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sabato 30 agosto 2008

La passione: lo scontro tra pensare secondo Dio e secondo gli uomini

Il Vangelo di questa XXII domenica del tempo ordinario è il diretto proseguimento di quello di domenica scorsa, in cui Pietro faceva la sua professione di fede in Gesù «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» e Gesù a sua volta faceva la sua professione di fede nell’uomo «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa [...]. A te darò le chiavi del regno dei cieli».
Anche nel Vangelo odierno il dialogo è tra Gesù e Pietro, ma il tono è decisamente diverso; addirittura la risposta di Gesù è costruita da Matteo in modo tale da risultare opposta a quella di qualche versetto prima. Infatti mentre là si diceva «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa», qui Pietro diventa la pietra d’inciampo (etimologicamente infatti scandalo vuol dire proprio questo); e mentre là la confessione di Pietro era attribuita «né a carne né a sangue, ma al Padre mio che te lo ha rivelato», qui si dice – all’opposto – che Pietro «non pensa secondo Dio, ma secondo gli uomini!».
Riguardo alla I parte di questo dialogo tra Pietro e Gesù, che il liturgista ha collocato nella domenica appena passata, dicevamo che, nell’interpretazione, si voleva prescindere dalla lettura che la storia della Chiesa ha fatto sedimentare strada facendo; quella cioè per cui Pietro sarebbe strettamente da identificare con il papa, il regno dei cieli con il paradiso, il legare-sciogliere con il sacramento della riconciliazione, e via discorrendo. Eppure, di fronte alla II parte di questo Vangelo viene la tentazione di chiedere a chi si attiene a quella interpretazione perché non inserisca in essa anche questo pezzo del discorso, attribuendolo alla chiesa istituzionale: «Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!»... se non altro per coerenza...
Ad ogni modo, preferendo lasciar da parte tali tentazioni, è bene cercare quale sia il punto di svolta che, nel dialogo finora “idilliaco” di Pietro e Gesù, scatena la dura reazione di quest’ultimo. Esso è identificabile chiaramente nel versetto 21: «Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno».
Ciò che Pietro rifiuta è dunque l’annuncio della passione di Gesù. Egli non può accettare che colui che ha appena confessato essere «il Cristo, il Figlio del Dio vivente», parli, a riguardo di se stesso, di persecuzione, sofferenza, morte; tra l’altro attuati ad opera del potere religioso costituito («anziani, sommi sacerdoti e scribi»), ad opera cioè dell’ortodossia ebraica, depositaria della verità su Dio. Questo è inconcepibile nel suo orizzonte di senso: il Messia è il salvatore di Israele, che tutta la tradizione biblica annuncia e fa sospirare, come potranno non riconoscerlo? E com’è possibile che proprio colui che deve salvare, soffra e addirittura muoia? Come può salvare se muore? E addirittura se muore ucciso? Ucciso con l’esecuzione riservata ai maledetti da Dio («Quando uno avrà commesso un delitto passibile di morte, e viene messo a morte, lo appenderai a un palo. Il suo cadavere non rimarrà tutta la notte sul palo, ma lo seppellirai senza indugio lo stesso giorno, perché il cadavere appeso è maledetto da Dio», Dt 21,22-23)? Che Messia è un Messia così? E che Dio è un Dio così? Per l’orizzonte di senso di Pietro tutto questo è impensabile («non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!»)…
Gesù invece ragiona diversamente… La sua prospettiva è un’altra, molto simile a quella presente anche nelle altre due letture che il liturgista, questa domenica, ha messo accanto al Vangelo: è quella per esempio di Geremia, il profeta che patisce, e che anche letterariamente ha saputo esprimere davvero efficacemente il suo patimento («Mi hai violentato, Signore, e io mi sono lasciato violentare; mi hai fatto forza e hai prevalso. Sono diventato oggetto di scherno ogni giorno; ognuno si fa beffe di me. Quando parlo, devo gridare, devo proclamare: «Violenza! Oppressione!». Così la parola del Signore è diventata per me motivo di obbrobrio e di scherno ogni giorno»); il profeta che patisce, ma che ciò nonostante scopre che rimane vero che vale la pena spendere / perdere la vita per questo Dio («Mi dicevo: “Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!”. Ma nel mio cuore c'era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo»).
È anche la prospettiva di Paolo, in questo dodicesimo capitolo della Lettera ai Romani, per il quale il culto spirituale (la vera relazione a Dio) è «offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio».
È il modo diverso di pensare la vita che Gesù propone nei termini del «rinnegare se stessi» / «perdere la propria vita»...
Dopo 2000 anni di Cristianesimo forse noi siamo abituati a sentire parlare di passione, crocifissi, morte del Figlio di Dio... ma come per tutte le cose, è necessario fermare un attimo la nostra attenzione su cosa significhi tutto questo, primariamente nella vita di Gesù (e dunque di Dio) e poi nella nostra.
Verrebbe da chiedersi: qual è l’orizzonte di senso di Gesù? Perché dentro all’annuncio festoso del Regno (cfr parabole - «Il Regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo» - Mt 13,44; o i miracoli, segni della venuta del Regno, che libera l’uomo dal male - «Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: I ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella» - Mt 11,4-5; o le beatitudini, ecc...) si insinua quella che pare l’inevitabilità della persecuzione, del patimento, addirittura della morte? Perché Gesù accoglie questo destino e ne parla apertamente, come di una realtà necessariamente implicata con la sua missione?
La storia della teologia ha sconfessato tutte quelle teorie che parlavano di un necessario riscatto che Gesù avrebbe dovuto pagare a Dio per la salvezza degli uomini e che gli uomini in qualche modo avrebbero continuato a pagare, aggiungendo le loro sofferenze a quelle di Cristo, per la salvezza delle anime. Una sconfessione che purtroppo però rimane ancora aliena in molti ambiti della mentalità cristiana, in modo che non solo alla base, ma anche ai vertici spesso si respiri ancora l’aria pesante di queste idee, che rendono Dio uno che per placare la sua ira ha bisogno del sangue dell’uomo; Gesù, la vittima sacrificale che paga per tutti il prezzo altrimenti irremissibile; e l’uomo colpevole a prescindere, e quindi destinato ad una vita di penitenza per guadagnarsi il paradiso).
L’approccio corretto invece (evangelicamente parlando) deve essere tutt’altro... non una teoria filosofica o metafisica che dimentica la storia concreta di Gesù e si lancia in sterili elucubrazioni su Dio, l’uomo, il paradiso, l’inferno... ma uno sguardo che cerca di interpretare il dipanarsi concreto della libertà storica del Figlio di Dio, unico luogo veritiero della rivelazione di Dio.
Perché fondamentale è il fatto che, ripercorrendo e riattualizzando la sua storia, si possono individuare le dinamiche umane che hanno implicato la necessità della sua morte e passione (ancora una volta, non nel senso di una necessità metafisica “Dio aveva prestabilito che...”, ma di una necessità storica: per parlare di Gesù e in lui di Dio, non si può non scontrarsi con quanto è avvenuto, la sua passione e morte!) e le dinamiche umane che sottostanno al patire e morire di ognuno dei suoi discepoli di allora e di oggi.
E queste dinamiche sono fondamentalmente due:
- Dal punto di vista delle infrastrutture costitutive del mondo si mostra chiaramente l’opposizione del pensare secondo Dio e del pensare secondo gli uomini;
- Dal punto di vista delle infrastrutture personali intra-umane, il fatto che “i privilegi si pagano”.
In questo senso, la prima dinamica messa in luce, rivela che la passione è strettamente implicata alla vita di Gesù e dei suoi discepoli, perché questi ultimi pongono in campo una mentalità che si scontra radicalmente con quella del mondo. Gli uomini infatti istintivamente si pensano nel mondo come orfani, senza qualcuno che tiene in mano la loro vita, cosicché essa è posta unicamente nelle loro mani, incapaci di salvarla. In questo sentirsi abbandonati è inevitabile la paura della morte (fisica, ma anche metaforica), che spinge a tentare sempre di “scamparla”, almeno ancora una volta, a scapito però degli altri... mors tua vita mea... Ed è inevitabile che questo oltre all’orfanità, crei anche inimicizia, competitività e aggressività fra gli uomini, dei quali “sopravvivono” i più forti, i più furbi, i più potenti, in un tentativo sempre reiterato di salvaguardare le proprie posizioni. Ed è invece proprio questo che Gesù mette in discussione. Egli ha un’altra mentalità, quella che guarda all’uomo come figlio (di Dio) e fratello (degli altri uomini). Gesù annuncia la lieta notizia che l’uomo non è orfano, gettato nel mondo e abbandonato a se stesso, ma che anzi la sua vita è tenuta da un Altro! Questo scioglie la paura che ci rende rivali: non c’è più bisogno di impegnarsi nel tentativo ad oltranza (ultimamente inutile) di un’auto-salvezza; e non c’è più bisogno che questo avvenga sulle spalle degli altri, che anzi proprio perché tenuti, come me, possono davvero essere guardati ed esperiti come fratelli...
Ma perché questo scontro di mentalità crea l’inevitabile (nel senso di inevitata) passione del Figlio di Dio e dei suoi discepoli? Perché con questa mentalità viene azzerata, proprio in un’ottica di fraternità vera, la possibilità di una legittimazione del potere di pochi sugli altri (potere religioso, politico, economico, affettivo...). E questo determina l’inevitabile (ed inevitata) reazione violenta dei potenti del mondo. Ecco la prima grande causa della passione.
Di altro tenore, la seconda, comunque altrettanto interessante... La dinamica cioè per cui l’orizzonte di senso di Gesù (cioè il suo guardare l’uomo come figlio e fratello), nell’inevitabile gioia, liberazione e comunione che crea fra chi vi aderisce, non può non suscitare l’invidia di chi invece le si oppone. Chi intuisce nella mentalità di Gesù e del suo Vangelo la promessa di una vita buona e per questo le dà credito e la pone in atto, scopre davvero il centuplo quaggiù, un senso per cui vale la pena, una liberazione da paure e fantasmi, una libertà interiore incancellabile... Ma tutto questo è quello che brama la gente... dispersa sui percorsi tortuosi che la vita gli ha insegnato, convinta che il denaro, il potere, «i posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe», portino a quella pienezza della vita... E vederla in altri realizzata o almeno germogliata, non può non creare la reazione omicida di chi vede nel bene che capita a un altro, un bene tolto a se stesso... Chi è affamato di senso, di affetto, di libertà, di gioia, di vita piena, non può non guardare con una punta di veleno nel cuore chi tutto questo ha trovato o intuito... questo avviene nei rapporti della chiesa col mondo, delle relazioni normali degli uomini e all’interno della chiesa stessa.
E dentro a questa situazione, i “privilegiati”, discriminati perché invidiati, vivono la loro passione (per le botte che prendono), nella consapevolezza che in parte essa è giustificata (“Chi perseguita ha ragione a reagire di fronte a un dono che altri hanno e che lui brama”) e nel sofferente anelito che pian piano chi li perseguita si renda conto che se spendesse meno energie nell’invidia suicida e omicida, forse si accorgerebbe che, in Cristo, il centuplo che brama è già anche per lui. In quest’attesa i “privilegiati” si uniscono alla gemente attesa di Paolo: «Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente» (Rm 8,22-23).

venerdì 29 agosto 2008

Lo scandalo… in cui è “necessario” inciamparvi!

