tempo che deve ancora compiersi («Quando il Figlio dell’uomo verrà...»). Forse può apparire superfluo porre questo piccolo chiarimento, eppure esplicitarlo permette da un lato di evitare di confondere realtà dei fatti e parole di “avvertimento” (come quelle di una mamma che dice: “Se mi porti a casa un 4 ti uccido”, dove è evidente l’iperbole che ha di mira il far studiare il proprio pargolo e non certo l’eliminarlo fisicamente...) e di inquadrare le intenzioni di chi sta parlando: l’intento di Gesù infatti, pare più quello di dare un criterio per la vita nell’aldiqua che un discrimen per la vita nell’aldilà. Detto altrimenti: l’intenzione di Gesù qui (ma, come prima si accennava, anche sempre nel Vangelo) è quella di richiamare alla decisività della vita nell’aldiqua. Questo è l’unico e solo interesse del Signore: che l’uomo sia Uomo nell’aldiqua. Anche perché ciò che saremo nell’aldilà non potrà che essere quello che siamo stati-diventati in questa vita terrena. Non è un altro da me quello a cui è promessa la vita eterna. La mia identità singolarissima nella sua completezza (la fede cristiana crede alla risurrezione della carne, non dalla carne come ogni tanto scappa detto a qualcuno mentre recita il Credo) è destinata alla vita eterna...
Le parole di Gesù hanno dunque di mira l’illuminazione della vita nell’aldiqua. È per la pienezza di questa vita, per la sua realizzazione in termini di umanizzazione della propria interiorità che sono dette!
Esse infatti rimandano al “chiodo fisso” di Gesù: tutta la sua vita (compresa la sua morte), le sue parole, i suoi gesti sono infatti l’instancabile riproposizione di un’unica verità: solo l’amore ha e dà senso alle vite degli uomini!
Non l’amore sentimentaloide che travolge gli adolescenti di ogni età, né quello superficiale e ipocrita di tanti perbenisti... sempre così bravi a parole e così terribilmente lontani dalla tragicità della vita degli altri. Ma l’amore come l’ha vissuto Lui, fatto di gesti e parole che rompono le distanze e i pregiudizi (etnici, sessuali, religiosi, politici...); che permettono davvero di incontrare l’altro senza ridurlo a oggetto della nostra gratificazione buonista, ma riconoscendolo nella pienezza della sua dignità di fratello; un amore che sa porre come unico e solo obiettivo della vita (e dell’alzarsi ciascuna mattina) il volere il bene di chiunque altro mi si pone sul cammino (sia esso uno dei miei o uno sconosciuto); un amore che sa essere fedele all’identità dell’altro, anche quando è lui stesso a smarrirla e che addirittura arriva a morire per farlo vivere...
Questo sta dietro a quel «ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». Non è un elenco di buone azioni che garantiscono il paradiso, come a volte è capitato di pensasse: magari andando in carcere per fare una “buona azione” coltivando contemporaneamente in cuore disprezzo e rancore nei confronti dei detenuti... Quello che propone il Signore ha una portata di tutt’altro livello: è il ribadire l’unico criterio che ha sempre guidato la sua vita nell’aldiqua, il suo stesso decidere (e decider-si): una vita è beata quando crede nell’amore a costo di morire per non rinnegarlo!
Il peccato, e dunque l’essere inferno a noi stessi, è smettere di dar credito a questa cosa: che solo l’amore abbia e dia un senso. Smettere di credere alla continua riproposizione del rapporto umano (da uomo a uomo) è fallire l’incontro con Dio. Paradossalmente, smentendo tante convinzioni devozionistiche, questo vangelo ci ricorda come o si avventura la vita sui volti degli altri, impastandosi con il loro cuore, mischiandosi alle loro lacrime, al loro sudore e al loro sangue, scandagliandone le perversioni e curandone le ferite, scoprendo come funzionano, come ragionano e sperano... o tutto questo non può essere vissuto neanche con Dio. Mentre è Vangelo, cioè buona notizia che questa intimità sia possibile sia con l’Uno che con gli altri!

venerdì 14 novembre 2008

Meglio rischiare la vita che sotterrare la speranza!

Nel cap. 25° il Vangelo secondo Matteo intende raccogliere l'ultimo prezioso insegnamento di Gesù prima della passione. Le tre parabole delle 10 vergini che attendono lo sposo, dei talenti consegnati ai servi e infine, il giudizio universale, con la sorprendente coincidenza di Gesù con i poveri che sono tra noi, hanno in comune una discriminante, che divide gli uomini nella storia: cinque vergini sagge e cinque stolte; due servi operosi e premiati, e uno rinunciatario e punito; le pecore da una parte (i discepoli che accudiscono i fratelli) e le capre dall'altra (chi non serve il fratello nel bisogno). Si tratti dell'olio delle lampade, o dei talenti forniti ad ogni uomo o della dedizione ai poveri, le parabole hanno lo stesso obiettivo, sotto diverse modalità. Ed è questo: arriva per tutti il momento nella vita in cui siamo "costretti" a scegliere, a schierarci, a maturare una fede capace di trasformare "definitivamente" il senso dell'esistenza, come se ognuno fosse messo con le spalle al muro. Gesù stesso sta incamminandosi verso le esperienze finali della sua avventura umana, che sembrano travolgerlo e immergerlo nell'angoscia e insieme nel desiderio di affrontarle: Ora l'anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest'ora? Ma per questo sono giunto a quest'ora! (Gv 12,27 ).Ecco allora le parabole: nel buio della notte bisogna mantenere gli occhi aperti e il cuore attento per riconoscere il Regno che viene…; l'impegno appassionato moltiplica e dilata il dono di luce e di benevolenza ricevuto…; lo spendersi per i più miseri è sempre un incontro con il Dio presente nell'uomo di carne, anche per chi non lo sa… E se la dinamica pedagogica del racconto comporta che chi non si assume le sue responsabilità sia punito, l'intento non è certamente di terrorizzarci con la minaccia del castigo futuro, ma di convincerci che il presente, affrontato con intelligenza ed amore, dà senso e gioia alla nostra fede.

"Avventurar la vida"… non seppellire la speranza!

