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sabato 26 luglio 2008

Hai trovato il tesoro della tua vita? La sfida al discepolo di Gesù

…quattro minuscole parabole vengono a completare la presentazione del Regno di Dio, dopo quelle più diffuse delle pagine precedenti. Ma più sono piccole e più è concentrata la loro forza propria di “parabole” (quasi figure simboliche “gettate accanto” al discepolo di Gesù per ravvivarne e fermentarne la fede e la speranza… lungo il cammino, dopo un po’ di percorso, quando magari la stanchezza o la fatica ha appannato l’entusiasmo del cuore!

hai trovato il tesoro della tua vita?
… per saperlo ci sono indicazioni lapidarie, ma preziose! il tesoro è nascosto! Ancora, come lo era all’inizio. Non è appariscente, non è propagandabile… All’apparenza tutto sembra normale in questo “campo”. Ma il tesoro è nel campo! Non altrove, né chissà dove! Il campo è il mondo. È la nostra storia, la nostra vita… Tra ricerca insoddisfatta e dono, tra anelito di cattura del bene definitivo e incontro mai compiuto. Cosa c’è sotto la crosta dura (talora spinosa e dolorosa) del campo dove ci è toccato di vivere?

  • il tesoro è tale, per chi si crede discepolo di Regno, se ha cambiato il senso della nostra vita, almeno in un momento di gioiosa certezza interiore, che ci ha fatto dire: è lui! (come di un volto davanti al quale passano in tanti, finché lo vede colui – colei che se ne innamora e diventa il tesoro della sua vita. Curioso, questo tesoro nascosto nel campo; che un uomo trova e nasconde ancora… Perché non può stare all’aria, non è “qualcosa” da portare via e mettere in cassaforte, non è distaccabile dal campo!. È il senso della vita, che si può illuminare in un momento, ma va reimpastato nel fondo della propria avventura umana, perché solo così è vivibile. Come l’amore… non è una cosa in sé, è una cosa in altro, verso un altro! è la spinta, il senso, lo scopo… della normale vita che si fa!
  • allora tutto il resto, in cui la vita era indaffarata… non ha più valore se non alla luce del tesoro. La diversa valutazione (o addirittura la “svendita”!) di tutti gli altri beni della vita, non è una scelta morale di ascesi per conquistare il tesoro. Ma, al contrario, è la conseguenza naturale di una sovrabbondanza interiore (un dono!) che ha sconvolto la gerarchia interna dell’importanza dei beni nella vita, ridisegnandola secondo un nuovo asse centrale. (Era quello che Gesù aveva chiesto al giovane ricco… e non aveva funzionato: affascinato, ma non innamorato!)
  • per dirla con il successivo linguaggio scolastico: la mistica precede la morale, come l’innamoramento precede e nutre la forza di affrontare poi le fatiche e l’usura del quotidiano! Se no, se si dovesse da soli guadagnarsi il tesoro, nessuno si salverebbe. Anzi (vuol dire la parabola!) se lo “sforzo di vivere” si sgancia dal tesoro interiore, rischia di perdere la gioia, rientra nella logica della conquista e del possesso, dell’autoaffermazione e del giudizio discriminante… si allontana dalla logica del Regno di Dio!
  • È spontanea la domanda: non si può, dunque, “provocare” l’incontro, la conversione della vita, l’esplosione di questa scoperta sconvolgente – far “toccare con mano” ai nuovi (e vecchi) discepoli di Gesù, il tesoro? … Questo è, ovviamente, lo sforzo immenso di millenni di catechesi della Parola, di pastorale sacramentale, di educazione spirituale della chiesa? La parabola si concentra sull’origine (il nucleo propulsivo) della dinamica della fede e lì ci vuole riportare! Ma forse suggerisce anche che si può disseminare il “campo” di tracce, di barlumi, di piccole esperienze significative… come nel gioco della caccia al tesoro per i bambini, quando lungo il tracciato sparpagliamo indicazioni e segnali un po’ nascosti e un po’ visibili, che stimolino insieme la voglia e il gusto del cercare il “tesoro vero” e ne indicano la strada! è quanto fa la parabola con noi

la qualità discriminante del Regno
la “cultura” faticosamente conquistata lungo i millenni, con le sue elaborazioni morali, filosofiche, religiose, tecniche, racconta di un antico e sempre incompiuto cammino verso le vette dello spirito umano. Il tesoro è lì! dentro questo campo. Non in aggiunta né in concorrenza. Una sorpresa (per il contadino!), o anche la ricerca di una vita (per il mercante). Ma il tesoro o la perla era già lì, in mezzo a noi, come il regno di cui dice Gesù, appunto! Non è una “fabbricazione” delle mani o della mente dell’uomo, e sarà sempre refrattaria ad ogni manipolazione! Anzi non è l’uomo che lo conquista, è il tesoro che attrae e conquista l’uomo! e gli dà finalmente la sensazione di una grazia di appartenenza. La gioia non è mai frutto di possesso, il possesso da ansia di perdere ciò che si possiede. Non è il tesoro che mi appartiene: sono io che appartengo al regno, al progetto nascosto sotto la crosta dura delle vicende del mondo… e allora, finalmente, nonostante i sussulti delle contraddizioni e delle ferite, mi pacifico.
La ri/scoperta gioiosa del Regno che la parabola vuole provocare ri/diventa la forza per non anteporre mai più a questo tesoro i vari beni della vita, puntando non sulla pur saggia pedagogia del distacco, ma sulla logica illogica del vangelo! cioè della buona inaspettata notizia. Che è questa: ogni fame dell’uomo è una manifestazione del suo bisogno e si sazia (provvisoriamente) in ragione della somministrazione del suo cibo! La parabola lancia oltre, nel campo del desiderio che invece, se corrisposto aumenta e dà gioia! Questo è il livello dell’amore, con la sua dinamica fondata sulla libertà del dono. Il colmo di questa dinamica è quando il desiderio ha trovato chi lo desidera! Quando questo capita, gli innamorati davvero perdono la testa, come si dice! Quando scopri che colui che ami ti vuol bene e… ti desidera. Non c’è gioia più grande nella vita!
… con rispetto di ogni cammino
Ogni pesce, nel mare del mondo e della chiesa, cresce secondo la sua specie e la sua storia. Non bisogna anticipare i tempi e le scadenze secondo i nostri piccoli schemi. E cercare di fare proseliti a tutti i costi. La rete della benevolenza del Signore li avvolge, li protegge e li custodisce, buoni e cattivi che siano, secondo i nostri meschini giudizi. Ci penseranno gli angeli… quando il fiume della storia arriverà alla sua fine a trovare il canestro giusto della maturazione di ognuno nella libertà e nell’amore.
… e con i piedi per terra!
divenire discepolo del Regno, non vuol dire non avere più problemi. Le necessità di questo mondo, la famiglia, il lavoro, la politica, i beni di sussistenza e la salute… rimangono la fatica e l’impegno della vita per sé e per gli altri. E tutto quanto la tradizione ci ha consegnato è prezioso, perché necessario all’esistenza: addirittura è conservato dal discepolo nello stesso unico “tesoro”. Ove però c’è del “nuovo”, impensabile alla umana sapienza antica. Ciò appunto a cui niente va mai anteposto: Gesù e il suo vangelo con i suoi prediletti, i poveri.