lo scandalo è interno alla fede cristiana
c’è uno scandalo esterno alla fede, che impedisce di entrare in un dialogo di coinvolgimento esistenziale con Gesù Cristo…
Può essere lo scandalo aggressivo(e alla fine, omicida) dei farisei, lungo il cammino di testimonianza del giovane profeta itinerante che parlava di un Dio Padre, con la sicurezza e la confidenza di un figlio, e rimangono ciechi anche di fronte alle sue “opere” misteriose e inspiegabili … fino a chiedergli, quando l’hanno ridotto a un crocifisso morente sul patibolo della vergogna, il “miracolo” di dimostrare la potenza divina e rinunciare alla sua mitezza disarmata e perdente… : se sei figlio di Dio! Mistero atroce di un rifiuto più tragico di quanto l’uomo sappia di fare. (Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno!)
C’è anche lo scandalo amareggiato dei giusti, galantuomini e devoti… come il giovane ricco, che non osa varcare la soglia del Regno... dietro ad un Maestro che chiede una rinuncia così radicale e insensata a sé stessi… per seguirlo, dopo aver consegnato tutto ai poveri! Mistero “triste” di chi è tanto incatenato ai propri beni da non aver la forza di guadagnarsi la libertà, a cui pure si sente chiamato. (Quanto è difficile che un ricco entri nel Regno dei cieli!)
… Ma c’è soprattutto uno scandalo interno alla fede, che apre un vuoto incolmabile (un rifiuto cieco e invincibile) nel cuore del credente, quando già ha deciso da tempo di donare la sua vita… al seguito del Maestro, riconosciuto come “il Cristo, il figlio del Dio vivente!”… Uno scandalo (cioè una pietra d’inciampo!) che inevitabilmente si incontra lungo il percorso della fede, e, a un certo punto, blocca il cammino e ci inchioda al dubbio, alla desolazione, alla disperazione, alla protesta e, purtroppo spesso, al rinnegamento. Mistici e filosofi danno voce all’esperienza silenziosa e inconsapevole di tanta gente comune, e raccontano di questo divagare e perdersi per sentieri interrotti, proprio quando già la verità e l’amore sembravano a portata di mano.
… il vangelo di Matteo, proprio al centro del suo racconto, è arrivato a questo crinale, quando Pietro, prototipo del credente appassionato, ha riconosciuto (diremmo noi) la divinità di Cristo. Ma subito c’è lo scandalo, che è l’invito a sprofondarsi nel mistero del Messia sofferente… a consentire che “doveva… soffrire molto … e essere ucciso”, perché credere davvero in lui vuol dire seguirlo lungo questa discesa agli inferi. Allora, con Pietro, noi tutti rifiutiamo, vorremmo imporre noi la guida del viaggio su tutt’altre strade, con tutt’altri programmi: Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai! Cioè, lì non ti seguiamo!
… Un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa…
… allora, nella storia del cristiano, come già nei racconti e nelle biografie profetiche dei patriarchie dei profeti, Dio si rivela completamente “diverso” da quello che si credeva di seguire e di adorare… e non mantiene per niente le promesse come noi le avevamo capite. E la fede vacilla tra le due esperienze: la vocazione sorgiva, come dono di fatto storicamente e affettivamente irresistibile (… mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso!) – e la delusione amara alle reazioni di obbrobrio e di scherno. Ma non sono tanto le persecuzioni esterne, anche violente e sanguinanti, che svuotano il cuore della sua voglia di vivere, ma il fuoco rovente che entra nella pelle e corrode le ossa, e brucia la vita nostra e di troppa gente, che, dopo tante fascinazioni e promesse, è ridotta a perdere la voglia di vivere, come dice Geremia poco più avanti:

Maledetto il giorno in cui nacqui;
il giorno in cui mia madre mi diede alla luce
… Perché mai sono uscito dal seno materno
per vedere tormenti e dolore e per finire i miei giorni nella vergogna?

Ogni attenuazione o camuffamento dello scandalo di Pietro o di Geremia (e dell’infinita processione dei crocifissi disperati della storia) è “diabolico” e Gesù lo rinfaccia a Pietro! Alla voglia di successo, di potenza, di consenso universale che tutti noi cerchiamo con tutte le forze… a cominciare dalla Pietra fondante della chiesa, fino alle ultime pietruzze, che noi siamo, il Signore continua a contrapporre con una decisione e durezza insolite: mettiti dietro a me, Satana! Perché tu non ragioni secondo Dio, ma secondo gli uomini. Il nostro cammino di credenti e di chiesa fatica a ricollocarsi continuamente “dietro” questo giudizio tremendo, che pende come una spada di Damocle, sui nostri programmi e sulle nostre catechesi, sulle nostre mediazioni politiche e sulle nostre strutture ecclesiali, fondate allora come oggi sulla preminenza competitiva, fin nelle nomenclature gerarchiche barocche che ancora usiamo imperterriti (eminenza, eccellenza, monsignore, don/dominus… ). E così, invece che il “bisogna” evangelico (che il figlio dell’uomo soffra), noi predichiamo il “bisogna” che il credente e la sua chiesa sopravvivano e si adattino in questo mondo… Otteniamo così da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi… qualche interessato e sterile riconoscimento o compromesso o “concordato” amministrativo o economico… al livello delle mediazioni del “ragionamento umano”, di cui siamo maestri, ma ci tocca mettere in ombra il Vangelo, così come si esplicita da qui in avanti: “cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno”. Questo è il nucleo di fuoco del Vangelo, della “incomprensibile”volontà del Padre. Questo è il “Dio crocifisso”, così facile da adorare con le lacrime agli occhi nei fumi dell’incenso, per rinnegarlo nella storia politica, economica e affettiva della vita quotidiana: Ma questo “dio crocifisso” è ormai l’unico modo di esistere di Dio nella storia… Tutto il resto è preparazione provvisoria o deviazione diabolica. Questo è il tormento di fuoco che è entrato nelle ossa del credente e avvelena qualsiasi compromesso, o lo tramuta in rimorso irrisolvibile, quando ci si è caduti. Non si tratta degli “altri”, dei non credenti o altrimenti credenti, o atei… verso i quali ci è proposta l’infinita misericordia del Padre. Ma si tratta di noi stessi, “i cristiani”!
Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.
… non c’è possibilità di tergiversare, non c’è scorciatoie. Mite quanto incondizionata e senza scampo, questa proposta, di consegna totale! È la conseguenza del discorso delle beatitudini, cioè dello sguardo di Dio sulla Storia degli uomini. Quando l’amore entra nella storia concreta deve mettersi per traverso alla logica umana, che esige di salvare la propria vita a tutti i costi (anche a costo di abbandonare alla deriva i più deboli)… e allora si chiama “croce”. Ognuno carica sulle proprie spalle tutto l’amore di cui è capace (la sua croce!)… e si metta al seguito di chi da questo amore è spinto fuori del campo, fin sul Calvario dell’abbandono di Dio. Cioè non solo fuori del consorzio e del consenso umano, ma della propria comprensione. Allora ritrova il senso e la verità della vita che gli è stata violentemente strappata. Questo vuol dire risorgere…. tre giorni “dopo”…
… che cosa l'uomo potrà dare in cambio della propria anima?
Può dare solo la propria sofferenza! … la sofferenza che “doveva” cadere addosso al Messia, figlio del Dio vivente. (La gioia, quella vera, sgorga da sola proprio dal consenso alla sofferenza … e nessuno può togliertela!). È della sofferenza che bisogna fare il luogo dell’elaborazione della libertà!... facendo del proprio corpo un sacrifico vivente, unico vero culto spirituale! Perché questo è il problema di ogni figlio dell’uomo, consapevole o no: il suo dolore nel dolore del mondo… nel dolore di Dio! E ogni angoscia, ogni paura, ogni religione… nasce da lì! Solo che tutto lo sforzo umano al mondo (giustamente!) è di elaborare pensieri e situazioni che eliminino la sofferenza e l’angoscia mortale che ne deriva. Gesù invece vi si inoltra consapevole, con forti grida e lacrime, divenendo per noi “peccato” e “maledizione” (2Cor 5,21 e Gal 3,13), con una lucidità e solidarietà smisurate: “Avendo amato i suoi li amò sino alla fine” (Gv 13,1). La passione e la morte non sono un incidente nella vita di Gesù, ma ne sono la bussola e il senso, la sua "ora" per eccellenza (Gv 12,23)… Come aveva previsto la storia del Servo Sofferente di Isaia, che infatti fornì ai primi discepoli il modulo per capire cosa stava succedendo al loro maestro. Ma questo scandalo, rimandato fin che si vuole o si riesce, presto o tardi blocca il cammino di ogni fede cristiana e insinua la tentazione (coscientemente o meno) di tornare ad un Dio più funzionale alle nostre attese e ai nostri progetti – un Dio del buon senso e delle mediazioni, che lasciano la storia così com’è, e ci evitano le reazioni di rifiuto e di insofferenza che ci nascono dentro, per esser stati redenti da un Dio sempre perdente e crocifisso. Solo la Parola e la compassione per il dolore dei più deboli ce ne può salvare… per reintrodurci nel mistero eucaristico che è proprio questo invito drammatico a Pietro e tutti noi a seguire il Signore e ripetere in sua memoria il suo modo di soffrire… È la sfida più difficile che sia mai stata posta all’uomo (da Dio stesso!). Ma cos’altro può dare l’uomo per far rinascere la sua identità più intima?
Non è un ateo o un nemico della chiesa colui che ha posto nel cuore del credente la domanda fatidica: ma il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà fede sulla terra? (Lc 18,8).

mercoledì 27 agosto 2008

Cattolicisti in sdialogo

Ovverosia le vie ‘confessionali’ per zittire (e non convertirsi).

Interessante l’editoriale di Avvenire del 26 agosto u.s. a firma di Francesco D’Agostino. Così interessante da chiedermi dove stia andando la Chiesa italiana se il “bollettino” della CEI usa toni e linguaggi tipici de “Il Giornale” della famiglia Berlusconi…
Ma vediamo con calma l’articolo (che riporto sotto)…
Apparentemente sembra inserirsi nella polemica nata in ambienti culturali (?) italiani dopo l’intervento di mons Bagnasco, presidente della CEI, al Raduno di CL a Rimini…
Ambienti culturali italiani si fa per dire, in realtà D’Agostino-CEI se la prende con lo storico cattolico Alberto Melloni, bollandolo di laicista! Melloni è cattolico, non scomunicato (ancora) dal Papa ma lo è già dalla CEI?

Ma che peccato mostruoso ha commesso Melloni? Semplicemente ha espresso la propria opinione, discutibilissima, in merito all’intervento di Bagnasco. Discutibilissima, ma pur sempre legittima e lui come storico è certamente più legittimato del “professore di Filosofia del diritto all’Università di Roma Tor Vergata” e “presidente onorario del Comitato nazionale di bioetica”… Ma forse è proprio quest’ultima qualifica che offre a D’Agostino le credenziali per difendere a spada tratta argomenti che non possiede con ragionamenti che non ha.