La parabola scelta per questa 33a domenica è la seconda, che racconta la storia di un signore che, prima di mettersi in viaggio, distribuisce i suoi beni ai suoi sottoposti, ad ognuno secondo le sue capacità. E poi se ne va, per molto tempo, senza lasciare recapito. I talenti dati in consegna sono la vita stessa, come una promessa, misteriosamente donata ad ognuno, con tutto quello che ci vuole… per diventare noi stessi., cioè viverla! Ognuno ha la sua, diversa da tutti, e solo l'interessato, pur bisognoso di tanti aiuti, può, in definitiva, valorizzarla. I due primi servi lavorano e raddoppiano i talenti. Ma colui che ha ricevuto un talento solo, lo seppellisce, per non perderlo. Proprio il contrario di quanto il vangelo stesso suggerisce: se vuoi salvare la tua vita devi esser pronto al rischio di perderla! Teresa d'Avila, in un tempo quanto mai sfavorevole alla donna, che pretendesse di diventare se stessa, è un esempio luminoso e appassionato di come la vita, secondo questa parabola, deve essere assunta, con l'esplosiva carica affettiva ed esistenziale di un desiderio incontenibile: "tutto si riduce, in sostanza, ad arrischiare la vita, che io tante volte bramerei aver già persa, pur di avventurarmi a guadagnare così tanto con poco prezzo" (V 21,4)

Un Dio diverso!

Perché nasca e cresca questa passione in cuore, occorre cambiare la figura di Dio, che più o meno inconsciamente tutti abbiamo introiettato, come un interlocutore interiore… da incubo (sei un duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso). Talora diventa un'ossessione che finisce per rovinarci la vita (per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra). La radice profonda di ogni religione storica è il tentativo di rimettersi in contatto con il "padrone", che è "emigrato" in un paese lontano (così suggerisce il testo greco!), per contrattare "magicamente" con lui una salvezza in proprio. La paternità di Dio, come si è rivelata in Cristo, è la distruzione del ricatto interno a qualsiasi religione (e interno a noi stessi, come componente tossica del nostro super io e della nostra morale). E finisce per farci vivere una vita disaffezionata e spenta, da servi!. Finché, infatti, non ci consegniamo 'armi e bagagli' al Padre di Gesù Cristo, nutriti della sua parola e del suo pane, siamo preda dei nostri tormenti e delle nostre angosce interiori, che poi inevitabilmente proiettiamo e ritorciamo sugli altri (io non sono come gli altri, omicidi, adulteri…). Mentre orami, in Gesù, la fede o è questione di amicizia o ridiventa idolatrica: "Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi [Gv 15,15]. Esser amici, però, vuol dire sbilanciarsi rischiosamente e senza riserve verso un nuovo tipo di dinamica interna all'esperienza umana di Gesù, che si fonda sull'amore gratuito, pulito, totalizzante.

Una dinamica vitale nuova: entra nella gioia del tuo Signore!

Dio dunque sorprende i suoi servi, proprio chiamandoli a responsabilità e fiducia totalmente nuove. Neanche vuole indietro i talenti affidati, perché li trasferisce al livello della dinamica dell'amore: che, se corrisposto, raddoppia incessantemente… Sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto. L'esito dell'amicizia è la comunione piena e raggiante: entra nella gioia del tuo signore! Questo esito escatologico di una vita di impegno appassionato ci è annunciato per convincerci che già qui, nella nostra storia quotidiana, inizia questa dinamica creativa e profondamente gratificante di poter aiutare Dio, invitati nella sua vita intima, partecipando alla sua gioia di diffondere l'amore e la libertà tra gli uomini. Così si spiega il paradosso di togliere il talento al servo sfiduciato per darlo a chi già ne ha: «Perché a chiunque ha, sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha.». Chiunque abbia provato ad amare e appassionarsi alla vicenda umana del fratello che fa fatica a crescere, più che alla propria, sa quanto è vero che l'amore aumenta a donarlo via, e diminuisce e intristisce a difenderlo e trattenerlo per sé… E quanti sono coloro che sono fermi, paralizzati su questo crinale, senza osare tuffarsi!

E quando si dirà: "Pace e sicurezza", allora d'improvviso li colpirà la rovina,

Nel nostro tempo di totale interdipendenza degli uomini e dei popoli – il tempo della globalizzazione ‑ i figli della luce di cui parla Paolo, sono quelli che credono nelle ragioni della speranza, nella possibilità di convivenza tra diversi, nella fecondità dell'incontro tra religioni e razze. I figli della paura e della voglia di sicurezza sono quelli che nascondono la sfida della storia e il rifiuto delle scelte sotto le vesti della tradizione e della religione, ma di fatto difendono poi la sicurezza con i muri divisori e il filo spinato, e alla fine, con la forza delle armi, con il ricatto della fame, con la prepotenza della superiorità della razza o della religione. Ma affrontare i problemi di oggi illudendosi che vadano bene le soluzioni di ieri, è come voler solcare gli oceani con le barche. Non cercare e inventare risposte nuove è come dormire, fare della vita una lunga notte, illudendosi con lo slogan: Pace e sicurezza…, invece di un impegno fervente e generoso. Oggi non ci sono territori preclusi all'intervento umano dai confini sacri, che la religione ha sempre determinato nella storia dell'umanità, opponendosi ad ogni presuntuosa conquista o sconfinamento prometeico. La formazione della coscienza morale è più che mai determinante, in un mondo pluriculturale, che rischia di svuotare e relativizzare ogni tradizione od orientamento etico e religioso. La mutazione antropologica che le strutture di comunicazione commerciali, industriali e politiche hanno prodotto, richiede una nuova consapevolezza, una nuova spiritualità. L'umanità di oggi si trova di fronte a problemi, esigenze e istituzioni universali, ma non c'è ancora la cultura e gli uomini preparati, che sappiano accettare questa sfida. La paura di affrontare il rischio ha spinto anche la chiesa a sotterrare i suoi tesori… Siamo in ritardo rispetto al cammino dello sviluppo umano, della tecnica e della scienza. Questa forte esigenza di spiritualità non è di per sé esigenza di pratica religiosa, che è necessaria, ma non sufficiente. Si esige qualcosa di più: entrare cioè in sintonia con la forza creatrice che ci coinvolge consapevolmente in un atteggiamento nuovo. Siamo come costretti a rileggere questa parabola con prospettive e orizzonti completamente nuovi. Per disseppellire coraggio e speranza!