venerdì 25 luglio 2008

Là dov'è il tuo tesoro, è anche il tuo cuore

I testi che la liturgia ci propone per questa diciassettesima domenica del tempo ordinario si aprono, nella prima lettura tratta dal libro dei Re, con una domanda, già da sola, capace di far sussultare mente e cuore di chi legge; infatti «In quei giorni a Gàbaon il Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte. Dio disse: “Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda”».
«Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda» è l’inaspettato che irrompe nella storia, la richiesta che tutti, specialmente in alcuni momenti della vita, vorremmo sentirci porre, in special modo da Dio...
Certo, non potendolo fare abbiamo elaborato tutta una teologia capace, se non di rendere ragione, almeno di acquietare l’animo di fronte a questa impossibilità, e dunque tutta una schiera di ben pensanti – a ragione – si solleverebbe a ricordarci che Dio non è una bacchetta magica, che dunque non ci si può rapportare a lui come ad una macchina dei desideri... Eppure, anche se queste indicazioni sono vere e ci aiutano a non avere un approccio di fede ingenuo, ciò che in esse viene taciuto è che nel fondo del cuore di ogni uomo, anche il più istruito o teologicamente preparato, rimane l’atavico, arcaico e forse infantile anelito di poter esprimere e veder realizzati i propri desideri in modo facile: senza la fatica di una storia, la preoccupazione di un esito mai certo, la complessità delle situazioni in gioco...
È lo stesso anelito che sta alla base di tutte le storie e leggende che ci parlano di geni che escono dalle lampade coi famosi tre desideri, di fate con le loro bacchette magiche e via discorrendo...
Esse però non devono ingannarci sulla portata della domanda. Sono storie per bambini, è vero, ma, a ben guardare, nelle loro versioni originali, non sono mai banali e per questo sono anche “storie per i grandi”.
Dico “nelle loro versioni originali” perché poi effettivamente si è andati incontro, per mezzo della satira e dell’ironia (quante barzellette hanno i “tre desideri della lampada”), ad un uso ridicolo della domanda «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda».
Essa invece – come dicevamo – è molto più pregnante di quanto le sue volgarizzazioni mostrino. Essa infatti presenta il profilo del volere («Chiedimi ciò che vuoi») nel suo legame stretto a quello dell’essere: Cosa vuoi? Dunque chi sei? Sintetizzabili nella domanda: Chi vuoi essere?
Ecco perché non si tratta di storie da bambini ed ecco perché sono inadeguate tutte quelle risposte che non vanno a toccare il vero nucleo dell’io: “cosa voglio” è infatti ben più di “quale cosa voglia”; “cosa voglio” è cosa voglio essere, chi voglio diventare!
Salomone in questo senso dà la risposta “giusta”: «Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male». Non si tratta della richiesta della leggendaria “saggezza”; non è una dote o una virtù che Salomone vuol sviluppare! È piuttosto un modo nuovo di volersi, un disporsi nuovo di fronte a se stesso e per questo di fronte agli altri: la docilità del cuore, per saper rendere giustizia!
E in questo la sua risposta è “giusta” e dunque esemplare: non nel senso che sia l’unica “giusta” e dunque da imitare in modo pedissequo (come se tutti dovessero rispondere «un cuore docile...»), ma giusta e dunque esemplare perché “all’altezza” della domanda. È una risposta infatti che mostra la portata di verità di sé implicata nella domanda, la portata di autenticità di fronte alla propria interiorità e alla vita.
Questi infatti sono i due segnali della giustezza di una risposta: la verità verso il nucleo fondante e appassionato di noi stessi e il compimento di questo nucleo nel suo essere-per-gli-altri.
E proprio perché risposta adeguata alla domanda “Cosa voglio?” è solo quella che riesce a tenere il profilo alto del “Chi voglio essere (di fronte a me e per gli altri)?”, è inevitabile che ognuno abbia (e possa avere solo) la sua risposta! Non in un’accezione solipsistica, ma nel senso che, come per la morte, si è di fronte a qualcosa in cui nessuno ci può sostituire, nemmeno un modello! Sta a noi (e solo a noi) l’avventura del determinarci, del scegliere il tesoro su cui porre il nostro cuore (cfr Mt 6,21: «Là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore»).
Ma, proprio perché è così stretto il legame tra tesoro e cuore, tra senso e vita, tra fondamenta e costruzione, tra volontà e identità, è necessario un tesoro all’altezza, un senso per cui valga la pena, delle fondamenta stabili, una volontà appassionata!
È l’esperienza delle prime due parabole evangeliche: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra».
Per il vangelo dunque tesoro all’altezza, senso per cui valga la pena, fondamento stabile, volontà appassionata è «il regno dei cieli», quello che Paolo nel suo caratteristico gergo chiama l’«essere conformi all’immagine del Figlio».
Ma non dicevamo che non poteva esserci una risposta univoca per tutti che ognuno aveva la sua? E che nessuno (nemmeno un modello, neppure quello di Cristo) poteva sostituirci nell’avventura di determinarci nella vita?
Già... ma appunto: regno dei cieli e conformità all’immagine del Figlio sono tutt’altro che un libretto di istruzioni su come vivere la vita, con buona pace di chi tenta di generazione in generazione di liofilizzare il Vangelo in percorsi ascetici, itinerari spiritualistici, o codici etici.
Il regno dei cieli è anzi – ci dice la parabola – imbattersi in un tesoro nascosto, in una perla di grande valore: lasciarsi cioè incontrare, nel vivere quotidiano, nella fatica del crescere, nei tentativi di scoprire, nello sforzo di capire, nella delusione del regredire, nell’avvilimento del soffrire, nel provare ad amare... nell’impasto di confusione e ordine che siamo... da qualcosa che si rivela al nostro cuore come promettente per una vita bella.
Qualcosa di così promettente da accordargli un credito, spenderci passione e sudore, fino a giocarci la vita!
Se poi questo tesoro non è un qualcosa, ma un qualcuno si capisce ancora meglio quanto non si possa trattare di un canovaccio già scritto per tutti!
L’idea di conformità a Cristo, che immediatamente per l’accento desueto che hanno i termini o per l’uso distorto che ne è stato fatto, suscita in noi un’idea di austerità, lontananza, incomprensibilità, in realtà non è altro che la relazione trasformante con Lui. Proprio perché la Verità è una persona con cui si entra in relazione essa non è un insieme di dottrine e norme, valide per tutti, da sapere e da applicare; piuttosto un qualcuno con cui imbattersi (con cui ciascuno personalissimamente di imbatte), che ci appare promettente, come un tesoro per cui si vende tutto e si compra il campo in cui è sepolto o come una perla di gran valore per comprare la quale si vendono tutti i propri averi. Un imbattersi promettente a cui si dà credito, proprio perché appare senso fondato per la vita, e proprio per questo fonte di gioia!
Forse è proprio questo ciò di cui non siamo più capaci, come Chiesa, di far fare esperienza...
Forse è quanto aveva intuito anche Giovanni Paolo II, quando con un sussulto dello Spirito ha formulato queste parole:
«In realtà, è Gesù che cercate quando sognate la felicità; è Lui che vi aspetta quando niente vi soddisfa di quello che trovate; è Lui la bellezza che tanto vi attrae; è Lui che vi provoca con quella sete di radicalità che non vi permette di adattarvi al compromesso; è Lui che vi spinge a deporre le maschere che rendono falsa la vita; è Lui che vi legge nel cuore le decisioni più vere che altri vorrebbero soffocare. E' Gesù che suscita in voi il desiderio di fare della vostra vita qualcosa di grande, la volontà di seguire un ideale, il rifiuto di lasciarvi inghiottire dalla mediocrità, il coraggio di impegnarvi con umiltà e perseveranza per migliorare voi stessi e la società, rendendola più umana e fraterna».

venerdì 18 luglio 2008

La zizzania lasciata è la salvaguardia dell'esser-ci storico dell'uomo

I testi che la liturgia ci propone per questa XVI domenica del tempo ordinario sono ricchissimi, sia dal punto di vista della mole che del contenuto. Proprio per questo, a partire da essi, si potrebbero sviluppare innumerevoli tematiche, col rischio però, nel commento, di disperdersi.
Per evitare tale pericolo, focalizziamo l’attenzione in modo specifico sulla cosiddetta “parabola della zizzania” (Mt 13,24-30), stando bene attenti però a non scivolare immediatamente dalla parabola vera e propria alla sua spiegazione (Mt 13,36-43), che forse, per deformazione (cattolica), ci è più nota. Quest’ultima infatti ha tutt’altri intenti e tutt’altre finalità rispetto alla parabola e punta interamente l’interesse sulla tematica della fine del mondo; tematica che invece nella parabola occupa solo lo spazio di mezzo versetto (il 30b «al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio») e che dunque non ne costituisce di certo il centro.
Precisato l’intento di concentrarsi soprattutto sulla parabola della zizzania, va chiarita in primo luogo la sua collocazione; essa infatti non è casuale, ma davvero significativa per la comprensione: siamo al capitolo 13 del Vangelo di Matteo, ai versetti 24-30, e cioè immediatamente dopo la spiegazione della parabola di domenica scorsa: quella del seminatore. Ciò che risulta così interessante è il fatto che mentre quella terminava con il riferimento al terreno buono («Quello seminato nella terra buona è colui che ascolta la parola e la comprende; questi dà frutto e produce ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta», Mt 13,23), questa inizia con la menzione del seme buono («Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo», Mt 13,24). Questo richiamarsi così evidente delle due parabole ha una motivazione ben precisa: il fatto cioè che la problematica della seconda è in qualche modo lo sviluppo dell’esito della prima. Mentre in quella infatti si concludeva sottolineando la responsabilità dell’uomo (dei terreni) per la fecondità del seme, in questa nasce una domanda nuova: perché da un seme buono e da un terreno buono, da cui dobbiamo aspettarci ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta, non viene solo un frutto buono, ma anche dell’altro?
Perché cioè, sembra domandare la parabola, neanche quando la Parola di Dio (il buon seme) si incontra in modo fecondo con l’uomo (il buon terreno), il problema dell’ambiguità della storia è risolto? Perché anche nel fruttuoso incontro dell’uomo con Dio rimangono zone d’ombra, interstizi imputriditi, spazi di aridità?
Ma non solo! La parabola infatti sembra suscitare anche tutta un’ulteriore serie di interrogativi: come va identificata la zizzania? Da dove viene? Chi è quello che Gesù chiama un nemico? E soprattutto: Che cosa bisogna fare?
Andiamo con ordine...
Innanzitutto va evitata quella lettura (ereticheggiante) secondo la quale grano e zizzania rappresenterebbero la divisione fra buoni e cattivi. Che non sia questa l’intenzione di Gesù lo si capisce aguzzando la vista e facendo una piccola osservazione: se Gesù qui avesse voluto parlare dei peccatori, avrebbe utilizzato sicuramente un’altra immagine, qualcosa di convertibile in altro. Gesù infatti quando parla dei peccatori o si rapporta con loro, li pensa sempre come convertibili, come coloro cioè che possono trasformarsi in figli della luce, in malati che con l’aiuto del medico possono trasformarsi in sani (Mt 9,12), in pecore perdute che con la ricerca del pastore possono essere ritrovate (Lc 15,4-7); la zizzania invece è un’immagine che non rimanda a questa convertibilità; è troppo statica: e infatti, per quanto possa assomigliare al grano, non potrà mai trasformarsi in esso!
Conoscendo perciò l’insistenza con cui il NT ribadisce la sempre possibile convertibilità del peccatore, non si può qui ammettere una lettura che interpreti l’immagine della zizzania come un simbolo dei peccatori. Il referente deve essere altro.
E la questione infatti è più radicale: la zizzania non sono i malvagi, ma il male in senso forte, quello che non può essere trasformato in bene, ma che resta male radicale.
Ecco dunque il problema vero: perché c’è il male, nonostante il seme buono e il terreno buono?
La parabola espone questo problema ponendo in bocca ai servi due domande: «Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?».
La prima questione cade nel vuoto. Il padrone infatti alla prima domanda, che metteva in discussione la bontà del seme (che cioè poneva la possibilità dell’origine del male in Dio stesso), non risponde: è già stato detto che il seme era buono.
La seconda questione riceve invece una risposta: «Un nemico ha fatto questo!»; ma è una risposta che non soddisfa; non scioglie la gravità del problema e anzi suscita ancora maggiori interrogativi: chi è questo nemico? È un nemico che si può sconfiggere? Cosa bisogna fare?
Ma la parabola di tutte queste problematiche sembra disinteressarsi. Essa non dà risposta. Il suo interesse è altrove, nella nuova domanda dei servi: «Vuoi che andiamo a raccoglierla?».
È a partire da qui infatti che si snoda il proseguimento della parabola, facendo di questa domanda il centro di interesse vero di chi racconta e di chi ascolta: il problema è infatti che cosa fare di fronte al male che c’è? Di fronte al male che c’è nonostante terra buona e seme buono si incontrino?
La soluzione proposta dai servi – «Vuoi che andiamo a raccoglierla?» – la soluzione cioè dell’eliminazione, è ancora nella prospettiva di chi divide il mondo in buoni o cattivi, in giusti e ingiusti, in puri e impuri, con l’implicita premessa di sapere distintamente chi sono i bravi (noi) e chi i cattivi (gli altri) e con la apparentemente ovvia e necessaria conseguenza dell’estirpazione... è la stessa logica dei discepoli quando, di fronte alla non accoglienza di Gesù da parte di un villaggio di Samaria, avevano esclamato: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?» (Lc 9,54).
È la modalità che immediatamente verrebbe naturale anche a noi. Ed in effetti non manca di una sua coerenza interna: togliere la zizzania infatti appare inevitabile per la crescita del grano; essa rischia di soffocarlo, di rubargli nutrimento, luce, aria e dunque vita! Non è una proposta assurda dunque quella dei servi: per la vita del grano, perché possa crescere più vigoroso, solido, robusto, è meglio che gli sia strappata intorno l’erbaccia che lo opprime... anche a rischio di strappare un po’ di grano – ci verrebbe da dire...
Eppure... questo discorso che a noi pare così lineare riceve nella parabola un duro rifiuto: «No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme». Per il padrone di casa è meglio che zizzania e grano crescano insieme! Conosce di certo le nostre obiezioni: il rischio che il grano soffochi, che faccia più fatica a crescere e a svilupparsi... Eppure preferisce correre questo rischio che percorrere la strada dell’estirpazione. In essa infatti il pericolo è ancora più realistico: che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano.
È dunque la salvaguardia del grano il principio che guida la scelta del padrone!
Alla logica dei servi, così simile a quella di Caifa per cui «È meglio che un uomo solo muoia per il popolo» (Gv 18,14), che una parte di grano sia strappata per la buona crescita del restante, Gesù contrappone quella della salvaguardia della singolarità preziosa di ciascuno. Il Dio di Gesù è fatto così: non ragiona secondi i calcoli economici del massimo profitto (per cui val la pena a volte anche sacrificare qualcosa/qualcuno per una rendita maggiore – come di fatto funziona il nostro mondo), ma secondo quelli della massima cura di ogni singolo uomo: «Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose, perché tu debba difenderti dall’accusa di giudice ingiusto. La tua forza infatti è il principio della giustizia, e il fatto che sei padrone di tutti, ti rende indulgente con tutti» (Sap 12,13.16).
Ma resta ancora qualcosa da dire... infatti, fatta salva la cura della singolarità di ognuno, resta il problema di questo “rimanere” della zizzania...
Se la zizzania nella parabola rappresentasse i cattivi, i peccatori, i malvagi, si potrebbe ancora capire il desiderio di Gesù di non estirparli: dicevamo, per lui sono sempre convertibili.
Ma se – come abbiamo detto – la zizzania rappresenta il male (il male che c’è in ciascuno di noi e nel mondo in generale) perché non va estirpato? La nostra singolarità non sarebbe ancora più custodita se il male fosse eliminato? Gesù non era venuto proprio per liberarci da esso? Sicuramente sì...
E di fatti “tenere” la zizzania non vuol dire accettare un compromesso col male, un rassegnarsi inoperoso alla sua presenza (in noi e nel mondo), ma è un prendere coscienza serio della realtà: la zizzania che rimane nel campo è come una fotografia della storia, un invito a uno sguardo lucido su di essa che porti alla consapevolezza dell’ambiguità dei percorsi umani che accompagna tutta l’esistenza e che va assunta.
E l’ambiguità è questa: che come non si può dividere l’umanità in buoni e cattivi, allo stesso modo non si può neanche col bisturi separare nel nostro cuore il limpido dal torbido, il chiaro dall’ombroso... e non perché l’uno non possa esserci senza l’altro (quasi che il male fosse necessario al bene), ma perché ogni bene è bene storico, si dà cioè in una storia, che ha un prima e un dopo, una germinazione silente e un futuro incerto, che impedisce qualsiasi assolutizzazione o fissazione, foss’anche del momento più bello della vita.
Per usare un’immagine: non possiamo pensare la nostra vita personale e la vita del mondo in generale come una linea retta in cui, in una progressione continua, man mano estirpiamo questo male, questo difetto, questo limite... per arrivare ad “essere apposto”.
Ad ogni istante infatti si ripropone per l’uomo la questione fondamentale della sua esistenza: l’inevitabile domanda su chi egli sia e dunque l’inevitabile scelta su chi egli voglia essere. E seppure è vero che tale questione, nel procedere della vita, è posta in modo diverso, con soglie che come regali a volte si schiudono, e che dunque – come dice Paolo – man mano, «colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito», all’uomo rimane sempre comunque l’inesauribile problema di se stesso, di farsi e costruirsi, di scegliere se esser-ci o auto-distruggersi, di vivere o di morire...
Ecco cos’è dunque il campo di grano con la zizzania: la fotografia della realtà, di come siamo fatti, della storicità della costruzione della vita! Perché nessuna assolutizzazione (nel male e nel bene) interrompa il farsi dell’uomo...
E per concludere... e forse, per chiarire... un piccolo stralcio del libro L’ultimo giro di giostra di T.Terzani, il quale nelle pagine finali, dopo aver raccontato della scoperta di avere un cancro e di tutto il viaggio interiore che questo l’ha portato a fare, commenta:
«Un lieto fine per questo?
E che cos’è lieto, in un fine? E perché tutte
le storie ne debbono avere uno? E quale sarebbe un lieto fine per la storia del
viaggio che ho appena raccontato? “... e visse felice e contento”? Ma così
finiscono le favole che sono fuori dal tempo, non le storie della vita che il
tempo comunque consuma. E poi chi giudica ciò che è lieto e ciò che non è? E
quando?
A conti fatti anche tutto il malanno di cui ho scritto è stato un
bene o un male? È stato, e questo è l’importante. È stato, e con questo mi ha
aiutato, perché senza quel malanno non avrei mai fatto il viaggio che ho fatto,
non mi sarei mai posto le domande che, almeno per me, contavano.
Questa non è
un’apologia del male o della sofferenza – e a me ne è toccata ancora poca. È un
invito a guardare il mondo da un diverso punto di vista»
.