E ci mette di tutto! Dal Papa alla Sorbona (ops! Sapienza), all’allusione all’articolo di “Famiglia Cristiana” sul pericolo fascismo, che naturalmente nega, anzi (ma dove vive?); al caso Welby ed Eluana (di cui non parla ma che si sa a cui tutti pensano quando si parla di “morte assistita” e che sbrigativamente e tacitamente equipara e taccia entrambi di eutanasia)… senza dimenticare l’aborto, la procreazione assistita, la sperimentazione sugli embrioni. Senza scordare la scuola (e il suo finanziamento pubblico, su cui però D’Agostino tace) e la famiglia (Quale? Spero non quella dei capi politici della destra italiana!).
Forse perché docente di filosofia del diritto, il nostro D’Agostino si sente in obbligo di darci una lezione di giurisprudenza ed emette una sentenza di auto-assoluzione sul modus operandi della Chiesa italiana (a cui corrisponde una implicita parallela condanna dell’avversario che la critica): Come se bastasse autoproclamarsi (l’unica?) “esperta in umanità” per giustificarne storicamente l’operato; o l’intenzione di agire a fin di bene per agire concretamente bene e si debba essere riconosciuti da chiunque come (gli unici?) depositari del “bene umano in generale” e del “destino stesso dell’umanità nel nuovo millennio”… E tira in ballo anche la “ragione morale universale” che identifica tout-court (bontà sua!), con la “legge naturale” alle cui esistenze credono oramai solo i redattori dei manuali scolastici e coloro che vivevano (e vivono) nel mondo monoculturale e monocolore dell’uomo bianco occidentale!…

Troppi argomenti da trattare in quattro righe… E allora il Nostro se la cava con frasi apodittiche, senza alcuna autentica argomentazione, gettate lì solo per tappare la bocca all’aversario: alla faccia dei distinguo cui l’argomentazione filosofica ci aveva abituati!… Che dire allora? Eccesso di difesa?
Certo, l’articolo così formulato è, nei fatti, una dimostrazione del suo contrario, perché mostra proprio ciò che vuole negare: dogmaticismo; neo-fascismo culturale e istituzionale (visto che trattasi di un giornale istituzionale come Avvenire); contrapposizione cattolicista alle posizioni considerate laiciste solo perché non “gerarchicamente” espresse; paura del confronto e del dialogo autentico (sembrerebbe persino all’interno del variegato mondo culturale cattolico)…

E allora parliamo di dialogo, caro D’Agostino-CEI!
Il Dialogo autentico, inizia quando si è disposti a considerare l’altro (chiunque esso sia), al pari di me, depositario di verità autentiche su Dio, l’Uomo e il Creato.

E perché no? persino sulla Chiesa… Non è capitato anche a Gesù, di crescere nell’autocoscienza di sé sotto le provocazioni della storia e di coloro che incontrava e non solo verso coloro a cui era stato inviato dal Padre? Non è capitato anche a Pietro e alla “Chiesa delle origini” con Cornelio? E perché non dovrebbe accadere alla Chiesa italiana oggi, episcopato e movimenti laicali e religiosi compresi?

Questi “laicisti” (sic!) hanno molto da insegnarci nella nostra missione di Chiesa, nel nostro modo di “essere Chiesa” oggi… D’altronde gli scribi e farisei tutto erano tranne che laicisti… Sarà un caso?

Certo che se poi penso che io sono depositario di verità autentiche più vere e autentiche dell’altro, il dialogo finisce ancora prima di cominciare... Da cui ne deriva che tutta la parte dell’articolo in cui si parla del “riconoscimento pubblico” dell’agire cristiano “fallisce il bersaglio” propriamente parlando, perché meriterebbe una riflessione più matura non tanto sul diritto (che nessuno nega, né può negare almeno in Italia in quanto riconosciuto anche costituzionalmente), ma sulle modalità specifiche del dibattito civile e politico: il problema cioè sta nella forma storica che essa assume... Ed è questo cambiamento storico che la “gerarchia” italiana non ha ancora digerito, nonostante l’insegnamento del Vaticano II e il ruolo del laicato nella Chiesa e... la “Breccia di Porta Pia”!

Per fortuna che sono un tipo umile e mite altrimenti porrei una domanda provocatoria: “A quando la dichiarazione della segreteria della CEI sul fatto che gli editoriali di Avvenire, da tempo non corrispondono più alla linea dell’episcopato italiano?” (visto che da tempo oramai non corrispondono già più nemmeno al sentire cristiano)…

Qui sotto riporto l’articolo in questione:
LE VIE LAICHE PER ZITTIRE QUELL’IMPEDIRE LE CONDIZIONI DEL VERO DIALOGO FRANCESCO D’AGOSTINO Secondo Alberto Melloni non si vede oggi in giro nessuno che voglia chiudere la Chiesa nelle sagrestie o nel privato: non solo, quindi, a­vrebbe sbagliato il cardinale Bagnasco ad insi­stere su questo tasto, aprendo a Rimini i lavori del meeting di Comunione e Liberazione, ma a­vrebbe in tal modo dato un’ulteriore prova del­l’indebita persistenza di quelle paure «antimo­derne « che caratterizzerebbero la Chiesa da due secoli a questa parte. Ha ragione Melloni? No. È evidente infatti che la denuncia del presidente della Cei non inten­deva avere per oggetto la situazione istituzio­nale del nostro Paese; ad onta di tutti coloro che continuano con monotonia a insistere sul ri­schio dell’affermarsi di nuove «derive autorita­rie «, le libertà pubbliche e private sono in Italia più che adeguatamente garantite. Si tratta in­vece di percepire lo specifico delle dinamiche culturali tipiche di questi ultimi anni. È su que­sto piano che il tentativo di ‘chiudere la Chiesa nelle sagrestie o nel privato’ è ramificato, sub­dolo e incessante. Mi spiace che Melloni non riesca a vederlo: cercherò, con un esempio so­lo, ma molto vistoso, di aprirgli gli occhi. Consideriamo le più rilevanti questioni bioeti­che che lacerano da molti e molti anni l’opi­nione pubblica mondiale: l’aborto, la procrea­zione assistita, l’eutanasia, la sperimentazione sugli embrioni (potremmo andare avanti a lun­go con l’esemplificazione, aggiungendo ad e­sempio i temi della famiglia e della scuola). Si tratta di tematiche che non hanno carattere con­fessionale, che non concernono la comunità cristiana in senso stretto, ma il bene umano in generale, anzi il destino stesso dell’umanità nel nuovo millennio. La Chiesa non esita a prende­re posizione al riguardo, non per difendere i suoi dogmi o gli interessi materiali delle sue comu­nità, ma perché è ‘esperta in umanità’ e sa che è suo dovere proteggere la dignità umana (o­vunque sia minacciata) usando gli strumenti che sono tipicamente i suoi: quelli della ragio­ne morale universale o, come potremmo dire usando un linguaggio solo lievemente più tec­nico, della ‘legge morale naturale’ (che vinco­la tutti, cristiani e non cristiani, credenti e non credenti). A fronte di questo impegno, che può essere ri­tenuto più o meno convincente, ma che è ed è sempre stato generoso, leale e soprattutto non dogmatico, ma argomentativo, assistiamo a un costante, sistematico e ottuso rifiuto da parte della cultura laicista oggi dominante di aprire con i cristiani un dialogo autentico. I laicisti han­no messo a punto uno strumento teoretica­mente rudimentale, ma obiettivamente effica­ce: bollano come ‘cattolici’ (senza analizzarne le argomentazioni) tutti coloro che non condi­vidono le loro pretese libertarie e li esortano a difendere i loro valori esclusivamente all’inter­no delle loro comunità confessionali (li esorta­no cioè a rinchiudersi ‘nelle sagrestie o nel pri­vato’!). In altre parole: proprio perché nulla im­pedirebbe ai cattolici di vivere privatamente la loro fede e quindi di non abortire, di non ri­chiedere l’eutanasia, di non ricorrere alla fe­condazione artificiale, essi non sarebbero abi­litati a chiedere un riconoscimento pubblico per tali comportamenti. In questo modo, ogni tentativo da parte dei cat­tolici di individuare nel no all’aborto, all’euta­nasia o alla procreazione assistita un bene u­mano oggettivo viene interpretato come una pretesa arbitraria e intollerante. È evidente che non tutti i laici condividono gli slogan radicali del tipo ‘no taliban, no vatican’ o le pressioni per impedire al Papa di accettare un invito a parlare alla ‘Sapienza’, ma credo purtroppo che tranne alcune luminose eccezioni questo para­digma sia molto diffuso e sia ben giustificata la fermezza con cui il cardinale Bagnasco ne ha stigmatizzato gli esiti. Avvenire, 26/08/08

