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lunedì 28 aprile 2008

Totalitarismi: la storia addomesticata

  • "Di Pietro? Sì che mi piacerebbe averlo con me, come ministro". (Silvio Berlusconi, Maurizio Costanzo Show, 22 febbraio 1994).
  • "E' in corso a Roma, secondo quanto ha appreso l'Ansa, un incontro tra il presidente del Consiglio incaricato Silvio Berlusconi e il giudice Antonio Di Pietro". (Ansa, 7 maggio 1994, ore 14.53).
  • "'Ho fatto presente che non potrò accettare il pur prestigioso incarico di ministro'. Lo ha affermato il giudice Antonio Di Pietro conversando con i giornalisti al termine dell'incontro con Silvio Berlusconi. 'Ho avuto l'onore di incontrare il presidente del Consiglio incaricato - ha fra l'altro detto Di Pietro - al quale ho confermato che in questo momento ritengo doveroso rimanere al fianco dei colleghi della Procura di Milano per portare a compimento il lavoro iniziato. Coerentemente ho fatto presente che non potrò accettare l'incarico di ministro dell'Interno... All'on. Berlusconi ho formulato i miei auguri affinché possa svolgere questo lavoro con serenità e possa conseguire i risultati sperati nell'interesse del Paese'. Di Pietro ha infine reso noto che stava per rientrare alla Procura di Milano". (Ansa, 7 maggio 1994, ore 15.37).
  • "Avevo una rosa, ora è caduto un petalo e mi restano le spine". (Silvio Berlusconi, dopo il no di Di Pietro, 7 maggio 1994).
  • "Eh, se Di Pietro avesse dato retta a me e fosse entrato nel mio governo..." (Silvio Berlusconi, dopo le dimissioni di Di Pietro dal pool Mani Pulite, 7 dicembre 1994)
  • "Non ho mai offerto a Di Pietro il ministero dell'Interno. Di Pietro mi fa orrore perché sbatteva in galera gli innocenti" (Silvio Berlusconi, 10 aprile 2008).

Democrazia: Marco Travaglio parte prima

Democrazia: Marco Travaglio parte seconda

venerdì 25 aprile 2008

Pronti a rendere ragione della speranza che è in voi

«E chi vi potrà fare del male, se sarete ferventi nel bene? E se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza».
Ho voluto iniziare con queste quattro righe (che trasbordano leggermente rispetto a quelle proposte dalla liturgia) perché mi pare che in esse Pietro riesca davvero a leggere in maniera lucidissima l’intimità dell’uomo cristico, a mettere in luce i cordoni fondamentali, profondi e vitali del suo cuore: in pochi versetti infatti mette in campo il male, il soffrire, la paura della morte, il turbamento, lo sgomento; ma anche l’intimità col Signore, l’intelligenza della fede, la speranza, la dolcezza, il rispetto, la retta coscienza...
E il tutto non giustapposto come in un comune prontuario dei buoni consigli, ma articolato in maniera seria, tenendo conto della drammaticità della realtà dell’uomo e del mondo...
E proprio per questo mi sembra interessante cercare di sviscerare come Pietro stesso inanelli tutte queste tematiche...
Innanzitutto il fatto centrale: «adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi».
Ancora una volta il Nuovo Testamento ci invita a una relazione intima col Signore, che prima che in ogni altro luogo (il tempio, la sinagoga, la chiesa) ha da darsi in uno spazio privilegiato: «nei vostri cuori»... Quella è la sede «della speranza che è in voi».
E, in proposito, mi incuriosisce tentare di indagare un po’ questa speranza che è in noi...
Prima ancora che le ragioni... mi verrebbe addirittura da chiedermi: ma quale speranza? Di cosa stiamo parlando? Se qualcuno effettivamente capitasse qui a chiedermi qual è la speranza che abita il mio cuore, il cuore di “noi cristiani”, cosa direi?
Credo che la risposta che molti si aspetterebbero e forse anche la prima che ci sale alle labbra (la prima che ci hanno insegnato e che abbiamo respirato nel nostro ambiente natale) sarebbe quella di una speranza nella vita dopo la morte...
Ed effettivamente non si tratta né di una risposta banale, né di una risposta secondaria...
E tuttavia, già nel pronunciarla, mi accorgo di quanto si sia caricata negli anni di precomprensioni, superstizioni, folclorismi, che effettivamente rischiano di farla risuonare come banale, svuotata, incomprensibile, di certo poco pregnante per chi la ascolta...
E dunque? Qual è la speranza che è in noi? Forse, senza immediatamente precipitarci nella vita eterna, sarebbe meglio fermarci un attimo prima e dire semplicemente: speranza nella Vita; tenendo in questo modo un orizzonte più ampio (che certo include anche il post mortem, senza renderlo esclusivo).
Speranza nella Vita, dunque... in una vita che non è rimandata a un lontano aldilà, quasi che l’oggi carico delle sue fatiche e sofferenze sia un pegno per un premio futuro... ma Vita nell’aldiqua... speranza dunque nel fatto che la grammatica dell’esistenza umana parla di vita e non di morte, parla di custodia e non di abbandono, parla di amore e non di solitudine, parla di condivisione e non di competizione...
Ma quali sono le ragioni da rendere a chi ci chiede conto di questa speranza? Ha davvero senso, guardando in modo disincantato la realtà, avere questa speranza? O è solo un’illusione in cui a noi piace credere, per non guardare alla brutalità di un’esistenza che nasce nel non senso e finisce nel nulla? È speranza fondata o è “oppio dei popoli”?
A me pare che di fronte a queste domande, che vanno a toccare il senso profondo su cui si fonda una vita, si possano dare solamente risposte che arrivano allo stesso livello di profondità... risposte che allo stesso modo tocchino i fondamenti della nostra struttura antropologica, del nostro nocciolo più incandescente, del nostro centro vitale...
E in questo senso l’unica ragione convincente per la speranza che è in noi, per una vita che parli di Vita e non di morte, è la libertà storica di Gesù di Nazareth, è l’incontro con questa libertà, il coinvolgersi in una relazione con essa.
Infatti proprio perché il problema è esistenziale (nel senso forte della parola) credibile può essere solo una risposta che tocca l’esistenza. Non si può troppo filosofare o viaggiare nei meandri della metafisica... Devo esserci dentro io a quella risposta, la mia vita, la mia autocoscienza... altrimenti, sarà pure una risposta brillante, razionale, spirituale, ma non mi convincerà, non mi convertirà, non mi libererà il cuore, non mi farà spalancare il sorriso...
L’unica ragione credibile allora è proprio e solo l’incontro con quella libertà storica; solo il mio incontro personalissimo con essa, nell’intimo del più intimo di me... lì c’è da entrare in un circuito di energia vitale, in un circuito d’amore che Gesù chiama Spirito: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità. [...] Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. [...] Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».
Solo acconsentendo a questo circuito si può trovare la speranza nella Vita e la capacità, sperimentata e non teorica, di renderne ragione. Non si tratta di spiritualismi, ma di riconoscere che aveva ragione quel tale che parlava di un Dio che è Padre, che vuole la Vita dei suoi figli; che diceva che per essi è possibile vivere e non sopravvivere, perché la loro vita l’ha già salvata lui... e in questo modo per essi c’è proprio la possibilità di vincere la legge necessaria dell’istinto di sopravvivenza, che fa l’altro nemico, rivale e concorrente, con la dinamica libera dell’amore, che invece fa l’altro sempre fratello, amico, mio.E per acconsentire a questo circuito o anche solo per darci una sbirciatina dentro basta ammettere che forse è vero... Ed in proposito - come ha detto papa Ratzinger il 21 novembre 2007 - «a questo punto potrà forse risultare opportuno ascoltare un racconto ebraico, riportatoci da Martin Buber, nel quale il dilemma dell’esistenza umana sopra enunciato affiora in tutta la sua evidenza. “Uno degli illuministi, uomo assi erudito che aveva sentito parlare del rabbi di Berditchev, andò a fargli visita, per disputare come il suo solito anche con lui, nell’intento di fare scempio delle retrive prove da lui apportate per dimostrare la verità della sua fede. Entrando nella stanza dello Zaddik, lo vide passeggiare innanzi e indietro con un libro in mano, immerso in profonda meditazione. Il saggio non prestò alcuna attenzione al visitatore. Finalmente si arrestò, lo guardò di sfuggita, e sbottò fuori a dire: “Chissà, forse è proprio vero”. L’erudito chiamò invano a raccolta tutto il suo orgoglio: gli tremavano le ginocchia, tanto era imponente lo Zaddik da vedere, tanto tremenda la sua sentenza da udire. Il rabbino Levi Jizchak si volse però completamente a lui, rivolgendogli in tutta calma le seguenti parole: “Figlio mio, i grandi della Torah, con i quali tu hai polemizzato, hanno sciupato inutilmente le loro parole con te; quando te ne sei andato, ci hai riso sopra. Essi non sono stati in grado di porgerti Dio e il suo regno; ora, neppur io sono in grado di farlo. Ma pensaci, figlio mio, perché forse è vero”. L’illuminista fece appello a tutte le sue energie interiori, per ribattere; ma quel tremendo “forse”, che risuonava ripetutamente scandito ai suoi orecchi, aveva spezzato ogni sua velleità di opposizione”».

