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venerdì 31 ottobre 2008

La morte: l’eternizzazione nell’aldilà della vita dell'aldiqua

In quella che sarebbe la trentesima domenica del tempo ordinario, quest’anno cade la commemorazione dei defunti. La Chiesa ritiene questa celebrazione tanto importante da farla “prevalere” sulla liturgia della domenica. Ironicamente verrebbe da dire: Come?!? Vince la morte sulla risurrezione?!? Ovviamente no, anzi... Le letture che ci vengono proposte dicono tutt’altro...

Si parte con il capitolo 19 di Giobbe, adatto alla situazione – verrebbe da dire – dato il suo essere uno di quei testi biblici che forse più di tutti esprime il dramma della sofferenza umana; vi si leggono infatti affermazioni quali: «Sappiate che Dio mi ha piegato e mi ha avviluppato nella sua rete. Ecco, grido contro la violenza, ma non ho risposta, chiedo aiuto, ma non c’è giustizia! Mi ha sbarrato la strada perché non passi e sul mio sentiero ha disteso le tenebre [...]. Mi ha disfatto da ogni parte e io sparisco, mi ha strappato, come un albero, la speranza».
Testo adatto alla situazione, si diceva: in effetti, quale situazione più del mistero della morte getta l’uomo nell’angoscia, nel tormento, nello strazio? Quale situazione più della morte ci imprigiona nella sua rete, ci fa esclamare “non c’è giustizia”, ci sbarra la strada, distende su di noi le tenebre, ci fa sentire disfatti, spariti? Quale situazione più della morte ci strappa la speranza?
E infatti, è il fatto di sapere, ad ogni passo, che la morte da qualche parte ci aspetta, che ci toglie il fiato; è il terrore di pensarci destinati al niente, che ci agghiaccia; è il freddo eterno di sapersi dimenticati, che ci annienta...
È questo che fa della morte, non uno dei problemi dell’uomo, ma il problema, perché non si tratta tanto di dover morire, quanto di restare morti...
E Giobbe riesce a dire fin troppo bene lo strazio di questa vita, il tormento di chi si chiede se, in fin dei conti, ci sia davvero un senso, se ne valga veramente la pena, o se invece, semplicemente – come dice il Salmo 90, al versetto 10 – «Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo».
In più questo personaggio – a differenza di quanto sostengono i suoi “amici”, che alla sua richiesta «Pietà, pietà di me, almeno voi miei amici, perché la mano di Dio mi ha percosso! Perché vi accanite contro di me, come Dio, e non siete mai sazi di carne?», rispondono «Come lo perseguitiamo noi, se la radice del suo danno è in lui?» - non può essere liquidato annoverandolo tra la massa dei recriminatori cronici... anzi, è uno di quegli uomini che possono permettersi di protestare, anche contro Dio: nella finzione del racconto infatti ha perso figli e figlie e ha contratto «una piaga maligna dalla pianta dei piedi alla cima del capo».
La questione è dunque seria... si tratta di un uomo toccato a morte nell’anelito vitale che lo anima, senza che per questo ci siano motivi o colpe, né espliciti né nascosti... è la cieca perfidia del destino – direbbe qualcuno – quella stessa che anche oggi, e sempre per tutta la storia dell’umanità, ha colpito e continua a colpire uomini e donne, madri e padri, figli e figlie...
Eppure... il percorso di Giobbe non si arresta qui, alla disperazione senza senso. Gli rimane una sola, ma incrollabile, certezza: «Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!».
Quest’affermazione non va fraintesa: tutto il libro di Giobbe infatti si articola nella sua requisitoria contro Dio, a cui egli imputa di non essere giusto, di non rispettare il canone della giustizia retributiva, per cui ai buoni accadono cose buone e ai cattivi cose cattive. Giobbe è sicuro di non aver fatto nulla per meritarsi le sue disgrazie; è disposto anche ad ammettere di non essere ineccepibile, ma di sicuro, niente di ciò che può aver fatto, è comparabile al contraccambio che gli ha riservato Dio. Velatamente quindi (ma neanche troppo), l’accusa che l’autore di questo libro porta avanti è a una falsa immagine di Dio, a una falsa immagine della sua giustizia, a una falsa immagine della sua responsabilità nelle cause seconde... Il contraltare infatti è rappresentato da questi “amici” che a turno entrano nella discussione e che vorrebbero essere i difensori di dio... di quel dio che però Giobbe non riconosce più come dio.
Ma allora chi è il redentore a cui fa appello nel versetto 25?
È Dio, quello vero!
Questa è l’incrollabile certezza di Giobbe: che il dio della giustizia retributiva, il dio che entra a manovrare la storia dell’umanità, il dio che bisogna ingraziarsi per placarne l’ira, non è il Dio di Israele! Egli è Altro rispetto a queste spiegazioni troppo umane... è il redentore, che avrà l’ultima parola (ultimo, si ergerà sulla polvere).
Giobbe però non riesce fino in fondo a connotare questo vero volto di Dio, a trovare una risposta convincente al problema del male e del morire. Anche il finale del libro, lascia un po’ con la sensazione che ci deve essere di più...
Eppure già in questa sua incrollabile certezza, si può intravedere come in un germoglio, quello che Gesù rivelerà in pienezza: l’inaudita identità di Dio Padre, la cui volontà è che «chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna».
Va subito specificato che questo versetto 40, appena citato, del capitolo 6 del Vangelo di Giovanni, può correre il rischio di essere frainteso... prima di ogni altra riflessione vanno dunque poste due precisazioni, due cattive interpretazioni che vanno evitate:
- la prima è quella che riduce quel «chiunque vede il Figlio e crede in lui» ai cristiani cattolici battezzati, cresimati e comunionati... Quasi che la volontà di Dio sia circoscrivibile ai nostri confini ecclesiali. È vero che ci sono stati periodi storici in cui la posizione della chiesa è sembrata coincidere con questa riduzione, ma va detto che mai è venuto totalmente meno il riconoscimento della libertà di Dio e della sua assoluta possibilità di percorrere altre vie per conquistarsi il cuore dell’uomo;
- la seconda, che quel «abbia la vita eterna», sia immediatamente ricondotto alla vita dopo la morte.
Se fosse vera questa prospettiva, dovremmo dire che la risposta di Gesù a Giobbe, sarebbe quella martiristica – purtroppo spesso in circolazione negli ambienti cattolici – per cui: la vita nell’aldiqua è tutta sofferenza e dolore, per poi però avere una ricompensa nell’aldilà...
È la risposta, che al dramma della sofferenza e della morte, suona come la classica e fastidiosa mano sulla spalla di chi non sa che dire, perché sceglie di non attraversare la drammaticità del problema e quindi al massimo si accontenta di accennare un poco convincente “Vedrai che poi passa”, “Il tempo cura tutti i mali”, “Il Signore scrive dritto anche sulle nostre linee storte”, e via discorrendo... Senza accorgersi che il problema per chi soffre (e dunque per ogni uomo, se non altro perché destinato alla morte) è “Chi sono io di fronte a questa cosa?”, “Che ne sarà di me?”...
La risposta di Gesù invece pare proprio avere la pretesa di arrivare al nucleo incandescente della drammatica mortale dell’uomo. Egli non ha paura di confrontarsi con l’uomo; non ha paura di risultargli – nelle sue risposte – estraneo (come una pacca sulla spalla); non ha paura di non essere all’altezza della profondità della cosa (sa di essere «colui che viene da Dio e ha visto il Padre», la vera identità di Dio così difforme da tutto ciò che l’immaginario umano ha prodotto...); non ha paura neanche di non essere convincente: parla agli uomini da uomo; parla di morte da crocifisso; parla di Vita, da risorto!
Ecco perché ciò che dice risulta credibile: perché la sua vita lo è stata... tanto che un ateo anarchico come De Andrè arriva a dire: «sovrumano è pur sempre l’amore, di chi rantola senza rancore», dove quel sovrumano non vuol dire solo eccezionale, ma divino.
Se Gesù fosse stato uno dei tanti santoni che ogni tanto compaiono sulla scena della storia a proclamare che la morte non è la parola definitiva sull’uomo, tutti avrebbero ritenuto che volesse semplicemente vendere un “buon prodotto”, un’illusione che andava incontro alla paura di morire dell’uomo...
Lui invece ha dalla sua il fatto di avere una credibilità data dalla vita storica che ha vissuto... Acconsentire a questa credibilità è la fede! Dare cioè ragione a quell’uomo (che era anche il Figlio di Dio) che ci ha fatto vedere che la faccia di Dio non è quella così banale e così troppo umana del giudice col bilancino che castiga e premia; e non è neanche quella che inspiegabilmente riduce a non-vita l’aldiqua per approdare alla Vita nell’aldilà... La vera identità di Dio – in Gesù – è quella di chi tiene in mano la vita dei suoi figli; non nel senso che la dirige (Dio non tocca le cause seconde, ma solo l’intimità del cuore umano), ma che le custodisce («questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nessuno di quanti egli mi ha dato»). Custodisce appunto l’intimità di ognuno, l’identità personalissima di tutti, anche di chi – colpevolmente – la smarrisce («Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi»): un’intimità e un’identità che hanno luogo nell’aldiqua! Nascono infatti e si sviluppano nella trama relazionale che sperimentano nella storia... perché cosa può esserci di eterno di mio nell’aldilà, se non quello che vivo, patisco e amo nell’aldiqua?!?
E allora la festa dei morti, diventa davvero la festa della Vita... dell’eternizzazione di quella vita che nell’aldiqua, per ogni uomo e donna che è passato per la storia, ha acquistato uno spessore che Dio non ha lasciato si disperdesse nel nulla!

giovedì 30 ottobre 2008

…i santi senza calendario!