Il tempo della pazienza: il male nel cuore di Dio!

il tempo della pazienza
il rapporto con il Dio rivelato da Gesù è così intrecciato con il nostro atteggiamento profondo verso le vicende della terra e il mistero dell’uomo, da fondersi in un’unica tensione o passione interiore, che tiene insieme i due termini. La benevolenza di Dio verso il mondo, la sua infinita apertura di cuore alla resistenza dell’uomo, la sua scandalosa tenerezza nel tenersi in cuore i ribelli al suo affetto, ci sono rivelati nel… seminatore della prima parabola, ostinatamente convinto che la terra, anche arida, spinosa o calpestata… va inondata di messaggi d’amore!
Come dice la Sapienza “tu hai cura di tutte le cose… le governi con indulgenza… inoltre hai reso i tuoi figli pieni di dolce speranza, perché tu concedi dopo i peccati la possibilità di pentirsi”. La storia è il tempo della pazienza senza limiti né scadenze, se non nella dolce speranza del perdono! Questi sono i misteri implosi nella fondazione del mondo, che Gesù con queste parabole vuol fare emergere come l’eruzione della lava da un vulcano. S. Gerolamo traduce: eructabo abscondita a constitutione mundi – erutterò i segreti nascosti nella fondazione (dell’universo!)
… ma non avevi seminato buon seme: da dove viene il male?!
Non è un seminatore ingenuo! la sua Parola non censura il male, i malvagi, le sofferenze, il dolore. Ma la sua infinita paziente benevolenza si affida alla terra (all’avventura della storia umana) anche se è dura, refrattaria e ostile. Questo padrone del campo accoglie dolcemente lo scandalo dei “buoni zelanti” (da dove viene dunque la zizzania!?), ma nega decisamente che male e bene si possano chirurgicamente separare nel suo campo che è il mondo! Così la prima parabola (la parabola madre del seminatore) ha subito una precisazione fondamentale in questa seconda parabola dell’agricoltore che affronta il problema della promiscuità del bene e del male nel mondo: questa parabola della zizzania segna forse la differenza qualitativa più determinante rispetto a qualsiasi altra religione o filosofia o interpretazione del mondo. Non per niente già si intravvede la chiave dì interpretazione della salvezza finale di questo Seme/Parola, mandato dal Padre nel mondo: la croce! era già nelle radici dell’universo, nei misteri nascosti fin dall’origine del mondo, che sono da sempre le domande angosciose dell’uomo sulla terra, domande sorprendentemente rivelate adesso, per farci capire come cresce il regno di Dio nella storia…
4… perché il male è così grande e forte e si abbarbica alle radici del bene e tende a soffocarlo, non solo fuori, ma dentro di noi?
4… perché il bene è così piccolo, inconsistente, esposto a tutte le prepotenze e malvagità?
4… perché quel poco di bene che ci riesce di fare è improponibile – o persino giudicato impuro, cioè fuori dalle regole stabilite?
ecco le tre parabole!
La parabola della zizzania ci fa tornare alla terra di cui siamo fatti: il campo è il mondo (e nel mondo, il cuore dell’uomo!). Non c’è battesimo, né grazia, né chiesa che ci trasporti automaticamente in un altro campo, dove ci sia solo frumento! Un’illusione drammatica ci ha chiuso gli occhi e il cuore infinite volte nella storia della nostra chiesa e nella povera biografia spirituale di ognuno. Contro il comandamento del Contadino abbiamo “sradicato” o “osteggiato” quanti pensavano o vivevano diversamente. L’istinto di potenza, presente nel cuore dell’uomo e di ogni istituzione, si moltiplica all’infinito non appena un uomo prepotente o pauroso diventa credente… Allora tutto si giustifica, perché “Dio è con noi!” (come c’era scritto sulle cinture delle SS). Sradicare il male in nome di Dio! È la cultura del nemico che ci impregna dalle origini dell’umanità! Che fatica a interiorizzare il monito del Padrone del campo: lasciate che crescano insieme! la fede del discepolo si contorce tra pulsioni di aggressività e voglia di mitezza, complessi di inferiorità (il suo regno è il più piccolo di tutti i semi) e di superiorità (ha dalla sua tutte le premesse e pretese dell’albero più grande!)- Ma il problema parte dal cuore di ognuno. Come aver vergogna della propria debolezza, peccato e tradimento, e credere insieme che lì abita la grazia del Signore? Come imparare a credere che il male non è una “cosa” o “un altro”, estraneo o intruso, … ma è una persona che sta male, e non riesce a crescere!-… Sono io, quando tradisco l’amore e la verità – e per ritorsione voglio eliminarne la mia vergogna nell’altro – proiettando la colpa su di lui. Ma così aumento il suo male e il mio, in una catena amara di sinergia malefica!
Lasciate che male e bene crescano insieme!
… un obiettivo troppo difficile per noi! Bisognerebbe avere libertà interiore, fiducia, distacco da sé, amore disarmato, affettuoso e tenero verso chi ci è intorno… per sopportare senza ritorsioni che ognuno faccia la sua strada, magari non buona. Che ci contrasti, magari con prepotenza… E poi rimanere, anche con il cuore trafitto, dolcemente sicuri del “proprio bene” (…perché il Padre vostro che vede nel segreto vi ricompenserà!). S. Paolo ha provato questo dramma che lo lacerava, tra i doveri educativi e pastorali che richiedono interventi decisi e severi… e l’inerme consegna di sé ai persecutori. Ed ha sperimentato che il vero dramma è dentro di noi: perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma solo confortati, secondo la promessa di Gesù, da un consolatore: lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili…
Per prevenire ogni infiltrazione di volontà di potenza nei suoi discepoli (e nella sua chiesa) Gesù lancia un altro simbolo: cosa c’è di più piccolo di un granello di senapa? Nelle gare o competizioni mondane in cui pure la chiesa rimane sovente invischiata, dovrebbe comunque desiderare di arrivare sempre ultima: è la più piccola di tutti i semi… Non deve illudersi che sia la prestanza e l’eccellenza degli strumenti di diffusione del vangelo ad ottenere più efficacia, perché i mezzi potenti hanno la logica della potenza, che è la sopraffazione e avvelenano il Vangelo e il suo annunciatore crocifisso.
Il lievito, nella cultura rituale ebraica, è impasto di pane andato a male, dunque impuro, una putrefazione. Per di più è una “donna” (anche lei impura al culto) che lo immette nella pasta del mondo, finché tutto fermenta. Scribi e farisei di ogni chiesa scelgono il buono e rifiutano l’impuro. Invece il Regno cresce così, con il fermento del “bene” andato a male (secondo i criteri mondani e religiosi), e rifiutato dalla gente… Mentre infinite turbe di donne, di piccoli e di impuri nei sotterranei segreti delle fondamenta della storia (del Regno) trasformano la segregazione in amore.
spiegaci la parabola della zizzania nel campo!
“era troppo per la chiesa nascente!”. È troppo anche per noi e per qualsiasi comunità e famiglia… (e infatti facciamo il contrario!”). I discepoli, in confidenza, domandano: ma come si può educare, catechizzare, separare i malvagi dai buoni, gli altri dai nostri… la verità dalla falsità, con questi criteri panagapici (tutto è amore … o lo sarà!) che Gesù propone come costitutivi del regno?! (dove ogni persona è da amare e custodire e accudire? e niente da estirpare?). Spaventati, i discepoli si fanno rispiegare la parabola. Anche la spiegazione è Vangelo ovviamente, ma ribadisce ancora la radicale sconcertante inaccoglibile profezia del Regno. La parabola non è da leggere alla luce della spiegazione, ma la spiegazione alla luce della parabola. La sfida infatti è rilanciata ancora una volta al cristiano immerso nella storia malata, e allo Spirito che lo conforta. Le soluzioni che sradicano… gli altri sono sempre prepotenza dell’uomo, non esigenza del seme, che è il Figlio dell’uomo, che ha dato la vita per noi!. Solo alla fine del mondo e della storia avverrà uno sradicamento del male dal bene, perché le “persone” avranno maturato e manifestato la loro vera identità… Ma ci penseranno gli angeli! Ogni anticipazione di discriminazione o condanna o scomunica… è concorrenza diabolica!