V2-Day diretta TV

giovedì 24 aprile 2008

Il secondo Consolatore... nel difficile cammino della maturità cristiana

Liturgicamente stiamo entrando in una settimana di preparazione all’uscita di scena di Gesù da questo mondo, o piuttosto dalla vista dei suoi discepoli : è il mistero che chiamiamo Ascensione! Dopo la quale tutta l’attenzione sarà concentrata sulla Pentecoste! Le letture di questa domenica di transizione sono una forte provocazione preparatoria: perché Gesù se ne deve andare? Cosa vuol dire un “altro consolatore”?‑ che Gesù ci manda a rimediare la nostra nostalgia di Lui? Ecco l’esperienza della comunità cristiana primitiva, sullo scorcio del primo secolo.

Filippo… sceso in Samaria… cominciò a predicare loro il Cristo!
C’è una prima predicazione entusiasta ed avvincente, rivolta per di più ad un popolo eretico e disprezzato, il quale però “presta ascolto unanime” e si converte, con fenomeni vistosi e gioiosi di liberazione da oppressioni fisiche e psichiche, malattie, ossessioni … Ma poi le malattie ritornano, o comunque di malati non guariti ne rimangono tanti, passano i giorni, crescono le fatiche e scema l’entusiasmo, e rispuntano i disagi, insiti nel cuore degli uomini: che fare? Gli Apostoli sanno che manca ancora un passo fondamentale per la compiutezza della grazia cristiana: il dono dello Spirito. Senza il quale si è ancora cristiani incompiuti! Non basta l’incontro con il vangelo di Gesù ed il Battesimo. Occorre un secondo passo per camminare verso la pienezza della “maturità cristiana”. Come mancasse un successivo dono di presenza e attitudine interiore. Ma non si tratta di una maggior perfezione, né una qualità o facoltà dell’anima, che si possa perseguire con un’ulteriore catechesi approfondita… È invece il dono di un misterioso amore “personale”: un “altro consolatore” interiore che accompagni lungo il cammino delle vicende e peripezie della vita: “Pietro e Giovanni… pregavano perché ricevessero lo Spirito Santo… imponevano loro le mani e ricevevano lo Spirito Santo…”. Un dono mandato dal Padre e dal Figlio, perché rimanga con noi per sempre, trasmesso dalla Chiesa e col/legandoci in comunione vitale anche tra noi!
Oggi il battesimo e anche, in seguito, la cresima, si ricevono in età non certo adulta, per cui si rischia ancor più di non capire l’importanza del ‘secondo’ consolatore, l’urgenza dell’accoglienza personale e consapevole dello Spirito, che esigendo un rapporto responsabile, da “grandi”, non trova in genere una sua collocazione efficace nel cammino della fede. Molti rischiano così di rimanere sempre ad un livello di fede infantile, devozionistica e un po’ magica, disimpegnata ecclesialmente e socialmente, per una sorta di schizofrenia pratica tra una sovrastima del culto e del rito, che sono necessari, ma spesso non sostenuti e vivificati da un’esperienza di coinvolgimento interiore con lo Spirito di Gesù, che raramente ci si preoccupa di insegnare e trasmettere (come invece Pietro e Giovanni). Per cui tanti cristiani, pur consacrati formalmente nello Spirito, rimangono immaturi, e quindi soggiogati dalla mentalità mondana che hanno assorbito, ignari dello “Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce”. Certamente le crisi di fede e di senso, gli abbandoni della pratica religiosa, lo scoramento sfiduciato nei momenti difficili della vita personale, famigliare, comunitaria… e infine la tentazione di appiattimento sulle modalità di vita propinate dalle provocazioni e delle logiche mondane antievangeliche, hanno qui la loro origine. In una insufficiente consapevolezza e accoglienza dello “specifico della vita cristiana”, di Colui che – soltanto ‑ può dare compiutezza e continuità alla dinamica iniziale della conversione al vangelo: lo Spirito!
…non vi lascerò orfani
Senza lo Spirito il cristiano è orfano, secondo Gesù! E il cristianesimo diventa solo una religione del culto e del Libro, la dottrina di un Maestro che ha insegnato eccelse quanto irraggiungibili proposte morali, ma non ha trasmesso la “spinta” dinamica vitale che sorregga la miseria umana nell’usura del tempo e dell’evolversi della cultura. Per cui quando scordiamo lo Spirito diventiamo una setta di orfani smarriti o aggressivi. Mentre Gesù, ritornando al Padre, non ci ha abbandonati a noi stessi. La sera di Pasqua «alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito santo» (Gv 20,22). E Luca aggiunge il saluto finale: «Io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso» (Lc 24,49). A Pentecoste riascolteremo la grande effusione dello Spirito che darà coraggio e forza a tutta la Chiesa, proiettandola nella sua missione nel mondo, ma custodita e protetta: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre». Nello Spirito, l’apertura del cuore ai comandamenti di Gesù non è una sottomissione ad una legge, ma conseguenza di un innamoramento : la “passione” di Dio è venuta ad abitare dentro di noi come una forza propulsiva, un flusso vitale… ravvivando un intreccio di relazioni che nutrono la vita… Se mi amate osserverete i miei comandamenti... Dunque la realizzazione della proposta di Gesù è esperienza di accoglienza dell’amore in persona: lo Spirito! Non può essere diverso: «Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui». Questo appassionato coinvolgimento ci apre ad una intimità misteriosa e coinvolgente con la Trinità stessa: «In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi». L’opera forte e mite dello Spirito santo è condizionata dalla nostra corresponsabilità accogliente e docile, perché è lui la fonte dell’amore che ci smuove, in una dinamica dove i due amori (il piccolo e fragile amore di cui siamo capaci noi – e il suo braciere eterno) sono fusi insieme nel gemito che ci fa dire “Abbà, Padre”… gemito che ci risuona in cuore, se impariamo ad ascoltarlo, in ogni passo della vita quotidiana, fino a sperimentare e gustare qualche barlume della sua promessa: Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi... perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me ed io in voi.
…lo Spirito di verità
Questa è dunque l’opera dello Spirito in noi! La prima funzione, per così dire, è espressa nel termine stesso usato da Gesù: il Consolatore. La vita cristiana è un confronto e uno scontro continuo col mondo, non solo quello fuori di noi, ma quello che continuamente rispunta ancora dentro di noi. A volte in questa lotta ci sentiamo scoraggiati e perdenti o confusi. Gesù lo sa! Per questo, andandosene, promette con commovente tenerezza: Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore, perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere. La maturità cristiana è, propriamente, accogliere il dono dello Spirito santo e lasciarsi condurre da Lui, come dirà Paolo: «Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio» (Rm 8,14). La nostra “verità”, cioè l’espansione piena della nostra vita “vera”, può essere spinta così ad un livello di pienezza “divina”, la cui possibilità è stata seminata nella nostra carne dall’avventura umana di Gesù, manifestazione dell’amore del Padre per il mondo. Ma è solo lo Spirito santo a introdurci storicamente nel mistero del Padre manifestato nel Figlio (è la seconda funzione fondamentale), infiammandoci il cuore per capire il vangelo e “sapere” viverlo, portando il giogo leggero della nostra fatica quotidiana e aprendone le chiusure e le durezze ad orizzonti di benevolenza, di perdono, di speranza – dentro tutti i problemi di una società sempre più complessa. Come del resto aveva predetto Gesù: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future» (Gv 16,12-14). Per cui, la “consolazione dello Spirito” non è un semplice conforto di solidarietà nel dolore e nella fatica, ma la “forza” di trasformare la vita. “…il cristianesimo non era soltanto una «buona notizia» – una comunicazione di contenuti fino a quel momento ignoti. Nel nostro linguaggio si direbbe: il messaggio cristiano non era solo «informativo», ma « performativo». Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita” (Benedetto XVI, Spe Salvi 2).
…rendere… ragione della speranza che è in noi… con dolcezza e rispetto!
Chiunque oggi ha modo di conoscere, sentire e patire la complessità dei conflitti sociali, nella inevitabile e drammatica interdipendenza ‘globalizzata’ di fame e benessere, di guerra e di sicurezza, di decisioni irreversibili di pochi sul destino dei popoli… scelte che finiscono per mantenere i più indifesi in situazioni insopportabili di oppressione della dignità umana. Ma siamo anche molto più consapevoli dell’ambiguità della nostra stessa anima, ove si combattono e convivono amore e odio, paura e attrazione, maledizione e benedizione… Questa nostra ambivalenza personale interagisce con il male strutturale delle situazioni politiche, sociali, ecclesiali… le quali oggi più che mai sembrano polarizzarsi in una deriva regressiva, che spinge i più fortunati a difendere egoisticamente i propri privilegi e restringere quindi ancor più l’accesso di tutti ai diritti e ai beni di una vita umana degna… Il cristiano deve ridiventare, il testimone della speranza. Di fede è difficile parlare in questo contesto secolarizzato. Ma tutti cercano speranza, perché sembra essercene sempre meno in giro… Il cristiano non ha bisogno di predicarla, perché dovrebbe trasparirne sul suo volto la luce e la voglia di condividerla, con dolcezza e rispetto delle sofferenze e disperazioni altrui. Tutti lo capirebbero, perché la speranza è il nome laico, la veste feriale della fede! È lo Spirito che la fa rinascere nei cuori delusi o devastati degli uomini, attraverso il desiderio del “frutto” molteplice della sua presenza, che non può essere annullato da nessuna oppressione: amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé: contro queste cose non c’è legge (Gal 5,22).

mercoledì 23 aprile 2008

P. Franco De Carlo: Il Vangelo di Marco

Pare che i files pubblicati tempo fa siano spariti dal sito ospitante, li ripubblico servendomi di un altro sito, spero più pratico: potete andarvi e, per chi non lo avesse ancora fatto, scaricarvi i files!