La terrificante parola




Shoah, mai più: l'impegno dei giovani di Europa


Solo il fungo spunta improvvisamente, però ci vuole l'acqua e l'umidità, nelle stagioni secche ben pochi funghi sfondano il terreno ed emergono alla luce.
L'orrore di quella notte, detta "Notte dei cristalli", fu ampiamente preparato, con l'acqua dell'antisemitismo, della propaganda hitleriana, nella violenza delle coscienze.
L'avanzare del nazionalsocialismo nel cuore dell'Europa si prospettava martellante: il 17 agosto 1938 fu stabilito l'obbligo per gli ebrei di assumere il nome di Sarah o di Israel; nell'ottobre dello stesso anno fu imposto l'obbligo della stampigliatura "J"(Jude) sui passaporti degli ebrei.
La situazione chiaramente precipitava e, nella notte fra il 9 e il 10 novembre, scoppiò in un'autentica deflagrazione, soprattutto da parte degli uomini delle SA.
L'esito l'11 novembre fu tangibile, la "Notte dei cristalli", in riferimento ai vetri infranti di case e botteghe, comportò: 36 ebrei uccisi e 36 gravemente feriti, 815 negozi distrutti, 29 magazzini, 171 abitazioni e 191 sinagoghe incendiate, circa 20 mila ebrei arrestati.
Vennero fracassate le vetrine di circa 7.500 negozi e magazzini ebraici . Dietrich Bonhoeffer, nella Bibbia di cui si serviva per la preghiera, sottolineò al salmo 74 il versetto "Hanno dato fuoco a tutte le case del Signore nel paese", e accanto vi scrisse "9.11.38".
La patrona d'Europa Teresa Benedetta della Croce era ormai carmelitana e proprio nel suo monastero di Colonia venne a sapere dell'efferata azione, per prima, perché in quel periodo accoglieva chi bussava alla porta delle carmelitane.
Un'amica delle monache narra: "Il 9 novembre 1938 fui testimone a Euskirchen dell'assalto dei nazionalsocialisti alle case degli ebrei e anche dell'incendio della sinagoga. Il giorno stesso mi recai dalla Serva di Dio al Carmelo e glielo riferii. Stando alla ruota, non potei osservare il suo viso, ma notai che ella diventava sempre più silenziosa e triste. Non si lamentò; disse che il Signore avrebbe vendicato il suo popolo".
Come? Ci chiediamo oggi. Con una "vendetta" che non conosce il sapore delle nostre umane vendette ma con quell'azione di Dio nella storia e nel cuore delle persone che, sempre, è misericordiosa, compassionevole.
Oggi il papa tedesco ci confida che da allora, da quella terribile notte, il dolore abita e feconda il suo cuore avendovi stampato la terrificante parola Shoah. Esplosa nella sua patria, la Germania, nel suo popolo ricco di tradizioni umanitarie e culturali.
Un dolore che la sua persona, quale sacerdote consacrato a Dio per il bene di tutti, ha macerato nella riflessione storica e teologica e in quella orante e oblativa.
Da allora, il giovane ragazzo, nella carta geografica della Shoah che disegnava un ampio arco semicircolare che andava in senso antiorario dalla Norvegia alla Romania e nel cui centro si trovava Auschwitz, porta in sé una cicatrice: la certezza che la Shoah sia lo sterminio offerto dal nazismo alla propria follia, la contaminante profanazione dell'idea stessa di uomo. Un dolore che non conosce espressioni altisonanti o plateali, volte a conquistare le folle o a procacciarsi benefici economici, ma che indica nettamente un percorso proprio di salvezza costruita in dignità e che oggi, offre a tutta l'Europa e a tutto il mondo, i lineamenti precisi della risoluzione.
Il ragazzo Joseph, ora Benedetto XVI, non rimuove o cancella la terribile notte, la guarda in faccia per quello che realmente è: un orrore. Bisogna che non si ripeta e si stani quindi ogni forma "di antisemitismo e di discriminazione" dovunque possa trovare coltura tale germe.
Il papa pensa ai giovani, a quelle persone che ancora possono modellare il cuore e la mente e, concretamente, cambiare le strutture della società impregnate dal mistero dell'iniquità che però non ha mai la meglio, quand'anche sembri prevalere, penultimo sulle realtà ultime vincenti, "rispetto ed accoglienza", apertura per il diverso, per ogni persona o gruppo che non pratichi la propria religione e «solidarietà» a Israele, popolo di Dio.
di C. Dobner, carmelitana scalza, in SIR, 14 novembre 2008

giovedì 13 novembre 2008

Una parabola detta perché non capiscano: la conversione dei pii

Il vangelo che la liturgia ci propone per questa trentatreesima domenica del tempo ordinario (Mt 25,14-30) è costituito interamente da una parabola: quella famosa dei talenti. Come ogni volta che ci si trova davanti ad un testo biblico molto conosciuto, anche in questo caso il rischio è quello di dare per scontato il senso delle parole di Gesù e dunque di non riuscire a lasciarsene interpellare veramente.