Il male è “dentro”… Dio!

Supponiamo dunque che Dio somigli ad una casa
o ad un palazzo molto grande e bello
e che questo palazzo, ripeto, sia precisamente Dio stesso.

Può forse il peccatore scappare da questo palazzo,
per compiere le sue malvagità? No, di certo.
Per cui, è proprio dentro tale palazzo costituito da Dio stesso,
che vengono perpetrate tutte le abominazioni,
le disonestà e le malefatte che commettiamo noi peccatori.

È davvero una cosa tremenda,
che deve impensierire e al contempo risultare vantaggiosa,
a noi che sappiamo così poco
da non arrivare nemmeno a comprendere una buona volta
queste verità,
perché altrimenti ci risulterebbe impossibile
avere una sfrontatezza così insensata.

Consideriamo, sorelle,
la grande misericordia e la grande pazienza di Dio,
che non ci sprofonda lì stesso e immediatamente nell’abisso. Rendiamogli le più calorose grazie
e vergogniamoci di risentirci per qualunque cosa
si faccia o si dica contro di noi.

È infatti la peggior ribalderia del mondo
il constatare come Dio stesso nostro Creatore
soffra tanti affronti
da parte di creature operanti dentro lui stesso,
e poi lasciarci andare noi medesime a prendercela talvolta
per una semplice parola detta in nostra assenza,
e magari nemmeno con cattiva intenzione.


(S. TERESA D’AVILA, Il castello interiore, 6 MANSIONE CAP. 10,3 - trad. E. Martinelli)

venerdì 11 luglio 2008

…il seminatore uscì a seminare!

Questa è una parabola importante, la più importante di tutte, perché è la chiave per capire le altre: «Se non comprendete questa parabola - dice Gesù - come potrete capire tutte le altre parabole?» (Mc 4,13).
Agli occhi del cuore di Gesù, la folla che si accalca sulla spiaggia di questo piccolo lago, in una terra sperduta dell’impero romano, si dilata a tutti i popoli fino alle frontiere dell’universo, fino alla fine dei tempi, lungo la storia tormentata dell’umanità, da quando è apparsa sulla terra, con il suo incancellabile anelito di speranza insoddisfatta – a domandarsi il perché del bene e del male, della gioia e del dolore, della luce e delle tenebre, della vita e della morte!
… tanti pensatori e sapienti, in vari modi, nelle varie culture e religioni, hanno tentato di capire e hanno suggerito alla gente varie soluzioni tristi, in genere. La terra e il suo prodotto più bello, che è il corpo dell’uomo, sono una prigione, una condanna, da cui uscire, dicono alcuni. Comunque, un passaggio effimero e insensato, marchiato dalla morte che lo corrode!… Le passioni e le emozioni umane sono da superare, censurare e cancellare, magari attraverso la fatica immane di varie reincarnazioni… dicono altri. E non c’è speranza, neanche per i saggi patriarchi della Bibbia: “Tutte le cose del mondo sono in sofferenza, e nessuno potrebbe spiegarne il motivo… non c'è niente di nuovo sotto il sole. C'è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questa è una novità?» (Qo 1,8s). Gesù, pur lucidissimo e appassionato testimone della sofferenza delle folle stanche e sfinite, ha tutt’altra visione della storia. E racconta che la storia è nata proprio da una “novità” e la cova sempre dentro di sé: il seminatore uscì a seminare!... Non “un” qualsiasi sbadato propagatore di speranze fallaci… ma Lui, il “creatore”, che ha espresso il desiderio della sua mente e del suo cuore in questo lancio di germi, di semi, di promesse che è la terra… E poi si è ritirato, sicuro della potenza segreta, misteriosa, ma infallibile della sua Parola amorevole: la Parola uscita dalla mia bocca non tornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero!
Dio si è affidato alla terra!
… che si tratti di deriva sassosa o tratturo indurito o groviglio di spine o, infine, di terreno fertile… è sempre la nostra terra! Lì, nella nostra terra, pluriforme ma unica, Dio ha seminato dappertutto il soffio della sua Parola… E da allora (da sempre!) inizia il dramma di amore e dolore, alleanza e rifiuto, fascino e fatica… tra i due protagonisti della storia: la Parola (e dentro la parola, l’indomita speranza che la nutre) e la Terra (e dentro la terra, l’uomo fatto di fango). Proprio in questo cuore fatto di terra, Dio ha seminato il germoglio del suo amore, della sua divinità! Allora la soluzione, o almeno la luce che illumina non solo il fondo, ma il percorso del tunnel della storia, non è la fuga dalla terra, “prigione” che ingabbia l’anima, ma l’immersione nella terra, grembo dello spirito. Nella terra è seminato “il principio speranza”, ormai indissolubilmente coniugato alla nostra avventura di uomini fatti di carne mortale. Non è dunque “uscendo dalla materia”, ma “parlando alla materia”, che si è aperta la via della salvezza. Nella materia è seminata la speranza: il seme diventa “novità”, se si lascia trasformare e impregnare dalla terra. Deve in qualche modo “morire”, certamente, ma per “salvarsi”, e, nutrendosi di terra, produrre vita e continuare a trasmettere speranza!
Perché parli a loro in parabole?
I discepoli gli pongono una domanda esplicita! Loro, che si pensano privilegiati dalla spiegazione diretta del Signore, non capiscono per quale motivo Gesù parli in parabole alla folla, per poi costatare amaramente che non capisce. La questione sembra contraddittoria e senza uscita, se la si intende a livello intellettuale, di verità da capire con la mente, che allora sarebbe insensato presentare in modo così misterioso e immaginifico. Ma si tratta invece di una parola vitale, di una promessa di amore, che per iniziare e crescere ha bisogno dell’assenso e del coinvolgimento… dell’altro. Come quando si dice che due “si parlano”… per dire che inizia una storia di intreccio di due vite, che si avventurano in momenti esaltanti e difficili, di passione e repulsione, di comunione e di deserto… Allora, può capitare che gli occhi e le orecchie siano ammaliati da altri fascini o che il cuore si inaridisca, e poi effettivamente gli muore in cuore anche il germoglio che avevano… Ma può anche capitare che invece il bocciolo che gli è dato, cresca in cuore, e uno si trovi sommerso dall’abbondanza, e sempre più gli orecchi e gli occhi sentono e vedono l’amore che si dilata nel cuore… un poco, tanto, tantissimo… Ma questi misteri, vissuti nella trepidazione e nella riconoscenza, senza neanche sapere quanto sono nostri e quanto sono regali, come si potrebbero raccontare in giro, se non per simboli, con parabole, con poesie?… tali che chi (un po’!) li ha provati, lui sì che li coglie al volo e ne gioisce, e impara ancora di più! Ma chi non li ha provati, scuote la testa e ancor più ne è tagliato fuori! Non certo per un castigo! ma per provvisoria sordità interiore, mentre il seme, capace di sapiente pazienza nell’attesa… aspetta venga il suo momento, attende che si intenerisca la crosta dura del terreno, che si secchino le bramosie della fantasia!
quello che è stato seminato … è l’uomo che…
La Parola, seme di vita, diventa colui che la ascolta! Curiosa, questa trasformazione del seme/parola – nell’uomo stesso, che ascolta o non ascolta: fa parte dei misteri del Regno che ai discepoli è dato conoscere! la cultura occidentale è segnata dalla separazione tra le parole e i fatti, tra il messaggio che esce dalle labbra ed è accolto dall’intelletto di chi ascolta, e gli eventi della storia che non cambiano, ripetendosi fino a svuotare ogni speranza. La cultura orientale che è più attenta forse ai valori duraturi, rischia però di abbandonare al suo destino di consunzione la materia, le passioni, le emozioni… e, in fondo, i deboli della storia, che non diventeranno mai supereroi dello spirito! La cultura ebraica è permeata da una convinzione radicale che è fondamento e speranza di una storia plurimillenaria: parola e fatti devono fondersi. Si esprimono con lo stesso termine, con cui il seminatore ha detto/fatto/amato l’universo (in un passato sempre presente: benedice/fa/ama). Il credente è colui che guardando a ritroso alla ricerca del senso del mondo e della storia, e cercando nel suo intimo il germoglio del suo destino… si trova di fronte a questo misterioso evento fondante che è la Parola di Dio, libera forza d’amore, misteriosa madre di ogni cosa. Una Parola che impregna e conduce gli eventi della storia dell’universo, in una storia di cui sappiamo poco, se non che ultimamente ha avuto una sorprendente esaltazione, un sussulto di consapevolezza, addirittura una rifrazione divina nella “terra” del primo Adamo, e poi, una ancor più misteriosa e inaudita “incarnazione” nel secondo Adamo. In lui, per grazia, se pur con tante fatiche, perché la refrattarietà del terreno alla Parola è esperienza comune, il cammino dello spirito entro la terra, è divenuto accessibile a tutti noi… accompagnati dal gemito non solo dell’umanità, ma di tutta la creazione, che ne segue e attende l’esito, perché, appunto, la Parola sia “fatta”, tutta in tutti.
Allora, come la mamma di cui dice Gesù, che una volta visto il bimbo che è nato, non si ricorda più delle sofferenze del parto, ci accorgeremo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura. E magari già adesso potremo sperimentare (tra afflizione e speranza) che la spina sanguinante che ci trafigge comunque il cuore il troppo di dolore innocente e non… che c’è sulla terra! se ci annebbia un poco l’orizzonte, non ci avvelena – perché il nostro riferimento non è un motore d’energia muta che ci ha lanciato nella vita, ma un Volto che ci parla!

Va Pensiero...