domenica 20 aprile 2008

Totalitarismi e neototalitarismi

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IERI:
I miei anni da teenager sono stati rovinati da un regime infausto che pensava di possedere tutte le risposte; il suo influsso crebbe - penetrando nelle scuole e negli organismi civili come anche nella politica e addirittura nella religione - prima di essere pienamente riconosciuto per quel mostro che era. Benedetto XVI davanti a 20 mila giovani adolescenti e seminaristi di Yonkers (un sobborgo popolare a nord di Manhattan), il 19 aprile 2008!
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DOMANI:
I miei anni da teenager sono stati rovinati da un regime infausto che pensava di dare tutte le risposte; il suo influsso crebbe - penetrando nelle scuole e negli organismi civili come anche nella politica, nell'informazione, nella giustizia, nell'economia, nei masmedia e addirittura nella religione - prima di essere pienamente riconosciuto per quel mostro che era. Benedetto XVII davanti a 20 giovani adolescenti e seminaristi di Inqualunqueposto (un sobborgo popolare a nord di Unaqualunquecittà), il 19 aprile 2028?
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Telecrazia

Iraq, il Pentagono sotto accusa «Assolda gli esperti di guerra in tv»
NEW YORK - Analisti militari a libro paga del Pentagono o dell’industria della difesa e informazione manipolata per mettere la politica della Casa Bianca contro il terrorismo e la guerra in Iraq in buona luce di fronte all’opinione pubblica. Questa la durissima accusa lanciata dal New York Times contro l’amministrazione statunitense e il sistema dei media. Secondo l’autorevole quotidiano americano, il Pentagono aveva messo in piedi una vera e propria strategia mediatica per dare popolarità alla guerra contro Saddam Hussein: fare parlare nei principali network televisivi analisti apparentemente del tutto indipendenti, ma in realtà fortemente influenzati e influenzabili. A loro venivano concessi colloqui privati, viaggi, accesso a informazioni riservate. «Dichiarazioni e interviste mostrano come l’amministrazione Bush abbia usato il suo controllo sull’accesso alle informazioni per trasformare gli analisti in una sorta di cavallo di troia... uno strumento per dirigere la copertura dei problemi del terrorismo dall’interno», scrive il New York Times. Un piano tanto semplice, quanto dettagliato. «Torie Clarke, l’ex responsabile delle pubbliche relazioni - afferma ancora il NYT - creò all’interno del Pentagono un sistema di reclutamento di ‘personaggi influenti chiave’ per sostenere le priorità di Rumsfeld (l’ex segretario di Stato alla Difesa, ndr)». Personaggi scelti soprattutto tra «analisti» ed «esperti», in quanto, vista la loro naturale autorevolezza, «erano tenuti in maggior conto dei giornalisti», da parte dei telespettatori. Da lì, accusa ancora il giornale, nacque l’idea di utilizzarli per rendere «più popolare l’idea della guerra».
Una denuncia alla quale il Pentagono ha replicato affermando che ci si preoccupava semplicemente di dare agli analisti notizie accurate. In realtà, secondo quanto ricostruisce il quotidiano, alcuni commentatori avevano anche stretti rapporti con società direttamente implicate nello sforzo bellico, ma assai raramente chi ascoltava veniva informato di questo non secondario particolare. Un caso citato dal giornale avvenne nel 2005 quando il Pentagono raccolse un gruppo di militari in pensione e li portò in Iraq sull’aereo normalmente usato dal vice presidente Dick Cheney. Poi molti di loro comparvero in tv, presentati come analisti. Uno di loro nel servizio del New York Times ammette di avere ricevuto palesi pressioni. Altro episodio scandaloso documentato dal giornale è quello legato alla cosiddetta «rivolta dei generali». Nell’aprile del 2006 un gruppo di alti ufficiali in congedo iniziò a criticare duramente e a chiedere esplicitamente le dimissioni di Rumsfeld. Il 14 aprile lo stesso capo del Pentagono ordinò ai suoi collaboratori «di convocare gli analisti la settimana dopo per istruirli». Quattro giorni dopo, secondo la ricostruzione del NYT, «17 di loro erano davanti allo stesso Rumsfeld e al generale Peter Pace, l’allora capo delle forze armate Usa». Il giornale denuncia infine che vista l’efficacia del sistema, anche l’ex ministro della Giustizia, Alberto Gonzales, preoccupato «delle polemiche sulle intercettazioni senza autorizzazioni sul territorio Usa», iniziò a «usare gli analisti» per migliorare la sua immagine. (repubblica.it 20 aprile 2008)

Telecrazia

venerdì 18 aprile 2008

Io sono la via, la verità e la vita

Man mano che ci allontaniamo dalla celebrazione della Pasqua, anche la liturgia, che pure si mantiene ancora nel “tempo pasquale” dedicato appunto all’approfondimento dell’evento di risurrezione, anche la liturgia – dicevo - ci incanala verso un ritorno all’ordinarietà, alla quotidianità… alle domande del giorno dopo, di quando la vita continua e va portata avanti…
Ecco che allora sorgono i problemi: «Signore, non sappiamo dove vai»; non siamo neanche sicuri di aver capito bene chi sei («Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto?»); non sappiamo nemmeno che via intraprendere («come possiamo conoscere la via?»)…
È la sensazione dello spaesamento data dal ritrovarsi tra le mani la propria vita… dal non sapere che fare, da dove cominciare, a chi dare retta… dal non conoscere quanti anni avremo a disposizione, cosa farne, in vista di che cosa, se con un senso, se per qualcuno…
Sono le domande che affollano anche le nostre giornate: che senso ha tutto questo? Ha un senso? Perché faticare, soffrire, amare, se poi si muore? Se tutto è destinato a finire nella tomba? Perché ci sono? Chi avrà mai ragione dato che han già detto tutto e il contrario di tutto in questo mondo?
E anche a noi scappa detto, come a Filippo, che va guardato sentendolo proprio uno di noi: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Dacci cioè qualche risposta chiara, qualche visione illuminante, qualche criterio inconfutabile per avere un’intelligenza della realtà… altrimenti davvero… è un brancolare nel buio, è un vagare senza meta, è un tracciare un percorso nell’aria, senza senso e senza scia.
Che dire dunque a Filippo? Immediatamente che i suoi stessi pensieri, oltre a una forte immedesimazione coi nostri, ci rimandano anche un’altra sensazione: per certi aspetti cioè ci pare strano e anche forse poco confortante il fatto che ancora oggi noi, dopo 2000 anni dal momento in cui i primi cristiani hanno affrontato questi problemi, siamo ancora qui a riproporceli… E addirittura forse per un altro verso sembra ancora più strano il fatto che essi stessi se li siano posti… proprio loro che avevano vissuto con Lui, che erano stati i discepoli di prima mano, quelli che avevano sentito con le loro orecchie e visto coi loro occhi…
Ma… a bene guardare… forse, così strano poi non è…
Se ci pensiamo bene infatti siamo di fronte a quella che è la struttura antropologica di sempre, dell’uomo di sempre: figlio e padre dell’umanità, ma singolo, unico, irripetibile. E per questo erede e promotore della vita, della storia, delle risposte, delle domande, delle scoperte, dei fallimenti degli altri… ma impegnato personalissimamente nella sua vita, nella sua storia, nelle sue risposte, nelle sue domande, nelle sue scoperte, nei suoi fallimenti…
Ecco la struttura umana fondamentale: o la via diventa la mia via, o la verità diventa la mia verità, o la vita diventa la mia vita… o per me non è via, verità, vita.
Ed ecco perché è sconvolgente e insieme affascinantissima la proposta di Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita».
Sconvolgente perché mai si era sentito che la verità era una persona e non un mistero, una legge, un codice etico, un sistema metafisico… Mai si era sentito che la via da percorrere era una relazione da attuare con una libertà storica. E di certo mai si era sentito che la Vita era un intrecciarsi con la soggettività singolare di Dio, fatto uomo…
Ma oltre che sconvolgente, inaudita ed esplosiva rispetto ad ogni schema interpretativo umano, quella di Gesù via, verità e vita è anche una proposta affascinantissima, perché di fatto è l’unica che risponde alla nostra sostanziale struttura antropologica.
Essa – dicevo – consiste proprio nell’essere figli e padri della storia dell’umanità eppure non sentirsi esauriti in essa: noi non siamo solo il prodotto dei nostri genitori, della società in cui siamo nati e cresciuti, dell’ambiente che ci ha coltivati; e non siamo neanche riducibili all’eredità che lasceremo, ai nostri successi, ai nostri fallimenti, ai nostri soldi, alle nostre carriere, ai nostri matrimoni riusciti o falliti, alle nostre vite realizzate o meno…
C’è un oltre tutto questo! C’è un noi stessi, la nostra identità più intima, che non si può circoscrivere in nessuno schema, che non si può classificare, standardizzare o irreggimentare… è quel nucleo di noi stessi che non coincide con nessuna delle nostre determinazioni: né coi nostri nomi, né con i nostri titoli, né con le nostre mansioni, né con le nostre conquiste o coi nostri sbagli…
Ed è lì, in quel nucleo centrale di noi stessi, quello che Etty chiamerebbe il pezzetto di Dio in noi, è lì che ci intercetta la proposta cristica.
E proprio perché è l’unica che arriva lì è anche l’unica che risponde davvero alla nostra struttura antropologica, che è la libertà singolare.
Riesce a intercettarci lì infatti, nell’unico “luogo” di noi stessi dove siamo noi stessi, perché non è qualcosa di universale che mortifica il particolare, qualcosa di vero per tutti e che dunque non è per me: non è un insieme di regole, non è un itinerario spirituale, non è un codice moralistico, non è un impianto cultuale, non è un sistema filosofico, non è un annullamento nel tutto… è una persona! È la relazione con una persona!
Una relazione personalissima, come non ce n’è un’altra, né mai c’è stata, n’è mai ci sarà, perché sebbene non l’unico, per Lui sono unico!
Ecco allora la risposta a Filippo, a Tommaso e a ogni uomo che si avventura nelle profondità della Vita, non rimando alla superficialità del si vive: avventurar la vita è acconsentire a una relazione che mi ridà la mia vera identità, che è quella di figlio amato e fratello amante. Un’identità che non è un copiare quella del Figlio, ma intrecciandosi ad essa, costruire la mia, tanto da compiere cose «più grandi di queste».