In effetti non appena si legge questo brano, immediatamente e simultaneamente giungono alla memoria le parole che usualmente lo interpretano (prediche, commenti...), quasi che il testo ormai sia confuso con la sua spiegazione, che solitamente suona più o meno in questi termini: l’uomo che parte è Dio e i suoi servi sono gli uomini; i talenti che affida loro sono le doti che ognuno ha, le sue capacità, o anche le sue responsabilità e possibilità (c’è chi ne ha di più e chi di meno...) e il succo dell’insegnamento sarebbe che ognuno deve far fruttificare le sue potenzialità; non importa da che punto si parte: ciò che conta è dare il meglio di sé. Questo porta infatti alla buona riuscita di una vita o al suo fallimento (che generalmente noi associamo al paradiso e all’inferno).
Il problema di questa lettura è che lascia inevase molto domande che il testo suscita, se si prova a leggerlo senza precomprensioni... Per esempio: è davvero corretto identificare quest’uomo che parte e affida i suoi beni ai suoi servi, con il Dio che ci ha rivelato Gesù? Corrisponde al suo volto il fatto che “in partenza” creerebbe arbitrariamente distinzioni tra i suoi figli? Perché a qualcuno 5 ad altri 2 ad altri solo 1?
È vero che la storia ci mostra con fin troppa evidenza che è così (non tutti i cuccioli d’uomo che nascono su questa terra hanno le stesse possibilità – capacità – doti), ma è davvero imputabile a Dio questa discriminazione?
Certo, da come Gesù considera ognuna delle persone che incontra appare chiaro che il modo di Dio di rapportarsi alle persone non sia quello della omologazione (del “siamo tutti uguali davanti a Dio”), anzi il suo è il modo della salvaguardia della singolarità (per Dio non è importante il genere umano, ma ogni singolo uomo – e donna – nella sua unicità irripetibile). Ma dire che nessuno davanti a Dio può prendere il posto di un altro, perché nella relazione con Lui è chiamata in causa l’intimità singolarissima di ciascuno, è diverso dal dire che a priori Dio darebbe possibilità – doti – capacità quantitativamente misurabili arbitrariamente diverse all’uno o all’altro dei suoi figli... L’unica possibilità che dà Dio – e questa a tutti, seppur poi con un darsi storico di volta in volta irripetibile – è quella della gioia piena (Gv 15,11) di una vita fondata su Lui e dedita agli altri. Tutto il resto non viene da Dio, ma dalla storia, dalla natura, dalla cultura, dai condizionamenti affettivi, psicologici, sociologici...
Dunque, forse, bisogna essere un po’ più cauti nell’identificazione di quest’uomo della parabola con il Dio di Gesù e dei talenti con le doti – capacità – responsabilità intese quantitativamente...
Senza contare poi che, pensando al Dio di Gesù, è un po’ sbalorditivo il modo in cui si comporta quest’uomo al suo ritorno... e soprattutto che accetti la definizione che il servo dà di lui: «sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso»... Questo non è Gesù, né il Padre suo!
Forse allora, è necessario rivedere le modalità classiche e un po’ troppo pacificatorie con cui interpretiamo questo testo e tentare di lasciarcene interrogare mettendo a tacere ciò che istintivamente – perché l’abbiamo succhiato praticamente dal seno materno – ci verrebbe da pensare.
Soprattutto va corretto il pregiudizio per cui lo stile parabolico sarebbe una modalità espressiva che Gesù usava per farsi capire meglio, come se si trattasse di un linguaggio facile e dunque accessibile a tutti...
Questo infatti è anche quello che invitano a fare gli studiosi del testo biblico, i quali proprio a proposito delle parabole evangeliche identificano una doppia classificazione:
- ci sono sì “le miniparabole del Regno”, che proprio per la struttura che le caratterizza (sono brevi e dirette) hanno lo scopo di rendersi immediatamente comprensibili a tutti;
- ma ci sono anche “le macroparabole” in cui prevale la forma della narrazione lunga – raccontano una storia («Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti...», Mt 10,30ss; «Un uomo di nobile stirpe partì per un paese lontano...», Lc 19,12ss) – e per questo non sono immediate, ma anzi richiedono un lavoro ermeneutico più impegnativo.
Le parabole di quest’ultimo tipo infatti oltre ad avere un’estensione narrativa più elaborata, si presentano spesso anche come enigmatiche e difficili da capire (Gesù stesso dice di raccontarle perché non capiscano: «Parlo loro in parabole perché non comprendano» (Mt 13,13)!). Anche le tematiche che affrontano, confermano questa sensazione di complessità: non si tratta più semplicemente dell’annuncio diretto dell’arrivo del Regno di Dio, ma si intavolano argomenti quali la ricchezza, la giustizia di Dio, il giudizio, il perdono...
Anche quella di questa domenica difatti è collocata nell’ultimo dei 5 discorsi in cui Matteo organizza il suo vangelo, quello escatologico, che sta proprio a ridosso dell’inizio del racconto della passione.
La nostra parabola rientra dunque proprio in questo secondo gruppo delle macroparabole e richiede perciò un percorso più impegnativo per essere capita fino in fondo.
Abbandonate dunque le varie precomprensioni, proviamo a lasciarci guidare dal testo nel percorso che la parabola vuol farci fare, «queste parabole infatti non sono state costruite per niente: dato il loro congegno, la loro complessità, il loro carattere paradossale, devono avere un significato specifico, tanto più che Gesù stesso mette in guardia, quando dice che ci sono delle parabole che racconta precisamente perché non capiscano. Che vuol dire appunto che in realtà sono parabole che mirano a tenere in sospeso la comprensione. E quando si mira a tenere in sospeso la comprensione? Quando si ha il fondato timore che una spiegazione più diretta produca l’automatismo che coincide col fraintendimento, col prevalere del luogo comune. Quando io, cioè, discorrendo di un argomento delicato temo che, se adopero parole troppo dirette, esempi troppo elementari, quell’altro dica “Ah, ecco sì lo so già cosa vuoi dirmi...” ed invece sto cercando di aprire un varco nel luogo comune, per farlo evolvere, istintivamente adotto un congegno, un apparato di comunicazione che riesca a frenare quel suo approdo immediato (“Ah sì, so già questa cosa...”), in modo che l’altro debba pensare un attimo e forse pensandoci gli venga in mente che forse quello che ha in mente è uno schema un po’ semplificato, che forse l’argomento che voglio proporgli contiene qualcosa di più di quello che lui sa già» [P.A. Sequeri].
Proviamo allora con la nostra parabola a frenare il luogo comune e, lasciandoci interpellare dalle sue “stranezze”, ad aprire un varco per un’ulteriorità di senso che forse ci era sfuggita: quello su cui la parabola (anzi Gesù attraverso la sua parabola) ci vuole convertire è la mentalità con cui pensiamo al Regno.
Istintivamente noi abbiamo identificato l’uomo della parabola con Dio e il suo contesto che quello della fine (del mondo o della vita), quindi in un’atmosfera di giudizio. Il modo in cui quest’uomo giudica l’operato dei suoi servi nella nostra testa è immediatamente identificato col modo in cui Dio giudicherà la nostra vita...
Pensiamo che la vita sarà giudicata in base al nostro comportamento: secondo una giustizia retributiva perciò i buoni saranno premiati e i cattivi castigati. Ma nel momento in cui facciamo il passo di accettare che quest’uomo sia l’immagine di Dio, iniziamo ad ascoltare la parabola con un’inquietudine che prima non avevamo... Ovviamente prima pensavamo di essere dalla parte dei buoni, dalla parte dei pii cristiani, di quelli sicuramente “dentro” al paradiso, perché “Va bene tutto – io sarò anche un peccatore... Ma gli altri...”! Sentendo poi le parole di gratuità con cui Gesù ha parlato anche ai samaritani, alle prostitute, ai pubblicani... beh... a esser cristiani allora, c’è proprio da star sicuri...
Questo pensavamo... ma appena sentiamo questa parabola qualcosa nella nostra sicurezza si incrina... pare che Dio (quest’uomo) abbia posto una soglia nuova per l’accesso al paradiso... Non basta più neanche essere suoi servi... bisogna pure saper trafficare i talenti... Ridargli il suo non basta... Serve raddoppiare... Ma se domani cambiasse ancora idea e la soglia si alzasse di nuovo? Se Dio dal 2008 in avanti decidesse che i talenti debbano essere triplicati invece che raddoppiati? Chi potrebbe obiettargli qualcosa... è Dio...
Ma che cosa abbiamo fatto per arrivare fino a queste conclusioni con il nostro ragionamento? A che cosa abbiamo acconsentito di passaggio in passaggio:
- al fatto che la giustizia di Dio sia retributiva;
- e al fatto che essa sia imperscrutabile.
Cioè al fatto che Dio sia un calcolatore e che il suo volto sia equivoco (da Lui ci può venire tanto il male quanto il bene).
Ma queste sono proprio le 2 affermazioni su Dio che dopo Gesù non si possono più fare: Gesù non rende male per male, ma muore lui per il male degli altri, rende cioè bene per male, vita per morte, perdono per peccato, salute per malattia, tenerezza per violenza... Altro che retribuzione... e altro che imperscrutabilità: chi «è morto per gli empi» (Rm 5,6), rivela che il Nome di Dio per l’uomo è solo cura, anche – anzi soprattutto – quando non se la merita. Perché il suo cuore è come quello di una madre, anzi di più, perché: «Anche se mio padre e mia madre mi avessero abbandonato, l’Eterno mi accoglierebbe» (Sal 27,10).
La parabola dunque ci chiede di uscire dal tranello che ci ha fatto, per ritornare alla parola di Gesù e ricordarci chi è Dio.