venerdì 22 agosto 2008

In me la Vita è possibile per te

Il testo del vangelo che la liturgia ci propone per questa XXI domenica del tempo ordinario (Mt 16,13-20) è uno di quelli che la storia della Chiesa ha maggiormente caricato di precomprensioni e pregiudizi (anche confessionali). Involontariamente, ma inevitabilmente, infatti anche noi, leggendolo, lo associamo alla fondazione del ministero petrino e del sacramento della confessione, così che l’espressione di Gesù «tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa» starebbe ad indicare l’istituzione del primato papale e quella «A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» l’istituzione del sacramento della confessione come è oggi, quindi col sacerdote come ministro, la stola viola, ecc...
Questa immediatezza con cui la nostra testa legge una cosa e ne pensa un’altra, è frutto di quella sedimentazione culturale che l’umanità, e in essa anche la chiesa, porta avanti generazione dopo generazione e che noi introiettiamo semplicemente perché ne siamo impregnati fin da subito, è la cultura in cui nasciamo: “la succhiamo dal seno di nostra madre” direbbe mons. Brambilla.
Eppure oggi, alla luce del rinnovamento degli studi biblici e teologici del secolo scorso culminati nel Concilio Vaticano II con la sua Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione (Dei Verbum) – per i cui risultati la Chiesa tutta deve ringraziare decine di uomini che (sebbene spesso osteggiati, frenati e perseguitati dal Magistero stesso) hanno speso la vita a studiare, approfondire, capire –, non possiamo più accettare di accostarci ad un testo della Sacra Scrittura con queste precomprensioni. Dobbiamo toglierci le lenti distorte con cui guardiamo al testo e tornare a farlo parlare. Il Concilio dice: «Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l'interprete della sacra Scrittura, per capir bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi abbiano veramente voluto dire e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole» (DV 12).
Anche perché se solo ci fermassimo un attimo a riflettere, già da soli capiremmo l’assurdità di quanto immediatamente ci verrebbe da pensare: davvero Gesù, in quel momento a Cesarea di Filippo, rivolgendosi a Pietro, ha in testa la storia dei papi? Davvero dicendogli «tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli», Gesù pensava ai nostri confessionali intarsiati e alle loro lucine verdi e rosse perché il fedele sappia se sono liberi o occupati?
Non voglio esagerare nella demitizzazione, e ovviamente è giusto che, chi oggi si occupa teologicamente o magisterialmente del primato petrino e del sacramento della riconciliazione, faccia riferimento a questi brani; ma, concesso questo, a noi rimane il dovere di evitare di distorcere il testo, ricollocandolo nel suo contesto e non riferendolo immediatamente ai problemi ecclesiali odierni.
Il contesto proprio del brano dunque è quello in cui Gesù, «giunto nella regione di Cesarèa di Filippo», dopo 16 capitoli in cui Matteo ha tentato di delineare il suo volto, pone la domanda su cosa la gente e poi i discepoli stessi hanno percepito della sua identità: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?», «Voi, chi dite che io sia?».
La vita pubblica di Gesù è ormai ben avviata, a questo punto del vangelo: egli infatti ha già detto molte cose (Matteo nei capitoli precedenti ha infatti già riportato il discorso della montagna, il discorso missionario, il discorso in parabole), ne ha anche già fatte molte (a partire dai racconti sulla sua infanzia, l’inizio della sua vita pubblica, fino ai miracoli e alle controversie coi farisei) ed è come se volesse fermare un attimo il flusso degli eventi e fare il punto della situazione: cosa ha capito di me la gente? Cosa han capito di me i miei?
Ed ecco che arriva la risposta di Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»; risposta che fa sussultare le viscere di Gesù, al quale addirittura scappa detto «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
Tenendo sempre presente quanto detto sulla necessità di liberarci dai pregiudizi nella lettura e interpretazione del testo, proviamo a guardare semplicemente alla dinamica che si sviluppa tra Gesù e Pietro.
Gesù sta tastando il terreno, vuole capire in che misura ciò che dice e fa, mostri effettivamente alla coscienza della gente chi lui sia. Questa è la sua preoccupazione fondamentale: che la sua vita, il dipanarsi della sua singolarità, la sua libertà storica, sia incontrata nella sua verità dai singoli uomini e donne che incontra.
Perché è così importante per Gesù che l’uomo non fallisca l’idea su di lui? Perché nello svolgersi della storia di quest’uomo, si rivela Dio. E Gesù sa bene che dall’idea di Dio che uno ha in testa dipende tutto l’orizzonte di senso in cui imposta la sua vita, la sua idea di uomo, di amore, di relazioni, di morte...
L’interrogazione di Gesù dunque non è un pour parler; mostra anzi il costruirsi storico della rivelazione di Dio: Gesù infatti non è solo l’occasione del rivelarsi di Dio, non è il portatore di una serie di norme o definizioni, piuttosto «Questi è Dio», cioè quella libertà storica (di Gesù) nel suo decidersi in nome del Padre!
Ecco perché è così importante anche la risposta di Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»; perché è il riconoscimento! Pietro ha capito che in quell’uomo lì si dà qualcosa che non è contenibile nella categorie solite della religiosità ebraica: Gesù non è Giovanni Battista redivivo o Elia o Geremia; la sua persona non è esauribile dalla categoria di profeta. Egli – dice Pietro – è il Messia, colui che deve venire a salvare gli uomini, e il Figlio di Dio, qualcuno che ha a che vedere direttamente con Dio (la Chiesa poi dirà Dio lui stesso, che per l’ambiente ebraico – da cui provenivano Pietro e tutti i primi cristiani – è una delle bestemmie peggiori, perché infrange in primo – e più importante – comandamento, fondante lo stretto monoteismo ebraico: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione servile. Non avere altri dei di fronte a me» - Dt 5,6-7). Ecco perché a Gesù nasce come un guizzo di gioia interiore «Beato sei tu, Simone»! E ancora: «tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa»; «A te darò le chiavi del regno dei cieli»!
Ma cosa vogliono dire queste frasi?
Anche qui, prima di lasciar scorrere il flusso dei pensieri, è bene fare una piccola pausa: perché associare – come ci verrebbe immediatamente da fare – la pietra su cui si edifica la chiesa, con la cattedrale di san Pietro o le chiavi del regno dei cieli, con l’accesso, permesso o vietato, al paradiso è, non solo banale, ma sbagliato!
Discorso molto più serio è piuttosto quello di soffermarsi sulle dinamiche che qui sono in gioco, su ciò che qui Gesù sta facendo: di fronte alla professione di fede di Pietro, cioè di fronte alla dichiarazione di Pietro di fidarsi di Gesù e, in lui, di Dio, Gesù risponde con la sua professione di fede nell’uomo: il Dio di Gesù Cristo è il Dio che si fida dell’uomo: «tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa»; «A te darò le chiavi del regno dei cieli»!
Se è sconvolgente per la mentalità del tempo che Pietro dica di Gesù «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (dato che – al contrario di oggi – il problema dei cristiani di allora era evidenziare la divinità di Gesù più che la sua umanità, che vedevano tutti; sconvolgente poi per il fatto che Gesù non ha propriamente i tratti del Messia atteso da Israele...) ancora più sconvolgente è che Gesù dica a Pietro «A te darò le chiavi del regno dei cieli»! Che Dio, nel suo Figlio e attraverso il suo Spirito si fidi dell’uomo per la realizzazione del suo regno, cioè – per citare mons. Bettazzi – per la realizzazione del mondo come Dio lo vuole!
Ecco dunque la dinamica seria che c’è in questo testo: che la vita dell’uomo non è costituita solo da una fiducia anonima e infantile in un dio che sta nell’alto dei suoi cieli, ma che la vita dell’uomo è Vita proprio perché consiste nel dare credito che essa è possibile perché fondata su un Altro, che ha il volto di Gesù Cristo; e che – reciprocamente – la vita dell’uomo è Vita perché Dio a sua volta si fida di me, dà credito alla mia buona riuscita.
Tanto che recentemente un teologo della Facoltà Teologica di Milano – don Sergio Ubbiali –ha affermato che il male / il peccato per l’uomo è dire: “è impossibile per me la Vita” (con la “V” maiuscola); che indica la vita buona in tutte le sue forme (per cui male sarebbe ogni dis-umanizzazione della vita, cioè ogni scelta o non scelta che priva la vita della sua qualità umana, in senso forte)!Male è perciò rinunciare alla “Vita” quando la scopro impossibile per le mie forze... E invece questo vangelo ci mostra come la parola di Dio sull’uomo sia: “In me questo è possibile per te”.

La fede tra carne … e spirito!

Una fede che ci supera…
Quanto sia affascinante e insieme difficile la fede cristiana, quanto sia seducente e insieme disomogenea alla nostra natura umana (un vero seme di grazia in terra inospitale!), lo si può vedere in questo prototipo del discepolo cristiano che è Pietro, innamorato di Gesù (perché nessun altro ha parole di vita eterna!) ma allo stesso tempo incapace di seguirlo… fino a rinnegarlo, quando capisce dove sta andando! Ogni cammino cristiano, da allora, è un percorso aspro, una strada erta e stretta,che conduce dalla “fede carnale” alla “fede secondo lo Spirito”, lungo un percorso che rinnega progressivamente la dinamica morbosa della carne (l’io programmatore instancabile di se stesso) per accogliere il Regno di Dio… La fede è dono di Dio all’uomo; gratuita e impensata partecipazione alla sua vita e alla sua intelligenza... troppo diversa da noi! “O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! Infatti, chi mai ha potuto conoscere il pensiero del Signore?”.
…Con la fede, noi, appunto
“abbiamo il pensiero di Cristo” (1Cor 2,16).
La domanda di Cristo? La doppia risposta umana
Ma voi, chi dite che io sia? È la domanda decisiva, che ci scoppia in cuore nelle occasioni determinanti della vita, preceduta da un “ma”, perché è domanda che nasce nello scontro con la realtà difficile, personale e collettiva, che dilania il discepolo tra la sua carne (la sua logica di “vivere” e imporsi! a tutti i costi), e il vangelo della croce di Cristo. Nel quale il donare la vita è messo in conto come motore propulsivo di un’altra logica. Una logica non nostra, ma divina, ove non la vita, ma l’amore (che è perdere la vita!) è il bene supremo. A questa domanda Pietro risponde con la mente già abilitata dal suggerimento del Padre, e testimonia per sempre nella sua chiesa che il Padre si è rivelato definitivamente in Cristo… “Ma” il cuore di Pietro rimane ancor impregnato della volontà di potenza e di vita a tutti i costi che gli è innata… anche a costo di rinnegare il suo amore per Gesù, il Figlio del Dio vivente.
Si diventa discepoli, dunque, rispondendo alla domanda sorgiva del cristianesimo: ma tu chi dici che io sia? E si può rispondere rimanendo ancora servi (della carne – della prepotenza dell’io)… e non “amici”, come vorrebbe il Signore (Gv 15,13ss). Gli amici sono legati dall’altra logica dove il disvelamento di ogni segreto e il donare la vita sono la misura dell’amore. Il passaggio dal livello religioso (di cui anche la carne e il sangue sono capaci) e dal livello conoscitivo (dell’ortodossia anche ispirata), al livello dell’amore, cioè del dono della vita, vuol dire la capacità di assorbire su di sé i peccati e la sofferenza del mondo, di perdonare chi ti fa il male… di affidarsi incondizionatamente alla volontà di un Altro… che è stata appunto la Pasqua! Che ha lasciato Gesù solo, rinnegato da tutti, senza seguito, senza discepoli (nei quali la domanda “ma tu, chi dici che io sia” ha una risposta esistenziale tragica: non ti conosco!).
È la roccia di fondazione… perché è affondato!
… ma, mentre andava a fondo ha trovato dove aggrapparsi: Signore salvami! Il dramma di Pietro che ha paura e si aggrappa al Signore è fondante (la roccia!) per tutti coloro che vogliono diventare discepoli di Gesù e sostenerne la sequela. Il discepolato nasce infatti con la risposta personale alla domanda cristiana: ma tu, chi dici che io sia? Con Pietro rispondiamo come ha suggerito il Padre, l’unico che sa: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Non c’è altro che possa dircelo, non ci si deve aspettare altra rivelazione. Perché “Dio - per mezzo di Gesù Cristo ‑ ha detto sì: e così in Cristo ha compiuto tutte le sue promesse” (2Cor 1,19-20). Quel che Dio voleva fare per salvare l'uomo, trova il suo compimento in Gesù. In lui infatti “abita la pienezza della divinità in un modo fisico” (Col 2,9). Questo è il cuore della fede. La nostra biografia di discepoli dimostrerà (verificherà!) ogni giorno se la risposta coinvolge la vita, se fermenta le passioni, se converte le relazioni… se riempie di questo “vangelo” i silenzi dell'anima e le disperazioni del mondo – oppure se invece ci siamo adagiati in una religione cultuale del quieto vivere, a difesa del proprio io personale o dilatato alla famiglia, al partito, al gruppo di interessi… più o meno velati o inconsapevoli.
A te darò le chiavi del Regno… perché ha sciolto la serratura del cuore
È Pietro che ha trovato (in dono) la chiave che apre per sempre la porta della salvezza: continuare a credere anche quando la debolezza ci travolge, anche quando la disperazione e il rimorso ci corrodono, nel rinnegamento e nel tradimento, e vorremmo sprofondare… ma Pietro continua a girare attorno al Signore e alla sua passione, da lontano, finché il Signore si gira e lo guarda (Lc 22,61). E allora scoppia a piangere amaramente tutte le proprie lacrime, per aver tradito il Signore, pur amandolo. Con questa chiave aprirà ad ogni discepolo la strada della salvezza. Chi rifiuta questa sua chiave si troverà chiuso nella propria disperazione senza uscita, come il Vangelo dice dell’altro discepolo antiprototipo, Giuda! Su questa esperienza essenziale, fondativa della fede cristiana, della misericordia e del perdono (“dato perché ricevuto”), a Pietro sono rivelate e consegnate le chiavi del regno dei cieli. Tutto il resto delle competenze e dei poteri della compagine ecclesiale… dipende da qui. E guai se non rimane configurata e ispirata da questa grazia sorgiva!
Su te edificherò la mia chiesa… e le porte degli inferi non prevarranno!
… perché ha capito che i fratelli che il Signore gli ha affidato (che sono “la chiesa nascente”) costituiscono una comunità che va più in là di lui, della sua poca fede, del suo rinnegamento, della sue debolezze, prima e dopo la Pentecoste! La sua passione umana e le sue paure non gli hanno impedito di ricercare e sempre ritrovare il Signore. Anzi è il Signore che l’ha sempre ricercato e lui ha accettato di sempre di ricominciare, a Gerusalemme, a Antiochia, a Roma! La chiesa è complessa e misteriosa, visibile e invisibile, terrestre e celeste, sta a galla e va a fondo… supera la capacità individuale di comprenderla e giudicarla… è una collettività credente fatta di uomini, ma animata ancora e sempre dallo Spirito, lo spirito di Gesù indefettibile. Oggi ancora, nella comunità credente, se l’avventura umana e cristiana di Pietro, riferimento di umiltà salvata e di perdono unificante, non fa da struttura portante, da modulo vitale, diventiamo un’organizzazione umanitaria, una immensa agenzia mondiale produttrice di prodotti di consumo religioso di alta qualità, ma evangelicamente insignificante. E il mondo va avanti, abbandonato alla suo perdersi, perché non avremmo risposta alla sua incapacità di salvarsi e perdonarsi. Pietro non è il redentore, perché uno solo è il Mediatore. Non è il maestro, perché uno solo è il Maestro. Non il capo, perché uno solo il è il Capo… ma è colui che nel cammino della storia, in base alla sua vicenda personale irripetibile con Gesù il Cristo, è stato costituito, fondato e temprato nelle bruciature incancellabili del suo cuore… per accudirci, guidarci al pascolo, confortarci nella fede… È su questo debolezza irrisolta, ma redenta, che è fondato il fragile “potere” nella chiesa, come ribadisce chiaramente Gesù: “Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22, 31ss). Se non è fondato sulla propria consapevole debolezza, redenta e “ravveduta”, diventa presuntuoso e torna inevitabilmente sul baratro dello sprofondamento: “E Pietro gli disse: «Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte». Gli rispose: «Pietro, io ti dico: non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi
Pasci le mie pecore!
Alla fine, sulla riva del lago, Gesù è tenero e provocatorio: “Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro?”. E la risposta è umile, più affidata alla testimonianza del maestro che alla propria: Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene (Gv 21,15-17). Non ha esigito altro, per farlo il capo: “Se mi ami... pasci!”. Pur con tutte le sue debolezze e i suoi limiti. Il potere infatti è così rischioso, sempre e comunque per l’uomo, che lo si può redimere soltanto lasciandosi svuotare di ogni bene o prerogativa… vita compresa, nell’accudimento senza misura né limite, per i fratelli. Come ha fatto il Signore!

venerdì 15 agosto 2008

Anche i figli di … “cani” sono figli di Dio!