giovedì 17 aprile 2008

Parola che trasforma i conflitti in comunione

…iniziano i conflitti nella chiesa dei discepoli di Gesù…
Le tre letture sono una testimonianza intensa della vita e dei problemi dei discepoli di Gesù alle prese con il grande dramma del Nuovo Testamento: come vivere senza la presenza fisica di Gesù? Come entrare nell’ultima beatitudine che Gesù stesso ci ha augurato: beati quelli che pur non avendo visto crederanno? (Gv 20,29). Il disagio sorto nella fervente e unanime comunità di Gerusalemme di cui ci racconta Luca, le tensioni sulla centralità di Cristo, che è insieme pietra scartata per gli uni e pietra angolare per gli altri, il rinnovarsi, nella comunità, delle domande dei tre discepoli, Tommaso (Gv 14,5), Filippo (Gv 14,8) e Giuda Taddeo (Gv 14,22)… sono esempi che esprimono le difficoltà, i dubbi e i contrasti che nascevano tra i discepoli di Gesù verso la fine del primo secolo. Ma sono anche l’eco degli interrogativi eterni che scavano nel cuore dell’uomo la sua sete inestinguibile… L’elaborazione delle risposte a questi disagi, tramandataci nel Nuovo Testamento è una strada maestra, aperta e ricca di indicazioni paradigmatiche essenziali per affrontare anche noi, illuminati dallo stesso Spirito, la nostra situazione odierna.
Sorse un malcontento…
Goggusmòs” - si chiama nel greco biblico questo malcontento – che è una parola onomatopeica, come in italiano “borbottamento” o brontolamento o mormorazione… usata già nella versione greca dei LXX, con significato forte di reazione amara o risentimento acido contro Mosè e contro Dio, a proposito della mancanza di cibo nel deserto. “Mosè disse: «Quando il Signore vi darà alla sera la carne da mangiare e alla mattina il pane a sazietà, sarà perché il Signore ha inteso le mormorazioni, con le quali mormorate contro di lui. Noi infatti che cosa siamo? Non contro di noi vanno le vostre mormorazioni, ma contro il Signore»” (Es 16,8). Il termine è ripreso da Giovanni a proposito di Gesù: “…il borbottamento riguardo a lui era grande tra le folle: alcuni dicevano : è buono; altri: no, ma inganna la folla!” (7,12)… In quale comunità o famiglia o gruppo non capita? C’è sempre il momento in cui si insinua un disagio, una sofferenza sorda, un malcontento… che finiscono per diventare prima mormorazioni o lamenti malcelati, poi proteste e recriminazioni… Le prime comunità non ne erano immuni e si domandavano: come rimediare le preferenze ingiuste, le sperequazioni interne e le rivalità che ne nascono? Come convivere con idee e visioni della vita tanto diverse e talora contrapposte? Come preservare la comunità dalle lacerazioni, senza condannare o emarginare o estirpare le persone (i fratelli) con l’intento di togliere il male? Gli Apostoli suggeriscono un metodo originale per svolgere le tensioni in risorsa per una maggior comunione: per prima cosa è necessario il coinvolgimento di tutti nell’analisi del disagio, perché tutti se ne responsabilizzino; poi si impone una differenziazione dei carismi e delle competenze per affrontare l’aumentata complessità della comunità; ne deriva quindi la conferma sempre ribadita del nucleo vitale della comunione ecclesiale che è la preghiera e l’annuncio instancabile della Parola. Questo processo favorisce sempre più una dinamica circolare delle tre coessenziali dimensioni della grazia cristiana: identità, comunione e missione. Dove il carisma dell’autorità, il continuo confronto fraterno con la base, la spinta propulsiva del vangelo verso l’esterno, rende la comunità intensamente coesa ma plurale all’interno, e perciò capace di capire le diverse situazioni culturali dei vari popoli e paesi all’esterno… Per cui il “protagonista” che si impone e trionfa non è una parte o l’altra della chiesa, ma la “Parola” (di Gesù!), che cresce… illumina, perdona e guarisce.
Non sia turbato il vostro cuore!
Nella narrazione di Giovanni Gesù esorta i suoi a non lasciarsi prendere dallo scoramento! Questa insistenza nel ribadire parole d'incoraggiamento per superare i turbamenti e le divergenze, è un segno che ci dovevano essere tendenze molto diverse anche nelle comunità giovannee, con tanta gente che si riteneva più veritiera e ortodossa degli altri, di coloro, cioè, che forse si lasciavano affascinare dal bisogno di adattare ai tempi le forme e tradizioni antiche e venerande, a costo di sofferenze, offese e condanne reciproche. Quale strada per uscirne? Nel testo di Giovanni si intessono l’insegnamento di Gesù, le provocazioni storiche della comunità di neo convertiti e l’esperienza della comunione “ritrovata”, nell’avverarsi della presenza dello Spirito promesso da Gesù. Non è necessario che tutti pensino allo stesso modo e facciano le stesse scelte, per vincere queste profonde paure: ma ciò che è essenziale è che tutti accettino Gesù come rivelazione del Padre (via, verità e vita) e rinnovino in sua memoria la sua passione di servizio e d'amore. Nella casa del Padre mio ci sono molti posti! La “casa del padre” prima era il tempio… adesso Dio è andato ad abitare nel cuore squarciato del Figlio in croce, la nuova abitazione storica della misericordia del Padre, il nuovo “luogo” dove nasce e si purifica continuamente la chiesa. Qui tutti hanno diritto al posto preparato per ciascuno di noi da Gesù stesso, che da sempre ci attende… Se uno accetta di dimorare nel Figlio, proprio lì trova la comunione indissolubile con i fratelli, qualunque difficoltà o incomprensione insorga. L’ “andarsene da noi” di Gesù è infatti il cammino stesso di passione, morte e risurrezione, per raggiungere la sua glorificazione presso il Padre. In questo cammino che rinnova con noi, egli ci accompagna (perché dove sono io siate anche voi…), affinché insieme con lui anche noi raggiungiamo il Padre (se conoscete me, conoscerete anche il Padre!).
«Chi ha visto me ha visto il Padre».
Filippo forse aspirava a una visione religiosa più alta o più mistica e più dimostrativa («Mostraci il Padre!»), -forse era un desiderio diffuso nelle comunità di Giovanni. È certo che continua comunque ad essere il desiderio di tutti noi. Ma dove e come incontrare Dio? Ecco l'interrogativo sotteso all'intero quarto vangelo, che è iniziato con la dichiarazione forte: Dio nessuno l'ha mai visto (1,18). Gesù risponde chiaramente che la sua persona e la sua vita, la sua storia umana e la sua fine - sono lo spazio in cui Dio si è reso visibile e conoscibile. Nell'incarnazione del Figlio di Dio l'invisibilità di Dio è venuta in mezzo a noi in carne umana… ha camminato tra gli uomini. Ma ora non è più visibile o percepibile al modo che l’uomo dei sensi e della ragione vorrebbe. Tutto quello che Dio voleva dire all'uomo, lo ha detto con le parole di Cristo: “Le parole che io vi dico, non le dico da me”. Tutto quello che Dio vuol fare per l'uomo, lo ha fatto in Cristo: “Il Padre che è in me compie le sue opere”, fino alla solenne proclamazione: In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre. Dunque, arrivato presso il Padre ad intercedere per noi, ci rende capaci di fare come lui, sviluppando nel tempo la sua opera. Che consiste nell’accogliere e annunciare l’amore misericordioso del Padre in tutto il mondo. E renderlo visibile: «Nessuno ha mai visto Dio, ma se ci amiamo scambievolmente, Dio dimora in noi» (1 Gv 4,12). La presenza visibile di Dio vissuta, annunciata e trasmessa a noi in Gesù, si gioca dunque su questo discrimine: l’amore… fino alla fine (Gv 13,1) La scelta, per il discepolo come per la comunità, soprattutto nei momenti di scoramento e di tentazione di fuga e divisione, è drammatica: per cui Pietro ci raccomanda: “stringetevi a Cristo, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio; anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale…” Ancora una volta, stringersi a Cristo e unirci tra noi, pietre disperse, in una comunione “edificante” la comunità, è la stessa cosa!