Caro Direttore, per tutti quelli scioccati dalla stampa di questi giorni, voglio rassicurare: non siete impazziti e non sono nemmeno impazziti i giornali. La questione è molto semplice, questo sistema fradicio e corrotto vede nell'eliminazione del dissenso l'unica possibilità di salvezza. Scrive Filippo Ceccarelli su Repubblica in relazione al mio intervento a piazza Navona: «Nulla del genere si era mai visto e ascoltato a memoria di osservatore». Questa cosa, Ceccarelli, si chiama libertà. Non hai mai visto una persona che chiama le cose col suo nome, anche quelle di cui tutti convengono sia assolutamente vietato parlare, come l'ingerenza inaccettabile del Vaticano nella vita politica del Paese e nelle vite private dei cittadini italiani. Caro Ceccarelli, hai fatto un'esperienza straordinaria. Col tempo apprezzerai la fortuna di esserti trovato lì l'8 luglio.

Quello che hanno visto i presenti e gli utenti di internet è una piazza ricolma di gente, che è stata in piedi per tre ore ad ascoltare e ad applaudire entusiasta. Gli interventi più criticati dai media sono quelli che hanno avuto indiscutibilmente più successo. Nel mio intervento, al contrario di quello che tanti bugiardoni hanno scritto, gli applausi più forti sono stati sulle critiche alla politica del Vaticano e le frasi più forti fra quelle sono state applaudite ancora di più. Questa manifestazione è stata il giorno dopo descritta come un fallimento, un errore, un autogol. Stampa e tv hanno tirato fuori il manganello e con i mezzi della diffamazione, della menzogna e dell'insulto stanno cercando di scoraggiare chi ha partecipato, a continuare. Alcune ovvie piccole verità: — A sinistra si lamentano del fallimento della manifestazione quando l'unico elemento di insuccesso è costituito dai loro stessi interventi. Se non avessero parlato in tanti di insuccesso a dispetto dei fatti, la manifestazione sarebbe stata percepita per quello che è stata: un successone. — Berlusconi e i suoi sono furiosi per quanto è accaduto e il sondaggio che direbbe che Berlusconi ci ha guadagnato lo ha visto solo Berlusconi.

Quello che dice potrebbe non essere vero. — L'intenzione di espellere Di Pietro era già evidente da parte del Pd e non è per me e Grillo che i due si sono separati. Pare che Veltroni gli preferisca Casini. Non è una battuta. — Le parlamentari che hanno difeso la Carfagna sostenendo che io in quanto donna non posso attaccare un'altra donna, insultando me sono cadute in contraddizione. — Pari opportunità e Carfagna sono due concetti incompatibili come Previti e giustizia. — È falso che non si possa criticare il presidente della Repubblica. Si può e ci sono buone ragioni per farlo ad esempio impugnando il parere dei cento costituzionalisti sul Lodo Alfano. — È falso che non si possa criticare e attaccare il Papa. Si può e ci sono buone ragioni per farlo. Ho letto un po' dappertutto che il Papa sarebbe una figura super partes. Super partes non è uno che si schiera con tutte le sue forze su ogni tema, dalla scuola ai candidati alle elezioni, alla moda e alla cucina, con interventi spesso molto al di sotto delle parti, cosa su cui anche la Littizzetto, esimia collega, ha efficacemente ironizzato. — La reazione furibonda di tutto il mondo politico alle parole di alcuni liberi pensatori, dimostra che gli interventi fatti sono stati importanti ed efficaci. La repressione dei media rivela la debolezza politica di una classe dirigente che in entrambi i poli è nata a tavolino. Gli unici elementi che hanno una oggettiva radice popolare e sono rappresentati in Parlamento allo stato attuale, sono Lega e Di Pietro.

E crescono. Berlusconi e Pd calano vertiginosamente. — C'è un partito finto, il Pd, nato senza idee, tranne quella di fondere due partiti per ingrandirsi con lo stesso criterio con cui si accorpano le banche per essere più forti. Questo partito votato controvoglia dalla maggioranza dei suoi elettori si è rivelato fin dai primi passi un soggetto politico artificiale, che somiglia più a un «corpo diplomatico» che altro. Molti dei vip che lo hanno sostenuto ora sono colti da attacchi isterici constatando che non sta in piedi. Dall'altra parte ci sono delle idee che vogliono essere rappresentate e discusse. Idee davvero alternative a quelle del centrodestra. La qual cosa, nel momento in cui si cerca di costruire un'alternativa, ha la sua porca importanza e fa sì che queste idee vengano considerate oggettivamente interessanti dall'opinione pubblica. Per quanto riguarda l'annosa questione: «Può un comico fare politica?», si tratta anche qui di una domanda che non esiste in natura. È ovvio e tutti sanno che chiunque parli a un pubblico fa politica. È ovvio che la politica in una democrazia la fanno tutti. Ma la vera domanda che si pone è: può un comico ottenere molto più consenso politico di un politico? Può il discorso di un comico essere molto più politico di quello di un politico? I fatti dicono di sì e tocca abbozzare. Potete anche continuare a menare le mani, ma sarebbe meglio fare uno sforzo di comprensione. D'altra parte parlo per me ma credo anche a nome degli altri, le nostre idee sono lì e si possono usare gratuitamente. Approfittatene.

Sabina Guzzanti
11 luglio 2008

giovedì 10 luglio 2008

«Perchè parli con loro in parabole?»

I testi che la liturgia ci propone per questa quindicesima domenica del tempo ordinario (Is 55,10-11; Rm 8,18-23; Mt 13,1-23) sono ricchissimi e capaci di suscitare nel lettore tantissimi interrogativi.
Innanzitutto emerge come evidente e preliminare a qualsiasi altro discorso, la problematica riguardante la parola di Dio, in particolare la sua potenza.
Il libro di Isaia infatti ne dà una presentazione vigorosa, ricca di termini incalzanti, energici, entusiasti, tutti tesi a mostrarne l’assoluta efficacia: «Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata»...
Eppure nel Vangelo sembra comparire proprio un contraltare a questa certezza nella potenza della parola:
- In primo luogo il motivo stesso che occasiona la parabola; a detta degli studiosi infatti questo testo sarebbe il tentativo di rispondere all’angoscioso interrogativo dei discepoli (e della chiesa primitiva) sulla scarsa efficacia della predicazione di Gesù (prima) e degli apostoli (poi). La domanda che sottostà alla parabola suonerebbe infatti più o meno così: “Come mai la parola – che è di Dio – è rifiutata, poco forte ed efficace?”.
- Ed inoltre: perché Gesù stesso parlando coi suoi discepoli utilizza parole così dure nei confronti dei suoi interlocutori, tanto che arriva a dire che parla loro in parabole «perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono»?
Ma non ci avevano insegnato che Gesù non vuole fondare una setta esoterica, ma un gruppo di credenti dalla chiara impronta universalistica? E non c’avevano forse detto che usava le parabole, con il loro linguaggio semplice e quotidiano, proprio per farsi capire da tutti?
Come mai allora in questo brano Gesù ai discepoli che gli si avvicinano e gli chiedono «Perché a loro parli con parabole?», risponde sorprendentemente: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato»?
Forse qui, come domenica scorsa si aveva la sensazione che i misteri del regno dei cieli fossero solo per i piccoli e non per i sapienti e gli intelligenti, c’è un riferimento all’esclusività di alcuni nella comprensione del Regno? Esclusività sorprendente già di suo e tanto più in questo caso, se si pensa che quei loro a cui non è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, qui non sono né avversari, né nemici di Gesù, ma semplicemente, le folle; le stesse per cui Gesù spessissimo – ci dice Matteo – sente compassione...
La questione non è un semplice sfizio dell’intellettualismo accademico, ma è radicale: non si tratta di risolvere la problematica contingente riguardo al fatto che mentre Gesù raccontava una parabola qualcuno non capiva... Ma di andare a sviscerare il marchingegno (che è vero sempre, e dunque anche per noi) con cui “funziona” la parola di Dio o con cui “non funziona”... Compito fondamentale perché quella parola, come con veemenza ci ha riproposto il Vaticano II dopo decenni di oscurità, non è un insieme di dottrine o di verità (al plurale) su Dio, Gesù, gli angeli, la chiesa, ecc... per cui fallirne la comprensione non sarebbe così significativo per la nostra vita. Ma è l’autocomunicazione stessa di Dio, della sua interiorità, di se stesso (e per cui fallirne la comprensione, vuol dire fallire Dio!). Come ci ricorda il Concilio infatti: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare Se stesso e manifestare il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura. Con questa rivelazione infatti Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé [Dei Verbum 2].
Ecco perché la questione non è banale: perché nel rapporto fondamentale e fondante la nostra vita, quello con Dio (perché è a partire dall’idea di Dio che uno ha in testa, che forma il suo orizzonte di senso, e quindi l’idea di uomo, di altro, di amore, di morte, di senso...), l’incontro (la comunione) avviene – come tra amici – nell’accedere l’uno all’altro, nello scoprirsi reciproco (rivelarsi), nella conoscenza, nell’amore.
Ma se è così importante accedere a questo reciproco comprendersi, perché Gesù in Mt 13,10-15 appare così duro: «a loro non è dato», «perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice: “Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!”».
Forse una chiave di lettura la si può trovare in quei verbi che Gesù riprende dalla citazione di Isaia, ma a cui cambia il modo verbale (dal congiuntivo all’indicativo): Gesù non dice «perché guardando non vedAno... non ascoltIno... non comprendAno», bensì «non vedOno, non ascoltAno, non comprendOno».
Perché questo cambio? Perché così la prospettiva muta radicalmente: mentre un congiuntivo lascia intendere che sia volontà di Dio la non comprensione, l’indicativo sposta l’accento sulla responsabilità umana.
Ecco allora la risposta alla problematica angosciata dei discepoli “Come mai la parola – che è di Dio – è rifiutata, poco forte ed efficace?”: perché essa, essendo parola di Dio, “funziona” come “funziona” Dio, e cioè acconsentendo a lasciarsi pervadere dalla logica della debolezza, del rispetto e della libertà. Essa non vuole/può (perché è di Dio e Dio è fatto così) imporsi, farsi accettare per forza, ma ha sempre i tratti del “se vuoi”, a costo di essere incompresa, disprezzata e addirittura inefficace! Isaia ha ragione, per chi l’accoglie, la Parola è come la pioggia e la neve, che scende dal cielo e non vi ritorna senza irrigare, fecondare e far germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia... Ma appunto: per chi la accoglie, per chi si decide per avventurar la vita nel rapporto col Signore.
Un avventurarsi per niente lineare o facilone, ma anzi che ha i toni “dell’impresa”, non adatta agli smidollati! E questo vale ogni volta che ci si confronta col Vangelo, sia esistenzialmente, che intellettualmente (che poi non sono approcci così lontani, come ci viene immediatamente da pensare... tant’è che chi pensa, non solo pensa l’esistenza, ma nell’esistenza). In questo senso va sfatato anche il mito della parabola come storiellina per i semplici, fatta di parole facili, con una morale chiara, affinché tutti possano comprendere. No! Il linguaggio parabolico non è per niente immediato; il nostro testo lo dice esplicitamente: le folle non capiscono la parabola!
Essa infatti, come la Parola tutta, come Dio stesso, richiede, per avere accesso ad essa, un acconsentire a lasciarsi coinvolgere. O ci lasciamo tirar dentro a una relazione o non capiremo nulla. È sbilanciandosi che si conosce (proprio come tra amici). E se si attua questo lasciarsi prendere, la parabola col suo meccanismo ci conduce in un percorso, dove è richiesta testa, passione, decisione: essa parte sempre da un aspetto quotidiano («il seminatore uscì a seminare»), introducendo però qualcosa di paradossale, strano, esagerato (questo seminatore è uno sprecone!); qualcosa che attira l’attenzione dell’ascoltatore/lettore e gli attiva la testa, che senza accorgersi inizia a porsi una carrellata di domande (Chi è questo seminatore? Perché agisce così? E il seme? E i terreni? E il frutto?), fino ad arrivare al disvelamento, che va ben oltre la storiella di un contadino strano, e che parla della sovrabbondanza indiscriminata (senza discriminazioni!!!) con cui il Signore getta la sua parola, anche dove un’analisi previa lascerebbe scarse possibilità (per non dire nulle) di raccogliere frutti; e la promessa che seppur andasse male, una, due, tre... volte, laddove si facesse anche solo una piccola breccia nel cuore dell’uomo, lì il frutto sarebbe sovrabbondante!
Ecco perché forse, la spiegazione seguente non va tanto intesa come una sorta di divisione dell’umanità in varie tipologie di terreni, in cui naturalmente i cristiani (anzi i cattolici) sarebbero identificati col “terreno buono”; piuttosto è il cuore di ogni uomo ad essere abitato da zone sassose, interstizi aridi, ombre spinose... eppure, pare dire Gesù spiegandosi, bisogna andare a cercare, quella piccola porzione di interiorità, dove uno, può ascoltare e comprendere la parola, può cioè riuscire ad acconsentire a lasciarsi tirar dentro ad una dinamica di liberazione interiore, che è irreversibile perché straripante.
A volte capitano questi miracolini nella gente: e allora vedi che l’ingrugnimento si scioglie in sorriso, il raggomitolamento in spensieratezza, l’essere bloccato dentro in libertà, la paura in affidamento, la durezza in coccole, il pianto in serenità...
Ma per molti invece il tempo è ancora quello che Paolo descrive con la semantica del gemere: «le sofferenze del tempo presente», «la caducità», «la schiavitù della corruzione», il gemere «interiormente»... è ad essi (che poi, in qualche modo siamo tutti) che il Signore getta sovrabbondantemente la sua parola, che è poi Lui stesso... perché tra tanti sassi, spine e terreni aridi, le zollette buone del nostro cuore possano dare il 30, il 60, il 100 per uno!