Quale Dio?
Dopo l’esperienza esaltante della moltiplicazione dei pani, (esperienza di un Dio potente che soccorre i suoi figli) Gesù rifiuta l’effimero trionfo e fugge, solo, a pregare… un altro Dio! mentre i suoi discepoli, costretti ad inoltrarsi, dal luogo del miracolo, nella tempesta del lago, vanno in crisi di fede nel Dio che li aveva saziati, ma adesso pare abbandonarli. E vedono un fantasma perfino in Gesù che viene verso di loro. Pietro vuol provare anche lui a camminare sull’acqua senza sprofondare… ma barcolla dalla paura: “Salvami Signore!” – e si scopre “uomo di poca fede!”. Nel racconto di Matteo, Gesù soffre un momento di delusione e insofferenza (15,1-21). Tornano i farisei a provocarlo, e Gesù si scontra con il dramma insolubile che sta conficcato nel cuore di ogni religione, di ogni credente: Quale Dio adoriamo? Un fantasma creato dalle nostre paure e dall’invincibile angoscia di dover sprofondare nel nulla? Un Dio istillato in noi (come in ogni popolo e religione) dalla società in cui siamo nati ed è quindi funzionale al suo ordinamento? Il rimprovero tragico di Gesù ai farisei colpisce chiunque tenti di tradurre in concetti e comportamenti il suo “legame a dio” , la religione! “… Voi trasgredite il comando di Dio per la vostra tradizione!... Questo popolo mi onora con le labbra ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi venerate insegnando insegnamenti che sono precetti di uomini” (15,3ss). I temi fondamentali di ogni religione: tradizione, puro e impuro, credente e pagano, cattivo e buono, salvezza e dannazione… sono denunciati da Gesù come inquinati dall’interesse o dalla stoltezza dei capi religiosi con toni durissimi : lasciateli! Sono cieche guide di ciechi… E ai discepoli che domandano spiegazioni ribatte: anche voi siete senza intelletto?
Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia!
Si fa fatica a capire questa verità che si manifesta sempre più determinante e centrale (talora accecante) nell’evolversi della storia della salvezza raccontata nelle parole della legge e dei profeti. Passare da una religione del “nostro” Dio il Dio di Israele – cioè dalla consapevolezza di popolo eletto tra gli altri popoli (di fatto storicamente in guerra contro gli altri popoli), alla esperienza amara di un Dio che abbandona il popolo alle sue sorti storiche, al suo peccato, all’esilio, allo sterminio… è stato drammatico. Come testimonia la sintesi lapidaria di Paolo: tutti siamo coinvolti nella disobbedienza, eletti e reietti, greci e pagani, credenti osservanti e agnostici delusi. Che è come dire (nella versione positiva) che tutti siamo salvi per l’infinita misericordia di Dio, che ci ha raccolti e amati da ogni stirpe e da ogni dove… gratuitamente salvati mentre eravamo ancora peccatori!
La ragione e il cuore… per uscire dalle strettoie religiose!
Anche a Gesù, nella sua appassionata e sconcertante avventura di Messia del popolo di Israele, questa verità “difficile” gli è scoppiata tra le mani. Tant’è vero che tanti lettori e commentatori sono rimasti perplessi di fronte a questi brani duri del Vangelo, così che per paura di offuscare la divinità di Gesù (che sa tutto!) né oscurano l’umanità (rischiando di ridurla ad una riproduzione teatrale di un dramma pedagogico, perché già preventivamente risolto). Gesù, invece, sembra cercare il Padre con totale e inimitabile dedizione, perché è suo figlio, ma partendo inevitabilmente dai paradigmi mentali della cultura del suo tempo. Gesù sa dalle Scritture di “essere stato inviato solo alle pecore perdute della casa d'Israele”… Ha però imparato (da sua Madre, direbbe Luca) a guardare le vicende e la gente, a confrontare tra di loro le cose che capitano cercandone il senso, alla luce della Parola e nella preghiera… Ha scoperto con gioia e stupore che il Padre manda il suo sole e la sua pioggia su giusti e ingiusti, su buoni e cattivi… e rivela i misteri del suo agire sulla terra (il Regno) ai piccoli e ignoranti… con una sapienza che non viene dalle cattedre e dai libri, ma dalla fatica e sofferenza della vita quotidiana… Per districarsi e non affogare nella congerie di tradizioni e divieti, di tabù e di riti magici ha scoperto come filtro e criterio “il cuore”, che è la capacità di guardare all’altro con amore e simpatia, oltre ogni etichetta, e “l’intelletto”, per discernere ciò che è importante e porta al bene e ciò che è oppressivo e impedisce all’uomo di crescere. Lui, l’eletto, ha imparato dai reietti cosa significa che Dio vuole misericordia e non sacrificio!
… questo è il vero miracolo, avvenuto sotto gli occhi increduli e incomprensivi non solo dei discepoli, ma di Gesù stesso! Gesù difende ostinatamente il paradigma culturale entro il quale la sua fede e la sua missione gli è stata trasmessa, ma il suo cuore va in crisi, perché questi limiti estromettono i più piccoli e deboli… Il “cuore” appassionato di una mamma disperata lo contamina e lentamente ma inesorabilmente corrode la durezza discriminante della sua “teologia” – e così anche “la ragione” s’accorge dell’assurdità crudele delle norme discriminanti, e dei pesi insopportabili, che le guide religiose non toccano con un dito.
Un catecumenato sulla sua pelle… di Messia! Sua catechista… una donna!
Il suo cammino di conversione segna ancor oggi, per noi, i passi di una conversione religiosa, ideologica, razziale… che rimane il punto di riferimento di tutte le generazioni cristiane.
  • Dapprima Gesù “non gli rivolse neppure una parola”. Non c’è spazio per nessuno, là dove tutto è già predisposto, catalogato, sacralizzato… e quindi indiscutibile. Non c’è neanche da parlare, perché non c’è da ascoltare! Poveri, schiavi, donne, disgraziati, diversi, eretici o nemici… Sono destinati alla loro sorte. Non c’è dio per loro! infatti sono “cani”, non figli!
  • Poi il rifiuto più esplicito: “Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa d'Israele”. Non tocca a me! E che ci posso fare io? È il destino ( o la volontà… di dio!?). Io devo seguire la mia vocazione, non posso occuparmi di tutti i mali del mondo (… poi, Gesù, su questo letale atteggiamento ci farà una parabola scandalosa, con il sacerdote e il levita, che passano oltre…)
  • Infine, il rifiuto continua ancora, ma il cuore comincia cedere, pensando alla bambina morente (un diminutivo affettuoso lo tradisce: “Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini”). Ma il pane è ancora quello della competizione, dove condividere vuol dire togliere a chi ne ha diritto.

Donna, grande à la tua fede!
… infatti è la fede di questa donna pagana che ormai lo ha contagiato e ha finito per corrodere le strutture oppressive e discriminanti introiettate dalla tradizione. Gesù oramai capisce e prevede la necessità del fallimento della missione di Messia potente e quindi discriminante, l’abbandono dei discepoli, la coalizione del potere religioso, politico e finanziario contro il suo Vangelo di amore e libertà… e la sua morte fuori della città! Capisce che la condivisione moltiplica il pane, non lo diminuisce. Però la condivisione è irreversibile, senza riserve, e la gente è affamata… Il Messia sa quale sarà la sua fine : non c’è fine al lasciarsi mangiare!
… e così il cuore (la compassione) ha fatto spazio nella mente, e svela la perversione teologica dell’ideologia, che sacralizza gli interessi di alcuni (i più forti o fortunati) attribuendone il privilegio (l’elezione) a Dio stesso. Le tappe del lento cammino educativo del popolo sono diventate gabbie oppressive.
Non vuol dire che l’appartenenza ad una razza, cultura, religione, ordine religioso o sacro (e tutte le norme che le regolano) non contino nulla, perché, appunto, storicamente sono (o sono stati) passi necessari del cammino… Vuol dire soltanto che Gesù li ha scoperti e proclamati tutti secondari, non risolutivi. Non c’è nessun altro criterio essenziale di appartenenza al Regno che la fede… in Gesù. Proprio come liberatore da tutte queste costrizioni, da cui ci ha riscattati con il suo sangue sulla croce, facendo dei due popoli (puro e impuro) un solo popolo di salvati. “Il vangelo è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco” (Rm 1,16). Non c’è un Dio per te! Se non quello che ti porta a scoprire che era il Dio dell’altro! Dio appartiene ai sofferenti di qualsiasi fede, di qualsiasi nazione, e su loro va misurata la nostra debole fede per scoprirne l’inevitabile diabolica tentazione di fabbricarci un dio che salvi noi e condanni loro!

giovedì 14 agosto 2008

Quella donna che fece cambiare idea al Figlio di Dio

Il testo del vangelo di questa ventesima domenica del tempo ordinario, che forse noi siamo abituati a sentire senza più lasciarcene stupire, contiene in realtà tre elementi sconvolgenti:

1- il fatto che Gesù cambi idea;
2- che sia una donna a fargliela cambiare;
3- che cambi idea non su qualcosa di secondario, bensì su qualcosa di sostanziale: l’esclusività della salvezza e la sua realizzazione “tramite selezione”.

Per capire davvero la portata di questi elementi, che coraggiosamente la prima comunità cristiana ha voluto tramandare per sempre a tutta la Chiesa, proviamo a guardarli uno alla volta, da vicino, cercando anche di lasciarcene istruire.