Pasolini - I Medium di Massa



domenica 13 aprile 2008

Elezioni 2008: Elenco condannati, prescritti, indagati e rinviati a giudizio che verranno eletti in Parlamento


Travaglio e Gomez mi hanno inviato l'elenco dei condannati, prescritti, indagati e rinviati a giudizio che verranno eletti in Parlamento. Anzi, che sono già stati eletti dai segretari di partito. Sono in tutto 100, con delle new entry meravigliose. Personale di prim'ordine. Come scelgono le ciurme Berlusconi (56) e Veltroni (18) , nessuno al mondo.
In altri Paesi, Finlandia o Stati Uniti ad esempio, sarebbe sufficiente proporre uno solo dei condannati presenti nella lista per perdere le elezioni. Da noi è tutto il contrario. Il condannato serve a vincerle le elezioni. Porta i voti delle mafie, delle lobbies, degli evasori. O, più semplicemente, la candidatura è il prezzo del silenzio. L'Italia è la terra di Machiavelli. Se il fine giustifica i mezzi, il condannato giustifica i voti. I condannati con sentenza definitiva e i prescritti ricevono il premio per la loro buona condotta. I condannati in primo o in secondo grado ottengono l'immunità parlamentare.
Il Parlamento è una zona franca. Nel senso che chi ci entra la fa franca. Un luogo dove la legge non può arrivare. L'Italia dei Valori è l'unica senza fedine sporche. Antonio Di Pietro è come la kriptonite per Testa d'Asfalto. Lunedì queste 100 persone potranno sedersi in Parlamento. Senatori e deputati della Repubblica. Nessuno di voi li avrà eletti. Per la loro condotta sociale riceveranno uno stipendio da favola e il diritto alla pensione dopo poco più di due anni. Segnatevi i loro nomi: è anche per loro che pagate le tasse.

Classifica partiti per numero di condannati, prescritti, indagati e rinviati a giudizio(*):

- PDL 56
- PD 18
- UDC - Rosa Bianca 9
- Lega Nord 8
- Partito Socialista 3
- Sinistra Arcobaleno 3
- La Destra 2
- Aborto No Grazie 1
- Italia dei Valori 0

(*) Fonte: “
Se li conosci li eviti” di Marco Travaglio e Peter Gomez

venerdì 11 aprile 2008

Che dobbiamo fare?

Voi lo avete crocifisso!
«Salvatevi da questa generazione perversa!» (v. 40). Perché? Nel contesto è chiaro: quella generazione ha crocifisso il Messia, che Dio ha invece esaltato (v. 36). Ha rifiutato e umiliato colui che Dio ha amato e glorificato. In questa scelta disastrosa si concentra ogni dissenso e contrasto fra le vie di Dio e quelle degli uomini. La generazione a cui Pietro si rivolge è ogni generazione, che nasce in qualche modo "storta" (in greco). Ogni generazione, tutti noi, siamo storti, in quanto fuorviati e lontani da Dio: ogni generazione crocifigge il Messia. I nostri criteri mondani di scelta nella storia delle persone e delle istituzioni ci portano a crocifiggere il Cristo, comunque egli si presenti: "via, toglicelo di torno, crocifiggilo" (Lc 23,21). Quanto spesso capita nei confronti di chi disturba i nostri piani, o ci si oppone o è diverso o inutile, inerme ‑ in qualsiasi modo è "povero" dannoso per i nostri progetti. Ognuno di noi potrebbe essere al posto dei protagonisti della passione, dai discepoli che rinnegano, ai capi che sobillano, al popolo che stoltamente acconsente, ai soldati che torturano, a Giuda. Essi sono in qualche modo rappresentanti dell'umanità intera, incapace di accogliere la novità sorprendente di un Dio che si manifesta nella debolezza umiliata e oppressa. Accade ogni giorno, da sempre, che per sfuggire la croce si strumentalizzano o tradiscono i poveri cristi…
Accorgersi di questa “stortura”… personale e sociale, non proviene da un nostro sforzo ascetico, non è scontato. É un dono, spiegato così: "furono trafitti al cuore" (37: "ebbero il cuore trapassato", (conpuncti sunt corde, traduceva Girolamo). Avere il cuore trafitto è un dono di conversione intima. Ogni cammino di fede può raccontare almeno qualche momento di questa esperienza di commozione interiore che il linguaggio antico cercava di esprimere con la parola “compunzione”. L’esperienza irrepetibile di Paolo o di Giovanni, la passione per Gesù dei Padri apostolici… fino alla devozione al Sacro Cuore, o alla “Pietà”, al Cristo della Sindone, a Maria, la madre dal cuore trafitto, di cui profetava Simeone … sono le varie icone nelle quali la tradizione cristiana ha significato questa esperienza, non per deprimerci nel dolore o nel rimorso, ma per scoprire fino a che punto siamo amati e perdonati. Qui è il momento di grazia nel quale muore l'orgoglio, si riscopre la misericordia tenera del nostro Dio che ci avvolge. E nasce allora la domanda…
Che cosa dobbiamo fare, fratelli? Il passaggio dall’atto di fede, sbocciato dalla contrizione del cuore, al cambiamento della vita personale e collettiva … è l’atto di nascita della comunità cristiana. Cosa questo significhi lo sappiamo dagli Atti degli Apostoli. È la scoperta del bisogno di una vita più vera, più autentica, che dalla “stortura” di progetti e desideri e comportamenti deludenti, oppressivi e svianti, ci porta ad una nuova impostazione dei rapporti. Le parole che raccontano questa trasformazione sono diventate per due millenni il punto di riferimento di ogni modello di “conversione comunitaria” cristiana: una fraternità, una mitezza, uno spirito di dedizione reciproca, fondati sulla dottrina degli apostoli, sulla frazione del pane… sulla dedizione reciproca, che riflette l’esempio di Gesù nella sua suprema mitezza: “quando era oltraggiato non rispondeva con oltraggi, maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia…” L’annuncio di Gesù, il vangelo le beatitudini, diventano prassi e norma di vita e sconvolgono la dimensione personale e collettiva dell’esistenza: “La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia. Nessuno infatti tra loro era bisognoso…” (At 4,32ss)
Io sono venuto perché abbiano la vita…
In una parola è sintetizzato ciò che rende inconciliabili il rapporto vitale di “appartenenza” con Gesù rispetto a qualsiasi altra relazione. La parola che condensa ogni altra è «vita». Sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza. Unica è la “vocazione” alla vita, se vista dalla parte di Dio che chiama tutti con il suo paterno amore creatore! Come è unica la “spinta propulsiva” alla vita, se vista dalla parte del flusso vitale che sboccia nel cuore di tutte le creature: avere la vita in pienezza. Unico il progetto di Dio: che l'uomo diventi Figlio, e possa vivere della sua “paterna” vita divina. Così si spiega la durezza del linguaggio di Gesù, in questa gelosia per chi insidia la vita dei più deboli e piccoli, a cui lui sta donando l’amore che li fa rivivere, perché sono come pecore spaventate e smarrite da voci estranee e ingannatrici: Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro. Allora Gesù disse loro di nuovo: “In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti”… Avevano altri interessi, malvagi o ambigui. Gesù vuole invece donare una vita che colmi il desiderio di pienezza che Dio da sempre ha seminato nel cuore degli uomini. In Cristo questo anelito trova un nome personale, irripetibile e incancellabile. Nel linguaggio metaforico tutti, discepoli e comunità, possono ritrovare il tracciato del proprio rapporto con Gesù, nel cammino della vita: Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce.
io sono venuto perché abbiano la vita… e l’abbiano in abbondanza!
La storia del mondo altro non è che un lungo travagliato cammino verso la vita, insidiato da un pericolo mortale distorcente, cioè “diabolico” : satana è il Sospetto perfido nei confronti di Dio, che ci dipinge come un dio geloso della sua vita divina. Cristo, con il dono totale di sé, ne smonta il meccanismo velenoso: ci insegna la strada, ci apre la porta, offre la sua vita, ci dà l’esempio vivo: “…abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso,… fino alla morte… Per questo Dio l'ha esaltato” (Fil 2,7ss). La vita abbondante che Gesù descrive così, come una porta (io sono la porta) che ci apre nella nostra storia all'amore totale, più forte della morte (chi entra attraverso di me si troverà in salvo); più potente di tutte le barriere (potrà entrare e uscire), dove si sazia tutta la fame e la sete dell’umanità (troverà pascolo). Gesù Cristo è e dà la vita, in sovrabbondanza. Adesso e dopo, per sempre, eterna… oltre ogni misura, esuberante, eccessiva, al centuplo. Egli è la porta attraverso la quale fluisce la salvezza per l'uomo.
Ecco il senso dell’incarnazione del Verbo di Dio:
"Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza". Solo chi non conosce il vero Dio, ha paura di Lui. Il nostro è un Dio per la vita, per la gioia piena. "La gloria di Dio è l'uomo vivente" (sant'Ireneo). Dio è la vita, il luogo dell’amore!. Ha creato l'uomo perché ne partecipasse. Ora tutta la premura di Dio è che l'uomo riabbia la vita e l'abbia in abbondanza, fino a diventare "simile a Lui".La sintesi della lettera di Pietro sta nella congiunzione tra la “Parola della croce” e la “parola del buon pastore”. Gesù non si è ribellato contro il dolore del mondo, anche se l’ha patito atrocemente e ne ha pianto con forti grida e lacrime. Ha portato sulla croce il dolore innocente o colpevole di tutti, affidandosi al Padre, il “giudice giusto”. Ci ha guariti innestando nel nostro cuore, “trafitto” dalla sua misericordia, la disposizione interiore che (il suo Spirito “geme” in noi!) di poter ascoltare il suo esempio, la sua voce, la sua tenerezza che chiama ciascuno per nome e lo conduce (cammina davanti a noi), che eravamo come pecore smarrite. Che imparano “faticosamente” a individuare sempre il Buon Pastore attraverso la Parola più sconvolgente e più affascinante che mai sia stata pronunciata e vissuta nella storia: la parola della croce (1Cor 1,18), la croce che porta la vita: Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti.

giovedì 10 aprile 2008

"Che cosa dobbiamo fare, fratelli?"