I santi ufficiali del calendario liturgico (sacro), che fin da piccoli ci hanno insegnato a venerare con le preghiere, le immagini e i sentimenti di ammirazione e imitazione, erano quelli ufficiali, pitturati in grande nelle chiese o in formato tascabile nei “santini” di carta pregiata che ci davano per le nostre devozioni… o per ricordo. Ci entusiasmavano, talora, per le loro gesta, o ci stupivano nelle agiografie, piene di miracoli. Nati già santi, o convertiti - sempre comunque troppo più bravi, più perfetti, più fedeli di noi… Sono i santi che hanno percorso il loro cammino, hanno eseguito il loro compito, risposto alla loro vocazione. Magari, anche loro, con tanta fatica, sofferenze, persecuzioni… ma ci sono riusciti! Sono “compiuti”, o come si diceva in latino, sono “perfetti”. Sono iscritti nelle lunghe liste del calendario ed esposti al plauso riconoscente e devoto dei cristiani … normali. Magari ci servono per sollecitare grazie… che non domandiamo direttamente a Dio.
Il vangelo invece ci parla di santi “incompiuti” – che proprio nella loro incompiutezza e piccolezza (o anche peccato e miseria), sono santi, non per quello che hanno fatto o non hanno fatto, ma perché immersi nel mare della benevolenza di Dio.
Santi di un tipo nuovo, inventato da Gesù di Nazareth, che camminando e predicando il suo Vangelo e compiendo gesti di misericordia e guarigione lungo le strade e i villaggi della Galilea e dintorni, fin verso Gerusalemme (dove l’hanno ucciso), ne raccolse folle intere, con grande meraviglia e talora scandalo dei benpensanti. I quali non si rendevano ragione di come – tirandosi dietro tutta quella gente (compresi “pubblici peccatori”, prostitute, impuri, stranieri, donne, bambini…) – senza neanche insegnargli i gesti religiosi e rituali della preghiera, delle purificazioni e dei digiuni - finiva per screditare la vera religione. La frattura con la mentalità ortodossa corrente dei capi, dei sacerdoti e dei teologi, arrivò al punto che congiurarono di ucciderlo. Ma lui continuava a sostenere “un criterio di santità” completamente diverso… che consiste nello sguardo di amore e compiacenza che il Padre (Dio) ha per i suoi figli – comunque siano, anzi ancor più proprio quando sono nel bisogno e nel peccato! Privilegiati nella loro incompiutezza. Come un medico, che si dà da fare per i malati, non per i sani! “…una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua”.
Ecco l’elenco nuovo dei santi di un calendario universale (laico): che sono dichiarati “beati”, con un giudizio radicalmente rovesciato rispetto al sentire comune - anche degli stessi interessati, che non gli sembrava vero d’esser dichiarati “beati”. E chissà che faccia sbalordita, a sentirselo dire e ripetere da Gesù!
“Beati!” sono dunque (secondo Gesù!) tutti quelli … che gli mancano le cose essenziali per vivere, spesso afflitti, non gli rimane che piangere, ma mantengono occhi così trasparenti che vedono il bene anche dove c’è solo male. Riescono a restare inermi e indifesi nelle violenze, senza vendicarsi. Implorano giustizia, pace, consolazione e invece soffrono ingiustizie, persecuzioni, maltrattamenti... e morte.
Ecco, la morte! Con tutte le tribolazioni che la precedono, nella vita normale della gente comune, la morte, come sofferenza (incompiutezza struggente di tutta la vita…). La morte è, forse, il grande lavacro di ogni peccato e debolezza, nella misericordia del Padre. Il quale ci promette, appunto, nel vangelo di Gesù, di accogliere ognuno nella sua tenerezza paterna, già anticipata nell’impregnare di “beatitudine”, fin da adesso, le nostre sofferenze e fragilità terrene.
La versione umile della fede, accessibile a tutti, che ci fa tutti santi di questa santità in regalo, è fatta di SPERANZA. Tanto è vero che tutte le beatitudini sono al futuro (meno la povertà, che è già, qui adesso, il suo Regno!). Sono situazioni, dunque, sotto il segno della speranza. È la speranza, garantita da Gesù, di essere guardati bene da Dio (con compiacenza: “beati voi!”). Guardàti bene, anche se deboli e peccatori (e nient’affatto guardàti male e giudicati e condannati, come ogni religione insegnava prima di lui). Ma non è uno scampolo di santità per gente di seconda scelta, non è una svendita a poco prezzo. L’amore è sempre “regalo”, di natura sua, perché non ha prezzo: è troppo prezioso! La benevolenza di Dio è in regalo, ma ha un’esigenza “difficile” per l’uomo normale. “Semplice”, invece, per i piccoli e poveri in spirito. Esige la rinuncia a salvarsi da sé e il totale affidamento a lui! Anche Gesù si è salvato così (…nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per il suo pieno abbandono a lui! Eb 5,7). E grazie a lui, anche Maria e le altre donne… I discepoli, invece, hanno fatto una fatica immensa a cedere… e non ci hanno creduto. E così l’hanno tradito per presunzione, oltre che per debolezza. Poi si sono ricreduti. Ma proprio con la consegna totale di sé alla misericordia del Padre, Gesù ci ha riconciliati con lui e dunque ci ha davvero “beatificati” dentro, già adesso in questa nostra vita tribolata, ma a lui sorprendentemente gradita (beati!).
Queste beatitudini ci hanno ridonato la speranza: speriamo di credere (cioè di essere fedeli) – speriamo di sperare – speriamo di amare. Anche se … per adesso – noi “incompiuti” – siamo solo un germoglio di credenti. Balbettiamo la nostra fede, che è troppo piccola per riuscire a parlare con Dio, da soli. Già nella nostra esperienza umana, però, viviamo un poco questa dinamica di cui parla Giovanni, nella sua prima lettera. Gli incontri belli e fecondi della nostra vita (di fratelli e sorelle, figli, sposi, padri, madri, innamorati… amici) sono quelli che ci fanno uscire da noi stessi, esplicitando le potenzialità migliori che avevamo dentro… Gli incontri brutti sono quelli che ci fanno diminuire, ci sfigurano, gelano le nostre speranze ancora in bocciolo e i nostri desideri di amare ed essere amati… Così avverrà-(vuol dire Giovanni) , quando gli saremo di fronte … sarà l’incontro più bello! Appena lo vedremo direttamente (a tu per tu : chissà come?), e ci rivolgerà la sua parola, ciò che adesso è in germoglio, come imploso, fiorirà, anzi esploderà. Si espliciterà ciò che già adesso siamo, come scoprire dentro di noi un racconto inedito, che avremmo voluto vivere. E allora “noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”: il contenitore affettuoso di tutto le nostre speranze.
Questo desideriamo e crediamo … anche per i nostri cari che sono morti, che non sono tanto diversi dai “santi” di Gesù, e dunque non sono andati a finire rinchiusi in qualcuno dei recinti previsti dalle etichette delle nostre affannate teologie (sheol, limbo, purgatorio, inferno… paradiso).
Quando, dunque, “noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”, per tutti finalmente apparirà chiaro quello che, fin dall’inizio, diceva Gesù : e cioè, che il criterio unico di santità non sta tanto nei nostri sforzi (per quanto segno di buona volontà) ma nella misericordia senza limiti del Padre, che ci ha mandato Gesù proprio perché non eravamo capaci di farci santi da soli. Sia per chi lo conosce che per chi non lo sa.

Questa è davvero una “buona notizia”!