1- Dire che Gesù – che noi crediamo il Figlio di Dio – ha cambiato idea “strada facendo”, lasciandosi provocare dalla storia che man mano viveva e dagli incontri che in essa faceva, non è una cosa così indolore. Ancora oggi (anzi forse molto più oggi che allora), affermare una cosa del genere scatena immediatamente reazioni di iper-prudenza, di attenuazione delle parole, di ridimensionamento della cosa. Non fa niente se è scritto in modo inequivocabile nel vangelo: la paura atavica della dissacrazione di Dio e della sua possibile ritorsione (eterna) è più forte. E allora si ha bisogno come di liofilizzare la vicenda terrena di Gesù, di renderla eterea, di de-storicizzarla.
Ma perché fa così paura dire che Gesù ha cambiato idea? Il timore è che questo possa mettere in discussione la sua divinità e – di conseguenza – la nostra salvezza. Cioè che, se Gesù non sapeva già tutto in anticipo (con l’esclusione quindi della possibilità per lui di cambiare idea, di evolvere nella presa di coscienza di sé, del Padre e della sua missione), ma “si è fatto” strada facendo (come fanno tutti i figli di questo mondo), allora forse non era Dio... e se non era Dio, ma solo un uomo, che senso ha credere in Lui? Non può portarci nessun beneficio, né tanto meno la salvezza... e quindi – visto dal punto di vista dell’istituzione – non può portarci nessuno in chiesa...
Ecco il terrore sottostante!
Ma il problema è che in tutto questo ragionamento, che forse non esplicitiamo mai, ma che soggiace al nostro modo di rapportarci a Dio e dunque a noi stessi e agli altri, c’è un pregiudizio di fondo: il fatto che siamo noi a decidere il modo in cui Gesù deve essere Dio: deve sapere tutto e in anticipo (onniscienza), deve potere tutto ciò che vuole (onnipotenza), deve essere forte, grande, eterno... Insomma un plenipotenziario degli attributi degli abitanti dell’Olimpo... questo è il dio che abbiamo in testa noi, perché – ci chiediamo – se non fosse così, come potrebbe salvarci?
E seppur il vangelo è lì a smentire continuamente questa immagine e a invitarci a convertirla, essa rispunta sempre. Come per esempio qui, nella fatica, personale ed ecclesiale di prendere sul serio il fatto che Gesù abbia cambiato idea, che Gesù cioè fosse uomo per davvero e che questo, lungi dal diminuire la sua divinità (come la intende lui e non noi), la rivela invece in pienezza: Gesù è Dio così, facendosi uomo. Tutti i tentativi di ridurre, mitigare, diluire la sua personale vicenda storica, pensando così di salvaguardarne la divinità, in realtà perdono l’una e non trovano l’altra, se non, al massimo, in una forma evanescente, inconsistente, insapore e incolore, tanto lontana dalla vita dell’uomo da apparire superflua, se non addirittura inutile (come di fatto accade oggi).
E pensare che tutta la vita di Gesù dice il contrario... nasce povero e nudo dal grembo di una donna; di lui il vangelo dice che «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52); che ha provato la lotta col male (Mt 4,1 ss); che si è lasciato provocare dalle discussioni con gli altri uomini (Mt 9,14 ss); che «si meravigliava» (Mc 6,6); che si intristiva e piangeva (Gv 11,35); che si commoveva (Mt 14,14); che incontrava, andava, ritornava, amava, pregava; che provava «paura e angoscia» (Mc 14,33)… che – per dirla alla De Andrè - «è morto come tutti si muore, come quegli altri, cambiando colore».
E a meno di dire – come è stato detto (cfr docetismo) –che Gesù facesse finta, è necessario, di fronte a questa evidenza, assumere con serietà e radicalità il fatto che Gesù sia Dio proprio nel modo di farsi uomo («Cristo Gesù, essendo per forma Dio non stimò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma annientò se stesso, prendendo forma di servo, diventando simile agli uomini; e apparso in forma umana si umiliò facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce»)! E che – viceversa – dentro a questo “farsi uomo” di Gesù, fatto di storia e incontri, riflessioni e esperienze, ci sia anche il suo modo di essere Dio: un Dio che sceglie di essere Dio-con-gli-uomini o Dio-mai-senza-l’uomo, che dunque sceglie di non scrivere la storia a prescindere da lui, ma di inventarla insieme con lui… sapendo il rischio che corre…
Però, solo con un Dio così è appassionante avventurar la vita…

2- Secondo sconvolgimento: anche le donne - in maniera inconcepibile per la mentalità ebraica di allora ed ecclesiastica di oggi – sono entrate in questo flusso di presa di coscienza di Gesù! E lo hanno fatto in modo radicale. È curioso quanto peso– ancora una volta con un coraggio smisurato – la prima comunità cristiana abbia riservato nei vangeli agli incontri di Gesù con le donne. Non solo per la loro quantità o frequenza, quanto per la loro decisività: Gesù nasce dal grembo di una donna; non ha paura di andare contro le prescrizioni ebraiche e di suscitare scandalo facendosi toccare («Ed ecco una donna, che soffriva d'emorragia da dodici anni, gli si accostò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. […] Gesù, voltatosi, la vide e disse: “Coraggio, figliola, la tua fede ti ha guarita”», Mt 9,20.22), amare («Ed ecco una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, venne con un vasetto di olio profumato; e fermatasi dietro si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato», Lc 7,37-38), difendendole pubblicamente («Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei», Gv 8,7); addirittura attribuisce all’incontro con una di esse la stessa necessità di farne memoria che assegna all’eucaristia («In verità vi dico: dovunque sarà predicato questo vangelo, nel mondo intero, sarà detto anche ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei» Mt 26,13); tra tutti, appena risorto, sceglie di andare dalla sua Maria Maddalena («Maria!», Gv 20,16)…
E poi la nostra di oggi… quella donna che ha fatto cambiare idea al Figlio di Dio…
C’è di che sobbalzare (di gioia) per un Dio così!

3- E non per uno pseudo-femminismo che gli si può attribuire, ma perché è uno che accetta di avventurare la sua libertà nell’intreccio con quella della sua creatura, a prescindere da qualsiasi barriera razziale, culturale, di genere, incontrandola invece in quell’intimità di sé (la stanza interiore) che fa l’uomo umano (e cioè abilitato all’incontro col divino – il divino di Gesù Cristo): «Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,6)
Ecco il terzo sconvolgimento! Il più sconvolgente perché ha sconvolto per primo Gesù stesso! Egli infatti ha dovuto prendere coscienza di dover cambiare idea e di dover uscire dalla mentalità giudaica del suo tempo che pensava la salvezza come dono esclusivo per Israele (nonostante qualche spinta universalista fosse già presente nell’AT – cfr la prima lettura di Isaia). A ben guardare infatti Gesù inizialmente si dedica «alle pecore perdute della casa d’Israele», non va nei territori pagani e non a caso chiama dodici discepoli: egli infatti vede la sua missione come la costruzione del nuovo Israele!
Ma… la vita gomito a gomito con la gente, nonostante il tentativo, anche duro, di trattenersi («egli non le rivolse neppure una parola») lo “converte”… gli fa cambiare strada… e spalancare le porte dell’incontro con Dio, in lui, a tutti gli uomini!
Forse perché «dire no a chi ‘da vicino’ ti chiede qualcosa, è sempre più difficile» [Relazione per i 25 anni della fraternità di Lessolo].

mercoledì 13 agosto 2008

Il volto di carne della nostra speranza

Per un momento, nella normale costruzione di un essere umano, è sospeso l’intervento dell’uomo. La donna misteriosamente e tacitamente esce dalla sua condizione di parola parlata dall’uomo, e accetta nella sua piccolezza di divenire “parola parlata” da Dio. A conclusione di un interminabile lungo e doloroso cammino, alla ricerca del nuovo statuto umano, nel rovesciamento radicale dell’anelito velenoso originario (“tutto deve essere come dico io!”) che diventa in lei: “sia fatto di me secondo la tua parola”. Maria diventa così la porta della salvezza. Dio può fare il suo ingresso nell’umanità, non tanto da creatore, ma da interlocutore. Come uno di noi, diviene capace di ascoltare e parlare parole umane … nell’unico modo possibile: imparando anche lui una lingua ‘materna’.
La terra, la carne, la donna diventano la terra, la carne, la madre di Dio… “Nato da donna!”

Passati i giorni misteriosi e carichi di emozioni e di simboli (una ricomprensione intensa, orante e profetica delle vicende prime!) Maria si ritroverà immersa nel quotidiano complesso e conflittuale che fa la storia anonima di tutti i giorni. L’accudimento di qualche anno di mamma dietro un bambino sospeso tra cielo e terra è il tempo dell’apprendimento del nuovo misterioso mestiere di madre dell’umanità. Continuare a cercare tra la gente, nelle strade e nelle contrade, nel tempio o sulle colline, …il figlio dell’uomo, senza padre, che annunciava il Padre di tutti. Anche a lei, al di là di ogni generazione carnale. In questa ricerca, “serbava nel suo cuore tutte queste cose, confrontandole tra loro” … per domandarsi ancora una volta che senso hanno, cioè quale speranza contengono tutte le cose che capitano al mondo

Sotto la croce ha capito! Perché sotto la croce Dio le ha restituito - morto - il figlio comune (umano e divino). Mettere al mondo, dunque, non voleva dire soltanto far nascere, ma rendere “mondano”, cioè mortale, Dio. Mettere al mondo vuol dire mettere a morte. Seminare la morte all’interno di Dio. E Dio venne ad abitare nell’unico luogo dove non avrebbe mai potuto abitare. Ma siccome Dio è troppo grande e il mondo è piccolo, è la mondanità che è diventata interna a Dio. E lei, Maria, è la generatrice terrena dell’eterno… Un eterno ormai contaminato dalla inanità della polvere di cui è fatto l’uomo.
Di questa malattia umana, trasmessa a lui da Maria, Dio è morto. Poiché questa unione di Dio con la sua carne di donna, dentro il suo corpo (questo è il mio corpo! questo è il mio sangue!) è indivisibile. Il figlio morente ha fatto per sempre una cosa sola, delle due cose incompossibili. Il matrimonio tra Dio e mondo, in Maria, diventa indissolubile, anche se una spada a due tagli cerca di separarli.

La terra (l’umanità) si santifica stando impotente ai piedi della croce, col cuore trafitto dalla spada a doppio taglio, come lei ci ha insegnato. Doppiamente lacerati, dunque! trafitti dall’abbandono nel quale Dio lascia il figlio (e la nostra storia) nel suo abisso di impotenza e di morte - e trafitti dalla solidarietà mai rassegnata con gli uomini nostri fratelli, incapaci di fraternità e perdono. Senza potere fare nulla. La via dei figli / fratelli è la via del sacrificio per la madre - e, ora, è la nostra via crucis di poveri cristiani!
La morte (l’enorme onnivoro drago rosso) continua a rubare la vita, ma non può più uccidere il cuore (o l'anima – la speranza) dell’essere uomo o donna. Può paralizzarla provvisoriamente, cioè addormentarla - in attesa di un risveglio, affidato alle scadenze insondabili della misericordia del Padre. Perciò la Donna, la madre dei viventi (l’antimorte!), esulta nel più intimo della sua passione. E la sua piccolezza non le fa velo, perché sa che tutto quanto è umano, anche un frammento, è già anticipatamente salvo. A cominciare dai poveri, affamati, seduti nella polvere… ma destinati al trono!
Così il primo anello della “nuova generazione” si è saldato alla cordata infinita della processione umana delle donne e attraverso il loro corpo …a tutta l’umanità. La “visitazione” è la prima immediata risposta della Donna nuova, che parte in fretta, in aiuto alla donna in difficoltà di parto, nel travaglio della maternità.
La “parola parlata” (sia fatto di me secondo la tua parola!) si mette a parlare a sua volta, perché finalmente l’essere parlata non l’ha resa oggetto, ma soggetto, “piena di grazia”, “parola parlante”. È diventata donna. “Piccola”, ma sempre più consapevole della sua grazia e del suo posto nella storia della salvezza. Dentro la casa di Zaccaria avvengono cose grandi. Per un istante è il centro della storia, lo snodo della precessione storica femminile, la speranza profetica dell’umanità!
Lì, due donne, proclamano che tutto è cambiato. Gli uomini, esperti gelosi di leggi e di liturgia, farfugliano ammutoliti e non sanno più cosa dire, né cosa scrivere, né come pregare. Le donne (che neanche potevano essere testimoni) raccontano i prodigi di cui sono protagoniste, li spiegano e li cantano per le generazioni future. E innescano una speranza che trasforma il destino della carne.