«Che cosa dobbiamo fare, fratelli?»… è la domanda delle domande… quante volte anche a noi è venuta alle labbra? È infatti la domanda che incrocia ogni uomo prima o poi… perché è la domanda per chi si ritrova alle prese con la fatica di vivere… che si tratti dell’angoscia per il male commesso («Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso»)… della sofferenza per il male subito («se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza»)… del giramento delle viscere che provoca la domanda sul senso della vita… di questa mia vita («io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza»)…
E dunque «Che cosa dobbiamo fare?».
Non so bene perché, ma immediatamente mi viene in mente la risposta che avrebbe dato Etty Hillesum, quella stessa risposta che mi aveva tanto colpito, tempo fa, e che mi ha rimesso in circolo l’altro giorno proprio uno di quei miei fratelli: “aiutare Dio a non spegnersi dentro di noi”…
Già… perché solo così il problema è affrontato correttamente; cioè solo se la questione, come fa lei, è collocata nel suo posto proprio: dentro di noi e non fuori. Ciò che è in gioco infatti non è “come posso attrezzarmi per affrontare una certa cosa?”, ma “chi sono io, dentro a questa cosa?”… Chi sono io nel male commesso? Cioè, chi sono io per aver fatto ciò? Chi sono io nel male subito? Cioè, che ne è di me? Chi sono io che cerco il senso di questa mia vita?
Etty direbbe «[Sono quella che ha dentro] una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c'è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta di pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo».
Ecco che cosa bisogna fare… dissotterrare… E le tre letture di questa quarta domenica di Pasqua sembrano proprio indicare cosa vuol dire questo dissotterrare le radici vitali, umane, belle della nostra intimità e identità:
- «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo»;
- «Carissimi, se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, perché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme»;
- «Gesù disse: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo; […] io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza»
.
Si tratta allora, in ogni caso, di immergersi nel Signore, nella sua vita, nella sua libertà… mischiandosi la pelle e le ossa con lui, legando il proprio destino al suo, come si farebbe con chi si ama davvero…
E se la pancia (o l’anima – a cui spesso piace comunicare attraverso la pancia…) è in subbuglio per una colpa commessa, immergersi in Lui vorrà dire convertirsi, cambiare mentalità, immergersi nella sua, nel suo orizzonte di senso… guardandoci come lui ci guarda, volendoci come lui ci vuole: pieni di Vita e di Vita in abbondanza.
Allo stesso modo se la pancia duole per il male subito, quello che ti sfianca proprio là dove la tua intimità aveva scelto di dar fiducia alla Vita, che invece ora pare smentirsi, dissotterrare vorrà dire immergersi in quella dignità del patire che trova senso solo dietro alle sue orme… orme che non spiegano il perché del male subito, ma insegnano a viverlo, non facendo spegnere Dio in noi, la vita in noi, noi stessi in noi…
E infine se invece le viscere sono in fermento per la fatica nell’intelligenza della propria storia, del suo senso, del suo perché (o per chi), dissotterrare vorrà dire entrare (immergersi) nella porta che fa accedere alla Vita, al nutrimento (pascolo)… in abbondanza…
Ma come fare, proprio quando le condizioni della nostra stessa storia sono così pressanti, a mantenere questa “immersione”, questa buona relazione, questo incontrarsi, questo dar credito?
Come fare quando il magone ti toglie il respiro, le lacrime ti surriscaldano faccia e cervello, la morsa al petto ti fa piegare dal dolore… Come fare, lì a mantenere lucido il proprio guardare a lui?
Ancora una volta è la grandezza d’animo di Etty a orientarci: non c’è condizione storica – dice – che possa impedire questo fiorire del nucleo intimo di noi stessi… di quello nel quale solo ci riconosciamo, una volta abbandonate tutte le maschere che ci mettiamo o ci mettono addosso… E infatti scrive: “Mio Dio, viviamo tempi di terrore. Questa notte, per la prima volta, sono rimasta sveglia nel buio, con gli occhi brucianti, e immagini di sofferenza umana si snodavano davanti a me, senza sosta. Ti voglio promettere una cosa, mio Dio, una piccola cosa: […] Ti aiuterò, mio Dio, a non spegnerti dentro di me, ma non posso garantirti niente in anticipo. Tuttavia, una cosa mi appare con sempre maggior chiarezza: non sei tu che puoi aiutarci, ma siamo noi che possiamo aiutare te e, facendo questo, aiutiamo noi stessi. È tutto quello che ci è possibile salvare in quest'epoca, ed è anche la sola cosa che conta: un po’ di te in noi, mio Dio. Forse potremo anche contribuire a riportarti alla luce nei cuori devastati degli altri.
Dietro la casa, la pioggia e la grandine dei giorni scorsi hanno devastato il gelsomino. Più in basso i suoi fiori bianchi galleggiano sparpagliati nelle pozzanghere nere, che ristagnano sul tetto del garage. Ma da qualche parte, dentro di me, questo gelsomino continua a fiorire, esuberante e tenero come in passato. Ed espande i suoi effluvi intorno alla tua dimora, mio Dio. Vedi come mi prendo cura di te! Non ti offro solo le mie lacrime e i miei tristi presentimenti. In questa domenica ventosa e grigiastra, ti porto anche un gelsomino profumato! E ti offrirò tutti i fiori incontrati sul mio cammino, e ce ne sono davvero tanti. Così a casa mia ti sentirai il meglio possibile!”
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Perché in fin dei conti, quando ci ritroviamo a chiederci «Che cosa dobbiamo fare?», non stiamo parlando ad altri, ma a noi stessi… Sono infatti quei momenti in cui tutto l’amore degli altri “serve” (ti offrirò tutti i fiori incontrati sul mio cammino, e ce ne sono davvero tanti), ma in cui noi, siamo chiamati a vivere, a scegliere, a essere… perché come dice Vasco nel suo modo un po’ impertinente: «Quando c’ho il mal di stomaco, con chi potrei condividerlo?»
È il momento in cui ci sei tu e nessun altro può esserci al posto tuo…
Come quando si muore… nessuno può sostituirsi a te, nel tuo morire…
E in quei momenti lì ci sei tu e… nessun altro… se non quel tuo intimo nucleo autentico a cui puoi accedere…
Ed è lì dentro che c’è… un pezzetto di Dio…
E, come Teresa, si arriva a scoprire che davvero «basta»!

lunedì 7 aprile 2008

Elezioni 2008: Opinioni

A sostegno e in obbedienza alle sagge disposizione della Conferenza Episcopale Italiana,vogliamo aiutare a una scelta consapevole alle prossime elezioni politiche.

A questo riguardo trovo interessante quanto dichiarato dalla senatrice Paola Binetti. Quello che mi colpisce non è tanto il suo giudizio politico (e/o religioso), ma soprattutto la valenza culturale di quanto asserito.
Mi sembra che solo questo atteggiamento fondamentale, al di là della fatica quotidiana di attuarlo, sia capace di quella "missione" propria dell'agire del cristiano maturo che si fa lievito e fermento nella pasta per costruire una Storia finalmente nuova. È una posizione che va oltre una visione della fede nell'agire storico arcaicamente farisaica (cioè separata). E fa ben sperare per il nostro futuro al di là dell'esito contingente di queste elezioni.
(con il grassetto cerco di evidenziare quello che a me pare il guadagno culturale di appartenenza cristiana)

“Confermo con orgoglio la mia scelta personale di far parte del Partito Democratico, che considero la maggiore e migliore novità nel panorama politico attuale: la sua scelta di schierarsi dalla parte delle fasce deboli, con le positive politiche di contrasto alle nuove forme di povertà rappresenta per me una convinzione radicata e profonda”. È quanto dichiara la senatrice del PD Paola Binetti che aggiunge: “Il Partito Democratico, come grande partito popolare, prevede al suo interno posizioni che possono esser culturalmente diverse, ma che sono fortemente impegnate nello sforzo di trovare la migliore sintesi possibile per venire incontro ai nuovi bisogni emergenti dell’Italia. Di questo ha bisogno l’Italia: soluzioni concrete ispirate ad una creatività scevra di pregiudizi e volte ad affiancare quanti non hanno voce per esprimere il proprio disagio e la propria sofferenza, che spesso esplode nel momento in cui sperimentano la perdita del potere di acquisto delle loro pensioni dopo anni di lavoro intenso e faticoso. La profonda attenzione alle famiglie, l'insistenza nel venire incontro ai bisogni delle famiglie numerose con un piano organico di iniziative che vanno dalla rete dei servizi alle integrazioni economiche, dalle politiche a favore del lavoro femminile fino alla riaffermata esigenza di riprendere il progetto di edilizia popolare per garantire una casa per tutti”. “La campagna elettorale condotta da Walter Veltroni in queste ultime settimane – prosegue Binetti - ha rappresentato una chiave di lettura positiva dello stesso programma del Pd, di cui ha costantemente sottolineato in modo costruttivo lo slancio per attuare riforme coraggiose che coinvolgano i giovani, come una straordinaria risorsa di cui l’Italia dispone. Sono queste e molte altre le ragioni per cui la mia scelta per il Pd diventa ogni giorno più motivata e consapevole. Certamente – aggiunge - esistono temi e problemi come quello del riconoscimento individuale dei diritti delle persone conviventi per i quali c'è un desiderio di soluzione - come per altro abbiamo affermato lungo tutta la XV legislatura - anche se la soluzione che soddisfi tutti i requisiti non è ancora disponibile. Ma sarà cercata e sarà trovata, perché la centralità della persona, dei suoi bisogni e il riconoscimento dei suoi diritti non è in gioco. Ma per favore non se ne faccia il centro del dibattito attuale. Perché questo serve solo a chi vuole strumentalizzare il problema per confondere gli elettori e creare contrasti e conflitti con chi sta alla destra e chi sta alla sinistra del Pd!”. Conclude Binetti: “La laicità del Partito Democratico non è in gioco perché le due possibili derive, laicismo e clericalismo, sono sotto controllo e nessuno, io meno che mai, consentiranno spostamenti in tal senso. In questa grande avventura ho impegnato la mia professionalità di medico e di scienziato e le mie convinzioni più profonde: anche quelle di natura etica!”.

domenica 6 aprile 2008

Il Seder dell'uomo ignorante


Il 20 aprile '08, 15 Nissan 5768, gli ebrei celebrano Pesach. Siamo in comunione con loro.