martedì 28 ottobre 2008

Passando Parola

di Marco Travaglio
Buongiorno a tutti.
Oggi vi voglio parlare di due sentenze delle quali avete sentito poco.
Di una avete saputo ma senza entrare nel merito, dell'altra proprio non avete sentito mai parlare e non ne sentirete mai parlare, credo.
Cominciamo dalla seconda.
Antonio Di Pietro, qualche anno fa, aveva dichiarato, come molti di noi fanno visto che conosciamo le carte, che Rete4 è abusiva.
Preciso: Rete4, secondo la Corte Costituzionale, da esattamente 14 anni non dovrebbe appartenere a Berlusconi o, nel caso in cui dovesse ancora appartenergli, non dovrebbe più trasmettere sull'analogico terrestre, sui canali che noi vediamo schiacciando il nostro telecomando al numero 4.
Perché nessun privato può possedere più di due reti televisive e Berlusconi ne possiede tre.
Dopodiché, trasmette in virtù di leggi fatte apposta che le consentono di farlo.
Quindi, dal punto di vista delle leggi è strettamente legale quello che avviene, in realtà è incostituzionale e da qualche mese, da gennaio di quest'anno, è anche illegittimo in quanto incompatibile con le normative europee che, come voi sapete, prevalgono: il diritto comunitario prevale sul diritto nazionale, quindi lo dovrebbe scalzare.
Dico questo perché ogni volta che qualcuno dice che Rete4 è abusiva, anche se legalizzata ex-post a fare quello che non si può fare, Mediaset querela.
Io ho avuto molte cause, molti hanno avuto cause per avere detto questa semplice ed elementare verità.
Bene, di solito queste cause vanno a finire bene nel senso che portiamo le sentenze della Corte Costituzionale, adesso anche la sentenza della Corte Europea del Lussemburgo, e i giudici danno ragione.
Questa volta è successa una cosa in più: Di Pietro si è visto dare ragione con l'archiviazione della querela che gli aveva fatto Mediaset per avere detto "Rete4 è abusiva", il giudice ha voluto aggiungere un qualcosa in più.
Vediamo.
La sentenza è del 15 ottobre, sono quattro pagine.
Il giudice per le indagini preliminari di Milano, Vincenzo Tutinelli, preso atto della richiesta di archiviazione della procura di Milano, del fatto che Mediaset si è opposta alla richiesta di archiviazione, ha tenuto l'udienza e ha deciso di archiviare.
Perché ha deciso di archiviare? Perché non c'è diffamazione nel dire che Rete4 è abusiva.
Perché non c'è diffamazione? Perché Rete4 è abusiva, quindi dirlo non è diffamazione ma è la verità.
Il giudice, che deve essere anche spiritoso, parte dal vocabolario e va a cercare il significato dell'aggettivo "abusivo".
E scrive: "Secondo il vocabolario della lingua italiana, il termine "abusivo" qualifica un'attività fatta senza averne il diritto o l'autorizzazione.
E' noto l'uso del termine con riferimento all'abusivismo edilizio, in cui l'attività così qualificata è quella di avere costruito senza idonea licenza o concessione.
Proprio in riferimento al fenomeno dell'abusivismo edilizio, può essere in qualche modo interessante perché, così come per le trasmissioni televisive in tale ambito - le case costruite abusivamente - sono intervenute delle legislazioni che prevedevano interventi di sanatoria legittimando a posteriori l'abusiva attività svolta in precedenza."
Quante volte, dopo avere costruito una casa senza la licenza, la concessione o i permessi ambientali arriva la sanatoria, il condono e quindi uno dice "io sono in regola".
No, non sei in regola: sei un abusivista legalizzato dai tuoi amici in Parlamento.
"...legittimando a posteriori l'abusiva attività svolta in precedenza".
Quando l'hai fatto non potevi, dopo ti sei fatto mettere in regola.
"Il riferimento all'abusivismo edilizio è, inoltre, interessante perché in tale contesto si è enucleata un'altra categoria di attività abusive, quelle svolte in forza di un provvedimento dichiarato illegittimo".
Ecco l'altro passaggio: quelle leggi che dopo che hai fatto la casa abusiva l'hanno sanata ex-post, sono poi state dichiarate addirittura illegittime, nel caso delle TV naturalmente, dalla Corte Europea di Lussemburgo.
E allora, si passa dalle case abusive alla televisione abusiva.
E qui il giudice - ripeto, si chiama Vincenzo Tutinelli - fa una breve storia, un bignamino, di Rete4.
Dice: "Da tempo le trasmissioni radiotelevisive sono regolate con legge che prevede la necessità tra gli operatori, stante la limitatezza delle frequenze, di un'idoneo provvedimento concessorio da parte dell'autorità statale competente".
La concessione dello Stato a trasmettere, su scala locale o nazionale come nel nostro caso.
Negli atti è richiamato il decreto ministeriale del 1999 che da una parte rigetta la domanda della querelante - Mediaset, per Rete4 - di assegnazione delle frequenze.
Nel 1999 c'era stata, ricordate, la gara per l'assegnazione delle concessioni: Rete4 l'aveva persa, Europa7 di Di Stefano l'aveva vinta e quindi quando Mediaset ha chiesto di nuovo le frequenze per Rete4 gli hanno detto no.
Da un lato il decreto ministeriale del 1999 rigetta la richiesta di frequenze da parte di Rete4, dall'altra la autorizza in via transitoria, dicendo "Continuate pure a usare quelle che già avete, fino a quando l'autorità di garanzia delle comunicazioni - AGCOM - fisserà un termine ai sensi della legge".
Naturalmente l'AGCOM che cos'ha fatto? Non ha fissato nessun termine quindi Mediaset ha continuato a trasmettere in base a questa proroga, illegittima, per anni e anni fino ad oggi.
L'autorità, com'è noto, non è indipendente ma nominata dai partiti.
A quel punto, fino al 2003 non arriva nessun termine dall'AGCOM e allora interviene di nuovo la Corte Costituzionale che come già nel 1994 dice: "guardate che Rete4 deve andare su satellite o essere venduta" e fissa lei il termine: 31 dicembre del 2003.
Terrorizzato, Berlusconi approva la legge Gasparri 1. Ciampi la rimanda indietro, all'epoca avevamo un Presidente della Repubblica che ogni tanto rimandava indietro qualche legge incostituzionale - e a Natale 2003, a pochi giorni dalla scadenza, Berlusconi vara il decreto salva Rete4, poi mette a posto tutto per legge con la Gasparri 2, nell'aprile 2004.
A questo punto ecco che nel 2008 anche la Corte di Giustizia delle Comunità Europee di Lussemburgo si accorge che l'Italia è fuorilegge.
"Ha affermato la illegittimità della normativa che permetteva il differimento degli effetti del provvedimento, autorizzando occupanti di fatto delle frequenze".
Li tratta proprio come degli squatter, come quelli che occupano gli edifici pubblici e ci si installano dentro.
Questi occupano abusivamente frequenze pubbliche.
Sancisce l'illegittimità della norma che consente agli occupanti di continuare a occupare le frequenze, sia pure sempre in via transitoria che è una transitoria definitiva perché non finisce mai!
Qui cita tutta la sentenza della Corte di Giustizia Europea e spiega che conseguenze ha, visto che il diritto comunitario prevale sul diritto nazionale.
"Tale sentenza evidenzia la sussistenza di un contrasto con il diritto comunitario dell'intero sistema italiano televisivo e della prosecuzione delle occupazioni delle frequenze da parte dell'odierna querelante" cioè di Mediaset.
Quello che sta facendo Mediaset è in contrasto con la normativa europea, anche se è legittimato dalle leggi ad hoc italiane che decadono di fronte all'orientamento europeo.
"Afferma il contrasto fra la normativa europea e l'autorizzazione temporanea a trasmettere del soggetto che in precedenza occupava le frequenze."
Questa è la frase fondamentale: "Il giudice nazionale non ha la possibilità di discostarsi dall'orientamento in quella sede europea espresso".
Cosa vuol dire? Il Consiglio di Stato che aveva interpellato la Corte Europea di Lussemburgo per sapere se quello che succede in Italia è o non è in linea con l'Europa, ora che ha saputo dalla Corte Europea che siamo completamente fuori legge, non può fregarsene e fare finta di niente, anzi non può discostarsi da quell'orientamento, deve farlo proprio.
Perché? Perché "ubi maior, minor cessat", la legge italiana conta niente rispetto alla sentenza della Corte Europea, quindi quando a dicembre il Consiglio di Stato dovrà decidere il da farsi sui ricorsi presentati da Di Stefano per Europa7, dovrà fare propria questa roba qua!
Anzi, sarebbe addirittura autorizzato lui stesso a togliere le frequenze a Rete4 per darle a Europa7, perché la legge soccombe rispetto alla sentenza della Corte Europea.
E non c'è niente da fare.
"In ragione di ciò, il carattere della abusività richiamato nelle dichiarazioni incriminate - quelle di Di Pietro - verrebbe a derivare dalla patente di illegittimità conferita dalla sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee all'intero sistema normativo italiano dal 1997 ad oggi, e ai provvedimenti attuativi di tale sistema".
Insomma: "E' ben difficile ritenere diffamatoria un'affermazione fatta da un soggetto" - Di Pietro - quando la medesima affermazione viene di fatto riproposta dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee pochi anni dopo.
Di Pietro ha semplicemente detto ciò che poi ha ribadito addirittura la Corte Europea di Lussemburgo.
Allora due sono le conclusioni.
Primo: a dicembre il Consiglio di Stato dovrebbe, secondo questo giudice - un giurista, quindi capisce di queste cose - farla finita con questo abuso non edilizio ma televisivo, ai danni dei cittadini e ai danni di un concorrente come Europa7 di Francesco Di Stefano.
E questo vi spiega per quale motivo, visto che anche gli avvocati di Mediaset lo sanno, ques'estate il governo ha tentato di fare l'ennesima salva Rete4 per sistemare un'altra volta le sue faccende e l'ha messa da parte perché tanto l'Europa, nella procedura di infrazione che potrebbe nascere, si pronuncerà fra qualche mese.
E adesso, nel tentativo disperato di fare in modo che il Consiglio di Stato non tolga le frequenze a Rete4 cosa ha fatto il governo insieme all'AGCOM, quella rimasta inadempiente per tutti questi anni?
Ha stabilito che le frequenze a Europa7 non gliele dia Rete4, che le occupa abusivamente sia pure autorizzata per legge illegittima.
No, le frequenze si tolgono a Rai1!
Pensate, abbiamo una televisione abusiva e invece di levare le frequenze a lei le si leva a Rai1 che è assolutamente legittimata!
Rai1 dovrà sacrificare una parte delle sue frequenze di trasmissione per darle a Europa7 in modo che Rete4 continui a occupare abusivamente le frequenze che non le spetterebbero in quanto è senza concessione.
Vi rendete conto di quello che sta avvenendo nel silenzio assoluto?
Non c'è nessuno, nemmeno nelle opposizioni cosiddette, che abbia parlato di questo ne abbiamo sentito riferimenti ai conflitti di interessi e alla faccenda televisiva nel meraviglioso discorso di Uòlter Veltroni al Circo Massimo.
Infine, c'è un bellissimo richiamo all'articolo 21 della Costituzione, a dimostrazione del fatto che per fortuna ancora qualche giudice in materia di diritto di critica fa riferimento alla Costituzione.
Dice: "Appare il caso di ricordare che l'articolo 21 non protegge unicamente le idee favorevoli o inoffensive o indifferenti, essendo al contrario principalmente rivolto a garantire la libertà proprio delle opinioni che urtano, scuotono, inquietano con la conseguenza che di esse non può predicarsi un controllo se non nei limiti della continenza espositiva".
Certo, se uno si mette a insultare... ma se uno usa dei termini appropriati, può fare anche le critiche più dure.
Perché? Perché la libertà di espressione tutelata dall'articolo 21 della Costituzione non tutela il diritto di applauso ma il diritto di critica, innanzitutto.
E questa è la prima sentenza.
La seconda, almeno ne avete sentito il titolo, è quella che riguarda Calogero Mannino, ex segretario regionale della DC, ex ministro democristiano, trapassato tranquillamente, senza traumi, dalla prima alla seconda repubblica e oggi felicemente seduto in Senato con l'UDC.
L'Unione dei Cuffari, dei Casini e dei Cesa. E anche dei Mannini.
Bene, l'altro giorno è stato assolto nel secondo processo d'appello dall'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.
La formuletta è la solita che mettono quando assolvono un politico coperto di prove: dicono che le prove sono insufficienti.
E' il solito comma 2 dell'articolo 530 del codice di procedura penale, lo stesso che avevano inserito nella sentenza di primo grado che assolveva Andreotti, anche lì per insufficienza di prove.
La stessa che hanno messo quando hanno assolto il presidente della Provincia di Palermo, Francesco Musotto.
La stessa che hanno messo per tanti processi, per accuse diverse ovviamente, a Berlusconi, a cominciare dalla sentenza della Cassazione sulle tangenti alla Guardia di Finanza.
Bene, le sentenze, come è noto, si rispettano, se ne prende atto, si aspettano le motivazioni, se non le si condivide si impugnano nella sede successiva.
Probabilmente la procura generale di Palermo ricorrerà un'altra volta in Cassazione, all'incontrario di quello che era avvenuto la volta scorsa quando Mannino, assolto in primo grado per insufficienza di prove, in appello era stato condannato a 5 anni e 4 mesi, e aveva impugnato la sentenza in Cassazione che gli aveva dato ragione dicendo che la motivazione era scritta male, bisognava riformularla.
Aveva rimandato indietro il processo alla Corte d'Appello per difetto di motivazione perché si rifacesse il processo di secondo grado, lo si è rifatto, i giudici questa volta lo hanno assolto per insufficienza di prove, cioè hanno ritenuto insufficienti le stesse prove che i loro colleghi della stessa Corte d'Appello avevano ritenuto sufficienti.
Stavolta, probabilmente, sarà l'accusa a impugnare davanti alla Cassazione e se così forse potrebbe anche darsi che la Cassazione rimandi il processo indietro per fare un terzo processo di Appello.
Uno dirà "siamo dei pazzi a fare così". Sono i pro e i contro del sistema che abbiamo in Italia, che consente molte impugnazioni e che, consentendo vari gradi di giudizio, prevede la possibilità che ogni volta i giudici valutino il materiale probatorio in maniera diversa da quello dei loro colleghi precedenti.
C'è chi vede il bicchiere mezzo pieno e chi mezzo vuoto, è sempre così.
E' una valutazione discrezionale.
Che cosa interessa a noi cittadini, a me giornalista?
Interessa soprattutto sapere se ci sono degli elementi dei quali parlare, emersi in questo processo.
Se ci sono dei fatti gravi per il fatto che questo signore fa politica in Parlamento, dei quali possiamo prendere atto a prescindere da che cosa decidono i giudici sulla configurabilità del reato in base a quegli elementi.
Abbiamo dei fatti dai quali partire? C'erano dei fatti che giustificavano quel processo?
Poi l'abbiamo detto: il giudice è liberissimo soprattutto in un ambito così aleatorio come il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, di stabilire che secondo lui è provato lo scambio fra il politico e il mafioso o di stabilire che non è sufficientemente provato lo scambio.
Perché lo dico? Perché questa sentenza è utilissima per capire la differenza che c'è fra una assoluzione - una volta si sarebbe detto - per insufficienza di prove o un'assoluzione per una diversa valutazione delle prove da parte di giudici di vario grado, e invece l'errore giudiziario.
Ogni volta che assolvono qualcuno che era stato arrestato, come in questo caso, oppure indagato oppure addirittura già condannato una volta, scatta subito lo strillo generale: "ecco, era un errore giudiziario!".
Non è mica detto, può darsi benissimo che uno venga arrestato, rinviato a giudizio e poi assolto senza che nessuno abbia commesso nessun errore giudiziario.
Anche perché gli elementi necessari per arrestare qualcuno prima del processo o per rinviare a giudizio qualcuno sono diversi da quelli che sono necessari per condannarlo.
Basta molto meno per arrestare una persona che non per condannarla.
Di solito li si arresta quando ci sono gravi indizi e quando si rischia che quello inquini le prove o intimidisca i testimoni, o commetta altri reati o scappi, rendendo comunque vano il processo.
Per questo che spesso si arresta qualcuno prima del processo: per fare in modo che il processo si possa fare genuinamente.
Se poi al processo non emergono altre cose rispetto a quelle emerse al momento dell'arresto, quello può essere assolto e non c'è stato nessun errore giudiziario.
Gli elementi per arrestarlo c'erano e quelli per condannarlo no.
Bisogna conoscerle le cose per parlare. Qua parla invece sempre chi non sa niente. E allora hanno detto: "visto? Era un errore giudiziario!".
Non c'è stato nessun errore giudiziario nel caso di Mannino.
Mannino è stato arrestato all'inizio degli anni Novanta ed è rimasto in carcere per due anni.
L'arresto non l'ha fatto la procura di Caselli, l'ha chiesto la procura di Caselli.
Due pubblici ministeri, Teresa Principato e Vittorio Teresi, e quell'arresto è stato confermato.
E' stato disposto dal GIP, ovviamente, confermato da tre giudici del riesame. Due PM, un GIP e tre giudici del riesame: siamo già a sei.
Ha fatto ricorso la sua difesa alla Cassazione, la Cassazione si è pronunciata a sezioni unite. Sono in nove nelle sezioni unite: i nove delle sezioni unite hanno confermato l'esigenza di tenerlo dentro, e siamo a nove più sei: quindici.
Dopodiché hanno chiesto la scarcerazione per motivi di salute; il tribunale del riesame di Palermo, altri tre giudici, hanno detto di no.
Diciotto giudici di diverse città, sedi e funzioni hanno deciso che Mannino doveva stare in galera.
E' evidente che non possono essere tutti visionari o avercela tutti con lui.
E allora com'è che è stato arrestato e ora è stato assolto?
Semplice: c'erano gli elementi per arrestarlo e secondo i giudici non c'erano sufficienti elementi per condannarlo.
Secondo i giudici del secondo appello, mentre secondo i giudici del primo appello gli elementi c'erano e gli hanno dato 5 anni e 4 mesi.
Qual è il problema? E' che noi viviamo in un sistema dove ci sono troppi gradi di giudizio, dove troppi giudici mettono il becco.
Naturalmente questa è una garanzia, perché molti occhi vedono meglio di pochi, ma dall'altra parte c'è sempre la possibilità che ogni occhio veda alla maniera sua e che quindi ci siano ribaltamenti di giudizio e di valutazione.
E' tutto fisiologico, anche se sembra strano, sta nel nostro sistema questa conseguenza paradossale.
C'è poi una convenzione, che noi accettiamo altrimenti non staremmo insieme e non affideremmo la giustizia ai Tribunali, per cui ha ragione l'ultimo arrivato.
Alla fine dei ricorsi, l'ultima sentenza, quella che diventa definitiva, è quella buona.
Ma chi ci dice che l'ultima sia quella buona e non fosse meglio la penultima?
E' una convenzione, in questo caso alcuni hanno detto che ci sono elementi altri hanno detto che non sono sufficienti, e intanto vogliamo conoscere questi elementi, in modo che possiamo giudicare almeno la persona?
Dopodiché il reato fa il suo corso, vedremo come finirà, ma a noi devono interessare i fatti che riguardano la persona.
E allora quali sono i fatti?
I fatti sono, per esempio, che Mannino già dal Tribunale che lo assolveva in primo grado era stato giudicato malissimo, dal punto di vista politico ed etico.
"E' acquisita la prova che nel 1980-1981 Mannino aveva stipulato un accordo elettorale con un esponente della famiglia agrigentina di Cosa Nostra Antonio Vella - c'era stato addirittura un incontro in casa con questo farabutto - e in seguito con altri boss della mafia Agrigentina".
Il Tribunale parlava, assolvendolo - il Tribunale che 'gli voleva bene' - di "patto elettorale ferreo, avallato dall'intervento di un mafioso come Vella. Un patto che costituisce una chiave per interpretare la personalità e consente di invalidare buona parte della linea difensiva di Mannino, volta a rappresentarlo come un politico immune da contaminazioni coscienti con ambienti mafiosi" o addirittura vittima di chissà quali complotti.
Nessun complotto, altro che immune da contatti mafiosi: questo sapeva che erano mafiosi, andava lì e faceva un patto elettorale ferreo con i capi mafia di Agrigento.
E poi aveva proseguito negli anni successivi.
Perché allora l'avevano assolto e perché adesso l'hanno di nuovo assolto?
Probabilmente, la motivazione oggi non c'è, abbiamo quella del primo grado, perché "non c'è la prova che l'accordo elettorale abbia avuto a oggetto una promessa di svolgere un'attività anche lecita, anche sporadica, per il raggiungimento degli scopi di Cosa Nostra".
Traduzione in italiano: E' provato che abbia fatto un patto elettorale con la mafia, è provato che ha incontrato i capi mafia, è provato che gli abbia chiesto i voti, è provato che quelli l'hanno votato... ma poi Mannino li ha fregati.
Cioè Mannino ha truffato la mafia e non ha dato in cambio quello che loro si aspettavano, o almeno non è provato che lui abbia dato qualcosa in cambio.
In appello, nel primo appello, il procuratore generale Teresi, invece, aveva dimostrato che cosa aveva dato in cambio Mannino, e aveva portato una sentenza fantastica, che è quella sul tavolino degli appalti in Sicilia.
Voi sapete che nelle zone "normali" la corruzione riguarda l'imprenditore che paga e il politico che prende.
In Sicilia e nelle zone di criminalità organizzata il tavolino ha tre gambe: c'è l'imprenditore che paga e dall'altra parte ci sono il politico e il mafioso che prendono.
Nella sentenza su questo tavolino a tre gambe, quello gestito da Salamone, il fratello del magistrato di Brescia. Filippo Salamone l'imprenditore agrigentino che gestiva il tavolino insieme ai mafiosi e ai politici.
C'è scritto che negli anni Ottanta, quando Mannino era segretario regionale, poi diventò ministro della DC, funzionava perfettamente il triangolo con i politici che prendevano i voti dai mafiosi, gli imprenditori che pagavano i mafiosi e i politici in cambio di appalti e i mafiosi che ricevevano appalti in cambio dei voti ai politici e della protezione agli imprenditori.
Sapete com'è andato quel processo? C'erano tre nomi di politici che facevano parte di questo patto, del tavolino: uno si chiamava Sciangula, uno Nicolosi ed era il presidente della Regione, democristiano, e l'altro si chiamava Mannino.
Sono nominati tutti e tre nella sentenza. Quale? Quella che condanna per il tavolino degli affari politico-mafiosi-imprenditoriali gli imprenditori e i mafiosi.
I mafiosi sono stati condannati, gli imprenditori sono stati condannati.
E i politici? Sono stati assolti. Voi capite la differenza che c'è fra un errore giudiziario e una diversa valutazione degli elementi.
Evidentemente quello che fanno i politici è meno grave di quello che fanno i mafiosi e gli imprenditori insieme ai politici.
Qualcuno potrebbe persino pensare che l'errore giudiziario non è soltanto quando viene condannato un innocente ma anche quando viene assolto un colpevole. Giusto?
In linea generale è così: l'errore giudiziario è quando il colpevole la fa franca o l'innocente viene condannato al posto del colpevole.
Ecco, spero che sia chiaro che cosa ho voluto dire: non è tanto importante, agli occhi del cittadino, se un politico ha commesso un reato oppure no, perché anche se si ritiene che non l'abbia commesso, che non ci sia la prova sufficiente che l'abbia commesso, importa se ci sono dei fatti che lo riguardano.
E voi vedrete che se leggerete la sentenza, la pubblicheremo appena ci sarà, le altre le abbiamo messe nel libro "Intoccabili" che abbiamo scritto Saverio Lodato ed io, vi renderete conto che di fatti ce ne sono a carico di Mannino.
Penalmente rilevanti? Non lo so, non spetta a me deciderlo.
Politicamente gravi? Quello si spetta a noi deciderlo!
Andare ai matrimoni dei mafiosi e poi dire "ero lì per la sposa" facendo finta di non conoscere lo sposo Gerlando Caruana?
Strano.
Assegnare le esattorie della provincia di Agrigento ai cugini Salvo, noti mafiosi?
Questo ha fatto Mannino.
Assumere al ministero un certo Mortillaro che era un uomo della mafia, che cosa è? Un fatto.
Andare a casa o ricevere a casa dei mafiosi per fare "patti elettorali ferrei" con la mafia, anche se poi secondo alcuni non è dimostrato il contraccambio, è un fatto grave o no?
E' un fatto grave.
E avanti di questo passo. Far parte del tavolino, ed essere garantiti per i voti, con i mafiosi e gli imprenditori è grave o non è grave?
Bene, di queste cose naturalmente non si è parlato e si è preferito parlare di errore giudiziario come se avessero processato Mannino al posto di qualcun altro.
Non è stato un abbaglio, non è stato un caso di omonimia o un sosia.
Volevano processare proprio Mannino e dovevano processare proprio Mannino perché questi fatti andavano esaminati.
Dopodiché, non basta non essere condannati per poter essere puliti, per poter fare politica a testa alta se si hanno sulla coscienza fatti come questi.
Naturalmente, sono cose che purtroppo non avete sentito e non avete letto, quindi cosa volete che vi dica?
Il solito nostro motto: passate parola.