lunedì 10 novembre 2008

Aliens!



È da tempo che noto la presenza tra di noi degli extraterrestri!

Chi sono gli extraterrestri? Sono gente (gente?) che vive altrove, che dei problemi della terrestri neanche se ne accorgono, tutti intenti a eccitarsi con le loro verità marziane… Gente (gente?) preoccupata di salvare le loro verità stratosferiche anche a costo di lasciar morire l’umanità terrificata che vive nelle caverne buie di una vita in ogni senso disfatta

Il loro Dio? è quanto di più extraterrestre possibile! Il più extraterrestre di tutti gli extraterrestri, perché vive sempre altrove in un altro Universo che per quanto vicino e perfetto (lo chiamano paradiso!) è sempre parallelo!
È un Dio mai nostro, è un Dio mostro! Che serve per sfruttare non per sviluppare! E anche se interviene con qualche portentoso prodigio (li chiamano miracoli!), questi non cambiano il gravitare della Terra ma servono soltanto ad alienarne il movimento.

Se vengono a trovarci è per invaderci non per incontrarci. Se sono gentili, ci vogliono portare nel loro mondo, fuori dal nostro… ma non ci aiutano a ordinare casa nostra, ci fanno schiavi nella loro!

Alcuni si vestono da cardinali, altri da papi, altri da giornalisti, altri ancora si mischiano come zizzania tra la gente comune, ma subito li riconosci perché parlano di cose che non ti scaldano il cuore e mai si chinerebbero a raccoglierti un fiore… Intorno a sé fanno il vuoto perché come buchi neri, ingoiano ogni speranza di luce e come l’antimateria, avvicinarli distrugge…

Ma la nostra salvezza è nel Dio di Gesù Cristo che imparò, nell’ascolto vero del progetto d’amore per i terrestri del Padre, che la verità più vera, se resta quella di un extraterrestre non serve a nessun terrestre! E per questo che da extraterrestre, la verità che egli era, si fece completamente terrestre. In tutto fuorché nella voglia di tornare a essere extraterrestre!

Ecco, cari extraterrestri alla Magister”, il vero significato delle parole che non riuscite a capire di Martini, uno dei rari terrestri sopravvisuti alla vostra invasione… Non dovete andare oltre le stelle per trovarle, dovete sprofondarvi nel fango della terra se volete odorarle… Proprio come le adora il Nuovo Adamo figlio di Adamo!

venerdì 7 novembre 2008

A A A Abbronzatissimi!


The American friends will understand: they have Obama... we still have a little Bush!

Nella festa delle “mura” di una chiesa, l'invito ad adorare il Padre in spirito e verità

In quella che, seguendo il calendario liturgico, sarebbe la trentaduesima domenica del tempo ordinario, quest’anno cade il 9 novembre, festa della Dedicazione della Basilica Lateranense. È la festa della cattedrale di Roma, della chiesa cioè nella quale vi è la cattedra del vescovo della città, il papa.
Perché allora questa ricorrenza è celebrata dalla chiesa universale e non solo da quella di Roma? Perché San Giovanni in Laterano è considerata, in un certo senso – dice il Messale – la madre di tutte le chiese. Essa infatti è la prima chiesa di cui si ricordi la consacrazione, avvenuta nel IV secolo, dopo che fu costruita per volontà dell’imperatore Costantino, al tempo di papa Silvestro I.
L’origine storica della festa sarebbe perciò la consacrazione dell’edificio della Basilica Lateranense. Già questo lascia un po’ perplessi... sembra una motivazione un po’ sottotono rispetto a quelle di tante altre feste cristiane. Soprattutto se notiamo che questa festa ha addirittura un’importanza tale da scalzare la celebrazione della Pasqua del Signore (la domenica), che – liturgicamente parlando – è un fatto raro.