Una volta Rabbì Levi Isacco aveva tenuto il Seder della prima sera di Pesah con tutte le intenzioni, così che alla sua tavola ogni parola ed ogni rito si illuminò della santità del suo segreto significato. Dopo la festa, sul fare dell'alba, Rabbì Levi Isacco sedeva nella sua stanza ed era lieto ed orgoglioso che il Seder di quella notte gli fosse riuscito così felicemente. Ma ecco una voce gli disse: "Di che ti vanti? Più grato mi è il Seder di Haim l'acquaiolo, che il tuo." Il Rabbi adunò la gente di casa ed i discepoli e chiese dell'uomo di cui gli era stato fatto il nome. Nessuno lo conosceva. Per ordine dello zaddik alcuni discepoli andarono a cercarlo.

Dovettero cercare a lungo prima che al margine della città, dove abitano i poveri, indicassero loro la casa di Haim l'acquaiolo. Bussarono alla sua porta. Usci una donna e chiese che volessero. Quando l'ebbe saputo se ne meravigliò e disse: "Si" Haim l'acquaiolo è mio marito. Ma non può venire con voi; ieri ha bevuto molto ed ora lo smaltisce dormendo, e se anche lo svegliate non sarà capace di muovere i piedi." Quelli risposero soltanto: "Il rabbi l'ha ordinato", entrarono e lo scossero fino a che si destò. Egli li guardò battendo gli occhi, non capì perché avessero bisogno di lui e volle rimettersi a dormire. Ma essi lo sollevarono dal letto, lo presero in mezzo a loro e lo portarono quasi di peso dallo zaddik.

Questi gli fece dare una sedia accanto a sé e disse: "Rabbì Haim, dilettissimo, a quale mistero era rivolta la vostra intenzione quando avete fatto la ricerca dei hamez?" L'acquaiolo lo guardò con occhi imbambolati, scosse la testa e rispose: 'Signore, ho cercato in tutti gli angoli e l'ho raccolto".

Stupito lo zaddik continuò: "E quale santo intendimento avevate in mente quando avete bruciato il hamez prima di Pesah?" "Signore, ho dimenticato di bruciarlo. E, ora ricordo, è ancora sulla trave."

Quando il Rabbi udì questo, perse ogni sicurezza, ma continuò a domandare: "Ed ora ditemi questo, Rabbì Haim, come avete fatto il Seder?"

Fu allora come se qualcosa si destasse negli occhi e nelle membra dell'uomo, ed egli disse in tono umile: "Rabbì, vi dirò la verità. Vedete, io ho sempre sentito dire che è proibito bere l'acquavite durante gli otto giorni di Pesah e cosi ieri mattina ho bevuto da averne abbastanza per otto giorni. Allora mi sono sentito stanco e mi sono addormentato. Poi mia moglie mi ha svegliato ed era sera, e lei mi ha detto: 'Perché non fai il Seder come tutti gli altri Ebrei?' Io ho detto: 'Che vuoi da me? Io sono un ignorante figlio di un ignorante e non so che dire e che fare. Ma vedi, questo lo so: i nostri padri e le nostre madri erano prigionieri degli zingari, e noi abbiamo un Dio che ci ha condotto in libertà. E vedi, ora siamo di nuovo prigionieri, e io so e te lo dico, Dio condurrà anche noi in libertà.' E allora ho visto lì il tavolo, e la tovaglia splendeva come il sole, e sopra c'erano piatti con mazzot ed uova ed altre vivande, e c'erano bottiglie di vino rosso, ed ho mangiato le mazzot con le uova ed ho bevuto il vino, ed ho dato da mangiare e da bere a mia moglie. E allora mi ha assalito la gioia, ed ho alzato il bicchiere a Dio ed ho detto: 'Vedi Dio che bevo questo bicchiere alla tua salute! E tu chinati verso di noi e liberaci!' Cosi siamo stati a tavola e abbiamo bevuto e ci siamo rallegrati innanzi a Dio. E poi ero stanco, mi sono steso e mi sono addormentato".

(da "I racconti dei Hassidim" di Martin Buber)

sabato 5 aprile 2008

“La sera stessa della risurrezione”

…quando scende il buio e gli indizi di risurrezione (la tomba vuota, i ‘vaneggiamenti’ delle donne…) diventano ancor più evanescenti, il cuore si stringe, la nostalgia riporta ai luoghi vecchi… Tante provocazioni possiamo leggere in questi simboli. Ma forse soprattutto due: anzitutto i discepoli diventano coscienti dell’impatto incontenibile che il fatto strepitoso ma tacito dell’apparizione del Cristo crocifisso ai suoi discepoli ha sulla loro vita e sulla storia dell’umanità… (e addirittura di tutto l’universo, come dice la II lettura!). Ma anche che, appena questo messaggio arriva alla seconda generazione cristiana, di quelli che non avevano visto il Signore, deve nascere un modo nuovo di rapportarsi con Gesù risorto, il quale è percepito per tutti come il nucleo fondante della fede cristiana, ma da costoro è conosciuto solo per fede, sulla testimonianza degli apostoli. Nasce cioè il problema della fede in Cristo risorto nei tempi lunghi, nella crisi del “non vederlo più”, nella ricerca del senso delle Scritture nuove e antiche, nella fatica della solitudine per la sua assenza, nella domanda di quale è la continuazione della sua presenza nella comunità dei credenti in lui. Come, in definitiva, la fede degli apostoli fonda la nostra!
Ecco da quale problema e da quale esperienza storica nasce il racconto stupendo dei due discepoli di Emmaus, la testimonianza viva e appassionata del cammino della fede, dove dal discepolo che ha visto Gesù nella carne umana la fede passa al discepolo che non l’ha visto e dispera di poterlo mai più conoscere! Un passaggio difficile, non essendo più beneficati dalla sua presenza visiva e palpabile!
Infatti, svanita la sua presenza, inizia la diaspora (tentazione di sempre!) - come del resto Gesù aveva predetto: “…Ecco, verrà l'ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me. Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!». (16,32). Il passaggio dalla crisi del momento (lo smarrimento dei primi testimoni diretti) alla preoccupazione per la “nostra” fede è evidente in tutto il racconto. Uno dei due discepoli, infatti, ha un nome, e fa parte simbolicamente della cerchia dei testimoni visivi di Gesù. L’altro, sotto l’anonimato nasconde il volto del lettore… in cammino ancor oggi alla ricerca del Signore – mentre sta imparando in silenzio come si fa a scoprire Gesù sconosciuto nei sentieri della storia di ogni generazione.

La nostalgia di Gesù – il Gesù della carne!
Il Gesù crocifisso, “che Dio ha costituito Signore e Cristo” (At 2,36), non è più riconoscibile in veste umana… Gli occhi di carne e il cuore “lento” non lo riconoscono. E anche se cammina “di persona” al loro fianco, rimane uno sconosciuto, come il giardiniere per Maria presso il sepolcro, come il personaggio misterioso sulla spiaggia del lago… Perché chi lo conosce e lo ama ha in mente ilgrande profeta e maestro’ finito in croce, inerme di fronte alla violenza fisica e morale, e alle provocazioni teologiche. La storia della chiesa corre su questo crinale: chiunque crede in lui si ritrova in cuore il dilemma tra la tentazione di usare la fede nel Risorto come una forza da spendere nella logica della carne (così è la dinamica storica che fa camminare il mondo) o di ritrovarsi deluso, nelle varie tappe della maturazione della fede personale e comunitaria, ogni volta che le sue attese, che sembravano sacrosante, rimangono frustrate. E sfugge anche a noi, di fronte alle difficoltà, il lamento: “noi credevamo che…!” Allora si tratta di riscoprire nella sofferenza e nella disillusione “come” Gesù mantiene le sue antiche promesse di rimanere sempre con noi, finché duo o tre lo cercano insieme… Riscoprire come liberare anche noi gli “occhi impediti” dalla nostalgia di figure e modelli di fede ormai superati… Come smuovere il cuore fissato nelle nostre aspirazioni di un successo buono, se non proprio trionfante, dei nostri sforzi personali ed ecclesiali. Se la fede, in ricerca di un riscontro palpabile ed efficace delle cose che spera, non si lascia scrostare dalle sedimentazioni, Lui, che ci accompagna in altra figura, rispetto alle nostre previsioni, rimane uno sconosciuto…