domenica 6 luglio 2008

I peccati di Messori

L'antefatto
Leggo a pg 23 del Magazine – Corriere della Sera del 12 giugno 2008, uno scritto di Vittorio Messori che riporto integralmente:

«La lezione del card. Martini
Peccati Vaticani di Vittorio Messori
Che scandalo per il Vaticano! Che coraggio il cardinal Martini! Che scoop per il quotidiano che ha pubblicato la notizia. Predicando gli esercizi spirituali al clero, l’arcivescovo emerito di Milano si è lasciato andare a una rivelazione: i sacerdoti cattolici non condividono il privilegio mariano della esenzione dal peccato originale. Dunque, anche i preti possono peccare, essi pure sono a rischio di invidie, gelosie, mormorazioni, vanità, carrierismo. E talvolta cedono a simili sirene. Insomma, i miti vanno una buona volta sfatati: persino chi ha ricevuto gli ordini sacri può cadere in qualche mancanza. Ironia, ovviamente, la nostra.
Ma giustificata e un po’ amara: spiace, in effetti, constatare che si dia tanto risalto a ciò che sin dai tempi del Concilio di Trento costituisce il tema obbligato di una giornata di predicazione ai ritiri del clero: le colpe dei consacrati. Ma, ancor prima, nei secoli dei grandi Padri classici e dei grandi Spirituali medievali era continua l’insistenza sulla Ecclesia immaculata ex maculatis, la Chiesa santa malgrado i suoi uomini (e donne) peccatori. Una novità? Sì certo, ma antica come il Nuovo Testamento.»

I rimandi
Confrontate lo scritto con l’articolo a cui “si” risponde Messori (nell’anticattolico giornale Repubblica.it e pubblicato anche nel blog); notate le parole (che ho messo in evidenza) che relativizzano il tutto… Aggiungete che, guarda caso, in un modo o nell’altro, c’è di mezzo il solito Cardinal Martini… notate infine che il finale sembra quasi un invito ai giornalisti a un comportamento omertoso, infatti sembra dire: “suvvia non sono notizie di cui devono occuparsi i giornalisti!”… E fatevi la vostra opinione, io qui do la mia, alla luce del Vangelo, come quello propostoci dalla liturgia in occasione della festa di san Tommaso apostolo (Gv 20,24-29).

Tornando al Vangelo
La Parola di Dio si sa è inesauribile, questo quindi ci aiuta di farne emergere di volta in volta aspetti che sappiano aiutarci a dare un significato nuovo alla storia sacra che stiamo vivendo…
In riferimento a questo brano evangelico, possiamo quindi porci questa domanda: Qual è il problema di fondo?

L’alleanza tra Narciso e Prometeo
Il problema di fondo è che ciò che fa fatica alla fede è cogliere in modo adeguato la “relazione”, la “connessione”, tra il Risorto e il Crocifisso! È questo, ieri come oggi, che fa problema esistenzialmente! Che è in fondo la vera questione della fede in Cristo!

Mi spiego: tutti i cristiani credono e proclamano che il Figlio di Dio, si è fatto uomo in Gesù di Nazaret detto il Cristo, patì sotto Ponzio Pilato, fu Crocifisso, è morto per la nostra salvezza ed è Risuscitato dai morti e siede alla destra del Padre e che tornerà nella gloria, ecc. Tutte cose, e altre ancora, che proclamiamo nel “Credo” ogni domenica come una cantilena…
Ebbene sembrerà strano ma questo oggi non fa problema, come non fa grande problema credere alle stimmate di Padre Pio, ai miracoli di Lourdes, e a ogni cosa che in qualche modo per quanto ci affascini non cambia la nostra vita più di tanto… Nella “storia che ci è data di vivere”, il nostro agire concreto, in campo economico, politico, sessuale, relazionale, ecc., non ne è assolutamente “sconvolto”, al massimo si aggiunge qualche preghiera in più, qualche pellegrinaggio o offerta in più, penitenza e digiuni compresi… Cose santissime e rispettabili certo ma per cui il nostro modus vivendi non è per niente chiamato a cambiare, a fare metànoia… e lo sguardo sulla realtà non cambia radicalmente.

Come a ben vedere non cambia più di tanto il “sapere” che Gesù Cristo una volta morto sia tornato in vita, dopotutto se credi che Gesù è Dio… ci mancherebbe altro che Dio non possa risuscitare…

Si può quindi continuamente “credere” alla Risurrezione di Cristo, ai miracoli, e continuare a non-credere che sia possibile un mondo di pace, che sia possibile convivere con i rumeni e i rom, che sia possibile cambiare la società italiana (e del mondo) rendendola più accogliente, aperta, multietnica e multireligiosa e pulita e onesta, ecc., ecc., e proprio per questo più sicura: Sicura per amore e non per forza (che poi la rende ancor più insicura) mettendo poliziotti (e militari) in ogni quartiere del paese o armando ogni cittadino (come il cristianissimo Stati Uniti d’America docet!). E questo perché?
Perché il “senso religioso” dell'uomo, crea idoli che non convertono nessuno in quanto proiezione del proprio “io”, in quanto forma sublime del proprio narcisismo che si fa prometeico pur di diventare un dio.

La Croce come forma della Risurrezione
Occorre quindi ricominciare dal Vangelo e, come insegna l’episodio di Tommaso, scoprire che il problema umano non è riconoscere Dio, ma riconoscere quella “forma divina” che si manisfesta in Gesù di Nazaret, e cioè, riconoscere che «Il Risorto è il Crocifisso!»...

Quello che fa problema alla comunità di Giovanni (o chi per lui) e a noi, è che il Risorto è il Crocifisso: non solo sono la stessa persona, ma sono all’interno della stessa “economia” salvifica. L’una non cancella l’altra, ma l’una rimanda all’altra, perché l’una “è”, in qualche modo, l’altra… Il passaggio dal Crocifisso al Risorto è più facile (forse perché più predicato), ma non è autentico se non si fa anche il passaggio contrario (basta vedere tutte le deviazioni doloristiche di una certa ascesi cristiana). E cioè non solo “il Crocifisso è risorto” ma anche che “il Risorto è crocifisso”, insomma il Risorto è tale perché si è lasciato crocifiggere! Anzi la Croce l’ha “agognata”!

Ecco perché nel Vangelo di Giovanni, la crocifissione “coincide” con la risurrezione: è morendo corporalmente sulla Croce che il Cristo entra corporalmente vivo (Risorge) nella gloria del Padre!

Per Giovanni, “essere innalzato” e “essere glorificato”, coincidono: è dire la stessa cosa. Cioè la Croce è la forma della Risurrezione!
Giovanni lo aveva già “mostrato” nel racconto della Passione, dal “modo regale” di consegnarsi alla Croce di Gesù e di vivere la Passione, ora deve “mostrarlo” per così dire, anche dall’altro versante, dal versante del Risorto e mostrare come nel Risorto permangono i segni della Passione…
Ecco perché è importante il gesto di Tommaso: perché riconosce nel Risorto i segni del Crocifisso, riconosce nel Risorto la forma della Risurrezione di Dio, cioè la crocifissione. Riconosce nel Glorificato la forma della Glorificazione propria del Dio di Gesù di Nazaret (cfr il “Mio Signore e mio Dio!”). Il “mondo” infatti conosce ben altre forme di glorificazione. Ma solo quella della crocifissione di Gesù, è propria di Dio (e dei suoi figli)...

Il “togliere” la crocifissione dalla risurrezione è l’errore di fondo degli apologisti odierni privi di speranza (cfr Prima lettera di Pietro)… Infatti loro non danno ragione della speranza, vogliono solo impedire d’essere crocifissi, come se potesse esistere per il discepolo una resurrezione-glorificazione-santificazione senza viverne (“agognandola”!) la crocifissione (di per sé essa è possibile, ma solo secondo l’autodistruzione del “mondo”, non secondo il Padre)…
Di fatto la loro, al di là delle loro buone intenzioni (ma la logica del “mondo” è piena di buone intenzioni che riempiono la storia di cadaveri), rifiutando di vivere la crocifissione della Chiesa, ne “ritardano” la glorificazione, e in questo modo, separano la Chiesa (e la sua vocazione), dal Cristo (e la sua missione). Il Corpo dal Capo.
A ben vedere, è una forma di “apostasia culturale” in quanto rifiuta di cogliere la “logica” profonda che prende corpo nella persona di Cristo, almeno così come ci è trasmessa dagli Apostoli.
Non è un caso che gli Apostoli non abbiano mai omesso di parlare apertamente dei problemi e dei peccati delle proprie comunità cristiane e persino del proprio tradimento proprio per sottolineare insieme al ravvedimento-conversione in “cosa” effettivamente esso consista: “credere” nella logica dell’amore crocifisso, perché unica forma d'amore che salva il mondo. E lo salva perché appunto si lascia uccidere piuttosto che uccidere (si può “eliminare” il prossimo persino per amore!). Ecco perché Gesù “doveva” morire in Croce e noi con lui “dobbiamo” morire in Croce. Nella testimonianza apostolica, il ravvedimento infatti è reso “definitivo” solo dalla piena conformazione al Crocifisso nel martirio: e questa è la “testimonianza” del discepolo.