Ma non è tutto... perché oltre a essere origine della festa in questione, la consacrazione di questa Basilica, sarebbe addirittura – stando al Messale romano – il motivo che rende San Giovanni in Laterano, madre di tutte le chiese... Fortunatamente tutti sanno che se Roma è considerata madre di tutte le altre chiese, lo è per altri motivi; ma soprattutto tutti sanno che propriamente non è un titolo che le spetta: madre di tutte le altre chiese è infatti Gerusalemme! Quello infatti è il luogo sorgivo della vita cristiana! È Gerusalemme infatti la città in cui Gesù muore, risorge, dona agli Apostoli il suo Spirito, abilitandoli così alla predicazione che porterà alla nascita della prima comunità cristiana (cfr At 1-5) e via via di tutte le altre!
Queste considerazioni non vanno lette nel senso di una presa di posizione nella presunta (che però storicamente si è data) rivalità tra Roma e Gerusalemme; esse non vogliono nemmeno avere il tono di asserzioni polemiche nei confronti del ruolo della chiesa di Roma e del suo vescovo all’interno della chiesa tutta; neanche infine vogliono screditare la celebrazione di una festa tanto antica.
Semplicemente in questione è posta una problematica che nasce dalla lettura stessa dei testi proposti dalla liturgia per questa ricorrenza.
Ciò che colpisce infatti, anche solo leggendoli rapidamente, è quella che pare una loro inadeguatezza, per l’occasione. Non nel senso che i testi biblici scelti non siano all’altezza dell’occasione (ovviamente!), ma nel senso che paiono fuori luogo... Infatti nella festa delle “mura” di una chiesa (infatti pur con tutto l’ampliamento di significato possibile, in questa festa si celebra la consacrazione dell’edificio di San Giovanni in Laterano!), le letture propongono una prospettiva opposta: ricordano infatti quanto il Dio di Israele sia incontenibile nelle mura del Tempio («Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruita!») e quanto il Dio Padre di Gesù non sia da adorare in un luogo fisico, ma piuttosto «in spirito e verità»!
Ma non è tutto, perché questa apparente (o reale?) contraddittorietà porta a un’ulteriore riflessione: essa infatti manifesta una dinamica, interna alla Chiesa, ben più profonda della semplice curiosità che suscitano questi “testi fuori luogo”...
Se infatti dobbiamo ritenere che è la stessa mens liturgica della Chiesa che invita a celebrare questa festa e che contemporaneamente ne propone i testi, è chiaro che la duplicità di prospettiva non è solo testuale (e dunque occasionale), ma strutturale. È la Chiesa stessa ad avere in sé una duplice visione sulla festa in questione! Anzi, allargando lo sguardo, una duplice visione anche su tutto lo stile liturgico, addirittura sul senso stesso della liturgia. Inoltre, dato che dietro ad ogni liturgia sta una teologia, anche la prospettiva teologica (l’idea di Dio!) incontra almeno una duplice impostazione. Infine e radicalmente, dato che dietro ad ogni teologia c’è un modo di leggere il vangelo, è proprio qui che si insinua l’origine della diversità di sensibilità.
Qui, per forza di cose, non si può che tratteggiare solo molto schematicamente (e dunque anche riduttivamente) una descrizione di questi due orientamenti, anche se chi vive anche solo un po’ la vita della Chiesa, avrà subito ben chiaro ciò a cui ci si riferisce:
- per un verso c’è la linea che ama chiamarsi profetica o evangelica o Chiesa dei poveri, visibile soprattutto nelle comunità di base, che in Italia oggi vede sostanzialmente identificare la sua guida nel card. Martini;
- per l’altro c’è quella più legata all’istituzione, al Magistero, ai compromessi che dicono necessari con il potere politico (Concordati), visibile soprattutto nelle celebrazioni pontificie (liturgiche e non), che in Italia ha probabilmente visto per decenni il suo punto di riferimento nel card. Ruini.
Negare che la storia odierna ci fornisca questo dato fenomenologico solo per paura di divisioni è da sciocchi o da affetti dalla sindrome degli struzzi. Molto più serio pare invece non nascondersi dietro ad un dito e assumere questo elemento, proprio per evitare che, se ignorato, porti a conseguenze faziose e divisorie. Affrontare con serietà la questione invece è l’unico modo per costruire vie di comunicabilità e convivenza fraterna.
La prima osservazione che può far calare la concitazione è ovviamente quella di chi si rende conto che sostanzialmente il problema non è nuovo, anzi accompagna la Chiesa dal suo sorgere: non a caso infatti entrambe queste linee sono fondate sul vangelo e trovano sempre rispettivamente passi evangelici con cui sostenere le proprie posizioni.
La seconda è che, al di là di ogni retorica e fatti salvi gli estremismi, esse sono davvero con-necessarie alla vita della Chiesa: ogni profezia si sedimenta in un’istituzione e ogni istituzione ha bisogno della profezia per non morire o – peggio – tradire la Spirito che l’ha originata.
E dunque?
Dunque ringraziamo il liturgista, che senza celare un po’ di ironia, ci invita a celebrare questa festa “conservatrice” con dei testi biblici cari agli “innovatori”!
Essi, finora troppo tralasciati, meritano a questo punto qualche parola...
La prima lettura, tratta dal Libro dei Re, narra della preghiera del re Salomone. È lui il primo ad aver costruito il Tempio di Gerusalemme. Dio infatti non lo aveva permesso a Davide, suo padre, che aveva invece espresso tale proposito: «Vedi – aveva detto al profeta Natan – io abito in una casa di cedro, mentre l’arca di Dio sta sotto una tenda». Dio però aveva fatto sapere a Davide per mezzo di Natan: «Forse tu mi costruirai una casa perché io vi abiti? [...] Io fisserò un luogo a Israele mio popolo e ve lo pianterò perché abiti in casa sua. [...] Te poi il Signore farà grande perché una casa farà a te il Signore. [La discendenza uscita dalle tue viscere] edificherà una casa al mio nome».
Salomone è quella discendenza! Egli infatti porta a termine la costruzione del Tempio. E le parole che la prima lettura ci offre sono proprio quelle che pronuncia nel momento più solenne della celebrazione dell’inaugurazione. Sono parole in cui è evidente che il re ha ben chiara una cosa: Dio è incontenibile in quelle mura, Dio è Altro... Infatti ogni volta che è contenuto da pareti, da formulazioni concettuali, da norme morali, da itinerari spirituali... beh... non è Dio!
Anche la seconda lettura, scelta, nella festa della consacrazione delle mura di una chiesa, per il ricorrere del termine “pietre”, ha la stessa prospettiva: mette in luce infatti come le uniche costruzioni sensate della storia siano gli edifici spirituali, gli uomini “cristicizzati”!
E il vangelo non è da meno... esso, uno stralcio del bellissimo discorso tra Gesù e la Samaritana, è l’esplosione definitiva della fine del ritualismo (non del rito), del liturgismo (non della liturgia), del possesso esclusivo della mediazione (non del reale ruolo di possibile mediazione storica) tra Dio e l’uomo.
Sostanzialmente quello che qui crolla con Gesù è la convinzione religiosa che per un rapporto autentico tra l’uomo e il suo Signore, sia necessario uno spazio sacro fisico, una strutturazione rituale obbligatoriamente uniformata e univoca, una modalità liturgica standardizzata: come se uno potesse incontrare Dio solo in una chiesa cattolica, ripetendo formule specifiche e assistendo a celebrazioni che lo annoverano come uno dei tanti...
Interessante dunque che nel momento in cui la Chiesa celebra la festa della consacrazione delle “mura” di una chiesa, la Chiesa stessa nel vangelo domenicale proclami: «Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. [...] È giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità».

giovedì 6 novembre 2008

Il tempio-cattedra cristiano è il corpo del figlio dell’uomo!

La 32a domenica dopo Pentecoste capita questa anno nella data della
dedicazione della cattedrale di Roma, che non è S. Pietro, ma S. Giovanni in
Laterano, antica sede dei papi. Perciò con tutta la chiesa cattolica celebriamo
questo segno di unità e comunione. Se nella logica liturgico politica di
affermazione della centralità di Roma, talora si è inteso questa chiesa come
“capostipite e madre di tutte le chiese” (così c’è scritto sulla facciata),
questa è come sopraffatta dalla logica biblica dei testi prescelti e offre un
percorso illuminante del cammino cristiano.