le scritture sono la chiave per capire…
e scoprire man mano la novità sconcertante di tutto ciò che “bisognava che accadesse” … perché soltanto l’accoglienza nel cuore e nelle mente di tutta l’avventura umana di Gesù, descritta nelle Scritture dai testimoni che hanno vissuto con lui, ce ne rivela la qualità e il senso. Gesù stesso fa la propria autopresentazione (cioè ci spiega la chiave ermeneutica per capirlo!): tutto ciò che profeticamente è raccontato nelle Scritture si illumina e diventa comprensibile quando Gesù spiega il duplice paradosso di cui la sua croce è l’emblema: è necessaria la passione e morte, attraverso le quali lui (e ogni suo discepolo …e ogni uomo!) deve passare, perché la logica del mondo è l’autoaffermazione di sé fino all’omicidio dell’altro, (in cui si identifica lui, l’agnello senza difetti e senza macchia!). Ma questa non è l’ultima parola. Dio ha promesso e realizzato in Gesù una parola definitiva, sugli uomini smarriti e oppressi come pecore senza pastore, e questa promessa è la risurrezione e la vita (Gv 11,25). “Quando si aprono i loro occhi”… le promesse antiche e nuove (2Pt cita il salmo 16) si illuminano, e fanno comprendere come il Padre le ha realizzate in Gesù e in noi, “se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi (Rom 8,11). Questo appare come il senso fondamentale di tutta la Scrittura … non solo a livello di comprensione, ma di totale coinvolgimento nella salvezza. Si manifesta dunque in un modo assolutamente nuovo, in mezzo a noi, la continuità della sua presenza salvifica. Difficile da riconoscere nel succedersi delle vicende storiche, ma è in questa elaborazione sempre nuova dello Spirito che sta la maturazione della fede a cui sciamo chiamati nel nostro cammino. L’ostacolo è sempre certamente negli occhi che faticano, a causa della durezza del cuore e della stoltezza della mente. Ma ora il rapporto del discepolo con Gesù il Cristo s’innesca in un circolo dinamico, che partendo dalla attestazione dei testimoni raccolta nella Scrittura, scopre il Signore nello spezzar del pane, che fonda e nutre la comunione indissolubile tra i discepoli… e con tutto il mondo. Questo circolo, che solo lo Spirito di Gesù può animare in tutte e tre le fasi, diventa lo statuto interiore della vita di fede, confermata dal conforto reciproco di condividere, come un’esperienza di vita, il “lieto annunzio che Gesù è il Cristo” (At 5,42).

giovedì 3 aprile 2008

Le vie d'accesso al Signore Risorto

Anche in questa terza domenica di Pasqua, la Chiesa, nella liturgia, ci invita a soffermarci sul mistero della Risurrezione; questa insistenza non deve stupirci perchè quest’evento, che è il centro sorgivo di tutto il fermento cristico, si presenta tanto inaudito e smisurato, da risultare inesauribile nella sua com-prensione.
Infatti, per come ne parlano i testi neotestamentari e per come è stata vissuta dalla comunità credente, la Risurrezione di Cristo è un evento che ha in sé un tale novum da risultare scardinante le stesse fondamenta della vita umana, per cui i consueti schemi interpretativi della realtà (anche quelli religiosi) risultano inadeguati.
E di fatti, per esempio, non si può parlare per Gesù di una semplice ri-vitalizzazione del suo corpo. La sua non è l’esperienza di Lazzaro, che richiamato in vita, dovrà poi però di nuovo incontrarsi con la morte.
In questo senso un modo chiaro per spiegare questa differenza è il cosiddetto “schema delle stanze”. Esso mostra come l’uomo abbia sempre conosciuto solo 2 stanze, 2 mondi, quello dei vivi e quello dei morti, senza ulteriori possibilità: chi vive è destinato a finire nella tomba e a restarci. La soglia tra la prima stanza (la vita) e la seconda (la tomba) è naturalmente la morte fisica. Lazzaro in questa prospettiva, morendo, passerebbe dalla prima stanza alla seconda, ma poi, attraverso la nuova chiamata alla vita da parte di Gesù («Lazzaro, vieni fuori!», Gv 11,43), farebbe il percorso inverso: dalla seconda stanza (regno dei morti) alla prima (mondo della vita).
Non altrettanto si può dire invece per Gesù: Egli non torna indietro nella prima stanza, ma per Lui è come se si spalancasse una terza e nuova stanza, inaudita per l’uomo: il mondo di Dio. Egli, morendo, passa dalla prima alla seconda stanza, ma, risorgendo, fa un ulteriore avanzamento! Passa infatti dalle mani della morte a quelle della nuova Vita, la vita di Dio, attraverso la nuova soglia della Risurrezione.
Ed è questa novità inaudita, questo accesso mai percorso prima, questa possibilità solo da lui abilitata ad essere vissuta, ciò che rende così sproporzionato l’evento di Risurrezione rispetto all’abituale comprensione che l’uomo ha delle dinamiche del vivere e del morire.
È quello che i Vangeli a modo loro cercano di mostrare nella forma del racconto. Essi infatti parlando di Gesù risorto, sebbene ne mettano in luce per un verso una continuità con il Gesù in carne ed ossa che percorreva le strade della Palestina prima di finire appeso ad una croce (il crocifisso è il risorto), ne mostrano però allo stesso tempo anche una diversità sorprendente.
Per esempio si parla di Gesù che «Venne a porte chiuse» dai suoi discepoli (Gv 20,26), ma che allo stesso tempo mangiò con loro (Gv 21). Soprattutto si parla di quello strano fenomeno che si ripete diverse volte e che è il mancato riconoscimento di Gesù stesso. Maria di Magdala, vedendolo, lo scambia per il custode del giardino («Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: “Signore, se l'hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”», Gv 20,15); i discepoli non si accorgono che chi gli si fa vicino sulle rive del Lago di Tiberiade è proprio Lui («Quando già era l'alba Gesù si presentò sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù», Gv 21,4); e infine, in modo ancora più clamoroso, perché prolungato, i discepoli di Emmaus non si accorgono che è Lui che camminava con loro («Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo», Lc 24,15-16).
Ed ecco che alla luce di questo problema, sentito davvero come significativo dalla prima comunità cristiana – Come riconoscere il Cristo risorto? – si fanno strada le prime risposte; si vogliono cioè indicare quali siano per i discepoli di qualsiasi epoca, le vie di accesso per il riconoscimento, e dunque l’incontro col Signore risorto.
E la portata del problema non deve sfuggire, soprattutto a noi, discepoli di 2000 anni dopo: com’è possibile per me oggi incontrare il Signore in persona? È possibile, visto che io non c’ero allora? È possibile per me che non l’ho mai visto in carne ed ossa? O dopo la sua Risurrezione è possibile solo un ricordo di Lui?
No, rispondono i Vangeli: non è possibile solo un ricordo di ciò che è stato, ma si danno alcune vie reali e attuali di accesso al Signore. E il Vangelo di Luca nel capitolo 24 (quello appunto che racconta dei discepoli di Emmaus) è stato scritto proprio per indicarle:
1- Le Scritture: «“Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”. E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui». Le Scritture dunque come via d’accesso all’incontro col Risorto. Esse infatti sono lo strumento essenziale per la comprensione di Gesù e in particolare del suo morire. I discepoli di Emmaus infatti si sentono dare degli scemi proprio su questo punto: perché hanno mostrato di non capire la morte; di non capire che il Cristo doveva morire e soltanto così entrare nella sua gloria, in quella gloria che è la sua e non quella degli altri, quella che gli altri s’aspettavano. Ed è solo la spiegazione delle Scritture, la narrazione della sua storia, che mette in condizione di ripensare alla morte come il luogo preciso in cui si capisce chi è Gesù e si vede la sua gloria;
2- L’accoglienza dell’altro, l’ospitalità dello straniero (tale infatti consideravano Gesù, data la sua ignoranza sui recenti fatti accaduti a Gerusalemme: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?»): «egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto”». I discepoli di Emmaus aiutano il fratello in pericolo, accolgono l’altro, ospitano lo straniero e proprio in questo Luca mostra esserci l’anello decisivo: senza di esso Gesù se ne sarebbe andato. E infatti è proprio questa dedizione per l’altro l’effettivo analogo della passione di Gesù, della sua dedizione per lo straniero, la donna e persino per il discepolo peccatore;
- E infatti l’ultima via d’accesso che Luca pone in campo in questo brano è lo spezzare del pane, il gesto anticipatore del senso della sua morte per noi: «Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro». È la ripetizione dei gesti della familiarità, di quegli stessi gesti che con il dono effettivo poi in croce del suo corpo e del suo sangue avevano ormai assunto un significato di dedizione ben preciso.
Ecco allora che vederlo nella sua gloria accade per loro, per noi, per tutti nelle stesse condizioni, non solo per chi era contiguo all’evento, ma per chiunque, perché ripensando la storia, illuminati dalle Scritture, nell’esercizio della dedizione che supera la distanza, gli occhi si aprono e lo vedi.
È la concomitanza e l’intreccio di queste disposizioni interiori che dischiude l’accesso all’incontro personale col Risorto; e questa relazione con lui non è nient'altro che la fede. Essa appunto è questo incontrarsi della libertà del Risorto con la nostra, di modo che anche per noi si dia la vita nuova, perché «la morte non è morte, se giunge prima che l’amore finisca», come scrive Raniero La Valle.
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