Inizia un nuovo modo di procedere della storia della salvezza: la liberazione dal basso, “per contagio di vangelo”. La buona notizia che Maria riceve dall’angelo di Dio, è ricevuta e ritrasmessa da Elisabetta. E Maria riscopre, con consapevolezza nuova, nel volto, nella voce, nella gioia dell’altra donna che le risponde, il mistero sorprendente che l’ha avvolta. E ne è a sua volta contagiata. I due bambini, umanità nuova, anche loro imparano a parlare e ascoltarsi, pur rinchiusi ancora nella minuscola scuola di carne delle due madri.
L’annuncio di salvezza e la memoria della grazia diventano un dialogo di comunione reciproca che si effonde sulle donne di generazione in generazione, coinvolgendo tutti i poveri, affamati e assetati di bene. Quanto le donne desideravano e preparavano nel segreto dei millenni, sta germogliando. L’uomo a cui Dio vuol bene, quando è coinvolto in cose troppo grandi - un angelo gli tappa la bocca, lo tira fuori dal tempio e dalla legge e dalla tradizione, lo fa assistere muto al dialogo ‘evangelico’ delle donne. E gli ridà la parola quando tutto è avvenuto.

Anche la chiesa non sa bene cosa dire dell’Assunta, e lo dice con il linguaggio maldestro del tempo: Maria ci precede lassù, in corpo e anima!… In verità, un frammento di terra, quello che ha contagiato di umanità il cuore di Dio, è rimasto a sua volta contaminato di eternità. Maria, come il figlio, non può rimanere prigioniera della morte, ma è sprofondata nelle passione di Dio, divenuto per sempre casa sua! Madre sua e nostra, instancabilmente aspetta il lento farsi completo della speranza, nei suoi figli!

martedì 12 agosto 2008

Noi, prostituti dentro!


Arrabbiata, spaventata e infine esausta. Rannicchiata a terra, mezza nuda, con il corpo sporco di polvere sul pavimento di una cella di sicurezza. La ragazza nigeriana fermata durante l'ultima retata anti-prostituzione e fotografata al comando della polizia municipale di Parma dopo che si era lasciata cadere a terra senza più forze, è diventata, suo malgrado, il simbolo di una nuova "caccia alle streghe", cominciata con la carta sulla sicurezza e proseguita con le ordinanze (applicate o solo annunciate) dei sindaci-sceriffo.

"Che cosa ha fatto di male quella donna per essere messa in una cella?", si chiede indignato un lettore. La risposta, provocatoria, arriva da Carla Corso, leader storica delle prostitute: "È una indesiderata, un'emarginata, una donna che forse è vittima di una tratta e che cerca di vivere o sopravvivere con il proprio corpo. E questo, in una Italia sempre più intollerante, è diventata una colpa". La lista dei divieti si allunga di giorno in giorno: vietato chiedere l'elemosina, lavare i vetri, rovistare nei cassonetti… "Essere poveri sta diventando un crimine e in questa fascia di nuovi perseguitati i più deboli sono gli immigrati e le donne… Ci sono troppe lucciole che sono schiave e si vendono sui marciapiedi perché minacciate da chi le ha fatte arrivare in Italia". "Le retate anti-prostituzione – continua – servono solo a fare impazzire le lucciole che scappano da una città all'altra o da un quartiere all'altro in cerca di un clima più tollerante. La ragazza fotografata chiederà mai aiuto a chi l'ha trattenuta in quella cella? Si fiderà mai delle forze dell'ordine? Anche se è vittima della tratta non glielo dirà e se, insieme alle sue colleghe, sarà cacciata in un cono d'ombra ancora maggiore, ad esempio se sarà costretta a prostituirsi in un appartamento, non incontrerà neppure volontari in grado di spiegargli che può entrare in un percorso di protezione. I sindaci-sceriffo stanno cavalcando il tema della prostituzione ottenendo come unico effetto quello di criminalizzare chi avrebbe bisogno di protezione". "Trovo vergognoso – continua Corso, riferendosi alla foto – quel corpo abbandonato a terra in un comando di polizia municipale. Trovo vergognoso che i nostri poliziotti, carabinieri e vigili urbani controllino gli immigrati senza informarli dei loro diritti e che si scambi la prostituzione per un problema di sicurezza".
continua in Repubblica.it

Nel vedere questa foto, nel leggere queste parole, di una (ex?) prostituta... mi appaiono ancora più attuali e inaudite le parole di Gesù: In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. (Matteo 21,31)...

venerdì 8 agosto 2008

Il possibile incontro con Dio nell'inevitabile storicità dell'uomo

La prima lettura e il Vangelo di questa diciannovesima domenica del tempo ordinario, per essere ben compresi, invitano ad allargare lo sguardo su una porzione un po’ più ampia, rispetto a quella proposta dalla liturgia, della vicenda dei loro protagonisti: da un lato Elia, dall’altro Gesù e i discepoli (in particolare Pietro).
Questo ampliamento d’orizzonte consente infatti di collocare gli episodi qui narrati nell’evoluzione storica che li ha preceduti e seguiti, con due vantaggi: quello più immediato di permettere una visione non parziale e deformata dei personaggi; e quello più strutturale di farci cogliere come unico modo corretto di pensare l’uomo, sia quello di pensarlo come essere storico.
Come anticipato, questo è visibilissimo in Elia. L’episodio che la prima lettura ci presenta infatti rischia di rimanere un po’ incomprensibile o, peggio, di essere frainteso se non si conosce ciò che lo precede e ciò che lo segue. Ecco perché è doveroso, almeno velocemente, ripercorrere la storia di questo profeta così come ci è presentata nel I e nel II libro dei Re (1Re 17,1 – 2Re 2,18).
Siamo nel IX sec. a.C. nel Regno di Israele, che ha al suo vertice il re Acab. In questo contesto inizia la storia di Elia profeta; a dire il vero in modo un po’ anomalo: egli compare infatti sulla scena rivolgendo al re una parola che è sua e non di Dio: «Elia il Tisbita, uno degli abitanti di Galaad, disse ad Acab: “Per la vita del Signore, Dio di Israele, alla cui presenza io sto, in questi anni non ci sarà né rugiada né pioggia, se non quando lo dirò io» (1Re 17,1).
Davvero uno strano profeta quello che parla a nome suo e non a nome di Dio...
Ma proprio questo è l’aspetto interessante del ciclo di Elia: il fatto che questo profeta non è presentato in modo agiografico, come un eccellente uomo di Dio, ma come un uomo, dal “carattere difficile”, che dovrà fare un lungo percorso per convertire l’idea di Dio che ha in testa.
Tant’è che il testo, con un tono decisamente ironico, ci presenta immediatamente come Elia stesso sia vittima della sua profezia: infatti, dopo che su invito di Dio si era rifugiato presso il torrente Cherit, per sfuggire alle insidie della casa regnante che lo voleva morto, avvenne che «il torrente si seccò perché non pioveva sulla regione» (1Re 17,7). Simpatico questo Dio che fa propria la parola del profeta, anche se non era sua, e decide di attuarla proprio ora...
Il Signore allora – dopo questo primo smacco che Elia si auto-procura – decide di inviare il suo profeta a Sarepta di Sidone, dove egli si stabilisce, in casa di una vedova. Ma anche lì Elia prosegue con il suo strano stile: di fronte alla donna che, alla sua richiesta di nutrimento gli risponde «Per la vita del Signore tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ di olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a cuocerla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo», egli ribatte, con egoismo (?): «Non temere; su fa’ come hai detto, ma prepara prima una piccola focaccia per me e portamela; [...] poiché dice il Signore: La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non si svuoterà finché il Signore non farà piovere sulla terra» (1Re17,12-14). Peccato che anche stavolta questa è parola di Elia e non parola del Signore... Ad ogni modo anche stavolta quest’ultimo sceglie di assecondare il suo strano profeta, così che «La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì» (1Re 17,16).
Ma «In seguito il figlio della padrona di casa si ammalò» (1Re 17,17). E interessante è in quest’occasione, cogliere la reazione della madre, che chiaramente rivela che opinione essa abbia di Elia: «Che c’è fra me e te, o uomo di Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia iniquità e per uccidermi il figlio?» (1Re 17,18). Opinione certamente poco consueta di un profeta...
Eppure, con questa sua frase pungente e carica di dolore, questa donna riesce – per prima – a fare breccia in Elia, che sentendosi in colpa – dato il suo atteggiamento con Dio e con gli altri – si rivolge al Signore con queste parole: «Signore mio Dio, forse farai del male anche a questa vedova che mi ospita, tanto da farle morire il figlio?» (1Re 17,20).
E ancora una volta «Dio ascoltò il grido di Elia; l’anima del bambino tornò nel suo corpo e quegli riprese a vivere» (1Re 17,22).
Eppure Elia, che sembrava essersi un po’ smosso interiormente, nel capitolo immediatamente successivo dimostra ancora di non aver ben capito la lezione... Il Signore infatti gli disse: «Su mostrati ad Acab; io concederò la pioggia alla terra» (1Re 18,1). Questo dunque doveva dire: che stava per finire la siccità... Eppure pochi versetti dopo lo ritroviamo di fronte al re a riferirgli: «Io non rovino Israele, ma piuttosto tu con la tua famiglia, perché avete abbandonato i comandi del Signore e tu hai seguito i Baal. Su, con un ordine raduna tutto Israele presso di me sul monte Carmelo insieme con i quattrocentocinquanta profeti di Baal e con i quattrocento profeti di Asera, che mangiano alla tavola di Gezabele [la regina]» (1Re 18,18-19).
Con queste pesantissime parole Elia – che doveva solo annunciare la fine della siccità – lancia invece una sfida ai falsi profeti che adoravano gli idoli... sfida che vincerà, ma che per sua volontà si concluderà in un bagno di sangue: «Elia disse: “Afferrate i profeti di Baal; non ne scappi uno!”. Li afferrarono. Elia li fece scendere nel torrente Kison, ove li scannò» (1Re 18,40). Ancora una volta – nel silenzio della parola di Dio – Elia fa di testa sua.
Ma la ritorsione della regina si preannuncia pesante ed Elia, «si alzò e se ne andò per salvarsi» (1Re 19,3). Ciò che lo muove però non è solo la paura, ma più che altro la crisi col suo Dio. Elia né lo capisce né tanto meno si sente capito: sceglie perciò di provocarlo. Infatti «si inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto un ginepro. Desideroso di morire, disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». È un ricatto affettivo: vuole spingere Dio a intervenire in suo soccorso per ottenere in questo modo la sua approvazione. E il Signore – molto diversamente da come istintivamente avremmo pensato noi – ancora una volta, si fa vicino al profeta e lo nutre. Ma egli insiste e ostinato, pur mangiando e bevendo, non si alza. E il Signore nuovamente fa un passo verso di lui: «Venne di nuovo il messaggero del Signore, lo toccò e gli disse: “Su, mangia, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino». Finalmente Elia «Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza datagli da quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb» (1Re 19, 4.7-8).
È a questo punto che si inserisce il brano riportato nella prima lettura, che forse ora, dopo aver raccontato questa storia, possiamo guardare con occhi diversi, perché ormai il protagonista lo conosciamo...
E siamo alle solite: alla domanda del Signore «Che cerchi qui Elia?» - ed è da ricordare che qui non è un posto qualsiasi, ma significativamente la caverna dove Mosè aveva ricevuto la rivelazione del nome di Dio (Es 3,1 ss.) – Elia si rivela ancora sempre lo stesso: «Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita».
Ma ora è l’ora di Dio, infatti a questo grido di Elia, carico ancora di tutta la sua tracotanza, di tutta la sua rabbia, di tutta la sua paura, di tutto il suo desiderio di vendetta e rivalsa, il Signore semplicemente risponde: «“Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore”. Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso... un terremoto... un fuoco... ma il Signore non era nel vento, nel terremoto, nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu voce di un silenzio svuotato. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello».
Alla chiassosa e violenta esistenza di Elia, il Signore risponde in una voce di un silenzio svuotato... un doppio ossimoro che – oltre a Elia – lascia a bocca aperta anche noi.
Eppure questa è la chiave di volta della vita del profeta: è l’incontro in verità col Signore, che è anche incontro in verità con se stesso. Questo, anche per noi, è il livello da guadagnare, perché è l’unico che trasforma davvero la nostra interiorità, la rende libera e dunque abilitata alla Vita. Infatti anche Elia – su cui forse noi ormai avevamo poche speranze – cambia, come attesta il proseguo della narrazione.
A questo proposito è interessante notare come, seppure anche prima dell’Oreb Elia avesse spesso giurato a nome di Dio («Per la vita del Signore»), creduto di averlo incontrato, addirittura preteso di parlare e agire a suo nome, è solo ora che c’è un discrimen qualitativo altro.
È la stessa vicenda dei discepoli... anch’essi immersi nella storicità dell’uomo... con le sue andate e i suoi ritorni, le sue parzialità e zone d’ombra, i suoi entusiasmi (c’è appena stata la moltiplicazione dei pani e dei pesci) e le sue paure («È un fantasma!»), con i suoi slanci («Davvero tu sei Figlio di Dio!») e le sue ritrattazioni («Non conosco quell’uomo»)...
Eppure dentro a questa storicità dell’uomo, e quindi anche alla storicità del suo incontro con Dio, è iscritta la possibilità di un incontro vero con lui, la possibilità di dire chi è Dio e dunque dire chi sono io (dire infatti chi sono io è possibile solo dicendo chi sono io di fronte a lui).
Un incontro che non risolve i dubbi, che non preserva dagli errori, dalle ritrattazioni, dalle paure, dalle infedeltà, dalle parzialità, dalla storia: dalla fatica di impegnare tutta la vita nel rapporto col Signore. Eppure, a incontro autentico avvenuto, tutto questo non ha più la potenzialità di falsificare l’identità sua e nostra. Tutto, pur nella sua realtà e nella sua drammaticità, è come “tenuto” da questa identità sua e nostra a cui si è avuto accesso e alla quale, per ciò, si può sempre ritornare! Come per Elia, come per Pietro... che ci somigliano tanto...