Il vicolo chiuso della religione
La vita dall’uomo è contrassegnata da una caratteristica unica, sembra, nel creato: è intelligente… e subito sa di dover morire! E questa consapevolezza della precarietà, ambiguità e caducità della sua esistenza sulla terra gli fa nascere nel cuore la voglia di un “oltre” più sicuro, protettivo, potente… della propria nuda umanità – e soprattutto duraturo per sempre! Questo bisogno di trascendenza, per essere percepibile e gestibile, non può che materializzarsi in qualche modo, attraverso simboli, riti, invocazioni, sacrifici, paramenti… che nella storia di tutte le religioni assumono una particolare sacralità, perché intrisi di un intenso riferimento al divino, o comunque al sovrumano. Il sito ove Dio sembra esser più vicino è il tempio, che, nelle sue infinite versioni, è sempre la sua casa, “il luogo dove Dio ascolta la preghiera del suo popolo”, come dice Salomone.
Ma la religione, proprio quando ha successo, sta già svuotandosi del suo senso, e rivela la sua contraddizione intima. Perché il suo successo, cioè l’aver investito l’anelito di trascendenza in qualcosa di “umano”, fabbricato dall’uomo (culturale, quindi immanente!), ri/avvelena l’oggetto sacro della medesima precarietà e ambiguità propria di ogni cosa umana, che è proprio ciò che si voleva fuggire. La religione palesa così la sua origine: l’elaborazione del lutto, la manipolazione o ritualizzazione del bisogno della trascendenza che è la fonte stessa della religione. Un tentativo maldestro di condensare l’assoluto in una parte soltanto della vita (il sacro), sperando che possa salvare tutto il resto: ma questa parte sacralizzata si rivela per quello che è, altrettanto mortale e ambigua di tutte le altre. È solo capace di ricordare all’uomo la sua distanza da Dio, e la sua radicale inadeguatezza a raggiungerlo. La sua debolezza è la sua grandezza: stare di fronte a Dio con l’umile atteggiamento di Salomone, lo stesso del pubblicano in fondo al tempio: ascolta e perdona!
Dalla religione alla rivelazione
Nella storia di Israele, nel contesto religioso dell’antico medio oriente, si apre un orizzonte nuovo: la rivelazione. Se la religione è il faticoso cammino dell’uomo verso il Dio irraggiungibile, la rivelazione è l’inaspettato e sorprendente cammino di Dio verso l’uomo, il manifestarsi progressivo della sua “parola” e della sua “volontà” nella storia. “Manifestazioni” (o epifanie) che l’uomo fa fatica a capire e seguire, tanto sono diverse dai parametri normali del suo linguaggio e della sua natura. È Dio stesso che chiama l’uomo nei più diversi modi, con voce flebile ma irresistibile, leggera e potente, nei sogni come nella veglia, con parole e con irruzioni, nelle vicende e nelle situazioni ambigue della storia degli uomini. Che imparano a intuire o intravedere, forse solo di spalle, il suo volto, sempre disomogeneo e irriducibile all’immagine che l’uomo se ne fa. Da Abramo, attraverso i Patriarchi, all’avventura dell’Esodo, nel drammatico percorso verso la terra promessa (dove non scorreva, purtroppo, latte e miele); al fallimento della monarchia e di ogni pretesa di potenza teocratica, fino all’esilio, con la perdita della terra e della libertà, e infine ai profeti instancabili nel riproporre una fede “purificata” dalle scorie umane… Fino alla promessa di un salto di qualità, rispetto al dono (pur eccelso) dell’Alleanza e delle tavole della legge: la trasformazione del cuore di pietra in cuore di carne. Finalmente “un luogo” sulla terra dove Dio possa davvero esser ascoltato ad amato: il cuore di carne dell’uomo, unico luogo sacro a Dio! Sono i passi e le tappe che segnano il cammino paradigmatico per ogni credente, perché la salvezza viene storicamente dai giudei!
La parola di Dio fatta carne
… per farsi capire da un cuore … di carne, troppo indurito dalle fatiche e dalla paure della vita e della morte, e anche dalle leggi che vorrebbero costringerlo a comportarsi bene…, la Parola di Dio, nella pienezza dei tempi, si è fatta carne! Anzi è lui, Gesù, il vero cuore di carne umana, che “parlando” all’uomo, incide nel suo cuore di pietra il linguaggio del Padre e lo intenerisce… lo umanizza. Inserire in un corpo umano la divinità senza farlo esplodere o perderne l’umanità …è il mistero insondabile e sconcertante che l’uomo (il cristiano) continua da duemila anni a cercare di contenere e controllare. Il racconto dell’incontro di Gesù con la Samaritana, da cui è tratto il vangelo di oggi, ne è una delle esperienze più vivaci e provocatorie. Gesù abbandona Gerusalemme, dove ha sconvolto la gente e i capi rovesciando le bancarelle e scacciando i commercianti e le loro bestie dal tempio (la casa del Padre mio ridotta ad un mercato!)… e attraversa la Samaria, terra di eretici e bastardi, immerso nella diversità e ambiguità degli uomini, che a lui non suscitano ribrezzo, ma un’attenzione di simpatia avvincente. Stanco anche lui, siede sul muricciolo di un pozzo della storia biblica, di Abramo, Giacobbe, Giuseppe, Giosuè… Con questi spettatori simbolici, un uomo e una donna si parlano, in un dialogo che incespica in barriere insormontabili culturali e personali, di genere, di religione, di sangue… Non dovrebbero neanche parlarsi, dice la donna! In comune hanno soltanto il mezzogiorno della vita, la sete, la voglia di ascoltarsi…
Il difficile dialogo
Appena Gesù comincia a parlare (la Parola che si fa umana) cominciano anche i fraintendimenti (intendimenti fra estraneità che interagiscono, perciò colmi di malintesi e precomprensioni). Ma la sete reciproca è più importante delle ferite e degli steccati storici ed esistenziali! Cominciano anche le spiegazioni e le intese… Le diverse seti “fraintese” sono chiamate a confrontarsi e unificarsi nella sete fondante della persona: la sete di relazione, (cioè di amore: quella che ha mosso il Padre a “cercaree plasmare con la sua Parola i veri adoratori… La sete reciproca (dammi da bere!io ti darò da bere!) non è più solo dialogo di parole, ma coinvolgimento vitale in una relazione che trasforma l’esistenza in amore. La Parola non elimina la sete, sopprimendone l’umanità (come i riti sacrificali) - ma dissetandola, con una sorgente intima zampillante, che la rende insieme totalmente dipendente e libera: lo Spirito! «L'acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna!». La proposta adesso è chiara e accolta con entusiasmo, ma di fatto la donna (il credente) non è pronta, perché la fede non è un gesto, un rito o un credo da interiorizzare. È una persona da seguire ed amare, e ci vuole una vita, perché questa relazione diventi vitale. Perché quest’acqua (questa relazione!) è alternativa a tutte le altre bevande nelle quali la donna sta consumando la sua sete (i mariti… gli idoli, i valori assolutizzati, le debolezze morali, gli steccati storici…). Sono tutte relazioni fuorvianti o inadeguate. Non dissetano ma consumano il cuore dell’uomo. E soffocano la vera relazione che ci reintegra e ci salva: Io sono, che parlo con te!
La pietra scartata… dagli uomini
…perché troppo umana, debole, sconfitta, abbandonata da tutti, inchiodata sul legno maledetto – è il nuovo tempio: il luogo dove più forte (divina!) è la presenza terrestre di Dio. È il paradosso centrale del vangelo, dove il circuito religioso brucia ogni sua pretesa: la piena rivelazione della divinità è l'umanità di Gesù! Non la sua predicazione, il suo comportamento eccelso, i suoi miracoli, ma la sua sconfitta, la disfatta di ogni suo potere, per amore! Non più correndo ai templi vi cercherete Dio. Ma “stringendovi a lui [a Gesù Cristo], pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio… Il divino raggiunge la sua pienezza solo nell'umano, sulla terra, in un corpo d'uomo. La nostra fede passa per l'umanità di Cristo: lì vediamo il volto accogliente, amante, perdonante del Padre. Alla teologia del tempio di pietra, Gesù ci insegna a sostituire la teologia del tempio di carne, dei figli di Dio come santuario della sua presenza.