venerdì 24 ottobre 2008

Il comandamento più grande… è lui!

Un comandamento a più voci
In genere si “comanda” solo ciò che altrimenti non si farebbe. Per esempio, non c’è una legge che ordina di respirare… Eppure, amare è importante, alla fine, come respirare. Solo che, nonostante sia il desiderio e il compito più grande dell’uomo, l’uomo, non lo sa fare di suo. Deve impararlo e ci impiega una vita, e se non gli riesce, spreca la vita! Ma, allora, delle innumerevoli prescrizioni, norme, leggi, comandamenti da osservare (613 secondo i farisei, tra grandi e piccoli), qual è il più “grande”? Gesù non ha dubbi e risponde legando indissolubilmente tra loro i due comandamenti più “grandi”, già contenuti nella Bibbia ( Dt 6,5 e Lv 19,18), frutto maturo e punto d’arrivo del lungo cammino di Israele. Li riporta alla loro intima dinamica, come proposta di unificazione della vita dell’uomo, partendo dal primo. Non solo meta della sua vita, ma sorgente e compiutezza, e il senso di tutta la sua umanità: dei suoi affetti e sentimenti, del suo capire e pensare, delle sue azioni e della sua gioia. “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te… Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica. … io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui, poiché è lui la tua vita e la tua longevità” (Dt 30,11ss).
Il secondo comandamento è simile al primo, secondo Gesù, perché in questo l’uomo rispecchia e avvera la sua somiglianza con Dio, che l’ha creato ed amato per primo, rinnovando, con “il più vicino”, altro da lui, ciò che Dio “fa” con lui! Dio si ama (si impara ad amare) con la totalità del proprio essere, che entra tutta in movimento: cuore, anima, mente… La misura è dunque un’irraggiungibile totalità, perché Dio è senza misura! Ma anche l’uomo, che in questo gli somiglia, ha un desiderio di amore smisurato, e in questo si perde e annega e sembra uscire da sé, ma se ha il coraggio e la grazia di tuffarsi, ritrova se stesso, come raccontano i mistici e… come succede ai piccoli, che sono mistici senza saperlo!
… come te stesso! …il motore della propria irrepetibile originalità!
Nel secondo comandamento, dunque, la misura è diversa: ama il prossimo tuo come te stesso! Viene introdotto un terzo comandamento, che sembra rimanere in ombra, come fosse scontato. La nuova misura del tuo comportamento è tutto ciò che c’è dentro di te, come desiderio di bene, quello che tu vorresti come espansione del tuo benessere e fioritura della tua personalità. Tutto questo, che è spontaneo dentro di te, deve diventare la norma del tuo comportamento con il prossimo, dunque con chiunque a cui tu sei, o ti fai, vicino. L’insegnamento del nuovo Testamento è chiaro e insistente: “Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso” (Gal 5,14). “Non abbiate nessun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. Infatti…- qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso". (Rom 13,8ss). Infatti è questo “il più importante dei comandamenti secondo la Scrittura: amerai il prossimo tuo come te stesso” ( Gc 2,8)- Dunque, non si tratta soltanto di una norma in più, cioè un prezioso criterio globale del tuo sguardo e del tuo comportamento nei confronti dell’altro, per custodirlo e accudirlo secondo la misura e la qualità che tu desideri per te stesso. Ma fornisce un principio interiore dinamico, come una forza propulsiva che c’è già dentro di te, e deve orientarsi verso il fratello e la sorella (l’altro più vicino), senza più alcun limite o misura, se non il crescere di te stesso. Man mano, dunque, che tu prendi coscienza di te, patisci le tue esigenze e le tue tristezze, capisci l’attenzione e la tenerezza di cui avresti bisogno, man mano che si dilata il tuo cuore e ti si acuisce la sensibilità e la solitudine… cresce sempre più la capacità di fare bene a tuo fratello, di volere per lui ciò che senti premere sempre più dentro di te, in una dinamica senza arresto. Sempre più forte!... perché tocca la sorgente più intima della vita, dove lo spirito geme la voglia di amore che ci morde per tutta la vita e da cui siamo nati,. Che è l’inventività incoercibile dell’amore. Questo mio desiderio inventivo di bene per me è da assumere come spinta interiore dinamica, sfruttandone la creatività, sempre pronta a intuire e inventare nuove situazioni e impensati spazi di bene e di bello per me, e riversarla sull’altro! Non si tratta di donare o insegnare una cosa o un'altra… ma di investire la propria creatività inventiva, così inesauribile per noi stessi, in questa dedizione senza fine, che proprio perché esalta le potenzialità dell’amore, come voglia efficace di bene, è “il pieno compimento della legge”.

… ma non ne siamo capaci!
… a inoltrarsi un poco su questa strada, si fa in fretta a sperimentare che … l’amore proposto da Gesù, è umanamente impossibile, come fa rilevare lo stesso vangelo, nelle diverse frontiere dell’esistenza. Seguire Gesù a questo modo, nella disponibilità radicale dei beni di questo mondo (vendili e dalli ai poveri!...); nell’indissolubilità della promessa coniugale (ciò che Dio ha congiunto l’uomo non separi, se vuole uscire dalla durezza del cuore!); nella dedizione esaustiva fino al dono totale (il figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita a liberazione di tutti…); nell’irreversibilità della sequela di lui (chi pone mano all’aratro e poi si volta indietro, non è degno di me…); nella precarietà di ogni umano riparo (il figlio dell’uomo non ha ove posare il capo…) … non siamo proprio capaci! Ed è giusto e comprensibile che cerchiamo di difendere questa “inattitudine” radicale con leggi e istituzioni, preghiere e devozioni, riti e paramenti… per renderla vivibile, quanto possibile… purché tutto ciò non diventi poi, come per i farisei, il discrimine per ritenersi giusti e giudicare gli altri… L’amore – il comandamento che è lo statuto costitutivo e costruttivo dell’uomo è sempre proporzionale alla libertà raggiunta, non alle pratiche espletate. Per questo si distingue per la benevolenza degli occhi e la mitezza del cuore… La legge o l’autorità, se non sono frutto dell’amore, sono invece inversamente proporzionali alla libertà, e contraddistinguono i loro cultori per l’atteggiamento giudicante e discriminate e quindi per l’aggressività verso… chi non li segue.
Questo discorso è duro…
ma bisogna riportarlo alla sua radicalità evangelica, perché il sale rimanga salato e non si appanni la luce del vangelo, senza la quale tutto si confonde nel grigio scuro dell’incertezza pendolare tra le due tentazione del cristiano di oggi (più che mai!): tornare indietro nelle sicurezze confortanti della legge e delle norme, delle prescrizioni e dei rituali, senza più ricordarsi che è per la durezza del nostro cuore che ne abbiamo bisogno, e che, da sole, non ci convertono, ma piuttosto giustificano le nostre discriminazioni., Ci esimono dal primato dell’amore, per insegnarci quando amare e quando no… quando l’altro è prossimo e quando no… e quando potremo chiudere la porta di casa, senza colpa (Gc 2,15)! Rifugiandosi in un’interiorità idolatrica, perché lì non si sente più il grido di quelli di fuori: del povero, dell’orfano e della vedova… o dello straniero, “che invocano il mio aiuto” – dice il Signore. Non si deve però neanche cadere, per disperazione, nell’altra tentazione: di sbattere la porta tentando di costruirsi, da soli, strade e case proprie, allontanandosi dall’ambiguità delle istituzioni, ma di fatto anche dai fratelli che pensano diverso. (Ancora una volta, è dunque la stessa tentazione mascherata!). Se non si mantengono in cuore, sotto lucida custodia, queste due eterne tentazioni, ci si abbandona alla logica cieca e tendenzialmente omicida del meccanismo immunitario, che elimina l’altro come un ostacolo alla propria salvezza.
Il comandamento più grande … è lui!
I due comandamenti vanno invece in senso contrario. Perciò nella prassi cristiana, sono invertiti o rimane solo il secondo. Ne è prova incontrovertibile la croce di Cristo, icona scandalosa della nuova gerarchia dei comandamenti: l’essenziale è non tradire mai l’amore, che nella storia non ha il volto di dio ma del fratello. Abita nei cocci di un’umanità infranta… vigliacchi, traditori, invidiosi, crudeli, come le folle, i discepoli, i capi… ognuno di noi! Alla fine rimane Gesù solo, ma lui sa che non siamo capaci di amare… anche se ne avremmo tanta voglia! Così inventa un nuovo criterio che va la di là della misura del secondo comandamento… Ad amare il prossimo “come sé stesso” è rimasto solo lui, inchiodato nudo tra due delinquenti! Adesso non ha più niente: ci regala il suo futuro, il paradiso – e il perdono del Padre! E in più, quando tutto è consumato, perché non avessimo ormai più fughe possibili, una nuova ultima correzione: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Gv 15,12).

Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i suoi amici (Gv 15,13)

Il Vangelo che la liturgia ci propone per questa trentesima domenica del tempo ordinario, propone nuovamente il tentativo di uno dei gruppi religiosamente più intransigenti di Israele, di mettere alla prova Gesù: dopo i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo che nel Tempio avevano messo in discussione la sua autorità (Mt 21, 23 ss) e dopo i sadducei che lo avevano interrogato sulla risurrezione dei morti a cui non credevano, ecco ritornare alla carica i farisei, già messi a tacere in occasione della discussione sul tributo a Cesare (Mt 22,15 ss), e che ora ripropongono capziosamente una nuova domanda: «Qual è il grande comandamento?».
La domanda non è neutrale, anzi, il Vangelo stesso sottolinea come essa sia stata fatta «per metterlo alla prova», eppure contiene anche uno sfondo di curiosità sincero: è come se questo dottore della Legge, trasgredendo del tutto la dinamica del Regno, invece di interrogare Gesù perché ha visto in lui qualcosa di promettente, lo interrogasse proprio per vedere se c’è almeno qualcosa di sensato in quest’uomo così strano...
È lo stesso meccanismo malato che già l’Antico Testamento metteva in luce, parlando di Israele nel deserto: l’uomo nella prova, non si fida di nessuno, tanto meno di Dio, e reagisce alla situazione mettendo tutto in discussione, mettendo alla prova ciò che lo circonda, Dio per primo. La prospettiva del Regno invece è contraria: è il dar credito a una promessa iscritta nella vita (presente o passata), per cui val la pena spendersi, comunque.
Ma tornando al Vangelo... Questo dottore della Legge dunque vuol sì mettere alla prova Gesù, ma non tanto o non solo per metterlo in difficoltà («per coglierlo in fallo», Mt 22,15), quanto forse più per vedere se ha veramente qualcosa di interessante da dire. Gli propone perciò una questione “alla moda” nelle scuole teologiche del tempo, cioè quale fosse il comandamento da porre in testa all’elenco.
Gesù, da buon ebreo, risponde citando due testi dell’Antico Testamento:
- Lo šema` Yisrä´ël di Dt 6,4-5, «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l' anima, con tutta la forza», che è uno dei testi fondamentali della spiritualità ebraica;
- e Lv 19,18: «Non vendicarti e non serbare rancore verso i figli del tuo popolo, ma ama il prossimo tuo come te stesso».
Conclude poi la sua risposta con un’espressione dalla portata straordinaria: «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».
Quest’ultima affermazione infatti non è una semplice aggiunta incolore o addirittura tralasciabile: essa piuttosto dà il tono anche a quanto precede, chiarendo soprattutto e indiscutibilmente che, pur citando testi antichi, Gesù vuol dire qualcosa di nuovo e originale.
Dire infatti «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti», vuol dire cambiare, nella risposta, il senso della domanda che gli è stata posta. Lo scriba infatti gli chiedeva quale fosse il comandamento da mettere in cima alla lista dei vari precetti ebraici, ma la prospettiva di Gesù è un’altra: egli pone l’amore (per Dio e per il prossimo) fuori dalla lista degli obblighi e dei doveri dell’uomo religioso. Per Gesù siamo su un altro piano. L’amore infatti non può essere comandato; per definizione non può essere imposto! Esso è dunque di altra natura: non fa parte della lista; piuttosto le dà senso.
Detto altrimenti: con queste parole Gesù prende le distanze dal legalismo, da quella forma deviata della pratica religiosa che vincola la bontà o meno di una persona (e dunque della sua vita e dunque del suo destino post mortem) all’adempimento di precetti e all’assolvimento di regole, senza che l’interiorità si trasformi da cuore di pietra in cuore di carne («Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all’esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità», Mt 23,27-28).
È il pericolo più grande di qualsiasi forma religiosa (anche del cristianesimo), di qualsiasi tentativo cioè di regolare il rapporto uomo-Dio secondo parametri universalizzanti. Non che questo non vada fatto, in una certa misura è inevitabile (dovremo pur darci qualche regola: foss’anche solo il mettersi d’accordo per l’orario in cui trovarci per celebrare la messa), ma è un procedimento che va continuamente sottoposto a verifica critica: Gesù infatti è stato chiarissimo nel mostrare come questo sia il pericolo più grande per allontanare gli uomini da Dio. Fargli credere che il loro rapporto con Lui si possa liofilizzare in forme stereotipate, in itinerari spirituali, in precetti morali... Gesù invece ribadisce sempre come questo annichilimento della singolarità di ciascuno sia l’ostacolo più grande per un rapporto autentico col Signore. È ciascuno che il Signore vuole incontrare, per quello che è e là dove è: non quando tutti avranno finito il catechismo, si saranno confessati e saranno in stato di grazia! Tant’è che sono sue le parole «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31), quasi che questi ultimi, privi di qualsiasi impalcatura legalistica (anzi, reietti dai ben pensanti) gli appaiano meno difesi di fronte al venire di Dio, meno “impalcaturati” e dunque più aperti.
Quanto è attuale anche nella nostra vecchia e stanca chiesa cattolica italiana questa presa di distanza di Gesù dal legalismo formale... Lo stesso che denuncia anche il cantautore Jovanotti, quando codice: «c'è qualcuno che va alla messa e si fa anche la comunione e poi se vede un marocchino per strada vorrebbe dargliele con un bastone».
Ma c’è un secondo aspetto di novità che Gesù mette in campo, pur rispondendo semplicemente citando testi dell’Antico Testamento: a ben guardare infatti, mentre il Levitico (al capitolo 19) identifica il prossimo con «i figli del tuo popolo», Gesù, nel Vangelo, pronuncia solo la seconda parte del versetto 18, «Amerai il tuo prossimo come te stesso». Universalizza cioè il concetto di prossimo! Prossimo non è solo il correligionario, quello della nostra razza o quello del nostro partito; non è solo il nostro connazionale, o il nostro familiare o amico; non è neppure quello che semplicemente la pensa come noi o a cui vogliamo bene... prossimo è chiunque per Gesù... non nel senso scialbo e inverosimile del cattolicissimo “amare tutti”, che troppo spesso equivale ad amare nessuno; ma in quello di Lc 10,29-37, dove a un dottore della Legge che gli chiedeva «Chi è il mio prossimo?», Gesù, dopo avergli raccontato la parabola del buon samaritano, chiede, ribaltando il problema: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è incappato nei briganti?».
Mio prossimo allora è chiunque perché io sono chiamato a farmi prossimo di tutti!
E anche questo quanto è attuale nella cattolicissima Italia, che da qualche mese si è svegliata razzista?
Ma ancora non è tutto... C’è un ultima novità che Gesù mette in campo nella sua risposta sul grande comandamento: il fatto che tenga insieme come in un’incandescente polarità indivisibile l’amore per Dio e l’amore per il prossimo.
Egli prende cioè le distanze tanto da un sempre serpeggiante spiritualismo gnostico, quanto da un altrettanto alienante pragmatismo efficentista.
Cosa vuol dire tutto ciò? Che se per Dio ci si dimentica l’uomo (spiritualismo gnostico), si svaluta la carne, si disprezza il mondo e ci si estranea dalla storia, beh, quel dio, non è il Dio di Gesù. È lui infatti che ammonisce in Mt 7,21, che «Non chiunque mi dice: "Signore, Signore", entrerà nel regno dei cieli»; ed è uno dei suoi a ribadire ancora più radicalmente che «Se uno dice: “Io amo Dio” e poi odia il proprio fratello, è mentitore: chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede».
Ma è vero anche il contrario: chi si dimentica di Dio per l’uomo (pragmatismo efficentista), chi crede che sia sufficiente riempire le pance per fare di un uomo un Uomo o chi pensa che è con lo sforzo volontaristico che si costruiscono le coscienze, beh, ha in mente un uomo, che non è l’Uomo Gesù... Non è l’efficienza a misurare la qualità di una vita: Gesù non ha guarito tutti gli storpi del suo tempo, non ha risuscitato tutti i morti, non si è fatto accarezzare da tutte le donne. Mc 1,34-38 in questo senso è chiarissimo: «Egli guarì molti malati di varie malattie e scacciò molti demòni, ma non permetteva che i demòni parlassero, perché lo conoscevano bene. La mattina dopo, molto presto, alzatosi uscì e si ritirò in un luogo solitario, ove rimase a pregare. Allora Simone con i suoi compagni si mise a cercarlo; e, avendolo trovato, gli dicono: “Tutti ti cercano!”. Dice loro: “Andiamo altrove, nei villaggi vicini, per predicare anche là. Per questo, infatti, sono uscito”». Sta altrove dunque la “misura” dell’Uomo.
Forse proprio nel senso di questo tenere insieme questi due poli dell’amore umano: quello a Dio e quello all’uomo.
Ma cosa vuol dire tenerli uniti?!? Pensare un po’ a Dio e fare ogni tanto l’elemosina che mette apposto la coscienza?
No di certo!
Forse si tratta semplicemente di ricordarsi una verità elementare: che il cuore dell’uomo non è fatto a cassetti; non è che in uno scompartimento c’ho la scorta dell’amore di Dio e nell’altro quello al prossimo. Il cuore amante dell’uomo è uno, lì rifluisce tutta la sua capacità di amare, la sua passione, la sua incondizionatezza, la sua tenerezza; ma anche la sua vigliaccheria, il suo risparmiarsi, il suo tradire... sia Dio che l’uomo!
Ma proprio questa unità del cuore è la possibilità per l’uomo di dire la sua identità: dimmi come ami e ti dirò chi sei...
Lì infatti è iscritta la “misura” dell’uomo. Un uomo è un Uomo quando ama. E amare, com’è ovvio, non è un generico senso di benevolenza o di attrazione, ma è «dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13), siano essi uomini o persone divine.