Camminare sul mare, e imparare a non aver paura di sprofondare

dal Sinai all’Horeb
Due nomi diversi per la stessa montagna, il luogo della manifestazione di Dio più portentosa nella storia di Israele, nel roveto ardente e nelle tavole della legge – che diventa il luogo del nascondimento più discreto e impercettibile… nel sussurro di una brezza lieve. Il cammino che li lega è il percorso della fede del credente, alla ricerca del Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Mose, di Elia… dei Patriarchi, dei profeti, dei poveri di Jahwé. È il Dio che si è rivelato soprattutto in Gesù, che raccoglie nella sua carne questo ininterrotto cammino ed lo porta a compimento.
Quante speranze e quante sconfitte, quante preghiere e sacrifici e delusioni, nei volti di innumerevoli generazioni, alla ricerca di un Dio affidabile! … perché questo Dio dei nostri padri, appena si manifesta in qualche luogo o in qualche evento, subito sembra pentirsi, come se ogni sovraesposizione (epifania) diventasse subito ambigua, perché l’uomo immediatamente cerca di catturare Dio e tenerselo lì in questa gabbia, a sua disposizione… Ma Dio non sta fermo, se ne va e la gabbia rimane “svuotata”. Figure e simboli sacri per un momento… contenitori venerabili, ma vuoti, presto manipolati dagli uomini: Dio non era nella bufera, non era nel terremoto, non era nel fuoco… La chiamata di Dio è irreversibile…e i suoi doni senza pentimento, ma Dio non è rinchiuso nei suoi doni: l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi… Tutto rimane misteriosamente incompiuto, se non conduce a Cristo, egli, che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Qui si nasconde il mistero/scandalo del Messia, il suo drammatico segreto, profetizzato nel passaggio da una epifania potente (io sono colui che ci sono – in mezzo a voi!), attraverso tutto il percorso tragico della storia di Israele, fino a questa “voce di silenzio svuotato!” di Elia – fino al grido inarticolato sul Golgota (Mc 14,37).

La dinamica evangelica
Il Vangelo non è una favola religiosa che ci distrae dalla troppe delusioni della storia. È la bella notizia dell’esito felice di questa dolorosa vicenda dell’uomo sulla terra, atterrito dalla tempesta che minaccia di ri/sprofondarlo nel caos delle acque da cui proviene. Un esito glorioso già anticipato in Cristo e partecipato fin d’ora ai credenti e all’umanità intera, ma ancora nascosto nel mistero del suo costo …a caro prezzo: a prezzo del suo sangue e dell’incomprensione e dell’abbandono dei suoi stessi amici più cari… ai quali, con segni e con parole, tante volte ha cercato di spiegare il senso della sua avventura nel mondo! Dopo il miracolo, dopo ogni successo, ogni piccola conquista, l’uomo è in pericolo… di mettersi al posto di Dio. Crede invincibilmente di essere “bene” , ha sperimentato un briciolo di pienezza – e crede che il bene sia ormai in suo potere… Non si ricorda più di essere “male” , cioè vuoto, chiamato a riempirsi della benevolenza di Dio… - incapace di consistenza propria che non sia subito avvelenata dalla presunzione.
Questa pagina del vangelo è paradigmatica… La folla reagisce d’istinto al miracolo gratuito e sorprendente del Signore. È “saziata”, e quindi tentata di sequestrare questo taumaturgo che risolverebbe tanti problemi (fino a pensare di farlo re, come ricorda il Vangelo di Giovanni). I discepoli sono invece “costretti” dal Signore a salire in barca e riprendere il viaggio… Sono stravolti, non ci capiscono più niente, perché prima volevano congedare la folla, quando era affamata e senza risorse, e adesso che Gesù la vuole congedare perché è saziata, loro vorrebbero trattenerla, per godersi gli allori del miracolo. Hanno perso la visione vera della realtà, e sono sballottati dalle vicende, prima ancora che dalle onde del lago in tempesta…

Gesù salì sul monte , solo, a pregare
… è l’unico modo per riprendere il senso della realtà umana che si sta vivendo, di prendere distanza dalla presunzione che il bene fatto sia un suo prodotto – l’unico modo di riconnettersi col Bene vero… che è la benevolenza del Padre che vede nel segreto dei cuori e delle vicende. Pregare è questo, per Gesù, benedire il Padre per ciò che ne riceve in dono, implorarlo per riuscire sempre a fare la sua volontà, come appare dai pochi accenni che il Vangelo fa del contenuto delle sue preghiere, e dal “Padre nostro” che ci ha insegnato… che è l’esperienza della sua vita!!! La differenza fra chi prega e chi non prega non sta nella possibilità di ottenere qualche favore in più da Dio o nella diminuzione delle avversità, o in qualche miracolo che alleggerisca la fatica del vento contrario, ma nella capacità di camminare sulle acque, senza sprofondare – senza perdere la fede, per le avversità della vita… Un apprendistato molto difficile e aspro, oltretutto fallimentare, durante la vita del Maestro, ma è l’essenziale dell’essere discepolo di Gesù.

  • Appena cominciano le difficoltà, pur dopo aver visto con i propri occhi, nella moltiplicazioni dei pani, che Gesù è il Signore, la sua proposta evangelica sembra ai discepoli stessi fuori della realtà e la sua figura… un fantasma. La fede non sostiene nella paura perché non è interiorizzata, é una fiducia emozionale, fondata sulla vicinanza fisica del potere, ma non ha impregnato le strutture profonde della persona.
  • La dinamica evangelica della fede ci mette alla prova inoltrandoci (dopo il miracolo, la conversione, la vocazione…) nel mare aperto delle vicende quotidiane con la fatica, la solitudine, la fragilità di tutti… Ci obbliga ad accogliere la sfida della vita, che è “andare a fondo” … e andremo a fondo! unico modo per diventare umili e perdere un po’ di presunzione … Quel po’ di amore al Signore e ai fratelli, che sopravvive, serve solo per aprirci gli occhi e diventare consapevoli dell’inconsistenza della nostra fede…
  • Allora può sgorgare dalla desolazione la preghiera del cuore, quella che nasce dall’amarezza di aver sperimentato nel peccato e nel tradimento chi è… il Salvatore e chi l’incapace di salvarsi. Gesù ci ha detto dove guardare, nella verità di questa situazione, riprendendo proprio l’antica auto/definizione di Jahwé a Mosè: io sono! Finché Pietro guarda a lui cammina sulle acque, appena guarda il vento avverso precipita… E nell’angoscia tra dubbio e fede, sicuro ormai di non stare a galla da solo, trova la preghiera vera, perché la “poca fede” possa crescere prima di affondare… Signore salvami!
  • Anche la fede più debole, nella lotta dolorosa tra presunzione di farcela da soli (sempre smentita) e consegna “svuotata” di sé (unica spiaggia dove approdare nel naufragio), vive sempre in collegamento vitale con tutti i fratelli che sono sulla stessa barca, e in qualche modo ne dipendono, per ritrovare la strada dell’umile e macerato ‘riconoscimento’ di sé e del Signore…

Pregare è partecipare con Gesù alla tempesta / passione del mondo
Il suo camminare maestoso sopra i flutti – è ‘sovrumano’ e dovrebbe servire come segno per istillare nei discepoli la sua superiorità sulle forze della natura e ottenere cos’ da loro, una volta per sempre, la fiducia – cioè quell’aumento della “poca fede” che il Signore pensa sufficiente… ad andare a fondo senza disperare (Gesù stese la mano e lo afferrò!). Bisogna passare dalla voglia di miracolo, come prolungamento “divino” della volontà di potenza dell’uomo, che cosi diventa satanico… all’antimiracolo, il prodigio inimmaginabile della misericordia del Padre: la consegna della stessa sua potenza divina (il figlio!) in balia della presunzione umana (cfr il drammatico dialogo di Gesù e Pietro, due pagine dopo!). I teologi farisei saranno giustamente scandalizzati dall’impotenza divina sulla croce! Non c’è miracolo che aumenti l’amore, cioè la forza di superare la paura della morte e donare la propria vita. Solo l’antimiracolo alla fine trionferà! Che non è “scendere dalla croce”, ma andare a fondo, per amore! Quando “tutti, abbandonatolo, fuggirono”, sarà Gesù a implorarli di stare a pregare un poco con lui perché la sua anima stava precipitando nelle angosce della morte, ma loro l’hanno lasciato andare a fondo nella sua disperazione solitaria… Ecco perché i discepoli più attenti (i mistici) hanno sempre cercato fargli compagnia nella “sua” passione, piuttosto di badare alla propria: “Quando si è completamente rinunciato a fare qualcosa di noi stessi … – allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getsemani, e, io credo, questa è fede, questa è metànoia, e così si diventa uomini, si diventa cristiani” (Bonhoeffer lett 21.07.1944)

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