Non capire questo vuol dire non aver colto il cuore del messaggio evangelico e inciampare in molti altri “errori”, che come a grappolo, bombardano il cristiano distratto e ammaliato da tanta abile retorica.

La Chiesa vuota e impenitente
Tra i tanti, il più grave è quello che partorisce un’idea astratta di Chiesa (come ipostatizzata), separata dalla “storia dei suoi membri. La Chiesa santa da una parte e i suoi membri poveri peccatori dall’altra (notate quel “malgrado”)… In questo modo di parlare della Chiesa non solo si manifesta un’idea di Chiesa “vuota” (guarda caso proprio come le nostre chiese dove i fedeli sono altrove), ma anche ne consegue che “la Chiesa – in quanto Chiesa – non può chiedere perdono” e nessuno, nemmeno la Chiesa, può comunque “chiedere perdono per errori e/o peccati del passato di qualche suo membro peccatore” (e qui si contraddice persino la “comunione – nella buona e cattiva sorte – dei santi”).

Mentalità alquanto diffusa quest’ultima in ambito ecclesiale e teologico e giornalistico, ma che dimentica, tra l’altro, separando il Corpo dal Capo, che se Gesù Cristo ha chiesto perdono al Padre di peccati che non ha assolutamente commesso, (e quindi ha chiesto perdono anche a noi, perché l’amore del prossimo e l’amore di Dio sono inseparabili), ancor di più deve farlo il “ladrone” che li ha commessi, se vuole essere “buon” discepolo ed ereditare il Regno (cfr Beatitudini).

La santità come perdono
La santità della Chiesa cioè è la santità che nasce dal perdono di Dio Padre in Cristo e il perdono lo si accoglie riconoscendosi peccatori e perdonandosi a vicenda… Come ci insegnano ancora una volta gli Apostoli quando si rivolgono ai “membri” delle comunità cristiane da loro dirette chiamandoli “santi” e nello stesso tempo non esitano nella stessa missiva ad elencarne i limiti, errori e peccati…

L’«unica» missione
La missione della Chiesa quindi, non è quello di passare il tempo a difendersi dalle accuse (per di più a dir poco non infondate), sminuendo magari la portata dei propri “errori”, ma dopo essersi battuta il petto per i propri peccati (presenti e passati) apertamente e sinceramente nella Verità crocifissa, deve fare propri anche i peccati e le colpe di tutti coloro che il perdono non sanno o non vogliono domandarlo, anche e soprattutto di coloro che non la riconoscono inviata dal Padre e da Cristo per essere strumento di salvezza condotto dallo Spirito (amore crocifiggente tra il Padre e il Figlio e i figli)… La Chiesa, corpo di Cristo, solo così rende attuabile, nell’oggi della storia, la grazia del perdono possibile anche per ogni creatura… E realizza se stessa come inviata dal Dio.

La vera apologesi
Questo sì che è vera apologetica perché è andare “contro” la mentalità di questo mondo, facendo propria quella del Padre manifestatasi in Cristo-Capo. Ciò però domanderà un cambiamento di rotta radicale del modo di condurre oggi la barca della Chiesa, ma se non scendiamo dalla Croce, il mondo (e noi con loro) sarà “convinto in quanto al peccato” e per questo salvato (Gv 16,8ss; cfr anche 16,20ss).

sabato 5 luglio 2008

Un invito a nozze!

Leggo nel Vangelo propostoci dalla liturgia odierna (Matteo 9,14ss):

«In quel tempo, si accostarono a Gesù i discepoli di Giovanni e gli dissero: “Perché, mentre noi e i farisei digiuniamo, i tuoi discepoli non digiunano?”. E Gesù disse loro: “Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto mentre lo sposo è con loro? Verranno però i giorni quando lo sposo sarà loro tolto e allora digiuneranno”.»

Noto che quindi per i cristiani il tempo del lutto e del digiuno è durato solo tre giorni…
Beh! Tranne per quei cristiani che stanno ancora aspettando la risurrezione di Cristo!

venerdì 4 luglio 2008

Gesù predilige i piccoli, cioè tutti

I 6 versetti del Vangelo di Matteo (Mt 11,25-30), che la liturgia ci propone per questa quattordicesima domenica del tempo ordinario, ad una prima lettura paiono rendere difficile ogni commento: essi infatti rimandano ad una immediatezza, ad una chiarezza e ad una semplicità così penetranti, che l’aggiungere parole rischia solo di complicare ciò che è limpido o sminuire ciò che è pregnante già solo a colpo d’occhio.
Siamo infatti di fronte a uno di quei brani evangelici che interpellano direttamente l’uditore/lettore e lo vanno a prendere là, nel più intimo di lui, dove ha sede la coscienza, quel personalissimo nucleo decisionale, che chiamiamo anche libertà, e che altro non è che lo spazio dove noi siamo di fronte a noi stessi e alla domanda sempre riproposta e che non ammette finzioni del “Chi sono io per me?”.
È in quello spazio lì che si insinua il Signore, con la sua Parola, perché è solo lì che può avvenire il rapportarsi autentico a Lui: tant’è che a quella domanda – “Chi sono io per me?” – è possibile rispondere, dentro alla concertazione di una storia che ci fa e ci disfa (o in cui noi ci facciamo e ci disfiamo), solo perché Lui nel nostro farci e disfarci, tiene ferma la nostra identità e dignità.
E le parole con cui si insinua questa domenica sono lancinanti:
La prima è quel queste cose: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose».
Cosa sono queste cose? E perché ad alcuni sono state nascoste? L’ansia poi sale se nel binomio che segue sapienti-intelligenti / piccoli qualcuno tendenzialmente si sente dalla parte dei sapienti e degli intelligenti... Che cosa mi è stato nascosto?
È interessante quanto cambi la prospettiva (nella lettura di questo testo, come di tutto il Vangelo e di tutta una vita) il punto di vista da cui si guarda: quello dei sapienti-intelligenti o quello dei piccoli.
E però neanche se uno è dalla parte dei piccoli è ipso facto tranquillo: anche a lui resta la domanda sul cosa siano queste cose rivelate... soprattutto se non si è accorto che gliele rivelavano...
Il problema rimane... Una cosa però è certa: va immediatamente frenato l’impulso (che ci viene) di intendere queste cose nascoste/rivelate come una sorta di prontuario per ogni evenienza o di manuale delle istruzioni per la vita. La prospettiva di Gesù non è dottrinalistica: non è che ai piccoli Egli abbia dato una sorta di bigino del catechismo per arrivare prima in paradiso...
La prospettiva è tutt’altra: Gesù sta indicando una logica, un orizzonte di senso, una dinamica.
Lo si capisce chiaramente se ci si fa raggiungere da un’altra domanda che il testo ci lancia: di che genere sono queste cose che i piccoli colgono e i sapienti e gli intelligenti no?
Non possono ovviamente essere di quel genere di cose su cui i sapienti e gli intelligenti hanno un vantaggio indubbio sui piccoli...
E il problema è che immediatamente è difficile trovare qualcosa in cui i piccoli siano più avvantaggiati dei sapienti e degli intelligenti: far soldi? No. Far carriera? No. Conoscere le scienze, le tecniche, la religione? No.
Appunto...
È qui che vuole condurci il testo, ad un’impasse che fa nascere la domanda: ma quale ordine di cose comprendono meglio i piccoli, quale orizzonte colgono meglio dei sapienti?
Che equivale alla domanda da cui siamo partiti: Cosa sono queste cose?
Sono le cose, l’orizzonte di senso, che riguarda il Regno.
Il nostro testo infatti è collocato proprio in una sezione che ha questo per tema: la Bibbia CEI, per fare solo un esempio, titola questa parte del Vangelo “Il mistero del Regno dei cieli”, a partire proprio dal nostro capitolo 11, che si inaugura col bellissimo episodio di Giovanni Battista che dal carcere manda a chiedere a Gesù: «Sei tu quello che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?». Domanda che trova la stupefacente risposta di Gesù, che invece di fargli un trattato teologico, gli mostra appunto i segni della venuta del Regno: «Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella».
Eccoli i nostri piccoli, ed ecco in che cosa sono esperti (perché ne fanno esperienza): nella dinamica del Regno!
Non si tratta qui di sviscerare cosa questo voglia dire (sono banali e riduttivi i tentativi di contenere la dinamica del Regno compresa meglio dai piccoli in soluzioni quali: i poveri soffrono già qui, gioiranno di là; sono più innocenti e vedono quello che gli altri non vedono... e via dicendo). E, non bisogna sviscerare questa dinamica in soluzioni così riduttive, non per evitare il problema di pronunciarsi, ma perché la dinamica del Regno è un’interpellazione talmente personale, da far esplodere qualsiasi tentativo di orchestrarla in un piano pastorale, in uno schema applicativo o in un progetto di vita.
E di fatti, a ben guardare, Gesù fa sempre incontri personali: mostra il Regno non guarendo di botto tutti i ciechi, ma quel cieco; non raddrizzando le gambe a tutti gli storpi, ma quelle di quel paralitico...
Eppure, rimane una generalizzazione: nella predilezione per i piccoli! È la logica di cui dicevamo prima: loro sono gli esperti del Regno, perché ne fanno esperienza.
Ma c’è un motivo anche per questa generalizzazione (a mio parere)...
Che piccoli lo siamo tutti, sebbene spesso passiamo molto tempo e sprechiamo molte energie per convincere gli altri e auto-convincere noi stessi (cosa impossibile) del contrario.
E che Gesù stesso abbia in qualche modo questa consapevolezza nel parlare dei piccoli lo si vede, oltre che per il fatto che trasuda dal vangelo intero, dalle parole di Gesù che Matteo accosta a quelle appena viste: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò».
Con questa affermazione Gesù pone in relazione i piccoli con coloro che cercano ristoro per le loro anime, che ancora una volta non vuol dire la salvezza dell’anima immortale, nell’aldilà, e bla bla bla... ma la pacificazione di quel nucleo incandescente di noi stessi.
Tutti nella vita infatti sperimentano le dinamiche della piccolezza (che sia d’età, di indigenza, di ignoranza, di fallimento, di malattia, di mortalità...). L’uomo infatti è povero per natura: nasce nudo e muore solo, sempre.
Ma di fronte a questa che parrebbe, o pare effettivamente, una prospettiva disperante, che impedisce qualsiasi risposta dignitosa alla domanda “Chi sono io per me?”, il Signore pone la sua parola: «io vi ristorerò».
Pone la sua predilezione per la piccolezza, che riecheggia subito la semantica della cura. Una cura, che non si riferisce immediatamente all’alto dei cieli o al post mortem, ma al ristoro della nostra interiorità («troverete ristoro per le vostre anime») nel qui e ora, «affaticati e oppressi». Una cura che sola risponde alla domanda “Chi sono io per me?”, fondandone un senso dignitoso e costruttivo: per cui val la pena vivere. E che dunque fonda la vita.
È questa la logica a cui il Signore vorrebbe che acconsentissimo («Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te»): che l’uomo non sciupi la vita (sua e delle sue vittime) a tentare di essere dio, ma che la impegni ad essere uomo; non spaventandosi per la piccolezza e quindi non tentando tanti percorsi ansiosi per mascherarla, ma riconoscendola come il luogo dell’affidamento a un Altro. Un Altro che è fondamento affidabile e per questo garante della mia identità e del senso del mio esser-ci, anche qualora io stesso lo disperdessi.
Infatti, solo perché affidata-fondata su un Altro la mia vita diviene possibile: non più soffocata dall’ansia di salvarsi la pelle nell’aldiqua e l’anima nell’aldilà, ma già nelle mani di un Altro e per cui libera di essere vissuta.
Questo io credo sia la fede: il dar credito al fatto che sia possibile per me esser-ci; ma proprio perché un Altro prima di me è stato uomo così: «imparate da me».
...«che sono mite e umile di cuore»...
E si capisce bene ora come si tratti di mitezza e umiltà non declassabili a virtù da manuale del buon cristiano, ma da considerarsi come frutti di una vita che si misura su questa logica: «Dai loro frutti li riconoscerete».