giovedì 23 ottobre 2008

I due volti di Madame le professeur

Marguerite Aron
La storia dell’educazione delle donne nei secoli è sempre stata soggetta a discriminazioni e barriere, sconcerta però constatare come anche in tempi recenti - mi riferisco alla fine dell’Ottocento e agli inizi del Novecento - nella pur progressista e illuminata Francia ancora resistenze e pregiudizi fossero ben vivi e tenaci.
La ben conosciuta e rinomata scuola di Sèvres che avrebbe diplomato quelle giovani donne dette poi sévriennes, cioè la prima generazione di insegnanti nella scuola secondaria francese, era stata aperta solo nel 1881. In Senato, durante la discussione sull’opportunità di aprire una scuola Normale Superiore per le ragazze, un senatore conservatore ebbe a dire dinnanzi a un’idea così innovativa: «Un seminario laico per ragazze che vorrebbero essere delle signore professoresse, non sono abituato a questo tipo di mostri!».
Le giovani invece si sentivano pioniere del futuro, educate per creare l’anima della nuova donna, oltre che ad afferrare la grandezza e la bellezza del ruolo dell’educatrice. La lotta di queste coraggiose giovani per farsi accettare dalla società fu di non poco conto, pregiudizi e tabù gravavano ancora sulla donna che si sarebbe dedicata all’insegnamento superiore. La novità procurò notevoli commenti e disagi a queste «donne nuove» della Terza Repubblica: una barriera fu frantumata da queste giovani che passarono dal livello generico di istitutrici a quello socialmente riconosciuto di insegnanti a livello superiore. Inoltre, gli schemi e i parametri maschili non dovevano diventare impositivi e determinanti si apriva allora un tracciato inedito, tutto femminile.
La targa che ricorda tutte le Sévriennes morte per la Francia, non porta un nome, quello di Marguerite Aron che morì vittima della furia distruttrice del nazismo. Nata in una famiglia ebraica a Parigi nel 1873 nel ix arrondissement, nei pressi della stazione Saint-Lazare, Marguerite al compiere dei sette anni ricevette in dono dal nonno Aronhauser il libro delle preghiere degli ebrei d’Alsazia. Margherite, culturalmente, venne allevata sulle «ginocchia dell’università» e assorbì idee scettiche e indifferenti verso il cattolicesimo.
Un dissesto economico familiare costrinse la giovane ragazza, che si sentiva inclinata agli studi universitari, a virare invece nel 1893 verso quell’istituto di studi della Scuola Normale di Sèvres, detto Couvent laïque. La sua formazione fu quindi quella dell’insegnante, professione che intraprese una volta diplomata, dapprima in provincia, poi a Versailles e infine a Parigi. Il metodo e la personalità «del mostro» suscitarono notevoli problemi, tanto da venire invitata a non allargare troppo le idee delle allieve e a non prestare loro libri! Un problema però angustia madame le professeur ed è quello della sua vocazione nella vita: «Come vorrei avere una vocazione chiara, imperiosa, senza repliche! Eppure non ce l’ho. Appartengo a quel tipo di persone equilibrate e mediocri che riescono un poco dappertutto, senza riuscire da nessuna parte, che esitano, ponderano, che si servono di una parte della loro attività nel domandarsi che cosa vogliono fare (...) Quando ero piccola, era già il mio cruccio: sognavo d’avere una vocazione». Quando ancora frequentava la scuola di Sévres, Marguerite nelle sue sterminate letture si era imbattuta e aveva letto Pascal, mentre l’Imitazione di Cristo, per l’austero ascetismo non entrò nel suo spirito. Fu invece toccata nel profondo da un altro incontro con una persona di spicco nel suo tempo: il domenicano Héribert che aveva fondato il Circolo Veritas, nei cui interessi culturali religiosi poneva un accento ben preciso sul ruolo del popolo di Israele nella storia della salvezza. Si ignora come Marguerite ne incontrò il fondatore, però ne seguiva le attività e cominciò a percepire dentro di sé un richiamo interiore che promanava dalla sua stessa stirpe ebraica. Iniziò quindi il cammino della conversione al cristianesimo su cui ella mantenne sempre un silenzio denso di discrezione; un indizio può tuttavia gettare luce su quanto le accadde se ci si riferisce a quanto scrisse su Marie-Alphonse Ratisbonne: «Egli, d’un sol colpo, ricevette tutto, fede, luce; venne folgorato e illuminato, la sua partenza è l’arrivo degli altri». Sempre in lei rimarranno presenti «due tempi, due volti», non in conflitto ma in complementare armonia, ebraismo e cristianesimo.
Marguerite fu battezzata nel 1914 e si legò alla spiritualità e all’attività domenicana: collaborazioni a riviste quali La Vie intellectuelle e La Vie spirituelle, un vivo gusto per la ricerca e la scrittura di tanti libri di spiritualità, brillanti conferenze e l’animazione di circoli aperti ai liceali.
Fondamentale fu il suo avvicinamento all’abbazia di Solesmes dove giunse per la prima volta l’8 settembre 1930, frequentandola durante la Settimana Santa e per periodi personali di ritiro e riflessione, insieme con un fedele gruppo di amici.
La sua maturazione religiosa fu progressiva e attenta: «Giunge il momento in cui le cerimonie che incantavano annoiano, che all’ufficiatura solenne si preferisca l’orazione silenziosa. Ma se si è veramente figli della Chiesa universale si capisce poi che tutto questo non fa che un grande tutto la cui cifra è la lode, l’amore, l’obbedienza».
Un tratto della sua spiritualità fu anche il legame con Maria la Madre di Gesù; aveva scritto commentando le xilografie della Via Crucis di Raymond Dubois: «In Lui, tutti i morti della stirpe sono presenti, quelli dei secoli passati, quelli dei secoli futuri; e dopo il sacrificio di Abele, prima vittima del genere umano, mai nessun prete ha avuto o ha offerto una simile ostia (...) È così che Maria diviene la Madre di tutte le grazie, la misericordiosa dispensatrice del perdono, la tesoriera del sangue di Gesù».
Marguerite conobbe anche e strinse grande amicizia con quella che sarebbe divenuta la beata Ursula Ledochowska, la fondatrice delle Orsoline, la cui storia si deve alla sua penna.
Malgrado la persecuzione nazista che infuriava in Europa, Marguerite non volle lasciare Solesmes e nascondersi. Non solo ma osò ospitare nella sua casa un’ebrea ricercata, Elisabeth Cahen d’Anvers. Le due anziane, evidentemente denunciate, il 26 gennaio 1944 mentre uscivano dalla celebrazione della messa furono arrestate e deportate. Il 13 gennaio il convoglio giunse ad Auschwitz, quasi certamente Marguerite non superò la selezione del dottor Mengele che eliminava immediatamente i «pezzi» che contavano più di cinquant’anni, così ella condivise con il suo popolo l’odio contro il popolo di Israele e i suoi due volti trovarono, nel martirio silenzioso e sconosciuto ai più, quella pace e quell’unità cui tutti aneliamo.

di Cristiana Dobner in Osservatore Romano, 22 ottobre 2008

mercoledì 22 ottobre 2008

Grazie a te, Roberto!

GRAZIE per tutto quanto state facendo. È difficile dimostrare quanto sia importante per me quello che è successo in questi giorni. Quanto mi abbia colpito e rincuorato, commosso e sbalordito sino a lasciarmi quasi senza parole. Non avrei mai immaginato che potesse accadere niente di simile, mai mi sarei sognato una tale reazione a catena di affetto e solidarietà.
Grazie al Presidente della Repubblica, che, come già in passato, mi ha espresso una vicinanza in cui non ho sentito solo l'appoggio della più alta carica di questo paese, ma la sincera partecipazione di un uomo che viene dalla mia terra.
Grazie al presidente del Consiglio e a quei ministri che hanno voluto dimostrarmi la loro solidarietà sottolineando che la mia lotta non dev'essere vista disgiunta dall'operato delle forze che rappresentano lo Stato e anche dall'impegno di tutti coloro che hanno il coraggio di non piegarsi al predominio della criminalità organizzata.
Grazie allo sforzo intensificato nel territorio del clan dei Casalesi, con la speranza che si vada avanti sino a quando i due latitanti Michele Zagaria e Antonio Iovine - i boss-manager che investono a Roma come a Parma e Milano - possano essere finalmente arrestati.
Grazie all'opposizione e ai ministri ombra che hanno appoggiato il mio impegno e quanto il governo ha fatto per la mia sicurezza. Scorgendo nella mia lotta una lotta al di là di ogni parte.
Le letture delle mie parole che sono state fatte in questi giorni nelle piazze mi hanno fatto un piacere immenso. Come avrei voluto essere lì, in ogni piazza, ad ascoltare. A vedere ogni viso. A ringraziare ogni persona, a dirgli quanto era importante per me il suo gesto. Perché ora quelle parole non sono più le mie parole. Hanno smesso di avere un autore, sono divenute la voce di tutti. Un grande, infinito coro che risuona da ogni parte d'Italia. Un libro che ha smesso di essere fatto di carta e di simboli stampati nero su bianco ed è divenuto voce e carne.
Grazie a chi ha sentito che il mio dolore era il suo dolore e ha provato a immaginare i morsi della solitudine.
Grazie a tutti coloro che hanno ricordato le persone che vivono nella mia stessa condizione rendendole così un po' meno sole, un po' meno invisibili e dimenticate.
Grazie a tutti coloro che mi hanno difeso dalle accuse di aver offeso e diffamato la mia terra e a tutti coloro che mi hanno offerto una casa non facendomi sentire come uno che si è messo nei guai da solo e ora è giusto che si arrangi.
Grazie a chi mi ha difeso dall'accusa di essere un fenomeno mediatico, mostrando che i media possono essere utilizzati come strumento per mutare la consapevolezza delle persone e non solo per intrattenere telespettatori.
Grazie alle trasmissioni televisive che hanno dato spazio alla mia vicenda, che hanno fatto luce su quel che accade, grazie ai telegiornali che hanno seguito momento per momento mutando spesso la scaletta solita dando attenzione a storie prima ignorate.
Grazie alle radio che hanno aperto i loro microfoni a dibattiti e commenti, grazie specialmente a Fahrenheit (Radio 3) che ha organizzato una maratona di letture di Gomorra in cui si sono alternati personaggi della cultura, dell'informazione, dello spettacolo e della società civile. Voci che si suturano ad altre voci.
Grazie a chi, in questi giorni, dai quotidiani, alle agenzie stampa, alle testate online, ai blog, ha diffuso notizie e dato spazio a riflessioni e approfondimenti. Da questo Sud spesso dimenticato si può vedere meglio che altrove quanto i media possano avere talora un ruolo davvero determinante.
Grazie per aver permesso, nonostante il solito cinismo degli scettici, che si formasse una nuova sensibilità verso tematiche per troppo tempo relegate ai margini. Perché raccontare significa resistere e resistere significa preparare le condizioni per un cambiamento.
Grazie ai social network Facebook e Myspace, da cui ho ricevuto migliaia di messaggi e gesti di vicinanza, che hanno creato una comunity dove la virtualità era il preludio più immediato per le iniziative poi organizzate in piazza da persone in carne e ossa.
Grazie ai professori delle scuole che hanno parlato con i ragazzi, grazie a tutti coloro che hanno fatto leggere e commentare brani del mio libro in classe.
Grazie alle scuole che hanno sentito queste storie le loro storie.
Grazie a tutte le città che mi hanno offerto la cittadinanza onoraria, a queste chiedo di avere altrettanta attenzione a chi concedono gli appalti e a non considerare estranei i loro imprenditori e i loro affari dagli intrecci della criminalità organizzata.
E grazie al mio quotidiano e ai premi Nobel e ai colleghi scrittori di tante nazionalità che hanno scritto e firmato un appello in mio appoggio, scorgendo nella vicenda che mi ha riguardato qualcosa che travalica le problematiche di questo paese e facendomi sentire a pieno titolo un cittadino del mondo. Eppure Cesare Pavese scrive che "un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti". Io spesso in questi anni ho pensato che la cosa più dura era che nessuno fosse lì ad aspettarmi.
Ora so, grazie alle firme di migliaia di cittadini, che non è più così, che qualcosa di mio è diventato qualcosa di nostro. E che paese non è più - dopo questa esperienza - un'entità geografica, ma che il mio paese è quell'insieme di donne e uomini che hanno deciso di resistere, di mutare e di partecipare, ciascuno facendo bene le cose che sa fare. Grazie.