Il tempio – cattedra del cristiano
Vi parrà pure che godendo di queste cose così sublimi, non si debba più fermare la meditazione sui misteri della sacratissima Umanità di nostro Signore Gesù Cristo, ma occuparsi soltanto in amare. Su questo argomento ho già scritto a lungo in un altro luogo. Alcuni mi hanno fatto opposizione, e mi hanno detto che non me ne intendo … Tuttavia non mi faranno mai confessare che questo sia un buon cammino.
…Ma io non capisco a che cosa pensino. Separarsi da ciò che è corporeo per bruciare continuamente di amore è proprio degli spiriti angelici, non di noi che viviamo in corpo mortale…. non dobbiamo separarci dalla sacratissima Umanità di nostro Signore Gesù Cristo, unico nostro bene e rimedio. … Non dice forse il Signore che Egli è la via? Non afferma ancora che è luce, e che nessuno può andare al Padre se non per Lui? E quest'altre parole: Chi vede me vede il Padre mio? Diranno che si devono spiegare in altro modo. Io non conosco altre spiegazioni: con questa mi sono sempre trovata assai bene, e la mia anima sente che è vera.

[S.Teresa d’Avila 6 M 7, 5-6]

…che falsa strada avevo preso
Eppure, o mio Dio, io mi sono allontanata da Voi nella speranza di meglio servirvi!... Quando vi abbandonavo con il peccato, almeno non vi conoscevo, ma conoscervi, Signore, e credere di meglio avanzare abbandonandovi!... Oh che falsa strada avevo preso, Signore! Anzi, ero del tutto fuori strada! Ma Voi avete raddrizzato i miei passi, e dacché vi vedo a me vicino, vedo pure ogni bene. Non mi è più venuta una prova che, mirandovi innanzi ai tribunali, non abbia sopportata facilmente. Tutto si può sopportare con un amico così buono, con un così valoroso capitano che per primo entrò nei patimenti. Egli aiuta e incoraggia, non viene mai meno, è un amico fedele. Per me, specialmente dopo quell'inganno, ho sempre riconosciuto e tuttora riconosco che non possiamo piacere a Dio, né Dio accorda le sue grazie se non per il tramite dell'Umanità sacratissima di Cristo, nel quale ha detto di compiacersi. Ne ho fatta molte volte l'esperienza, e me l'ha detto Lui stesso, per cui posso dire di aver veduto che per essere a parte dei segreti di Dio, bisogna passare per questa porta.

[S.Teresa d’Avila V 22,6-7 - 22,10]

Soliloqui con la samaritana
Nel pieno della vita …e della sete, Gesù aspetta, seduto sul pozzo della sapienza antica (ripetuta, tramandata e inefficace), senza alcun pre/giudizio sulla mia umanità ferita, assetata e delusa (lui è più assetato di me e aspetta la mia brocca, un mio gesto)
La mia storia – una storia normale ‑ è stata un fraintendere continuo, più o meno ostinato e inconsapevole, dietro a valori ibridi e inadeguati. Ho dissetato le mie voglie e desideri con acque inquinate e ho speso energie dietro a pseudo-valori (miraggi di stima e potere, spezzoni di piacere egocentrico, competizione e durezza, salvare a tutti i costi quel poco di stima e di faccia, …)... sono i miraggi che mi hanno illuso, senza poterne fare a meno, per troppa sete… E mi hanno spesso costretto a ritagliarmi Dio e profeti e tempio e morale e legge a mia immagine…
Eppure affascina, ancora e sempre, questa chiamata sorprendente… a dare da bere a lui, più assetato di me! … a superare tutte le ambiguità e i disamori, cedendo al Padre che cerca adoratori in Amore e Verità. Essere vero, però, e lasciarmi cercare (prendere) fa paura. Come si fa a cedergli … per ascoltare e rendere totalizzante la relazione vitale con “Io sono - che ti parlo”?
Lui ti aveva guardata con occhi e cuore così accoglienti e vivificanti che ti sei sentita da lui “parlata” (raccontata – rinata, con una nuova storia di salvezza, raccontata dai suoi occhi e dal suo amore). Per questo testimoniavi ai compaesani: “mi ha detto tutto quello che ho fatto”. Allora è davvero il Messia? - il Cristo!? Non sai, ma sperimenti che la sua “Parola” esprime l’amore di un Padre!
Essere cristiani è guardare, come lui, con occhi benevoli, le persone e gli eventi, per raccontarne (elaborarne di nuovo) la storia - come messaggeri, indicatori e compagni dell’ unico Messia - Parola – Pane ‑ acqua di vita.
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