I “piccoli” e la nostra salvezza

Si va manifestando sempre più l’identità vera di Gesù e quindi della sua missione tra di noi e la nostra difficoltà a capirla. Abbiamo visto Gesù che va a pranzo con i peccatori e i pubblicani …e i farisei si scandalizzano. Gesù si commuove di compassione per le folle perché erano stanche e sfinite come pecore senza pastore, e vuole che i suoi discepoli le consolino e le curino … In questo capitolo 11°, si intensificano incomprensioni e resistenze verso di lui: Giovanni Battista non ne coglie la novità, il popolo non lo comprende, i farisei lo dichiarano indemoniato, e i villaggi sul lago, dove più si è speso come amico, profeta, taumaturgo, sono refrattari al suo messaggio. Gesù ne rimane molto deluso…: ha nelle orecchie i commenti su di lui degli esperti delle Scritture: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori… e soffre per l’inutilità della sua predicazione: “si mise a rimproverare le città nelle quali aveva compiuto il maggior numero di miracoli, erché non si erano convertite…
È arrivato al fondo di un vicolo cieco ‑ e proprio qui, si apre uno squarcio inaspettato di gioia… si spalancano orizzonti nuovi luminosi, entro i quali addirittura brilla il volto del Padre e in lui Gesù sussulta di riconoscenza ed esulta nello Spirito Santo (Lc 10,21), perché ritrova il senso della sua avventura in questo mondo.

Tramite “i piccoli”!

Cosa vuol dire? Cosa ha scoperto?
Ha scoperto … come è fatto suo Padre! E quindi come sarà la sua propria storia di figlio mandato da lui a salvare il mondo. Quello che nell’eternità del loro amore è vero da sempre, adesso si sta incarnando nelle vicende difficili della sua storia umana: Ha scoperto come suo Padre vede e patisce le cose del mondo diversamente da lui, come considera inevitabile il rifiuto del mondo, ma anche del suo popolo. E come invece (e a chi) “gli piace” rivelarsi e nascondersi! Quant’è diverso dalle aspettative di gloria e onnipotenza dell’uomo, il suo misterioso agire di Padre nella storia, dentro i conflitti, i rifiuti, i fallimenti, la ingenua effimera buona volontà dei “buoni”… e la refrattarietà radicale di “tutti” al suo amore!
Non se ne accorge forse nessuno, ma sotto lo sguardo stupito e smarrito dei discepoli più vicini, questo sussulto di consapevolezza “riconoscente” di Gesù verso il Padre segna un salto di qualità e di prospettiva nel cammino culturale dell’umanità intera… come è avvenuto per il suo battesimo o la morte in croce. Su questo mistero “paterno” sta o crolla la fede dei suoi discepoli lungo i millenni. Lo si vedrà poco dopo quando il fondamento stesso della sua Chiesa, Pietro, dopo aver accolto felicemente l’ispirazione del Padre sulla messianicità di Gesù, di fronte a questo discrimine della sofferenza, diviene ‘satana’! Come tutti i discepoli, che appena il loro messia diventerà “piccolo e inerme” lo abbandoneranno tutti. Su questa scelta preferenziale dei piccoli come depositari delle “cose” del Regno si gioca il prestigio “a rovescio” dei discepoli di Gesù! – che ciascuno di noi, come la chiesa intera, fa una fatica immensa ad accettare. Ma il messaggio è chiaro!
1. La rivelazione del Padre passa attraverso i “piccoli” (in/fanti – non hanno neanche la parola!). L’esperienza di Gesù con i sapienti e gli intelligenti non è stata felice e arriverà ad uno scontro mortale…. ma la sua dichiarazione non è una condanna contro di loro: è invece un’esperienza di profonda coincidenza con le scelte del Padre, come a dire: è proprio così! è vero e bello così! Sono i poveri di spirito, i malati, le folle stanche, i bambini… coloro insomma che non sanno come salvarsi, che possono aprirsi davvero alla benevolenza del Padre, che preme sul cuore di tutti… Gesù capisce che lui stesso, pur continuando per ora tutti gli sforzi, le discussioni, i segni di salvezza, sarà spinto nell’abisso dell’impotenza…
2. l’uomo Gesù, (e Gesù soltanto) è il rivelatore del Padre in terra, proprio per aver capito questo ed esserne trasformato nel nodo della sua (nostra) umanità. Al punto di riconoscere nel Padre il proprio segreto più intimo: tutto mi è stato dato dal Padre mio… Questo mistero inaudito è stato scritto lì, certamente, con parole così profonde e intense che gli esegeti dicono che sembra un testo di Giovanni. Gesù sta spalancando a noi il circuito trinitario (nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio)… per dirci che questo circuito non si può ormai più chiudere storicamente (su questa terra come in cielo) se non attraverso questo anello mancante: i piccoli! Questa è l’intima rivelazione del segreto messianico del Padre, nel quale Gesù coinvolge colui al quale lo vuole rivelare ‑ per associarlo alla sua missione di salvezza del mondo!
3. venite a me voi tutti affaticati e oppressi! …fiumi di inchiostro si sono spesi per difendere Dio dal male del mondo, per proclamare tutti (credenti di ogni fede, atei, agnostici) che i piccoli, soprattutto, non devono soffrire. Gesù accoglie invece la contraddizione e ci si sprofonda, ma non la risolve storicamente, come tutti si aspetterebbero... Propone un modo di viverla nuovo, riferito a lui e alla sua esperienza del Padre nella storia: Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e piccolo di cuore, e troverete sollievo per le vostre anime. Il mio giogo infatti è utile e il mio carico leggero. Dunque la sua croce rimane un peso smisurato sulle sue spalle, e neanche sarà leggera la croce di chi lo segue! Il segreto sembra essere nella mitezza e inermità con cui si affida alla benevolenza del Padre che in lui (loro!) sta portando avanti la salvezza del mondo. Qui c’è un abisso, un vuoto, nel quale si inoltra chi lo segue senza resistenze, chi il Padre ha chiamato, chi ne riceve il regalo terribile di sofferenza, impotenza, infermità… mantenendo in cuore la mitezza. Dal suo intimo sgorgherà lo zampillo d’acqua, il barlume di luce sufficiente a sperimentare …che il Padre ha ragione!
...via verità e vita…
Gesù dunque taglia via dalla conoscenza dei misteri del Regno (queste cose!) gli specialisti della teoria (teologi, scienziati, scribi e farisei… chierici) e gli specialisti della prassi (asceti, santi… galantuomini) coloro insomma che hanno accesso a Dio e ai grandi problemi dell’uomo e della sua storia… Saranno anche competenti e tocca a loro condurre il mondo e le chiese… ma Gesù continua imperterrito ad affermare che il Padre si è compiaciuto di “rivelare” i veri segreti del senso della storia, ai piccoli. Rivelare “queste cose” – cioè effettuarle storicamente, vuol dire… ‘Lui’, da che parte sta! da dove salva il mondo! con i piccoli!
Tutta la lotta che segna la vicenda umana, a livello personale e sociale, tra legge della carne (carri e cavalli - risorse della legge e della morale… potenza delle capacità umane) e legge dello spirito (un puledro di asina, la fatica e l’oppressione, la piccolezza e l’insignificanza) … è raccolta e simboleggiata anche da Zaccaria e a Paolo … nei piccoli del Vangelo, salvati per grazia dello Spirito: per dare vita anche ai loro corpi mortali (Inutili! noi pensiamo… censurando che la sorte del nostro corpo è, alla fine, uguale).
Nella sua avventura umana - nel suo corpo! nel loro corpo! - abitati dall’interno da una dinamica dello Spirito totalmente diversa dalla legge della carne, Gesù si propone via e forza di salvezza. Come a dire: imparate da me (come ho imparato io!) la potenza della mitezza e della piccolezza: nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a colui che poteva liberarlo dalla morte… e fu esaudito per la dolce consegna di sé . Pur essendo figlio, imparò l'obbedienza dalle cose che patì, e divenuto perfetto, divenne causa di salvezza per tutti quelli che gli obbediscono!… (Eb 5,7s).
il punto cieco - il corpo mancante della chiesa e della società …
… lo statuto dei mistici è di non raggiungere mai il dio per cui vivono, quello dei piccoli è di non raggiungere… niente! Ma di essere abitati da un Padre inerme… che li rende “il vangelo vivo” che, in ogni cultura, si fa fermento e seme di ciò che non c’è ancora, la profezia della salvezza ricercata, la denuncia della insensatezza di ogni violenza e reazione aggressiva.
Il Dio mondano, intuito dalla nostra intelligenza, ricercato dalla nostra orfanità affamata di onnipotenza,viene incessantemente e inevitabilmente ingabbiato nelle teologie e liturgie di noi intelligenti, sapienti, e clericali… E così intercetta e impedisce il contatto con il Padre, sperimentato e rivelato da Gesù. Censura, quindi il vero scandalo! Elimina l’anello storico del circuito trinitario: i piccoli, che sono in mezzo a noi, senza importanza, pietre scartate, ma sono le chiavi di volta della salvezza della storia. Perché la salvezza è indivisibile: se non si salva il più piccolo non si salva nessuno!
… i cristiani si affannano cercando come presentare meglio Dio nella società e cultura secolarizzata di oggi, correndo avanti o indietro, aggiornando (o ripristinando) abiti e linguaggi…
Dio… non so dove sia! Ma il Padre di Gesù Cristo, forse è nascosto negli accampamenti zingari, in fila con i “piccoli” rom, a farsi schedare e prendere le impronte – e chi si accorgerà che sono le impronte di Dio?!

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