sabato 18 ottobre 2008

La bellezza dei semplici


Verranno beatificati domani, 19 ottobre, a Lisieux i genitori di santa Teresa

Domenica 19 ottobre, verranno beatificati, nella basilica di Lisieux (Francia), Luigi Martin (1823-1894) e Zelia Guérin (1831-1877), genitori di santa Teresa del Bambino Gesù, dottore della Chiesa, patrona delle missioni e della Francia (insieme a santa Giovanna d'Arco). Il rito sarà presieduto dal vescovo di Bayeux et Lisieux, mons. Pierre Pican, mentre la formula di beatificazione sarà pronunciata dal card. José Saraiva Martins, prefetto emerito della Congregazione delle cause dei santi.
Luigi e Zelia avevano entrambi pensato alla vita religiosa, prima di incontrarsi e di sposarsi il 12 luglio 1858. Cristiani ferventi, ebbero nove figli, di cui quattro morirono nei primi mesi o anni di vita. Nel 1865, Zelia fu colpita da un cancro, ma non per questo rinunciò a nuove maternità; all'età di 41 anni diede alla luce l'ultimogenita, Teresa, che aveva poco più di quattro anni quando la madre morì. Luigi seguì la crescita umana e spirituale delle figlie e diede il suo consenso alla loro vocazione religiosa. Nel 1888, iniziò per lui la prova di una malattia, durata fino alla morte. La quotidianità più semplice e, se si vuole banale, è quella domestica, della propria casa, della propria famiglia: padre, madre e prole. Un ritmo che batte intenso lo scorrere del tempo e delle giornate. L'esperienza della vita, dell'esistenza che inizia e che si conclude, donando a ciascuno un volto, un'educazione, un sentire specifico per cui si può dire "noi".
"Noi" Martin appunto. Luigi e Zelia e una schiera di bimbi, purtroppo con sole cinque figlie sopravvissute all'alta mortalità infantile di allora. Borghesi lavoratori: orologiaio e gioielliere lui, imprenditrice lei. Orari precisi, commerci da sviluppare. Zelia, donna dalle mani d'oro, aveva appreso un famoso punto detto Alençon, un traforo di pizzo straordinario. Non si accontentava però di produrlo, era capace di farlo produrre da una serie di operaie a domicilio. Per sé riservava la parte più ardua: unire i diversi pezzi senza che le cuciture risaltassero all'occhio. Lavoro massacrante e "detestato" perché sottraeva energie, ricercato però perché educare e accasare ben cinque figlie non era impresa da poco, neppure nella seconda metà dell'Ottocento.
Luigi, pur lui uomo dalle mani d'oro, prosperava con il suo negozio, coltivava l'hobby della pesca e dei viaggi. La richiesta però del pizzo l'indusse a diventarne l'incaricato delle vendite (così viaggiava ancora!!) e il conto in banca dei Martin si ingrossava notevolmente. Una bella casa, una domestica, qualche vacanza al mare, gli "status symbols" della vita borghese si notavano tutti. Eppure, in questo contesto, così ovvio e scontato, vibrava ben altro: il centro della vita dei genitori era il loro amore radicato nell'Amore di Dio. Non era il succedaneo della domenica o delle feste, quel tocco natalizio e pasquale che, via, allora non poteva mancare nella Francia cattolica. Era atmosfera, aria che si respirava a pieni polmoni. Senza costrizione, senza rigore, con piena e sovrana libertà: Luigi rideva e giocava con le sue bimbe, Zelia a fatica si separava da lui durante le vacanze al mare. In casa risuonava il canto della bella voce di Luigi, il chiacchiericcio delle piccole, i loro bisticci infantili presto corretti e riportati alla pace. I rapporti umani, solidi e veri, erano il terreno più fecondo perché l'amicizia di Dio pervadesse tutto. Niente di strano che da questo piccolo ambiente scaturisse la grande santa Teresa di Gesù Bambino.
Un quotidiano portato a santità, un quotidiano vissuto nella relazione con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, senza forzature ma con piena riconoscenza e adesione.
Spesso i genitori chiedono: come fare a trasmettere la fede ai figli? Talvolta, diventa un interrogativo dilaniante che si scontra con il muro del rifiuto opposto proprio da chi nella vita è più caro perché gli si è data la vita stessa. Luigi e Zelia forse non se lo sono mai chiesto, semplicemente hanno vissuto la loro testimonianza. Teresa scrive di non aver mai avuto bisogno di imparare a pregare, le era sufficiente guardare il volto di suo padre orante per capire come pregavano i santi. E non si sbagliò, neppure in questo! Santi entrambi i genitori, santi nel vincolo del matrimonio, del loro reciproco affetto.
Una società, per molti aspetti, sdolcinata e legata a forti condizionamenti borghesi, illuminata dalla luce del Vangelo, avrebbe prodotto il frutto della semplicità più rara: una coppia di amanti, di genitori attenti, di cristiani volti al servizio di chiunque avesse bisogno. Prestare ingenti somme, intaccando il capitale in banca per soccorrere qualche persona caduta nell'indigenza, non è una decisione facile, neppure per un single, figurarsi per una famiglia con cinque figlie! Alzarsi in tempo per la prima messa delle 5 e 30, malgrado il cancro divorante che per ben 12 anni annientò il fisico di Zelia, senza per questo sottrarsi a nessuno compito lavorativo ed educativo, non è "normale". Prestarsi nelle mansioni più umili (in concreto: svuotare i pitali della famiglia!) era per Luigi compito onorevole, quanto l'Adorazione notturna e un bel viaggio/pellegrinaggio. Temperamento coraggioso e irascibile il suo, eppure reso mite dalla grazia: lo si vedeva arrossire ma non trascendere. Quanto gli costò separarsi da Zelia e rimanere solo con cinque giovani figlie, lo dissero le lacrime copiose; decise anche, generosamente, di lasciare Alençon, dove aveva cari amici ed era stimato, per avvicinare le figlie alla cognata a Lisieux.
Luigi e Zelia: il volto feriale, borghese, di una coppia trasfigurata dall'Amore e divenuta festa di santi.

C. Dobner in Sir, 15 ottobre 2008

venerdì 17 ottobre 2008

Il lungo travagliato cammino della …laicità


La semplicissima e imprevista risposta di Gesù alla trappola insidiosa dei Farisei, nel contesto della sua testimonianza globale, ha seminato un fermento poderoso nella storia dell’umanità, che forse ancora non ha dato i suoi frutti migliori… Ci sono voluti secoli di sofferenze e ribellioni, di avanzamenti e di regressi, di equivoci e di interferenze spurie, ma anche di profeti incompresi, per arrivare ad accorgersi della potenza esplosiva e sorprendente nascosta nel Vangelo, anche a proposito dei difficili rapporti tra ambito religioso e ambito politico. Il cammino percorso (e quanto ancora a noi tocca inventare…) è espresso con lucida consapevolezza in recenti e importanti dichiarazioni di Benedetto XVI.

“… sul problema delle relazioni tra sfera politica e sfera religiosa Cristo aveva già offerto il criterio di fondo in base al quale trovare una giusta soluzione. Lo fece quando, rispondendo ad una domanda che gli era stata posta, affermò: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” (Mc 12,17). … Lei ha del resto utilizzato, Signor Presidente, la bella espressione di “laicità positiva” per qualificare questa comprensione più aperta. In questo momento storico in cui le culture si incrociano tra loro sempre di più, sono profondamente convinto che una nuova riflessione sul vero significato e sull’importanza della LAICITÀ è divenuta necessaria. E’ fondamentale infatti, da una parte, insistere sulla distinzione tra l’ambito politico e quello religioso al fine di tutelare sia la libertà religiosa dei cittadini che la responsabilità dello Stato verso di essi e, dall’altra parte, prendere una più chiara coscienza della funzione insostituibile della religione per la formazione delle coscienze e del contributo che essa può apportare, insieme ad altre istanze, alla creazione di un consenso etico di fondo nella società”. (Benedetto XVI, Alle autorità dello Stato…, Parigi, venerdì 12 settembre 2008)


… Alla struttura fondamentale del cristianesimo appartiene la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio (cfr Mt 22, 21), cioè la distinzione tra Stato e Chiesa o, come dice il Concilio Vaticano II, l'autonomia delle realtà temporali. Lo Stato non può imporre la religione, ma deve garantire la sua libertà e la pace tra gli aderenti alle diverse religioni; la Chiesa come espressione sociale della fede cristiana, da parte sua, ha la sua indipendenza e vive sulla base della fede la sua forma comunitaria, che lo Stato deve rispettare. Le due sfere sono distinte, ma sempre in relazione reciproca… Senz'altro, la fede ha la sua specifica natura di incontro con il Dio vivente — un incontro che ci apre nuovi orizzonti molto al di là dell'ambito proprio della ragione. … È qui che si colloca la dottrina sociale cattolica: essa non vuole conferire alla Chiesa un potere sullo Stato. Neppure vuole imporre a coloro che non condividono la fede prospettive e modi di comportamento che appartengono a questa.… non è compito della Chiesa far essa stessa valere politicamente questa dottrina: essa vuole servire la formazione della coscienza nella politica… Questo significa che la costruzione di un giusto ordinamento sociale e statale, mediante il quale a ciascuno venga dato ciò che gli spetta, è un compito fondamentale che ogni generazione deve nuovamente affrontare. Trattandosi di un compito politico, questo non può essere incarico immediato della Chiesa. Ma siccome è allo stesso tempo un compito umano primario, la Chiesa ha il dovere di offrire attraverso la purificazione della ragione e attraverso la formazione etica il suo contributo specifico, affinché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili. (
Encicl. Deus caritas est, n. 28)

Ambiguità e profezia della laicità
Laicità vuol dire, semplificando un po’ una parola carica di molti significati, l’autonomia delle realtà terrene, create con una loro dinamica propria – e riscoperte (se fosse possibile)… quasi prima che l’uomo le impregni della sua investitura di senso (ideologico e affettivo) – dunque secondo la loro identità profonda creaturale. La Bibbia racconta di un lungo e travagliato cammino più simbolico che storiografico, per svestire il creato da ogni sacralizzazione che assolutizzava (divinizzandoli) gli astri, i fenomeni potenti terrestri e celesti, e soprattutto i grandi valori umani del potere, della sessualità, dell’arte… riportandoli a ciò che veramente sono (cioè laicizzandoli!). I racconti della creazione, dell’origine dell’uomo, della fede dei patriarchi, della liberazione dall’Egitto, … hanno questa funzione di riportare a Dio (mistero innominabile e ingestibile dall’uomo!) l’origine e il senso di tutto, ma proprio per questo di “sconsacrare” di ogni valenza religiosa autonoma, di ogni carica divina o magica tutto il mondo e la storia – affidati totalmente all’uomo, alla sua umile e grande responsabilità di cuore pensante del creato. Questo cammino di liberazione dell’uomo e del popolo dalle sue paure ed angosce, dall’oppressione della schiavitù mentale, morale e fisica, per portarlo alla libertà di figlio di Dio e alla capacità di assumere la responsabilità della propria salvezza, viene poi polarizzato dalla “promessa” del Messia - o, nell’espressione di Gesù, dall’arrivo del Regno di Dio. Il messaggio biblico attraversa tutti gli spessori della creazione e sconvolge le concezioni con le quali nei diversi tempi e culture l’uomo si è autoplasmato e trova il suo approdo (escatologico ma proprio perché terrestre e storico) nella evoluzione della creazione stessa: “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto…” (Rom 8,19ss).
La vocazione messianica: l’uomo re – sacerdote – profeta!
Gesù è l’erede consapevole e il compimento ormai maturo di questo cammino. Chi si aspettava un riformatore religioso è rimasto deluso. L’atteggiamento suo non è propriamente l’orientamento religioso, che spinge l’uomo al di là della realtà mondana e storica, per paura dell’abisso della morte, e lo lega a riti e sacrifici e comportamenti, codificati nelle varie religioni per ottenere il favore di Dio… Gesù ha invece assunto un orientamento messianico, preoccupato degli uomini, ai quali ha rivelato un Dio Padre, sollecito soprattutto dei più poveri e disprezzati, per fare della terra e della storia il luogo della liberazione dell’uomo dalle catene dell’oppressione, morale, fisica, politica e religiosa – “adesso”, nella nostra storia , ma infine rompendo, con la sua resurrezione, l’ultima suprema barriera oppressiva, che è la morte. Quando però hanno tentato di strumentalizzarlo politicamente, Gesù si è rifiutato, perché il suo Regno, esplosivo fermento seminato in questo mondo, non è della pasta di questo mondo. Ci ha offerto invece la possibilità, proprio per questa resurrezione della carne, di ri/assumere e promuovere, per grazia, ciò che nella promessa biblica era essenziale: cioè la finalità stessa della creazione, lanciata da Dio verso il compimento di sé. Chiunque collabori alla liberazione dell’uomo oppresso, sta rispondendo ad una “vocazione” messianica, come Isaia dice di Ciro, il quale non ha fatto un gesto religioso, perché, non conosceva affatto Dio, ma divenne “l’eletto” inconsapevole del disegno di Dio. Chiunque infatti si inserisce in questo dinamismo di liberazione, anche ateo o altrimenti credente, ha in sé una qualità messianica (cioè “di Cristo”), pur non appartenendo alla religione cristiana e tantomeno alla chiesa. Si aprono così significati ed orizzonti alla “laicità”… veramente “importanti”, e, come dice il Papa “necessari”, ormai, per dialogare con l’uomo di oggi in una condizione multiculturale e plurietnica come la nostra – riscoprendo un terreno comune di collaborazione e valorizzazione dell’apporto insostituibile dell’altro nella sua diversità. Il potere di Cesare arriva dunque fin dove arriva la sua moneta e le sue istituzioni, accolte e rispettate, ma considerate anche loro integralmente “laiche”, cioè storicamente relative e provvisorie, rifiutandone qualsiasi attribuzione assoluta o in qualche modo divina, come hanno testimoniato migliaia di martiri.
La trappola odierna…
…tutto sembrerebbe semplice, almeno a livello teorico. Ma ogni educatore o genitore o uomo attento alla crescita degli altri, più piccoli soprattutto, sa quanto è difficile mediare le preoccupazioni e gli strumenti educativi (e pastorali) con la crescita della libertà di chi viene educato o guidato. Eppure il traguardo dell’educatore è di rendersi inutile, di fronte alla acquisita autonomia dell’educando. Qui sorgono i conflitti e le ambiguità (e le oppressioni). La chiesa (docente!), forte di un’ulteriore rivelazione, come un’educatrice ansiosa e impaziente, patisce talora la tentazione (al di là delle dichiarazioni solenni), di chiudere i problemi e decidere le soluzioni delle varie emergenze storiche in campo filosofico o educativo o politico, anche per i fedeli, al fine di ottenere orientamenti legislativi o amministrativi conformi alla sua visione delle situazioni. Ma formare discepoli sul principio d’autorità, se sempre è rischioso, in campo di fede contrasta con l’essenza stessa della fede, che è adesione personale della coscienza libera. Le intenzioni possono certamente essere rette, ma storicamente condizionate da limiti culturali pesanti, come la storia conferma. Si rischia così di trattare eternamente da educandi… fedeli ormai adulti e preparati. Dare a Dio quel che è di Dio, è rivolto a tutti, anche alla Chiesa, e vuol dire investire la coscienza dell’uomo della libertà di perseguire consapevolmente gli obiettivi della creazione stessa, attraverso la ricerca della ragione, il confronto umile e aperto, il dialogo con chiunque sia anch’egli in ricerca… e offrire anche la testimonianza umile della propria fede. Ma più che l’insistenza esasperata sulle soluzioni “cristiane” dei problemi di oggi, convincerà la dedizione cordiale e gratuita della propria benevolenza.

Potere politico e coscienza

In questa ventinovesima domenica del tempo ordinario il brano del vangelo di Matteo proposto dalla liturgia, pone in campo lo spinoso problema del rapporto tra potere politico e fede. Nelle pagine precedenti (che corrispondono all’incirca ai brani letti nelle domeniche passate: la cacciata dei venditori dal tempio - Mt 21,12-17; l’animata discussione di Gesù con i sommi sacerdoti e gli anziani - Mt 21,23-22-14 - con le parabole dei due figli, dei vignaioli omicidi e del banchetto nuziale), Gesù aveva portato la sua durissima critica contro la commistione tra potere politico e potere religioso.

Ora la prospettiva, pur rimanendo sempre nell’ambito della tensione con i capi religiosi ebraici, pare ricevere un leggero, ma determinante, mutamento: in gioco non è più tanto il rapporto del potere politico con la religione (intesa come organizzazione esteriore dei rapporti tra gli uomini e Dio), quanto la possibilità della fede (dell’autentico rapporto personale con Dio) alla luce del potere politico.
Sostanzialmente all’operazione di farisei e affini che vincolavano la fede personale a un impianto religioso rigido e intransigente («Gli scribi e i farisei legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito», Mt 23,4), in più intrallazzato col potere politico («Guai a voi, guide cieche, che dite: Se si giura per il tempio non vale, ma se si giura per l’oro del tempio si è obbligati», Mt 23,17), Gesù oppone una duplice separazione dei piani: nella polemica coi capi religiosi rompe l’identificazione tra fede e forma religiosa, ponendo quest’ultima come relativa alla prima (la forma religiosa serve la fede, la regola serve l’uomo, mai viceversa: «Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato», Mc 2,27); e, nel brano di oggi, separa l’intreccio tra fede personale e potere.
Ma andiamo con ordine...
Per comprendere a fondo le letture che la Chiesa ci propone e le problematiche a cui essa fa riferimento, bisogna fare una piccola digressione sulla situazione storica di Israele.
Nella prima lettura infatti si parla del re Ciro. Egli era il re del popolo persiano: non era dunque un ebreo, ma un dominatore straniero! Perché allora il brano di Isaia lo celebra come un eletto di Dio («Dice il Signore del suo eletto, di Ciro»)? Perché Ciro era stato il re che nel 538 a.C. aveva sconfitto i babilonesi (il popolo che aveva costretto Israele all’esilio nel 586 a.C.), permettendo agli ebrei di ritornare in patria e di ricostruire il tempio. È sempre stato quindi guardato dalla storiografia ebraica come uno strumento (inconscio?) nelle mani del Dio di Israele («io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo sebbene tu non mi conosca»).
Ma il motivo più plausibile per cui questa lettura è stata accostata al brano del vangelo di Matteo sul tributo a Cesare, non è tanto l’edificazione che risulterebbe nell’apprendere che Dio interviene nei giochi politici storici servendosi di strumenti umani anche inusuali – stranieri – (che è una lettura molto banalizzante i rapporti tra Dio e l’uomo), quanto piuttosto il fatto che anche nel vangelo il problema è quello di un dominatore straniero, i Romani: molto meno amati di Ciro.
Nel 63 a.C. infatti le truppe romane avevano conquistato Gerusalemme, rendendo la Palestina una provincia dell’Impero, con tutte le conseguenze socio-politico-economiche che questo comportava, e suscitando molta scontentezza. Non a caso forte era l’attesa della liberazione da parte di un Messia che avrebbe liberato dalla dominazione straniera.
Questo breve excursus forse rende più evidente come il problema che soggiace alla provocazione dei farisei e degli erodiani nei confronti di Gesù non sia semplicemente – come già detto – il rapporto tra potere politico e coscienza personale, ma piuttosto il rapporto tra potere politico straniero e la fede. Sostanzialmente dietro la domanda «È lecito o no pagare il tributo a Cesare?», non c’è semplicemente la richiesta di un’indicazione pratica (cosa è opportuno fare), ma la pretesa di una presa di posizione di Gesù rispetto alla dominazione straniera. Da che parte sta? Da quella degli zeloti, che volevano cacciare i romani attraverso una rivoluzione violenta; o da quella dei capi religiosi che si adattavano alla dominazione?
Il problema in Israele infatti (ma in generale nelle società antiche) non era quello del rapporto coscienza personale – potere politico, perché quest’ultimo spesso era un tutt’uno col potere religioso. Non a caso, agli ebrei non avrebbe fatto alcun problema se il potere politico fosse stato ebraico. Al di là della realtà storica infatti essi hanno sempre idealizzato il periodo della monarchia (cfr il re Davide) e – come detto – molti al tempo di Gesù sognavano un messia re, guerriero e liberatore politico.
Ma la dominazione straniera, odiosa soprattutto perché pagana, proponeva un problema nuovo per la storia dell’umanità; il punto infatti è se per la fede è necessariamente implicata l’autorità politica su un territorio o su un popolo.
In verità non era un problema dell’ultima ora per Israele: l’aveva già affrontato durante l’esilio, quando i profeti avevano sottolineato come il vero tempio, la vera legge, sarà quella scritta nei cuori degli uomini («porrò la mia legge in mezzo a loro e sul loro cuore la scriverò», Ger 31,33). Ed è proprio nella scia di questi uomini di Dio che anche Gesù pone la sua risposta: No – dice – per la fede personale dell’uomo, per il suo rapporto intimo col Signore non è necessario né un impianto religioso, né un dominio politico. I piani sono separati, riguardano sfere diverse dell’interiorità umana: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».
Sono tutte vere poi le obiezioni che potrebbero nascere, in particolare quella per cui non sarebbe possibile separare come con un bisturi gli ambiti che riguardano l’uomo (in questo caso il potere politico e la fede): l’uomo infatti è un tutt’uno, non è fatto a compartimenti stagni e quanto vive rifluisce sempre sulla totalità di quello che è...
È vero, ma queste sono tutte osservazioni in seconda battuta: che possono essere accolte e che anche possono (e magari devono) correggere la radicalità della separazione che Gesù pone in campo (lui stesso sperimenterà sulla sua pelle l’impossibilità di dividere rapporto con Dio e potere politico: morirà infatti per un motivazione religiosa, ma per mano romana), ma che valgono solo dopo che si è fatta salva la questione fondamentale, cioè che la struttura fondante dell’uomo è il suo sempre possibile rapporto con Dio (l’unica cosa che lo fa Uomo), in qualsiasi condizione, non certo da chi è governato.
Indipendentemente dunque da un giudizio di merito sul potere politico, quello che Gesù vuole ribadire è che niente condiziona (tanto da renderlo impossibile), il rapportarsi dell’uomo al suo Dio, neanche la dominazione straniera, neanche la perdita del tempio («viene un' ora, ed è adesso, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità», Gv 4,23), neanche la perdita della libertà (Etty Hillesum scrive da dentro un campo di concentramento: «tutto quello che ci è possibile salvare in quest'epoca, ed è anche la sola cosa che conta: un po’ di te in noi, mio Dio»), neanche la perdita della vita («Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito». Detto questo, spirò», Lc 23,46).
Certo, non bisogna fraintendere: questo non vuol dire che Gesù giustifichi o promuova il disimpegno sociale e politico! Riprendendo le parole di Armido Rizzi, infatti, è indubitabile che «la risposta dell’uomo all’amore di Dio è l’amore per il prossimo»!
Eppure, c’è una risposta ancora più fondante di fronte alle cose che ci si stringono addosso (dominazione straniera, sofferenze, fallimenti, malattie, morte...): l’amicizia con Dio. È la risposta che ha dato anche Teresa di Gesù, un’altra grande donna che la storia dell’umanità ha partorito. Un’altra che come Etty, di fronte a una situazione storica di profonda oppressione e di forte limitazione (in proposito scrive: «Signore dell’anima mia, tu, quando peregrinavi quaggiù sulla terra, non aborristi le donne, ma anzi le favoristi sempre con molta benevolenza e trovasti in loro tanto amore e persino maggior fede che negli uomini. Infatti vi era fra loro la tua santissima Madre... Nel mondo le onoravi... Ci sembra quindi impossibile che non riusciamo a fare alcunché di valido per te in pubblico, che non osiamo dire apertamente alcune verità che piangiamo in segreto, che tu non debba esaudirci quando ti rivolgiamo una richiesta così giusta? Io non lo credo, Signore, perché faccio affidamento sulla tua bontà e giustizia. So che sei un giudice giusto e non fai come i giudici del mondo, i quali essendo figlio di Adamo e in definitiva tutti uomini, non esiste virtù di donna che non ritengano sospetta»), ha saputo custodire la sua interiorità, lo spazio di un’amicizia, che diventa possibilità di custodire un senso, una globalità positiva dell’esistenza, ultimo approdo della coscienza dove solo io decido a chi appartenere:
«L’orazione mentale non è altro, per me, che un intimo rapporto di amicizia, un frequente intrattenersi in solitudine con Colui dal quale sappiamo di essere amati. [...] Voglio dire anzitutto – secondo la mia debole capacità – in che consista la sostanza dell’orazione perfetta. Mi sono incontrata con alcune anime che credevano consistesse tutta nell’esercizio dell’intelletto. Se potevano tenersi a lungo con Dio, fosse pure a prezzo di grandi sforzi, si credevano subito spirituali. Se poi, loro malgrado, si distraevano, benché per occuparsi in cose buone, cadevano nello scoraggiamento ritenendosi perdute. In questi errori ed ignoranze non finiranno certo i dotti, benché ne abbia trovato qualcuno anche fra di loro. Ma noi donne conviene che ce ne stiamo in guardia. Non voglio dire con questo che non sia una grande grazia di Dio poter meditare continuamente sulle sue opere: anzi, è bene che lo si faccia. Però bisogna persuadersi che non tutti sono atti di loro natura ad applicarvisi, mentre tutte le anime sono capaci di amare. [...] Ne viene quindi che il profitto dell’anima non consiste nel molto pensare, ma nel molto amare».
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